REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZUMBO Antonio - Presidente

Dott. POSTIGLIONE Amedeo - Consigliere

Dott. TERESI Alfredo - Consigliere

Dott. GENTILE Mario - Consigliere

Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.A. n. Paterno, 13-09-1938;

B.A. n. Milano, 20-12-1968;

avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano del 24-9-2004;

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Amedeo Franco, sostituito nella redazione della motivazione della presente sentenza dal Cons. Dott. Amedeo Postiglione, su designazione Presidente del Collegio;

Udito il Pubblico Ministero in persona del Dr. SINISCALCO Antonio che ha concluso per 1^ rigetto 2^ inammissibile.

Uditi i difensori Avv. Prof. Grosso Carlo Federico e Avv. La Greca Giuseppe per il L. e Avv. Diodà Nerio (Mi) per B.;

 

Fatto


La vicenda riguarda l'incidente verificatosi il 31 ottobre 1997 nell'Istituto Ortopedico Galeazzi s.p.a. di Milano, quando all'interno di una camera iperbarica per ossigenatura scoppiò un incendio che cagionò la morte di dieci pazienti e di un infermiere che si trovavano al suo interno.

Vennero rinviati a giudizio, per rispondere dei reati di incendio colposo e di plurimo omicidio colposo, L.A., presidente del consiglio di amministrazione ed amministratore delegato dell'Istituto Galeazzi, U.S., altro amministratore delegato dell'Istituto, Z.E., direttore sanitario, O.G., primario del reparto di ossigenoterapia iperbarica, B.A., tecnico che al momento dell'incidente era addetto al quadro comandi della camera iperbarica, B.R., capo ufficio tecnico dell'istituto, e Br.R., responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

Z., Br. e B. chiesero il giudizio abbreviato e la loro posizione venne stralciata e decisa con sentenza del tribunale di Milano del 17 aprile 2002, che assolse lo Z. per non aver commesso il fatto e condannò, gli altri due.

La Corte d'appello di Milano ridusse le pene confermando la sentenza nel resto.

Quanto agli altri imputati, il Tribunale di Milano, con sentenza del 13 ottobre 1999, li dichiarò colpevoli condannandoli alle pene ritenute di giustizia, oltre al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili.

Il Tribunale osservò: che l'incendio si era sviluppato per autocombustione dello scaldamani tenuto dalla paziente P.M.; che erano mancate idonee misure di prevenzione relativamente al controllo sui pazienti e sugli oggetti dagli stessi portati nella camera iperbarica; che insufficienti erano state le misure per la formazione del personale medico e paramedico, non addestrato ad affrontare il (rischio il che aveva provocato una sorta di rimozione mentale del pericolo); che non erano state date indicazioni precise sugli oggetti che non potevano entrare nella camera iperbarica ed ai controllori non era stato rappresentato il rischio concreto; che non erano state adottate idonee misure di protezione e non era stato mantenuto in efficienza l'impianto antincendio.

In particolare, il Tribunale ritenne: che se fossero state adottate idonee misure di prevenzione e di protezione l'evento sarebbe stato evitato con certezza o con un alto grado di probabilità o comunque avrebbe avuto conseguenze minori; che sia il L. sia l'U., in quanto amministratori delegati, avevano entrambi la veste di datore di lavoro; che le funzioni del datore di lavoro in materia di sicurezza non sono delegabili, e quindi sul L. permaneva l'obbligo di garanzia; che l'U. aveva mal esercitato i compiti relativi alla sicurezza perchè aveva omesso di valutare la incompetenza del Br. nella redazione del documento di valutazione del rischio, documento assolutamente inattendibile e privo di contenuto perchè ometteva completamente di considerare la pericolosità della camera iperbarica.

Sulla specifica posizione del L., il Tribunale osservò che lo stesso, avendo a tutti gli effetti la veste di amministratore delegato e quindi di datore di lavoro, era tenuto ad occuparsi della sicurezza senza poter fare affidamento sulla condotta del coobbligato U., se non nel senso dell'avvenuto compimento da parte di questi della condotta doverosa della quale non si richiede una duplicazione;

che peraltro avendo egli del tutto omesso di agire in materia di sicurezza, non poteva invocare a proprio favore l'inerzia e la colpa altrui; che era superfluo accertare la prevedibilità dell'evento da parte del L. perchè in realtà egli nulla aveva previsto per la ragione assorbente che non si riteneva tenuto ad occuparsi di sicurezza e quindi la sua omissione della condotta doverosa era pienamente cosciente.

Quanto alle pene, il Tribunale condannò il L. alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione (pena base anni tre, diminuita per le generiche ad anni due e quindi aumentata per la continuazione) ed il B. alla pena di anni quattro di reclusione (pena base anni tre, diminuita per le generiche ad anni due e quindi aumentata per la continuazione).

