Cassazione Penale, Sez. 4, 21 aprile 2023, n. 17006 - Ai fini della responsabilità degli enti in relazione a reati in violazione della normativa antinfortunistica, è necessaria la colpa di organizzazione distinta dalla colpa degli autori del reato  


 

Nota a cura di Raffaele Guariniello, in ISL, 6/2023, pag. 336 "Colpa penale e colpa di organizzazione"

Nota in Dir. e Pratica Lav., 2023, 20, 1276

Nota in Quotidiano Giuridico, 2023

 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente -

Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere -

Dott. CAPPELLO Gabriella - rel. Consigliere -

Dott. CIRESE Marina - Consigliere -

Dott. SESSA Gennaro - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

(Omissis). RAPPR. SIG B.B.;

avverso la sentenza del 22/03/2022 della CORTE APPELLO di BOLOGNA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

svolta la relazione dal Consigliere Gabriella Cappello;

il Procuratore generale, in persona del sostituto Marilia di Nardo, ha concluso depositando memoria scritta, con la quale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi;

l'avv. Claudio Natali, del foro di Modena, per la Società agricola (Omissis). s.s., ha depositato memoria scritta, con la quale ha chiesto l'accoglimento dei motivi del ricorso e l'annullamento della sentenza impugnata, con i provvedimenti conseguenti; l'avv. Andrea Mattioli, per A.A., ha depositato memoria scritta, con la quale ha chiesto che la vicenda venga riesaminata compiutamente da altro giudice di merito.
 

Fatto


1. La Corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Modena, resa all'esito di giudizio abbreviato, con la quale A.A. era stato condannato a pena sospesa, nella qualità di datore di lavoro, per il reato di cui all'art. 589, c. 2, c.p. ai danni del lavoratore C.C. e la società (Omissis). s. a. s. dichiarata responsabile dell'illecito amministrativo dipendente dal reato e condannata alla relativa sanzione pecuniaria.

2. Nella specie, la vittima, da anni dipendente della citata azienda agricola, era stata ritrovata priva di vita all'interno del condotto fognario sottostante le stalle, ove era precipitato attraverso un tombino, trascinato dal potente flusso dei liquami. Secondo la ricostruzione d'accusa, recepita già nella sentenza di primo grado, egli era caduto nel condotto, nel contesto lavorativo al quale era stato assegnato, cioè durante le operazioni di pulizia della stalla. I fatti erano stati ricostruiti in base agli accertamenti espletati e alla consulenza disposta dal P.M.: l'uomo aveva perso il sifone (che i lavoratori sfilavano per far defluire meglio i liquami), sganciato dal pozzetto di comunicazione tra stalla e condotto fognario (sifone, infatti, mancante dal pozzetto n. 4 e ritrovato a pochi metri dal corpo); si era abbassato per recuperarlo, cadendo accidentalmente nel pozzetto; stordito dai gas dei liquami, era stato travolto dal flusso di essi ed era annegato (causa del decesso accertata ad esito di consulenza autoptica). Era stata, peraltro, esclusa la presenza di sostanze tossiche e/o farmacologiche tali da poter compromettere l'efficienza sensoriale e psicomotoria del soggetto, nonchè la presenza di stati patologici preesistenti o di patologie spontanee che avessero potuto agire come fattori alternativi o concorrenti nel determinismo della caduta e/o del decesso. Tale essendo la ricostruzione operata nel doppio grado di merito, quanto alle responsabilità, si è rimproverato al A.A., datore di lavoro e responsabile per la sicurezza dei luoghi di lavoro (come dallo stesso dichiarato), di non avere segregato l'interno dei pozzetti (nei quali defluivano i liquami da deiezione degli animali, per poi essere incanalati nel condotto fognario) con idonee chiusure per impedire l'eventuale caduta all'interno (lasciando solo la possibilità del passaggio di arnesi da lavoro); e di avere previsto nel DVR solo in termini generici il pericolo di caduta, senza individuare procedure lavorative standard e tecnicamente adeguate per la manutenzione delle condotte di scolo e con la previsione della necessaria, contemporanea presenza di almeno due lavoratori. L'ente ispettivo, nel verbale di prescrizioni, aveva rilevato la situazione di pericolo di caduta (art. 64, c. 1, lett. a) all. IV in riferimento ai punti 1.5. e 14.1 del D.Lgs. n. 81 del 2008), prescrivendo la segregazione dell'interno dei pozzetti con grigliato d'acciaio; nella imputazione, si è contestata anche la violazione degli artt. 15, lett. c) e 28, c. 1 e 2, lett. d) del D.Lgs. n. 81 del 2008, con riferimento alla attuazione delle procedure lavorative descritte (in base a quanto rinvenibile nella sentenza appellata: una volta al mese il singolo lavoratore provvedeva a smontare il sifone, previa apertura del tombino adiacente la stalla, i cui coperchi erano solo appoggiati; l'operazione era svolta in piedi dal lavoratore piegandosi in avanti o in ginocchio sul bordo del tombino; i lavoratori erano consapevoli del rischio di essere travolti dal flusso dei liquami e avevano imparato la procedura osservando i colleghi, senza aver seguito apposito corso di formazione).

