Cassazione Civile, Sez. Lav., 31 agosto 2023, n. 25479 - Domanda di risarcimento per il lavaggio della divisa e compenso per il tempo-tuta


 

Presidente: DORONZO ADRIANA
Relatore: CASO FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI
Data pubblicazione: 31/08/2023
 

 

Fatto



1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Messina - a seguito dell’appello che gli attuali ricorrenti per cassazione ed altri lavoratori avevano proposto contro la sentenza del Tribunale della medesima sede che aveva rigettato le loro domande (volte al conseguimento di un compenso di natura retributiva in relazione al tempo impiegato per la vestizione e la dismissione della divisa giornaliera, cui erano obbligatoriamente tenuti; al conseguimento del risarcimento del danno conseguente alle spese affrontate per mantenere le divise in stato di perfetta efficienza, e alla condanna di Trenitalia alla rimodulazione dei tempi dei turni lavorativi, includendo in ciascun turno il tempo necessario a mettere e a levare la divisa) -, ha confermato la sentenza di primo grado, condannando i lavoratori appellanti al pagamento delle spese di secondo grado e dando atto che essi erano tenuti al c.d. raddoppio del contributo unificato.
2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale – premettendo che non formava oggetto di censura il rigetto dell’ultima domanda proposta in primo grado (circa la rimodulazione dei tempi dei turni lavorativi) – considerate le specifiche previsioni di CCNL applicabili, in tema di divisa e degli oggetti di vestiario, e quelle dell’apposito “regolamento divise” valevole per il Gruppo FF.SS., giungeva alla conclusione che non poteva ritenersi che il tempo di vestizione/svestizione fosse conformato dal datore di lavoro, ossia, eterodiretto, per il sol fatto di essere stati predisposti appositi spogliatoi nella stazione ferroviaria, non soccorrendo a tal fine neppure la disposizione contrattuale, che si prestava a interpretazioni differenti. Secondo la Corte, infatti, solo la prova testimoniale, ammessa ed espletata in secondo grado, era risultata idonea ad escludere l’obbligo di utilizzo dello spogliatoio da parte dei dipendenti, essendo tollerato dalla società che questi ultimi si presentassero in servizio già in divisa. Riteneva, conseguentemente, di dover confermare la sentenza di primo grado seppure con diversa motivazione.
3. Avverso tale decisione Omissis hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
4. Ha resistito la società intimata con controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.



 