La Corte d'appello di Milano, con sentenza del 12 dicembre 2001, ridusse la pena per U. ed O.; confermò la sentenza di primo grado nei confronti del B.; assolse invece il L. perchè il fatto non costituisce reato.

Osservò in particolare la Corte d'appello:

 

a) che non vi era stata nessuna delega di funzioni in materia di sicurezza dal L. all'U., il quale aveva il potere-dovere di occuparsi di sicurezza nella sua posizione di datore di lavoro, senza bisogno di deleghe di funzioni che già possedeva;

 

b) che effettivamente era sempre stato esclusivamente l'U. a svolgere le funzioni in materia di sicurezza correlate alla posizione di garanzia e doveva ritenersi che vi fosse stato un accordo tra il L. e l'U. nel senso che solo quest'ultimo si occupasse dei problemi della sicurezza;

 

c) che tale accordo doveva ritenersi valido perché nessuna norma impone, nel caso di una impresa con due datori di lavoro che entrambi debbano operare congiuntamente;

 

d) che comunque l'assunzione dei compiti della sicurezza, anche solo in concreto, da parte di uno solo dei due datori di lavoro, legittimando le comprensibili aspettative dell'altro, era idonea ad esonerarlo da tutte le relative responsabilità, a meno che la ripartizione di funzioni tra i due non prevedesse una potestà di controllo o di vigilanza sull'adempimento degli obblighi di legge da parte del datore di lavoro che non operava, potestà che nel caso di specie non era stata invece prevista;

 

e) che nell'istituto Galeazzi le attribuzioni in materia di sicurezza erano state assunte dal datore di lavoro U., che operava effettivamente e questa situazione aveva necessariamente ripercussioni sull'elemento soggettivo dei reati ascritti al L.;

 

f) che infatti quest'ultimo non si era riservato il potere di controllare l'esercizio in concreto delle funzioni in materia di sicurezza da parte dell'altro datore di lavoro, e quindi la sua inattività non era dovuta a disinteresse o negligenza, ma alla certezza che agli adempimenti relativi alla sicurezza avrebbe provveduto altro idoneo soggetto, ossia altro datore di lavoro.

 

Questa Suprema Corte, con sentenza del 5 dicembre 2003, confermò la sentenza della Corte di appello nei confronti dell'U. e dell'O..

Annullò la sentenza nei confronti del B., con rinvio per la determinazione della pena, limitatamente all'omicidio colposo di P.M., per il motivo che al B. non era stato contestato l'omesso controllo della borsa della Pisano, dove era contenuto lo scaldino che aveva provocato l'incendio (la donna era morta all'istante, di modo che, anche se fosse stato presente al quadro comandi ed avesse tenuto efficiente l'impianto antincendio, non avrebbe potuto comunque salvarla).

Annullò infine la sentenza con rinvio per nuovo giudizio nei confronti del L., osservando:

 

a) che il L., come l'U., quale amministratore delegato rivestiva la qualifica di datore di lavoro ai fini della prevenzione contro gli infortuni;

 

b) che non poteva parlarsi di delega di funzioni perchè la competenza in materia di prevenzione era attribuita ad entrambi i datori di lavoro per effetto della loro qualità;

 

c) che il principio di effettività non consentiva al soggetto gravato dalla posizione di garanzia di potersi sottrarre ad essa su base volontaria o contrattuale: la posizione di garanzia non era negoziabile, sicchè non era ipotizzabile che residuasse un'area di irresponsabilità in base ad accordi o addirittura dedurre dall'inerzia un trasferimento di funzioni con l'effetto di escludere la responsabilità.

Nel caso di specie, in considerazione della non derogabilità delle posizioni di garanzia e, comunque, della persistenza di un obbligo di sorveglianza e controllo sull'esatto adempimento degli obblighi di sicurezza da parte del coobbligato, e considerando altresì l'accertata macroscopicità della violazione dei comuni obblighi relativi alla sicurezza da parte del coobbligato, ne derivava che il principio dell'affidamento era stato impropriamente richiamato dalla Corte d'appello ed era comunque privo di rilievo al fine dell'esonero della responsabilità del L..

La Corte d'appello di Milano, quale giudice del rinvio, con sentenza del 24 settembre 2004, ritenne che la sentenza di condanna di primo grado, nei confronti del L. e del B., dovesse essere riformata esclusivamente in ordine alla determinazione della pena.

Per quanto riguarda il L., osservò che dovevano condividersi le valutazioni e le decisioni dei giudici di merito e di legittimità, ed in particolare quelle relative:

 

a) alla causalità delle condotte dei due amministratori delegati, quanto alla prevedibilità ed alla evitabilità dell'evento ed alla posizione di garanzia, che nella specie concerneva un rigoroso obbligo di adottare tutte le misure di prevenzione e di protezione idonee ad evitare il verificarsi ed il propagarsi dell'incendio;

 

b) alla causalità delle colpe del L. per l'inesistente valutazione del rischio e la redazione negligente del documento di valutazione dello stesso, atto non delegabile del datore di lavoro, che era macroscopicamente insufficiente, non facendo cenno al rischio incendio della terapia iperbarica e all'impianto antincendio.