3. Avverso la sentenza d'appello, hanno proposto ricorsi il A.A. e l'ente.

3.1. La difesa del primo ha formulato un motivo unico, con il quale ha dedotto vizio della motivazione, con riferimento ai punti devoluti con il gravame. Il deducente osserva che i giudici d'appello non avrebbero esaminato tutti i motivi rassegnati dalla parte, allegando un silenzio motivazionale sulla rilevata assenza di lesioni sul corpo del lavoratore, ritenuta dalla difesa incompatibile con una caduta accidentale, tenuto conto che, all'eventuale caduta di oggetti, poteva ovviarsi recuperandoli dal tombino n. 4, lontano 45 metri dal luogo in cui fu rinvenuto il cadavere. La difesa osserva di avere espressamente contestato i tre aspetti di colpa specifica ritenuta (assenza di protezioni anti caduta; omessa previsione del pericolo nel DVR; omessa previsione della presenza di una coppia di lavoratori) e gli elementi fattuali valorizzati dal Tribunale, rilevando che i tombini avevano dimensioni tali da non far temere il pericolo di caduta all'interno. L'esistenza di un pozzetto più grande, inoltre, garantiva il recupero di oggetti caduti nelle condutture e, infatti, esso era stato trovato privo di protezione; laddove, il silenzio del DVR sulle procedure lavorative era compensato dalla conoscenza della prassi da parte della vittima; infine, neppure l'ente ispettivo aveva formulato prescrizioni sulla necessità della presenza di due lavoratori per eseguire il distacco del sifone. Quanto al nesso causale, la difesa rileva la genericità della risposta della Corte territoriale, formulata senza neppure aver "compreso" l'effettiva dinamica dei fatti, essendo riportate contraddittoriamente due spiegazioni alternative (caduta accidentale e stordimento per le esalazioni; oppure accesso volontario).

3.2. La difesa della società ha formulato due motivi.

Con il primo, ha dedotto inosservanza della legge e di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, con riferimento alla valida costituzione in giudizio dell'ente.

Premesso che l'art. 39 D.Lgs. n. 231 del 2001 al comma 2 prevede che l'ente, per partecipare validamente al processo, deve avere un difensore e un procuratore speciale, la difesa assume la necessità che vi siano due distinti atti (ancorchè graficamente contenuti nel medesimo documento); nella specie, la procura speciale rilasciata al difensore non fu mai da questi azionata, cosicchè non può dirsi che l'ente si sia validamente costituito, non essendovi dichiarazione di costituzione. Il primo atto valido è rappresentato dall'appello, quello sì corredato da una dichiarazione di costituzione osservante dei canoni formali richiesti dal citato art. 39. Ne consegue che non poteva procedersi con le forme del rito abbreviato nei confronti dell'ente che, solo ove regolarmente costituito, avrebbe potuto operare tale scelta, con conseguente nullità delle due sentenze di merito.