Diritto


1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza e/o del procedimento ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. in relazione alla norma di cui all’art. 112 c.p.c., in quanto la sentenza della Corte d’Appello di Messina ha omesso di pronunciare sulla domanda dei ricorrenti diretta ad ottenere il risarcimento del danno subito a causa di mancato lavaggio e stiratura della divisa da parte di Trenitalia S.p.a. negli anni dal 2005 al 2016, già proposta con il ricorso ex art. 414 c.p.c. e riproposta nel ricorso per appello ex art. 433 c.p.c.
2. Con il secondo motivo denunciano violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in relazione alle norme di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché alle norme di cui all’art. 1, comma 2, lett. a) del D.lgs. n. 66/2003 e all’art. 2, n. 1 della Direttiva n. 2003/88/CE oltre che alle norme di cui all’art. 45 del CCNL delle Attività Ferroviarie del 16/04/2003 e all’art. 50 del CCNL delle Attività Ferroviarie del 20/07/2012 ed alle norme di cui alla Disposizione di Gruppo n. 133/DCRUO del 15/04/2010, alla Disposizione di Gruppo n. 139/DCRUO del 14/02/2011, alla Disposizione di Gruppo n. 171/DCRUO del 18/02/2014 e alla Disposizione di Gruppo n. 194/AD del 28/04/2015 di Trenitalia s.p.a., in quanto la sentenza della Corte d’appello, in violazione delle regole di ermeneutica negoziale, ha erroneamente interpretato la normativa collettiva e regolamentare nel senso che i dipendenti di Trenitalia s.p.a. non hanno l’obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro.
3. Con il terzo motivo denunciano la nullità della sentenza e/o del procedimento ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. in relazione alla norma di cui all’art. 112 c.p.c., nonché di cui all’art. 132, comma 2, n. 4, e art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., oltre che dell’art. 111, comma 6, Cost. in quanto la sentenza della Corte d’appello ha omesso di motivare sulla ritenuta incertezza interpretativa sull’obbligo dei ricorrenti di indossare la divisa in casa e sulla questione che la stessa divisa, per le sue specifiche caratteristiche tecniche, non è idonea ad un uso extra-lavorativo secondo criteri di normalità sociale dell’abbigliamento, già proposta con il ricorso ex art. 414 c.p.c. e riproposta nel ricorso per appello ex art. 433 c.p.c.
4. Con il quarto motivo denunciano la nullità della sentenza e/o del procedimento ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. in relazione alle norme di cui all’art. 115, comma 1, 101, comma 2, e 112 c.p.c. nonché di cui all’art. 2697 c.c. e 2729 c.c., in quanto la sentenza della Corte d’appello ha disposto una prova testimoniale per accertare l’esistenza di una prassi aziendale di tolleranza mai allegata dalle parti nel processo ed estranea al tema di indagine e ha affermato l’esistenza della medesima prassi aziendale di tolleranza secondo cui i ricorrenti hanno la facoltà di indossare la divisa a casa in base a una presunzione semplice tratta a sua volta da un’altra presunzione in violazione del divieto di presumptio de presumpto.
5. Con il quinto motivo denunciano omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in relazione alle norme di cui agli artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., all’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c. e all’art. 111, comma 6, Cost., oltre che dell’art. 45 del CCNL delle Attività Ferroviarie del 16/04/2003, dell’art. 50 del CCNL delle Attività Ferroviarie del 20/07/2012, della Disposizione di Gruppo n. 133/DCRUO del 15/4/2010, della Disposizione di Gruppo n. 139/DCRUO del 14/02/2011, della Disposizione di Gruppo n. 171/DCRUO del 18/02/2014 e della Disposizione di Gruppo n. 194/AD del 28/04/2015 di Trenitalia s.p.a., in quanto la sentenza della Corte d’appello, con una motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile, ha ritenuto l’incertezza della normativa collettiva in ordine al luogo in cui i ricorrenti devono indossare la divisa e ha affermato l’esistenza di una presunta prassi aziendale di tolleranza di Trenitalia in ordine alla possibilità di indossare la divisa a casa mai allegata dalle parti nel processo ed estranea al tema di indagine del giudice.
5. Il primo motivo è fondato.

5.1. Esso anzitutto risponde senz’altro ai requisiti di specificità/autosufficienza del ricorso per cassazione, in quanto, come ben risulta dallo svolgimento di tale censura, i ricorrenti hanno, oltre che prodotto tutti i relativi atti, riportato e trascritto i passi dell’atto introduttivo del giudizio e del ricorso in appello, espressivi di una loro domanda
– quella volta ad ottenere il risarcimento del danno per mancato lavaggio e stiratura della divisa da parte di Trenitalia – indubbiamente distinta ed autonoma per causa petendi e petitum rispetto all’altra, relativa alla maggior retribuzione rivendicata per i tempi di vestizione e svestizione della stessa divisa.
Più in particolare, i ricorrenti hanno riferito testualmente l’ampio motivo d’appello con le relative conclusioni (cfr. pagg. 19-26 del ricorso per cassazione), formulato contro il capo di sentenza del Tribunale che aveva, con precipua motivazione (cfr. pagg. 16-19 del ricorso per cassazione), respinto (anche) tale domanda.
E tale apposita censura era indubbiamente specifica, contenendo una argomentata critica a quanto ritenuto in proposito dal primo giudice.
5.2. Ebbene, la Corte territoriale, pur avendo dato conto di tale domanda degli attori formulata in prime cure, ha poi solo accennato che: “In relazione alla domanda risarcitoria ribadivano la configurabilità del proprio diritto a rimanere indenni dalle spese sostenute per il lavaggio e la stiratura degli indumenti anche nell’ipotesi in cui questi ultimi non fossero stati qualificati come D.P.I.” (cfr. facciata 2 della sua sentenza).