Osservò infine la Corte d'appello che non poteva parlarsi di ignoranza scusabile della legge penale o di affidamento considerando: che il L. era l'azionista di maggioranza dell'Istituto; che era presidente del consiglio di amministrazione; che quindi la nomina di due amministratori delegati era stata da lui voluta; che era l'unico cui spettavano i poteri di straordinaria amministrazione; che godeva di un emolumento di carica elevatissimo e di gran lunga superiore a quello spettante all'U.; che non aveva rilasciato alcuna delega all'altro amministratore delegato; che era venuto meno, per mera negligenza, all'esercizio dei poteri-doveri più elementari e in particolare alle funzioni ed attribuzioni del datore di lavoro concernenti la valutazione dei rischi per la sicurezza e specialmente di quello di incendio nelle camere iperbariche.

Condannò quindi il L. alla pena di anni tre di reclusione, "con riduzione proporzionale della pena base e di quella inflitta in continuazione", sulla base del minor rimprovero nei suoi confronti e del sopravvenuto integrale risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili.

Per quanto concerne il B., la Corte d'appello confermò il giudizio di non congruità della pena proposta in patteggiamento in primo grado e rideterminò la pena in anni tre di reclusione in considerazione del fatto che erano stati esclusi non secondari elementi di colpa, quali l'omesso controllo della borsetta della Pisano e del fatto che egli aveva una posizione subordinata e terminale rispetto agli altri coimputati, aventi una posizione più pregnante (in particolare il Br. ed il B., avevano avuto una pena definitiva di tre anni di reclusione, sia pure a seguito della diminuzione per il rito abbreviato).

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il L. a mezzo del difensore avv. Prof. Carlo Federico Grosso deducendo i seguenti motivi:

 

a) artt. 606, primo comma, lett. e), cod. proc. pen. e 627, terzo comma, cod. proc. pen. per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'addebito di colpa ed alla rilevanza causale della condotta colposa ascritta all'imputato, nonchè per inosservanza dei principi statuiti dalla sentenza di annullamento di questa Corte del 5-12-2003. Ricorda che la sentenza impugnata avrebbe espressamente affermato che la colpa principale del L. era consistita nell'avere sottoscritto il documento di valutazione del rischio e di averlo fatto proprio, senza accorgersi della inesistenza dello stesso.

 

b) art. 606, primo comma, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per inosservanza della legge penale e per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al contenuto dei doveri di vigilanza e di controllo e sull'accertamento del loro adempimento da parte del dott. L..
Lamenta che la sentenza impugnata non contiene neppure una parola sul contenuto degli obblighi di controllo e di vigilanza che la sentenza della cassazione aveva ritenuto gravare sul L. in relazione all'adempimento dei doveri di sicurezza, e specificamente di quelli attinenti la valutazione dei rischi, da parte dell'U..


c) art. 606, primo comma, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per inosservanza della legge penale in relazione all'art. 5 cod. pen. e per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'errore scusabile sulla persistenza di obblighi di sorveglianza e controllo sull'attività del coobbligato, in relazione alla interpretazione giurisprudenziale del ed. principio di effettività in materia di sicurezza sul lavoro. Osserva che la difesa, con la memoria difensiva, aveva ricordato l'orientamento assolutamente pacifico e consolidato della giurisprudenza di legittimità, fino alla sentenza del 5-12-2003, sul ed. principio di effettività ed aveva quindi sostenuto che il L., quand'anche non avesse adempiuto agli obblighi di controllo e vigilanza, avrebbe comunque potuto invocare l'errore scusabile.


d) art. 606, primo comma, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per inosservanza dell'art. 40 cod. pen. e per mancanza e manifesta illogicità della motivazione nonchè per violazione dell'art. 627, terzo comma, cod. proc. pen. in ordine alla ritenuta irrilevanza di una legge scientifica di copertura a fondamento della spiegazione causale dell'evento ascritto al L.. Osserva che la sentenza impugnata riconosce l'impossibilità di spiegare in termini scientifici l'incidente avvenuto nella camera iperbarica, ma poi, invece di emanare sentenza di proscioglimento, ha affermato che la mancanza di una legge scientifica di copertura sarebbe irrilevante.


e) art. 606, primo comma, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per inosservanza della legge penale e per mancanza e manifesta illogicità della motivazione per l'assenza di criteri normativi e di linee guida per la valutazione del rischio.
Eccezione di legittimità costituzionale relativa al D.LGS. 19 settembre 1994, n. 626.