Con il secondo motivo, ha dedotto vizio motivazionale circa il ravvisato vantaggio conseguito al reato. Nei due gradi di merito i giudici si sarebbero limitati ad asserirne l'esistenza, quello d'appello avendo tentato di supplire alla carenza motivazionale della sentenza appellata, censurata sul punto, limitandosi a una ricostruzione soggettiva della vicenda, senza dar conto della ragione per la quale l'impiego di due lavoratori per quella lavorazione determinasse un costo per la società, dal momento che la stessa avrebbe potuto farlo semplicemente impiegando lavoratori già assunti e quotidianamente presenti. Soluzione, quest'ultima, certamente più logica da un punto di vista imprenditoriale. Sotto altro profilo, poi, la difesa rileva che la Corte territoriale nulla avrebbe specificato in ordine all'entità del vantaggio che si assume conseguito da parte dell'ente, indispensabile presupposto per inferire la prova dell'oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto rispetto alla tutela dei lavoratori. Nè l'ente ispettivo ha rilevato profili di criticità connessi allo sfilamento del sifone da parte di un solo lavoratore, prescrivendone l'affiancamento con altro collega. Gli stessi rilievi la difesa articola quanto alla presunta, mancata previsione di istruzioni specifiche ai dipendenti (aspetto parimenti non censurato dall'organo ispettivo): anche con riferimento a tale inadeguatezza organizzativa, infatti, la Corte non ha indicato in cosa consisterebbe il vantaggio conseguito e quale ne sia l'entità.

4. Il Procuratore generale, in persona del sostituto Marilia di Nardo, ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto la declaratoria di inammissibilità di entrambi i ricorsi.

5. La difesa di A.A. ha depositato memoria, con la quale, anche in replica alle conclusioni scritte del Procuratore generale, ha argomentato a sostegno del ricorso, insistendo per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

6. La difesa dell'ente ha depositato memoria, anche in replica alle conclusioni scritte del Procuratore generale e ha sviluppato gli argomenti a sostegno dei motivi, insistendo per l'annullamento della sentenza impugnata.

 

Diritto


1. Entrambi i ricorsi vanno rigettati.

2. La Corte territoriale ha ricostruito la vicenda che ci occupa operando un rinvio agli atti che il Tribunale aveva valorizzato per fondare la condanna del A.A.. Nel respingere le doglianze difensive articolate con il gravame, quel giudice ha richiamato i profili di negligenza e le violazioni specifiche ricostruite alla stregua degli atti delle indagini preliminari, sostanzialmente rappresentati dalla mancata previsione nel DVR del rischio specifico di caduta nel pozzetto, prevedibile in relazione alla tipologia di lavoro e nella mancata previsione di una procedura lavorativa specifica per la manovra di sfilamento del sifone, necessaria per consentire un maggior deflusso dei liquami. Tutto ciò in un contesto nel quale i lavoratori avevano confermato di essere ben consapevoli dei pericoli dell'accesso nei cunicoli anche per la presenza dei gas. Nessuna direttiva o cautela era stata data al lavoratore, nè adottata alcuna cautela, mancando all'imbocco dei tombini precauzioni che scongiurassero il rischio di caduta all'interno. L'impegno difensivo si era incentrato sulla dimostrazione che la caduta della vittima fosse ricollegabile a una sua estemporanea, quanto eccentrica, iniziativa, per la quale egli aveva deciso di infilarsi nel condotto, finendo per essere trascinato nel flusso dei liquami nei quali è annegato (forse per recuperare un telefonino, spiegazione adombrata a difesa, ma smentita dal ritrovamento del dispositivo nella tasca della vittima e ritenuta dal Tribunale fantasiosa, oltre che del tutto illogica, posto che nessuno si introdurrebbe volontariamente all'interno di quella rete fognaria, percorrendo carponi decine di metri per recuperare un apparecchio già compromesso dai liquami).

A tale prospettazione la Corte d'appello ha risposto escludendo una abnormità del comportamento del lavoratore interruttiva del nesso di causa, atteso che la vittima, al momento dell'infortunio, stava espletando mansioni affidategli, il suo tentativo di recuperare un pezzo caduto in una delle condutture costituendo evenienza prevedibile in relazione alle descritte modalità lavorative invalse nell'azienda e alle caratteristiche del luogo di lavoro (anche queste ampiamente descritte nella sentenza appellata).

3. Il motivo dedotto nell'interesse dell'imputato è infondato.

Il ragionamento giustificativo della Corte d'appello va parametrato, da un lato, alla sentenza oggetto del gravame, con riferimento al grado di analiticità nella esposizione degli elementi probatori disponibili, di completezza dell'esame delle spiegazioni prospettabili e della esaustività della giustificazione di quella prescelta; dall'altro, al tenore dei motivi d'appello.