La stessa Corte, però, non si è assolutamente pronunciata, neanche per implicito, sull’apposito motivo d’appello che i lavoratori avevano formulato per censurare la decisione di prime cure in relazione al rigetto della domanda in questione.
5.3. Del resto, anche la controricorrente ammette che la Corte d’appello non si è pronunciata “espressamente sulla domanda risarcitoria” in questione, ma sostiene in sintesi che, siccome la Corte d’appello avrebbe escluso che la divisa aziendale avesse natura di D.P.I. (dispositivo di protezione individuale), detta domanda sarebbe “stata implicitamente rigettata” (cfr. pagg. 14-15 del controricorso).
Tale replica è, però, priva di fondamento.

In disparte il rilievo che in nessun punto della sua decisione la Corte distrettuale ha esplicitato di ritenere che la divisa aziendale non sia un dispositivo di protezione individuale, proprio la Corte stessa, nel breve cenno sopra riferito, aveva dato conto che gli appellanti avevano riproposto la pretesa risarcitoria anche rispetto all’ipotesi che “la divisa aziendale non costituisse un dispositivo di protezione individuale”, come in effetti è (cfr. pagg. 23-25 del ricorso per cassazione, in cui è riportata la parte relativa del motivo d’appello anche in questa chiave subordinata).
Pertanto, la Corte di merito, in presenza di motivo specifico a riguardo, era senz’altro tenuta ad esprimersi sullo stesso, il che non è avvenuto con conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c. e nullità della sua decisione in parte qua.
6. E’ invece infondato il secondo motivo di ricorso.

6.1. Giova premettere che è da tempo consolidato in termini generali l’indirizzo di questa Corte, secondo il quale rientra nell’orario di lavoro il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione o svestizione della divisa aziendale, quando luogo e tempo dell’operazione sono imposti dal datore di lavoro (cfr., ad es., Cass. civ., sez. lav., 22.7.2008, 20179).
E, nell’ambito di tale risalente orientamento, è stato specificato più volte che, al fine di valutare se il tempo occorrente per le operazioni di vestizione o svestizione, debba essere retribuito o meno occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica distinguendo l’ipotesi in cui tale operazione, con riguardo al tempo ed al luogo, sia soggetta al potere di conformazione del datore di lavoro dall’ipotesi in cui, per l’assenza di eterodirezione, le operazioni di vestizione e svestizione si configurino come atti di diligenza preparatoria all’esecuzione della prestazione e, come tali, non sono retribuiti; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento (così, tra le altre, Cass. civ., sez. lav., 25.2.2019, n. 5437; e in termini id., sez. lav., 28.3.2018, n. 7738; id., sez. lav., 8.9.2006, n. 19273).
La Corte d’appello, nella sua decisione (cfr. facciate 3-4 e 6-7), ha tenuto conto di tale indirizzo di legittimità.
6.2. Nel caso di specie concorrevano nel disciplinare l’aspetto in questione sia specifiche previsioni della contrattazione collettiva nazionale sia altrettanto precipue disposizioni della disciplina d’impresa, per giunta, più volte reiterate e rimaste praticamente immutate in un senz’altro considerevole lasso di tempo.
E tale quadro la Corte territoriale ha invero considerato, e in termini condivisibili.