Lamenta che la Corte d'appello ha omesso di motivare anche sul tema della assenza di criteri normativi e di linee guida per la valutazione del rischio imposta dal D.LGS. 19 settembre 1994, n. 626, problema che rileva perchè occorre chiedersi se, qualora il L. non avesse adempiuto il suo obbligo, la sua omissione avrebbe avuto una qualche rilevanza sotto il profilo causale. Invero è evidente che, se egli aveva solo un generale dovere di vigilanza sulla attività dell'U. senza necessità di una rivalutazione nel merito della sua attività, non sarebbe cambiato nulla perchè il decorso causale non avrebbe avuto alcuna modificazione, giacchè l'U. avrebbe compiuto la stessa valutazione del rischio.
Per ipotizzare invece un contributo causale della omissione si dovrebbe sostenere che l'obbligo di controllo si estende fino al punto di comprendere l'obbligo della verifica della sufficienza o insufficienza della valutazione del rischio.
Questa estensione però comporterebbe non solo una inammissibile duplicazione di funzioni, ma porrebbe il problema di fissare il parametro che, ex ante, consenta al controllore di definire sufficiente o insufficiente la valutazione del rischio.
Questo parametro in realtà non sussiste e non è previsto da nessuna parte, sicchè si verterebbe in una ipotesi di applicazione del vecchio ed incostituzionale principio del versari in re illecita.
Infatti, una volta verificatosi l'evento lesivo, il giudice potrebbe essere indotto a pensare che, per forza di cose, la valutazione del rischio è stata insufficiente. In questa situazione condannare un coobbligato per omesso controllo della sufficienza o insufficienza della valutazione del rischio significherebbe violare sia il principio della personalità delle responsabilità penale sia il principio di legalità-tassativa.

Ripropone eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 43 della legge 19 febbraio 1991, n. 142 nonchè degli artt. 3, primo comma, lett. a), e 4), primo e secondo comma, del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, come modificato dal D.LGS. 19 marzo 1996, n. 242, in riferimento agli artt. 1, 4, 41, co. 2 e 3, Cost. nella parte in cui non prevede che la valutazione del rischio ed i piani di sicurezza debbano essere elaborati sulla base di linee guida e di programmi tipo emanati da organi ed enti pubblici, nonchè eccezione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 25 Cost., dell'art. 4, primo e secondo comma, ed 1, co. 4-ter, del D.LGS. 19 settembre 1994, n. 626, come modificato dall'art. 1, co. 2, del D.LGS. 19 marzo 1996, n. 242, e dell'art. 43 della legge delega 19 febbraio 1991, n. 142, con riferimento all'art. 40 cpv. e 589 cod. pen., nella parte in cui non prevedono il rinvio a linee guida di valutazione del rischio e programmi tipo di sicurezza elaborati da enti o agenzie espressamente delegate dal legislatore.

A queste eccezioni, già sollevate dinanzi al giudice del rinvio, quest'ultimo non ha dato alcuna risposta.

 

f) art. 606, primo comma, lett. c) ed e), cod. proc. pen. in relazione all'art. 125, terzo comma, e 546 cod. proc. pen. nonchè mancanza di motivazione.

 

Lamenta che all'esito di una laboriosissima vicenda processuale la Corte d'appello ha condensato tale vicenda in poco più di dieci pagine, di cui solo tre dedicate alla posizione del L..

I giudici del rinvio, in realtà, non hanno neppure provato ad indicare le ragioni di fatto e di diritto della condanna ed i motivi per cui hanno disatteso gli argomenti della difesa, ma si sono limitati a richiamare genericamente le decisioni e le valutazioni espresse dai precedenti giudici di merito e dalla cassazione, il che è tanto più grave in quanto le precedenti sentenze dei giudici di merito erano in contrasto sulla specifica posizione del L..

 

g) artt. 628, secondo comma, e 606, primo comma, lett. e), cod. proc. pen. per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla commisurazione della pena.
Lamenta che la Corte d'appello ha ridotto la pena inflitta al L. senza alcuna indicazione nè dei criteri adottati, nè della pena base, nè dell'aumento per gli altri reati contestati.

 

h) artt. 628, secondo comma, e 606, primo comma, lett. e), cod. proc. pen. per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla commisurazione della pena e con riferimento agli addebiti di colpa attinenti alla nomina di un responsabile del servizio di prevenzione e protezione professionalmente inadeguato ed alla sua mancata sostituzione con un responsabile interno.
Osserva che il giudice del rinvio ha sostanzialmente fatto propria la valutazione della prima Corte d'appello circa l'irrilevanza causale dei due suddetti addebiti di colpa, sui quali la prima Corte d'appello aveva pronunciato un giudizio di radicale infondatezza.

Senonchè, pur avendo espressamente escluso la rilevanza causale di tali addebiti, la sentenza impugnata ha poi completamente omesso di motivare sul trattamento sanzionatorio.

Nell'interesse del L. è stato presentato dall'altro difensore avv. Giuseppe La Greca un secondo ricorso con il quale si deduce:

 

a) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 43, 113, 449 e 589 cod. pen. nonchè mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della cooperazione colposa del L. con l'U..
Ricorda che la sentenza di annullamento aveva demandato al giudice del rinvio di accertare se vi era stata o meno, da parte del L., una culpa in vigilando sull'adempimento - definitivamente ritenuto inadeguato - da parte di U. degli obblighi relativi alla sicurezza sul luogo di lavoro.