Quanto al primo profilo, deve ricordarsi che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. "doppia conforme" quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest'ultima, sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico, complessivo corpo decisionale (sez. 2, n. 37295 del 12/6/2019, E., Rv. 277218). Nella specie, la sentenza appellata ha fornito una ricostruzione analitica ed esaustiva delle acquisizioni e la difesa non ne ha contestato la storicità, ma ne ha inferito una diversa lettura. Con i motivi del gravame, infatti, si è inteso prospettare una spiegazione dell'accaduto in forza della quale la vittima non sarebbe caduta accidentalmente nel pozzetto, ma vi si sarebbe addentrata volontariamente, per motivi non meglio precisati, che comunque si assumono del tutto eccentrici rispetto ai suoi compiti; inoltre, si è inteso dimostrare che il lavoratore deceduto non fosse caduto perchè stordito dai gas nocivi inalati che, presenti nel suo organismo, non sarebbero stati aspirati nel pozzetto, bensì direttamente nel condotto lungo il quale si era addentrato carponi, rimanendo travolto dai liquami. Altro tema affrontato dall'appello, poi, ha riguardato l'assenza di lesioni sul cadavere: rispetto a tale tema la sentenza appellata aveva dato risposta completa alla stregua del parere tecnico, delle condizioni del ritrovamento, della protezione che il corpo aveva ricevuto dalla tuta indossata e dalla stessa massa liquida che l'aveva travolto. Quanto alla forza di scorrimento del liquame, rispetto al prospettato volontario percorrimento del condotto, la difesa aveva denunciato una forzatura nella lettura dei dati probatori, necessitata a suo dire dalla emersione di una nuova ipotesi ricostruttiva. Infine, con specifico riferimento alla abnormità del comportamento del lavoratore, si era evidenziato che il rimprovero mosso era estemporaneo rispetto all'accaduto, poichè l'infortunio non aveva riguardato l'operazione di rimozione del sifone da uno dei tombini sui quali la vittima doveva lavorare, ma era avvenuto durante l'operazione di recupero del sifone che il lavoratore aveva deciso di effettuare addentrandosi nelle condutture per velocizzare le operazioni, invece di seguire quella prescritta e attendere l'arrivo del sifone nella vasca di raccolta.

La Corte d'appello non ha risposto ai singoli rilievi come sopra sommariamente richiamati, ma ha fornito una risposta che li supera in via definitiva. Ha, infatti, richiamato le violazioni attribuite al A.A., puntualizzate dal Tribunale in maniera analitica sulla scorta di una completa piattaforma probatoria. Esse sono costituite proprio dalla omessa previsione di una procedura lavorativa per la pulizia delle stalle e il deflusso dei liquami, anche con riferimento alla necessità di una segregazione del lavoratore rispetto al pozzetto (vedi capo d'imputazione). Inoltre, considerata l'assenza di tale tipo di segregazione (la presenza di una griglia, infatti, avrebbe scongiurato la caduta accidentale, ma anche l'ingresso volontario della vittima), il Tribunale ha ritenuto dimostrata la necessità che la lavorazione fosse svolta in coppia, proprio tenuto conto della possibilità di caduta nel pozzetto.

3.1. Fatta tale premessa, deve intanto rilevarsi che il vizio di motivazione che denunci la carenza argomentativa della sentenza rispetto ad un tema contenuto nell'atto di impugnazione può essere utilmente dedotto con ricorso per cassazione soltanto quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano carattere di decisività (sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, Perna, Rv. 267723). Nella specie, le doglianze difensive, anche ove fondate rispetto alla volontarietà dell'accesso nel condotto, non incrinano la tenuta dell'impianto motivazionale complessivamente ricavabile dalla lettura combinata delle due decisioni, rispetto alla violazione delle norme di cautela che impongono la segregazione del lavoratore rispetto alla fonte di pericolo (pozzetti accessibili, coperti con grate appoggiate e rimuovibili, in luogo di una segregazione che consentisse solo l'inserimento degli strumenti di lavoro). Pertanto, sotto tale profilo, le doglianze difensive non vanno al di là di una critica formale, articolata senza un confronto effettivo con l'apparato motivazionale ricavabile dalle due pronunce conformi e, soprattutto, con il contenuto della regola cautelare violata. Del resto, l'emersione di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l'annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso rilevare solo quando, per effetto di tale critica, all'esito di una verifica sulla completezza e sulla globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l'impianto della decisione (sez. 1, n. 46566 del 21/2/2017, M., Rv. 271227).