6.3. Più nello specifico, vengono in considerazione anzitutto le specifiche disposizioni di cui all’art. 45 del CCNL delle Attività ferroviarie del 16.4.2003, che, sotto la rubrica “Divisa”, recita: “1. L’azienda provvede a dotare i dipendenti, in relazione alle specifiche attività lavorative, della divisa e degli oggetti di vestiario. 2. E’ fatto obbligo al dipendente di indossare sia la divisa prescritta che gli oggetti di vestiario. A tal fine le aziende predisporranno idonei supporti logistici. 3. A livello aziendale verranno esaminati congiuntamente tra le parti la qualità, la quantità e la tipologia della dotazione di vestiario al fine di verificarne l’idoneità e l’adeguatezza. 4. Il mancato utilizzo o l’uso non regolare della divisa e degli oggetti di vestiario potrà essere oggetto di azione disciplinare, come previsto alla lettera c) dell’art. 51 (Doveri del personale) del presente CCNL”.
Ebbene, com’è agevole constatare, gli artt. 50 del CCNL del 20.7.2012 e 36 del CCNL del 16.12.2016, allo stesso modo rubricati, erano del tutto identici, salvo il comma 4 di entrambi i contratti collettivi successivi fare rinvio alla lett. c) dell’art. 56 (sempre in tema di “Doveri del personale”) invece che all’art. 51 del CCNL del 2003.
6.4. Inoltre, la Disposizione di Gruppo n. 133/DCRUO del 15.4.2010, contenente il “Regolamento Divise per il personale a contatto con la clientela”, per quanto qui interessa, aveva disposto nella Parte Prima – Disposizioni generali all’art. 1 che: “La divisa è un elemento di fondamentale importanza che può determinare il giudizio della clientela nei confronti della Società. E’ un elemento che qualifica e valorizza tanto il personale che l’Azienda. La fornitura, quindi, riguarda il personale che, nell’esercizio di mansioni proprie della figura professionale rivestita, è a costante contatto con la clientela. Il personale di vendita e assistenza, di macchina e di bordo, delle stazioni, addetti alle reception, all’attività di vigilanza e il personale con altre funzioni devono indossare la divisa in modo inappuntabile ed in conformità alle norme aziendali di seguito riportate … Con specifico riferimento al personale di protezione aziendale, deve essere indossata la divisa in modo inappuntabile ed in conformità alle specifiche norme aziendali di seguito riportate, tenuto conto della peculiarità dell’attività svolta … a tutto il personale che indossi la divisa prescritta o gli elementi di vestiario suddetti è fatto obbligo di curare la propria persona a tutela dell’immagine del Gruppo. Il personale è responsabile della cura della propria divisa ed elementi di vestiario che vanno tenuti sempre puliti ed in ordine. La divisa e gli elementi di vestiario vanno indossati correttamente e non devono essere indossati in occasioni diverse dal lavoro. … Il mancato utilizzo o l’uso della divisa/elementi di vestiario in maniera non conforme alle disposizioni del presente regolamento, potranno essere oggetto di azione disciplinare, come previsto dagli specifici CCNL operanti nelle varie società del Gruppo”.
Anche in questo caso tali disposizioni datoriali per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro ex art. 2104, comma secondo, c.c. (disposizioni che utilizzano peraltro una terminologia corrispondente a quella della contrattazione collettiva), furono sostanzialmente riprodotte nei successivi “regolamenti divise” del 2011, del 2014 e del 2015.
6.5. Osserva in via preliminare il Collegio che già dalle disposizioni apposite, sempre identiche, dei CCNL, benché non vi fosse esplicitato espressamente che l’obbligo del dipendente di indossare sia la divisa prescritta che gli oggetti di vestiario insorgeva in concomitanza con la durata della prestazione lavorativa, tanto nondimeno si desumeva chiaramente in base a un’interpretazione complessiva e coordinata dei vari commi dell’apposita norma degli stessi CCNL ex art. 1363 c.c.
A prescindere, infatti, dal rilievo che le parti non nutrono dubbi in proposito (ed anche la Corte d’appello a riguardo ha parlato di “divisa di servizio”), il comma 1 della norma fa riferimento a “specifiche attività lavorative”, e soprattutto il secondo periodo del comma 2 recita: “A tal fine le aziende predisporranno idonei supporti logistici”.
Orbene, quest’ultima specificazione finalistica, collocata nel medesimo comma che sancisce l’obbligo per il dipendente di indossare la divisa e gli oggetti di vestiario e subito dopo la relativa previsione, non può che significare ovviamente che per tali capi di vestiario appositi, all’obbligo datoriale di dotarne i dipendenti (stabilito al comma 1), si aggiungeva quello di predisporre “idonei supporti logistici” per far sì che i dipendenti ivi potessero indossare “sia la divisa che gli oggetti di vestiario”. La norma collettiva nazionale, sempre reiterata, non utilizza il termine “spogliatoio”, e però la latitudine logico-lessicale della locuzione adottata (“idonei supporti logistici”) non solo ben può comprendere anzitutto comuni spogliatoi, intesi come stanze o locali appositamente adibiti al cambio di indumenti, ma può riferirsi anche a soluzioni differenti, quali, in ipotesi, spazi appositi, purché idonei, degli stessi treni, nel caso del personale viaggiante.
D’altronde, la Corte d’appello aveva osservato che l’esistenza di locali adibiti a spogliatoio “non è smentita dalla società, la quale tuttavia si è limitata a sostenere l’assenza di qualsivoglia obbligo dei dipendenti di far uso di detti locali al fine di indossare la divisa prima del turno e, di converso, di levarla a fine turno”.
Nota il Collegio che, sul punto specifico, la società odierna controricorrente aveva fatto qualcosa di più, nel senso che aveva chiesto di provare “che Trenitalia S.p.a. ha a disposizione locali adibiti a spogliatoio sia a Messina Centrale che a Messina Deposito Locomotive”, così già a livello di allegazione confermando che nel caso specifico la datrice di lavoro aveva adempiuto al suo obbligo di predisporre “idonei supporti logistici” per dar modo ai dipendenti di a loro volta assolvere all’obbligo di indossare la divisa e gli oggetti di vestiario sul luogo di lavoro.