Con la conseguenza, nel caso di accertamento positivo, della configurabilità di una cooperazione colposa tra L. ed U. nella causazione dell'evento.
La cooperazione colposa era stata ritenuta dal giudice di primo grado sulla base dell'addebito all'U. di essersi occupato di sicurezza in maniera superficiale ed al L. di essere stato convinto che la sicurezza esulasse dalle sue attribuzioni e quindi di non aver verificato l'opera del coobbligato.
Con l'atto di appello il L. aveva però contestato la sussistenza della cooperazione osservando che per la cooperazione prevista dall'art. 113 cod. pen. non è sufficiente che ciascuno dei partecipi sappia che la propria condotta è colposa e funzionalmente collegata a quelle altrui, ma occorre anche individuare la violazione di una norma cautelare.
Insomma, nel caso di comportamenti atipici di cooperazione, il partecipe risponde dell'evento se, avendo cooperato alla sua realizzazione agevolando o determinando la condotta colposa altrui, abbia agito nonostante la rappresentabilità di tale condotta, perchè è appunto tale condotta che la regola violata tendeva a prevenire, imponendo l'adozione di determinate cautele.

Nella specie, poi, non era assolutamente prevedibile che l'U. fosse così sprovveduto da designare un responsabile esterno per la prevenzione professionalmente inadeguata e da effettuare, con la consulenza di costui, una valutazione dei rischi assolutamente insufficiente.

Nella specie è stato provato che il L. si era debitamente informato, ricevendone conferma, della avvenuta valutazione dei rischi, della redazione del documento, del suo deposito e della sua comunicazione ai rappresentati dei lavoratori, il che, per il L., significava appunto che l'U. aveva adempiuto agli obblighi di sicurezza imposti dal D.LGS. 19 settembre 1994, n. 626.

Ricorda poi che erano state sollevate le due eccezioni di legittimità costituzionale dianzi indicate e che aveva fatto presente che per configurare una cooperazione colposa tra il L. e l'U. era indispensabile acquisire la prova incontestabile che il L. non avesse esplicato la richiesta vigilanza, nonostante la consapevolezza della confluenza della propria condotta in quella dell'U. e la rappresentabilità, quale colposo, dell'operato del coobbligato.

 

b) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 43, 113, 449 e 589 cod. pen. nonchè mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine al carattere colposo della condotta del L..

 

c) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 43, 113, 449 e 589 cod. pen. nonchè mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla esclusione della sussistenza di un errore scusabile.

Anche il B. propone ricorso per cassazione deducendo erronea applicazione degli artt. 133 cod. pen. e 444 cod. proc. pen. e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla misura della pena ed al mancato recupero, ai sensi dell'art. 448 cod. proc. pen., della pena su richiesta delle parti.

Ricorda che aveva tempestivamente richiesto la applicazione della pena nella misura di due anni di reclusione ma il pubblico ministero non aveva prestato il proprio consenso.
Il tribunale l'aveva poi condannato alla pena di tre anni di reclusione, ridotta a due anni per le attenuanti generiche ed aumentata a quattro anni per la continuazione. In appello aveva chiesto il recupero della richiesta di applicazione della pena, ma la Corte d'appello aveva confermato la pena inflittagli dal tribunale ribadendo la non ricuperabilità dell'istanza.
Questa Corte aveva annullato la sentenza limitatamente all'omicidio colposo di P.M. ed aveva rinviato anche per una nuova determinazione della pena.
In sede di rinvio aveva nuovamente chiesto il recupero della pena richiesta.
La Corte d'appello ha ridotto la pena inflittagli da quattro anni di reclusione a tre anni, dichiarando di condividere il giudizio di non congruità della pena proposta in patteggiamento.
Manca quindi qualsiasi motivazione sulle ragioni per le quali la corte d'appello non lo ha ritenuto meritevole della riduzione premiale prevista dal rito del patteggiamento.

 

Diritto

 


I ricorsi di L. e B. non possono essere accolti.

La sentenza impugnata della Corte di Appello di Milano, pronunciata in sede di rinvio in data 24-9-2004, appare immune da vizi di legittimità e corretta nella motivazione.

Si tratta di una sentenza ben motivata, in linea con quanto stabilito da questa Corte di Cassazione con l'ampia e dettagliata decisione del 5-12-2003.

La Corte di Appello di Milano, in sede di rinvio, giustamente limita l'indagine all'oggetto del rinvio ed ai principi enunciati dalla Corte di Cassazione, adeguandosi ad essi, senza indulgere sui "motivi già introdotti ed ampiamente esaminati nelle precedenti fasi di merito e di legittimità".