A tal proposito, va peraltro ribadito che, nella motivazione della sentenza, il giudice del gravame non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, sicchè debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (sez. 6, n. 34532 del 22/6/2021, Depretis, Rv. 281935; sez. 1, n. 37588 del 18/6/2014, Amaniera, Rv. 260841). Infatti, l'omesso esame di un motivo di appello da parte del giudice dell'impugnazione non dà luogo ad un vizio di motivazione rilevante a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. allorchè, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente assorbito e disatteso dalle spiegazioni svolte nella motivazione in quanto incompatibile con la struttura e con l'impianto della stessa nonchè con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza (sez. 2, n. 46261 del 18/9/2019, Cammi, Rv. 277593).

Quanto, poi, al comportamento abnorme del lavoratore, le doglianze difensive sono manifestamente infondate alla stregua del consolidato orientamento di questa Corte di legittimità che la stessa difesa ha inteso invocare. E' certamente vero che - in materia di prevenzione antinfortunistica - si è passati da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facciano un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), a un modello "collaborativo", in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento (art. 20 D.Lgs. n. 81 del 2008), il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (sul punto, sez. 4 n. 8883 del 10/2/2016, Santini, Rv. 266073). In altri termini, si è passati dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva. Tuttavia, va fermamente ribadito il principio secondo il quale non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore (sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.). All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo ove sia tale da attivarne uno eccentrico o esorbitante dalla sfera governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (sez. 4 n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603; n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, Musso, Rv. 275017); oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (sez. 4 n. 7188 del 10/1/2018, Bozzi, Rv. 272222).

La risposta approntata dai giudici del merito è assolutamente coerente con tali principi: la regola cautelare violata (mancato approntamento di cautele atte a impedire l'entrata nei pozzetti da parte dei lavoratori addetti alla manutenzione e pulizia delle stalle) era intesa a prevenire proprio il rischio di caduta, a prescindere dalla volontarietà o accidentalità della presenza del lavoratore all'interno del pozzetto, prima, e del condotto dove ha trovato la morte, dopo; l'assenza del presidio di sicurezza, peraltro, non era stata neppure compensata dalla adozione di procedure lavorative (intervento in coppia) idonee a scongiurare che la caduta del lavoratore intento alle operazioni di pulizia potesse restare inosservata.

4. Il primo motivo formulato nell'interesse dell'ente è infondato.

4.1. A mente dell'art. 39, c. 1 del D.Lgs. n. 231 del 2001 "L'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo". Il comma 2, poi, disciplina le modalità della partecipazione dell'ente, prevedendo la necessità del deposito in cancelleria di una apposita dichiarazione, contenente anche il nome e il cognome del difensore e l'indicazione della procura che, a norma del comma 3, va conferita con le forme di cui all'art. 100, c. 1, c.p.p. e deve essere depositata nella segreteria del pubblico ministero o nella cancelleria del giudice, ovvero presentata in udienza unitamente alla dichiarazione di costituzione di cui al comma 2 richiamato.

La lettura della norma è già stata oggetto di intervento nomofilattico delle Sezioni Unite di questa Corte, investite di una diversa questione (Sez. U, n. 33041 del 28/5/2015, Gabrielloni). Il Supremo collegio, in quella sede, nel ricostruire la cornice in diritto, nella quale esaminare la specifica questione devoluta, ha precisato che il comma 1 dell'art. 39 cit. indica il rapporto di rappresentanza, ossia quello che deve legare l'ente ad un rappresentante legale - non necessariamente corrispondente a quello di immedesimazione organica - per mezzo del quale l'ente può scegliere o meno di partecipare al procedimento, nel primo caso essendo tenuto a seguire un percorso procedimentale inderogabile, cioè la costituzione con il deposito della dichiarazione.

Si tratta di una dichiarazione che, in quanto deve essere sottoscritta dal difensore fiduciario, è un atto di costui, plasmato dal legislatore in termini tali da non porre in dubbio che la nomina possa esser stata effettuata dal rappresentante legale dell'ente anche prima di tale costituzione. La nomina, infatti, non è necessariamente parte integrante della dichiarazione di costituzione, ma può precederla come si desume dal fatto che l'art. 39, c. 2, lett. b) richiede semplicemente "il nome e il cognome del difensore" assieme alla "indicazione della procura", ossia opera un richiamo ad atti che possono essere già stati perfezionati prima e indipendentemente. Come precisato più avanti in quel precedente, la necessità della previa costituzione dell'ente discende, in primo luogo, dalla natura di esso, una figura soggettiva cioè potenzialmente anche complessa e necessitante di mezzi di esternazione della volontà diversi e più articolati di quelli dell'imputato/persona fisica; e discende, inoltre, dalla ulteriore necessità - che il legislatore ha avvertito e di fatto ha assunto come primaria, proprio per garantire all'ente di essere rappresentato senza ombre o sospetti di inquinamento della strategia difensiva prescelta - di rendere ostensibile quanto prima l'eventuale conflitto di interessi (v. art. 39, comma 1) che discenderebbe in via diretta e immediata dal fatto che il legale rappresentante individuato dall'ente per la costituzione sia anche indagato o imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo. E' indubbio, pertanto, che lo statuto delineato perchè l'ente possa attivare facoltà spettantigli nel procedimento (ad es. presentazioni di richieste, memorie o relazioni attinenti ad attività difensive), onera l'ente di una procedura più complessa, sul piano organizzativo, della semplice nomina del difensore di fiducia, secondo le modalità sopra descritte (in motivazione, Sez. U, n. 33041/15 cit.).