7. Tornando, comunque, all’interpretazione in senso stretto dell’apposita norma collettiva, sempre ribadita, e delle concorrenti disposizioni datoriali, in buona parte coeve ai vari CCNL, ogni residuo dubbio sull’assetto raggiunto in subjecta materia, quanto meno dal 2010, è eliminato dal contenuto sopra riportato nelle parti salienti dei c.d. Regolamenti divise, a partire da quello appunto del 15.4.2010.

In particolare, in tali disposizioni - le cui finalità anche e soprattutto, in sintesi, di “tutela dell’immagine del Gruppo”, sono esplicitate con estrema chiarezza -, è stabilito, tra l’altro, un espresso divieto di indossare la divisa e gli elementi di vestiario “in occasioni diverse dal lavoro”, e, correlativamente, in via di specificazione di quanto già profilato in termini più generali dal comma 4 dell’apposita norma collettiva, vi è detto che: “Il mancato utilizzo o l’uso della divisa/elementi di vestiario in maniera non conforme alle disposizioni del presente regolamento potranno essere oggetto di azione disciplinare come previsto dagli specifici CCNL operanti nelle varie società del Gruppo”.
7.1. La Corte distrettuale si è, poi, soffermata sulla tesi esegetica, sostenuta da Trenitalia, secondo la quale <il percorso casa lavoro e viceversa debba interpretarsi senz’altro inerente al lavoro (e dunque non sussisterebbe alcun obbligo di indossare la divisa sul posto di lavoro) ritenendo che l’espressione “le occasioni diverse dal lavoro” sia assimilabile alla seguente “al di fuori da ragioni connesse con il servizio” e richiama, in proposito, i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di infortunio in itinere in cui la copertura assicurativa si estende agli eventi occorsi al lavoratore al di fuori dell’espletamento delle proprie mansioni durante lo specifico orario di lavoro, nel tragitto da e per la propria abitazione per recarsi o tornare dal luogo di lavoro>.
E la stessa Corte ha giudicato tale tesi “suggestiva”, ma ha ritenuto che essa “lascia tuttavia dubbi sulla possibilità di considerare occasione di lavoro il tempo/spazio trascorso presso l’abitazione privata da ciascun dipendente nel tempo della vestizione preventiva e della svestizione successiva, trattandosi di valutazione che riguarda esclusivamente la copertura assicurativa Inail”.