Certamente la sentenza della Corte di Milano non merita la censura "quantitativa" di cui al punto f del ricorso di carenza di motivazione per aver condensato in sole dieci pagine (di cui tre dedicate al L.) una vicenda complessa, ma ormai limitata ad un unico profilo giuridico: la configurabilità o meno della colpa del L..
Quel che conta è la completezza essenziale, logica e giuridica, che si riscontra invece nella sentenza impugnata.
E' la stessa Corte di Cassazione che, nei passaggi decisivi della motivazione, ancora i principi enunciati alle valutazioni di merito del Tribunale di Milano, espressamente condividendole perchè ritenute logicamente motivate e giuridicamente corrette e, come tali, incensurabili in sede di legittimità. Di conseguenza la difesa del L. non può riproporre questioni già esaminate da questa Corte e da ritenere ormai precluse ex art. 627 c.p.p..

Ad esempio la Corte, dopo aver esaminato il d.p.r. n. 547/55; il d.p.r. 303/56; il D.LG.VO 626/94; il D.LG.VO 242/96; il D.LG.VO 61/2002, ha ritenuto che:

"alla luce della descritta evoluzione legislativa giuridicamente corretta appare dunque la decisione dei giudici di merito che hanno ritenuto che entrambi gli amministratori delegati, L. e U., rivestissero la qualità di datore di lavoro ai fini della prevenzione degli infortuni, questa loro ricostruzione su elementi di fatto, non sindacabili in questa sede ma logicamente apprezzati, quali il conferimento ad entrambi gli amministratori delegati, da parte del consiglio di amministrazione della società dei poteri di ordinaria amministrazione e, al solo L., anche di quelli di straordinaria amministrazione".

Analogamente la Corte di Cassazione ha escluso la delega di funzioni, osservando:

"deve peraltro ritenersi corretta, in base ai dati di fatto incensurabilmente accertati, la ricostruzione compiuta nella sentenza impugnata secondo cui, nella situazione descritta (nomina di due amministratori delegati con poteri di ordinaria e, per uno di essi, di straordinaria amministrazione), non può parlarsi di delega di funzioni perchè la competenza in materia di prevenzione era originariamente attribuita alle due persone imputate in conseguenza del fatto che entrambe avevano la qualità di datori di lavoro".

Questa Corte ha già ritenuto che: "dal principio di inderogabilità delle funzioni di garanzia - che non si pone affatto in contrasto con il principio di effettività ma, anzi, ne costituisce la concreta applicazione per il riferimento a chi ha i poteri di decidere e di spendere - consegue altresì che il problema della riserva dei poteri di controllo neppure si pone posto che sono proprio i poteri originari correlati alla posizione di datore di lavoro che non possono essere unilateralmente o convenzionalmente rinunziati".

Sempre con riferimento anche alla situazione di fratto, questa Corte ha ritenuto sussistente l'obbligo di controllo a carico del L. e la non operatività del principio dell'affidamento, alla luce della inderogabilità delle sue posizioni di garanzia, di natura pubblicistica, volta a tutelare beni fondamentali quali la vita e la salute delle persone.

In conclusione è la stessa Corte di Cassazione che esclude la necessità di nuove indagini nel merito sul principio di affidamento, su cui erroneamente si era fondata la sentenza assolutoria del L. della Corte di Appello di Milano, sentenza annullata.

Conclude la Corte, con riferimento ai dati di fatto e non solo in via di principio, nel modo che segue: "orbene considerando la non derogabilità delle posizioni di garanzia da cui discende che l'obbligo di L. di operare per la tutela della sicurezza non è mai venuto meno e, comunque, la persistenza di un obbligo di sorveglianza e controllo sull'esatto adempimento degli obblighi di sicurezza da parte del coobbligato e, altresì, l'accertata, (da parte di entrambe le sentenze di merito) macroscopicità della violazione dei comuni obblighi relativi alla sicurezza da parte del coobbligato appare come logica conseguenza quella di ritenere impropriamente richiamato, e comunque privo di rilievo ai fini penali per quanto si è detto in precedenza, ai fini dell'esonero della responsabilità di L., il principio di affidamento".

Tutto ciò è conforme all'orientamento giurisprudenziale ripetuto di questa Corte.

Il giudizio di rinvio dopo l'annullamento, ai sensi dell'art. 627 c.p.p. (con riferimento anche all'art. 624 c.p.p. sulla formazione progressiva del giudicato) è sottoposto ad una serie rigorosa di limiti per una esigenza logica, prima che giuridica, onde evitare incoerenze del procedimento, per sua natura unitario, assicurare l'economia processuale ed impedire la perpetuazione dei giudizi (Corte Costituzionale Sentenza 224/96; 294/95; 501/2000). Si consideri che la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione, vertice di ogni autorità giudiziaria (le cui decisioni sono inoppugnabili proprio per la sua collocazione organica) vincola in sede di rinvio tanto per le questioni di diritto ex art. 627, 3 comma c.p.p., quanto per ogni altro punto con essa deciso, espressamente o implicitamente, concernente l'accertamento del fatto (Cass. Sez. 6^, n. 11 387 del 10-11-1994, rv. 199376; Sez. 1^, n. 4882 del 15-5-1996, rv. 204436).