La dichiarazione di costituzione (nel procedimento), pertanto, si traduce nella manifestazione della volontà di prendervi parte con le stesse prerogative di difesa riservate all'imputato e quale soggetto diverso dalla persona fisica che risponde del reato dal quale deriva la sua responsabilità amministrativa.

4.2. Orbene, passando all'esame della doglianza, il difetto di un documento contenente tale dichiarazione avrebbe determinato, nella prospettiva difensiva, una nullità della sentenza di primo grado e di quella di appello, atteso che il giudizio non avrebbe potuto celebrarsi nei confronti dell'ente con le forme del rito abbreviato, al quale il difensore dell'ente avrebbe acconsentito. Nella specie, la difesa ha rilevato che la dichiarazione di costituzione sottoscritta dal difensore non era stata depositata, in quanto inesistente, dopo aver ammesso però che la stessa può esser contenuta graficamente anche nella procura rilasciata al difensore fiduciario. Nel richiamare il contenuto di tale procura, inoltre, ha indicato il conferimento dei poteri al procuratore speciale, tra i quali quello di costituirsi nel procedimento al fine di esercitare ogni facoltà e diritto di difesa, assumendo però che il precedente difensore non aveva mai esercitato il potere di costituirsi, non avendo depositato la prescritta dichiarazione di costituzione. La costituzione sarebbe avvenuta solo in appello ad opera di altro difensore, mediante atto di gravame corredato da dichiarazione di costituzione rispettosa dei canoni formali posti dalla legge.

La conclusione che la difesa trae da tale premessa non può essere avallata.

La difesa ha del tutto omesso di considerare la ratio del complesso sistema previsto dal legislatore per la costituzione dell'ente che, come già emerso dal richiamo al diritto vivente, è strettamente correlata alla necessità di fare tempestivamente emergere eventuali profili di conflitto d'interessi, ciò che, nella specie, non è neppur adombrato da parte ricorrente. Nè il deducente ha rilevato un difetto di rappresentanza dell'ente, non contestando la validità della procura conferita al primo difensore.

Pertanto, anche a voler ritenere il difetto della dichiarazione di costituzione dell'ente in giudizio, è incontestato (e, peraltro, confermato dai verbali) che l'ente vi ha partecipato e che è stato rappresentato da un difensore munito di valido mandato, comprensivo di procura ad avanzare richiesta di giudizio abbreviato (vedi procura all'avv. Silvia Silvestri in atti, rilasciata dal sig. B.B., nella qualità di socio amministratore con poteri di rappresentanza legale).

Invero, la mancata dichiarazione di costituzione dell'ente determina una diversa conseguenza, espressamente disciplinata dall'art. 41 del D.Lgs. n. 231 del 2001, a mente del quale, infatti, "L'ente che non si costituisce nel processo è dichiarato contumace", ciò che, nella specie, non è avvenuto, non avendo il giudice dichiarato la contumacia, nè essendo stato l'ente considerato tale nel processo di primo grado.

Nessuna conseguenza, dunque, si è prodotta sul piano delle prerogative difensive, essendo stato l'ente regolarmente rappresentato in giudizio da un procuratore munito di mandato difensivo in questa sede neppure contestato e sul quale, in ogni caso, la mancata dichiarazione di costituzione non ha prodotto alcun effetto.

La doglianza difensiva, peraltro, è infondata anche sotto altro, diverso profilo.