Ha, tuttavia, considerato “non può neppure trascurarsi il fatto che il percorso dall’abitazione al luogo di lavoro possa essere stato considerato, nelle disposizioni contrattuali, quale tempo immediatamente connesso all’attività lavorativa, sicché residuano perplessità interpretative”.
7.2. Le residuali perplessità interpretative, così nutrite dai giudici di secondo grado, si pongono, anzitutto, sul piano della lettera sia della norma collettiva in tema di “Divisa” (che, come più volte evidenziato, è rimasta sempre la stessa nel suo contenuto) sia delle disposizioni datoriali a riguardo (come pure già notato, impartite ex art. 2104, comma secondo, c.c.).
Se è vero che tutte tali regole non fanno cenno alla casa, all’abitazione o anche alla dimora del lavoratore e, men che meno, al tragitto casa-luogo di lavoro e viceversa, è anche vero che le stesse non impongono al lavoratore di indossare la divisa e gli altri oggetti di vestiario sul luogo di lavoro prima dell’inizio della prestazione, e, segnatamente, in uno degli “idonei supporti logistici”; così come non impongono di svestire tali indumenti alla fine della prestazione negli stessi spazi.
7.3. La locuzione “in occasione di lavoro”, presente nel comma primo dell’art. 2 d.P.R. n. 1124/1965, a proposito dell’infortunio sul lavoro, a prescindere dalla sua interpretazione nel precipuo ambito assicurativo, esprime comunque un concetto in positivo.
Invece, la specifica previsione dei Regolamenti divise, secondo la quale “La divisa e gli elementi di vestiario … non devono essere indossati in occasioni diverse dal lavoro”, non solo riguarda un aspetto all’evidenza differente dalla cennata tutela assicurativa pubblica, ma sancisce un divieto: tali capi non devono essere indossati al di fuori del contesto lavorativo. E tale divieto, ove non osservato, è anche passibile di sanzione disciplinare, perché pure l’uso di divisa e degli elementi di vestiario in maniera non conforme alle disposizioni dello stesso regolamento apposito può essere oggetto di azione disciplinare.
La ratio di tale divieto, speculare e contrario all’obbligo per i dipendenti invece di indossare divisa e oggetti di vestiario durante il servizio, è del resto ben chiara in base al complesso delle previsioni contrattuali collettive e delle disposizioni datoriali precipue del Gruppo F.S.
I “beni” in questione sono forniti ai dipendenti dall’azienda, che ne rimane proprietaria, ed i dipendenti sono tenuti ad indossarli ed utilizzarli secondo specifiche prescrizioni, sicché essi possono anche rispondere delle spese occorrenti all’anticipato “rinnovo” di tale dotazione.
8. Tuttavia, come già evidenziato, nessuna delle disposizioni collettive o regolamentari apposite imponeva espressamente ai lavoratori di vestire la divisa prima dell’inizio della prestazione e di svestire la stessa al termine del lavoro negli “idonei supporti logistici”.
9. Legittimamente, perciò, la Corte territoriale per dirimere giustificate “perplessità interpretative” ha deciso di dare corso all’ “assunzione di una prova testimoniale non espletata dal giudice di primo grado”. Ciò al più specifico fine di chiarire “se Trenitalia abbia sostanzialmente imposto ai propri dipendenti l’utilizzo degli spogliatoi prima dell’inizio del turno lavorativo ovvero se sia invalsa la prassi di consentire la vestizione presso la propria abitazione”. Invero, per tal modo, la Corte territoriale, una volta assunta e valutata detta prova, si è poi avvalsa del criterio ermeneutico di cui all’art. 1362, comma secondo, c.c., relativo al comportamento complessivo delle parti “anche posteriore alla conclusione del contratto”. E nella specie si trattava di appurare un comportamento anche concomitante a disposizioni collettive e, successivamente, pure datoriali che, come si è visto, sono state praticamente reiterate nei medesimi termini in tutto il lungo periodo di tempo oggetto di causa.
La Corte messinese dalle emergenze di tale prova testimoniale ha, quindi, tratto la conclusione che, “secondo una prassi ormai risalente negli anni”, “nonostante la predisposizione di appositi spogliatoi, la società tolleri che la vestizione e la svestizione avvenga presso l’abitazione, purché siano rispettate le disposizioni che impongono l’utilizzo in servizio e le specifiche modalità d’uso della divisa”, ribadendo che è “tollerato dalla società che questi ultimi si presentino in servizio già in divisa”.