E' bensì vero che nel corso del giudizio di rinvio a seguito di annullamento da parte della Corte di Cassazione, il giudice, atteso l'obbligo di attenersi alle indicazioni della Corte regolatrice conserva tutti i poteri del giudice che aveva emesso la sentenza impugnata, ma ove la Cassazione abbia condiviso in fatto e diritto (come nel caso in esame) la sentenza di condanna nel giudizio di primo grado, la Corte di Appello in sede di rinvio non è tenuta a procedere ad un nuovo esame dei fatti, essendo sufficiente sul punto richiamare quanto già accertato dal primo giudice di merito, perchè già conforme ai principi fissati dalla Corte di Cassazione.

In questa logica si spiega perchè in sede di giudizio di rinvio non possono essere più sollevate questioni di nullità e neppure questioni di legittimità costituzionale, divenute comunque irrilevanti, perchè il giudice di rinvio è tenuto ad applicare soltanto il principio di diritto enunciato dalla Cassazione.

L'eventuale annullamento della norma denunciata non sarebbe comunque in grado di produrre effetti nel giudizio a quo, non potendosi in esso porre in discussione un punto della sentenza in ordine al quale si è formato il giudicato, (vedi Cass. Sez. 6^, n. 1992, del 3-3- 1993, rv. 193268 e Corte Costit. n. 30/90; n. 11/81; n. 138/77).

Con il primo motivo (lettera a) si censura la sentenza impugnata per avere addebitato la colpa al L. nella omessa valutazione del rischio. La censura è infondata. Non bisogna confondere la valutazione del rischio dallo specifico documento che lo formalizza.

In verità si ricava dalla sentenza della Corte di Cassazione che il "documento" di valutazione del rischio fu formalmente redatto dall'Ing. Br. (vedi pag. 8), persona del tutto inadeguata professionalmente e che esso era macroscopicamente inconsistente proprio per la mancata previsione dello specifico e più grave rischio delle camere iperbariche (cioè l'incendio).
La responsabilità per la mancata previsione del rischio (concetto ben distinto dal documento) e l'omessa adozione delle misure tecniche preventive è stata ritenuta gravare su entrambi gli imputati (L. e U. quali datori di lavoro) dalla sentenza di condanna di primo grado, avallata sul punto della Corte di Cassazione: in questo contesto la intestazione e sottoscrizione del documento del rischio è da ritenere assorbita dalla ritenuta responsabilità di entrambi gli imputati perchè - a prescindere dal documento del tutto inconsistente - il rischio come tale non fu valutato e preso in considerazione.
Il punto 12 della sentenza impugnata nel quale impropriamente si parla di sottoscrizione del documento da parte del L., va letto con riferimento ai punti 10 e 11 che precedono, in cui correttamente si parla di "inesistente valutazione del rischio", di "redazione negligente del documento", di "non delegabilità" dell'assunzione del rischio da parte del L., di "macroscopica insufficienza".

Con il secondo motivo (lettera b) si deduce in modo generico carenza di motivazione sul contenuto dei doveri di vigilanza e controllo spettanti al L..

Trattasi di motivo del tutto infondato, perchè la colpa dell'imputato fu accertata dalla sentenza di primo grado, con ampia motivazione, condivisa anche in fatto dalla Corte di Cassazione.

Peraltro anche il giudice di rinvio, dopo aver riassunto i principi posti dalla Cassazione (vedi pag. 10 e 11), vi si uniforma in modo puntuale e dettagliato (pag. 13 - 14 e 15), ponendo in luce la condivisione di "ogni questione" decisa dalla Corte, tra cui la ricostruzione pacifica dell'evento, la prevedibilità di esso, la comune (con l'U.) qualifica di datore di lavoro e amministratore delegato, la non delegabilità e negoziabilità della posizione di garanzia, la conseguente non operatività del principio di affidamento (nei confronti dell'U., per cui valgono a contrario tutte le prove ed inadempienze a questo attribuite come riferibili anche al L. in tema di inesistente valutazione in concreto del rischio, mancata adozione di tutte le misure strutturali di prevenzione e protezione idonee al verificarsi di un incendio gravissimo ed assurdo, per violazione macroscopica dei principi base di prevenzione e protezione).

Con il terzo motivo (lettera e del ricorso) si ripropone la questione relativa all'errore scusabile, escluso con congrua motivazione in punto di fatto e come tale incensurabile in Cassazione.
Sul punto la sentenza impugnata ha tenuto conto del ruolo del L. (quale azionista di maggioranza e Presidente del Consiglio di Amministrazione), dei suoi poteri anche di straordinaria amministrazione e della intensità del grado di negligenza nell'esercizio dei propri doveri in tema di sicurezza.