La nullità agitata a difesa non rientra tra quelle di cui all'art. 179, c.p.p., cosicchè la stessa potrebbe, al più, considerarsi nullità di ordine generale ai sensi dell'art. 178, stesso codice, soggetta, tuttavia, alle decadenze (artt. 180 e 182, c.p.p.) e alle sanatorie di legge (art. 183, stesso codice).

5. Il secondo motivo è parimenti infondato.

Quella degli enti derivante da reato rappresenta un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e i criteri d'imputazione oggettiva di essa (Sez. U, n. 38343 del 24/4//2014, Espenhahn, Rv. 261112). Il legislatore, peraltro, ha previsto specifici criteri di imputazione di tale responsabilità, l'interesse o il vantaggio di cui all'art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001), che sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, il secondo ha connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dall'illecito (Sez. U, n. 38343/2014, cit., Rv. 261114).

Nel caso di responsabilità degli enti ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, si parla poi di "colpa di organizzazione", da intendersi in senso normativo, ricollegata cioè al rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli (Sez. U, n. 38343/2014, cit., Rv. 261113). Per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell'ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (art. 25 septies del D.Lgs. n. 231 del 2001), si è peraltro chiarito, in via interpretativa, che i citati criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, in conformità alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l'ente (in motivazione, Sez. U. n. 38343 del 2014, cit.).

Si è così salvaguardato il principio di colpevolezza, con la previsione della sanzione del soggetto meta-individuale che si è giovato della violazione.

Peraltro, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l'appunto, della "colpa di organizzazione", che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato (sez. 4, n. 18413 del 15/2/2022, Cartotecnica Grafica Vicentina, Rv. 283247). Nell'affermare tale principio, la Corte di legittimità ha spiegato che la struttura dell'illecito addebitato all'ente è incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno funzione di rafforzare il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito a quest'ultimo un reato commesso sì da soggetto incardinato nell'organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa (richiamando sez. 4, n. 32899 del 8/1/2021, Casta/do, in motivazione).

Ciò consente di dire, dunque, che l'ente risponde per fatto proprio e che - per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva - deve essere verificata una "colpa di organizzazione" dell'ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato. E' il riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo e spetta all'accusa, pertanto, dimostrare l'esistenza dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente e l'avere essa agito nell'interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro (in motivazione, sez. 6, n. 27735 del 18/2/2010, Scarafia, Rv. 247666). Si tratta di un'interpretazione che, in sostanza, attribuisce al requisito della "colpa di organizzazione" dell'ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, di elemento costitutivo cioè del fatto tipico, integrato dalla violazione "colpevole" (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Essa va dimostrata dall'accusa e l'ente può dimostrarne l'assenza, gli elementi costitutivi dell'illecito essendo rappresentati dalla sopra descritta immedesimazione organica "rafforzata", ma anche da tale colpa di organizzazione, dal reato presupposto e dal nesso causale tra i due (in motivazione, sez. 4 n. 18413/2022 cit.).

5.1. Nel caso di specie, il ragionamento probatorio, desumibile anche dalla lettura combinata delle due sentenze di merito, consente di ricavare in che cosa sia consistito il vantaggio al quale è stata ricollegata la responsabilità amministrativa dell'ente e di valutarne l'oggettivo rilievo in termini di colpa di organizzazione. Il primo giudice ha affermato che il deficit di sicurezza dal quale era derivato l'evento mortale era dipeso dal "minor impegno" da parte dei soggetti apicali, con conseguente vantaggio economico; laddove, dal canto suo, la Corte territoriale ha ravvisato tale vantaggio nella mancata formazione di squadre di lavoro (personale aggiuntivo) per svolgere in sicurezza mansioni pericolose, omissione a sua volta direttamente ricollegata al problema organizzativo accertato (mancato affiancamento e informazione adeguata del lavoratore). Tale ragionamento non si traduce nella sovrapposizione della regola cautelare violata con la colpa di organizzazione imputabile all'ente, atteso che il complesso delle cautele violate dal soggetto apicale dell'ente non era estraneo agli scopi di questo. Dal canto suo, la difesa si è limitata ad affermare che la giustificazione dei giudici territoriali sarebbe apparente, non avendo costoro quantificato il vantaggio, confondendo però piani diversi di valutazione, l'entità del vantaggio rilevando semmai ai fini della valutazione della graduazione della sanzione pecuniaria (art. 12, D.Lgs. n. 231 del 2001).

6. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

 

P.Q.M.
 

Rigetta i ricorsi e condanna le parti ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2023