9.1. La conclusione cui è approdata la Corte territoriale è conforme ai precedenti di legittimità relativi a casi che possono essere accostati a quello che ci occupa.
In particolare, a prescindere dalle fattispecie, all’evidenza difformi da quella in esame, nelle quali era stato accertato che la divisa doveva essere necessariamente indossata e tolta, per ragioni di igiene pubblica, presso il luogo di lavoro e non altrove (cfr. Cass. n. 7738/2018 già cit., id. n. 1352/2016), Cass. n. 5437/2019, sopra cit., riguardava caso in cui le operazioni di vestizione e svestizione rientravano nel potere di conformazione della prestazione da parte della società datrice di lavoro, poiché il regolamento interno stabiliva l’obbligo di conservazione degli indumenti di lavoro presso la sede aziendale, all’interno dell’armadietto assegnato a ciascuno lavoratore e, inoltre, dall’utilizzo dell’orologio marcatempo si desumeva che tali operazioni dovevano avvenire prima della timbratura di entrata e dopo quella di uscita; Cass. n. 9306/2022, concerneva fattispecie in cui l’azienda consentiva che l’operazione di vestizione a inizio turno fosse effettuata dopo la timbratura in ingresso e che quella di svestizione a fine turno fosse effettuata subito prima della timbratura all’uscita. In tali casi ultimi casi, perciò, erano stati riscontrati elementi fattuali, non accertati invece nella fattispecie in esame, in forza dei quali tempo e luogo delle operazioni di vestizione e di svestizione potevano reputarsi conformati dal datore di lavoro. Cass. n. 15763/2021, riguardava caso, analogo a quello in esame, in cui la Corte di merito aveva ritenuto non raggiunta la prova dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo gli stessi recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli, ed aveva ritenuto non rilevante che la società avesse offerto servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in merito all’utilizzo dei quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di scelta.
La Corte territoriale si è dunque uniformata ai principi di diritto già elaborati da questa Corte, secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l'abbigliamento di servizio ("tempo-tuta") costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l'attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo (così Cass. n.9215 del 2016 e, con espresso riferimento alla Direttiva comunitaria n. 2003/88/CE, cfr. Cass. n. 1352 del 2016).
In particolare, la Corte d'appello ha valorizzato in motivazione l'esito della verifica svolta in fatto circa l'assenza, nel caso de quo, dell'elemento costitutivo dell'obbligazione rivendicata dai lavoratori, consistente nell'esercizio del potere di eterodirezione datoriale riguardo al tempo, al modo e al luogo della vestizione/svestizione; ha pertanto accertato
- anche alla luce delle disposizioni contrattuali e datoriali che ha correttamente interpretato - che non è stata raggiunta la prova dell'imposizione in capo ai lavoratori dell'obbligo di indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo gli stessi recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli; all'esito dell'accertamento circa la concreta gestione del cd. tempo tuta presso Trenitalia s.p.a. la Corte territoriale ha escluso l'elemento dell'eterodirezione quale potere direttivo e organizzativo equiparabile al tempo di lavoro in cui si traduce la messa a disposizione atta a generare il corrispettivo obbligo di remunerazione; sotto tale profilo la motivazione del provvedimento impugnato si presenta immune da vizi logici ed argomentativi, ed altresì aderente al principio di diritto espresso dalla giurisprudenza di legittimità, né le censure dei ricorrenti si rivelano in alcun modo idonee a censurare, sotto nessuno dei prospettati profili, la decisione della Corte territoriale.
10. Ne consegue l’infondatezza anche del terzo motivo di ricorso, perché, come si è visto nell’esaminare il secondo motivo, la Corte distrettuale ha dato senz’altro adeguatamente conto dei margini di dubbio che residuavano circa l’interpretazione dello specifico quadro delle disposizioni contrattuali e regolamentari che veniva in considerazione, pur complessivamente esaminato. Sicché l’anomalia motivazionale denunciata con tale censura non sussiste.
11. Pure privo di fondamento è il quarto motivo di ricorso.