Trattasi di criteri che richiamano quella più rigorosa giurisprudenza sui doveri di chi esercita professionalmente determinate attività professionali, suscettibili di cagionare danni alle persone.

L'orientamento giurisprudenziale in una determinata materia e le sue incertezze non possono da sole abilitare ad invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile della legge penale (Cass. Sez. 6^, n. 6175 del 27-5-1995, rv. 201518).

Con il quarto e quinto motivo (punto d ed e) del ricorso L. si ripropongono le questioni già superate sulla pretesa impossibilità di spiegare in termini scientifici l'incidente e sulla rilevanza o meno della normativa tecnica: trattasi di censure astratte, avulse dal contesto logico e giuridico delle sentenze della Cassazione e del giudice di rinvio, le quali hanno spiegato adeguatamente sia che l'evento era prevedibile ed evitabile, sia che era imputabile ad entrambi gli imputati (L. e U.) per la loro uguale posizione giuridica di garanzia e per l'inottemperanza autonomamente imputabile a ciascuno di essi delle norme vigenti in materia di sicurezza (tra cui il D.LG.VO 626/94).

Sulle altre censure (relative al punto f ed alla questione di legittimità costituzionale) si richiama quanto in precedenza esposto.

In ordine alla misura della pena (punti g ed h del ricorso L.) esiste nella sentenza impugnata congrua motivazione, che ha portato ad una riduzione di essa rispetto a quella comminata in primo grado.

Si è tenuto conto di alcuni criteri logici, come la riduzione proporzionale della pena base e di quella della continuazione, nonchè di quelle circostanze valutate già positivamente in primo grado, oltre che dell'avvenuto risarcimento del danno.
Trattasi di valutazione complessiva, ma chiara perchè rapportabile a quella di primo grado e che implicitamente ha tenuto conto della esclusione di qualche addebito marginale di colpa.
Circa il ricorso del L. presentato dall'altro difensore, avv. G. La Greca, senza ripetere quanto detto sulla non scusabilità dell'errore, si osserva che la ritenuta sussistenza della cooperazione colposa del L. e dell'U. nel determinare l'evento non ha violato alcun principio giuridico.
Con una valutazione di fatto incensurabile in Cassazione il Tribunale di Milano aveva già ritenuto sussistente la cooperazione colposa del L., per una serie di ragioni espressamente enunciate nel capo di imputazione, quali "contenuto" della colpa (la omessa valutazione del rischio antincendio; l'omessa adozione di misure tecnologiche preventive concretamente attuabili; individuazione di un responsabile della sicurezza inadeguato; carenza di sistemi adeguati di controllo interno e prevenzione).
Il ricorrente, partendo dall'erroneo presupposto di una sorta di accordo interno tra L. e U., sostiene in pratica che nessun rimprovero di colpa poteva attribuirsi al L. in quanto non era assolutamente prevedibile il comportamento sprovveduto dell'U. nella nomina di un responsabile esterno per la sicurezza insufficiente.

Si osserva che per la cooperazione colposa non è necessario un preventivo accordo tra i soggetti (Cass. Sez. 4^, n. 100 del 5-1-1996 n. 203525), nè una convergenza di consensi nella causazione dell'evento non voluto che ne deriva (Cass. Sez. 6^, n. 6702 del 4-6- 1976, rv. 135768), mentre è sufficiente anche un comportamento omissivo Cass. Sez. 4^, n. 5748 del 20-6-84 r.v. 164894).

Nel caso in esame il comportamento del L. è stato ritenuto in concreto colposo per l'accertata macroscopicità delle violazioni dei comuni obblighi con il coobbligato U..

In pratica si è ritenuto che ben doveva il L. occuparsi della sicurezza per il suo ruolo in una materia di tale grande rilevanza (come quella del possibile incendio) senza poter fare affidamento sull'altro datore di lavoro, trattandosi di reciproci obblighi primari e non delegabili.

Peraltro la valutazione del rischio e la sua prevenzione rientrava nei suoi obblighi diretti, come statuito dalla sentenza della Cassazione di annullamento con rinvio.

Anche il ricorso del B. che esula dal punto di rinvio, non merita accoglimento, sia perchè esiste congrua motivazione sul suo concorso di colpa, sia perchè la rideterminazione della pena è avvenuta secondo corretti criteri giuridici secondo l'art. 133 Cod. pen. (riduzione della pena da quattro a tre anni con proporzionale riduzione della pena base e di quella per la continuazione;

valutazione del ruolo avuto in sè ed in via comparativa nel cagionare l'evento; collaborazione nel risarcimento a favore delle parti civili).

Non ha senso, invece, proporre una riduzione per un patteggiamento al quale il P.M. non aveva aderito.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta i ricorsi di L.A. e B.A., che condanna al pagamento in solido delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 16 aprile 2005.