11.1. E’ sufficiente a riguardo rilevare che la Corte territoriale certamente non ha deciso d’ufficio di dare corso alla prova testimoniale del cui espletamento ora si dolgono i ricorrenti. Al contrario, la stessa Corte, come già notato, “ha disposto l’assunzione della prova testimoniale non espletata dal giudice di primo grado”, specificando in seguito che: “Nel corso del giudizio di appello sono stati sentiti quattro testimoni, due per ciascuna parte” (cfr. in extenso per l’esame delle deposizioni pagg. 8-9 della sua sentenza).
Si trattava, perciò, di prova senz’altro richiesta in prime cure dalle parti, sul cui espletamento “entrambe le parti insistevano” (così alla fine della facciata 2 della stessa sentenza). Inoltre, la relativa decisione istruttoria della Corte di merito è stata adottata in contesto processuale nel quale la società appellata, pur vittoriosa già in primo grado, continuava ad opporre “l’assenza di qualsivoglia obbligo dei dipendenti di far uso” degli appositi “locali al fine di indossare la divisa prima del turno e, di converso, di levarla a fine turno” e in cui, soprattutto, come pure già considerato, le disposizioni in questione lasciavano dubbi interpretativi.
La controricorrente, nel riportare testualmente i capitoli della prova testimoniale che la stessa aveva già richiesto in primo grado, ha fatto notare che aveva chiesto di dimostrare per testi che: “a) Vero o no che la società convenuta non ha mai imposto il luogo, il tempo e le modalità con le quali i lavoratori devono indossare la divisa prima e dopo l’inizio del loro servizio di lavoro; b) Vero o no che la Società convenuta non obbliga, né mai ha obbligato i ricorrenti ad indossare la divisa esclusivamente presso i propri locali; c) Vero o no che la quasi totalità dei dipendenti ivi compresi i ricorrenti, indossano la divisa a casa prima di recarsi al lavoro; d) Vero o no che i lavoratori possono scegliere liberamente dove e quando indossare la divisa e cioè a casa o in Impianto; e) Vero o no che l’unico obbligo gravante sui ricorrenti è quello di prendere servizio con la divisa; f) Vero o no che i lavoratori che optano di indossare la divisa presso i locali di Trenitalia non sono soggetti ad alcun controllo datoriale; g) Vero o no che Trenitalia ha a disposizione locali adibiti a spogliatoio sia a Messina Centrale che a Messina Deposito Locomotive”.
Per tal modo, quindi, la convenuta aveva allegato e chiesto di provare i dati fattuali dai quali desumere il comportamento delle parti posteriore o concomitante alla conclusione dei vari CCNL contenenti le clausole relative alla “Divisa” (e, dal 2010, alle disposizioni regolamentari a riguardo), rilevante ex art. 1362, comma secondo, c.c.

11.2. Pertanto, la Corte d’appello non ha certamente violato il principio di disponibilità delle prove di cui all’art. 115, comma primo, c.p.c., avendo formato il suo convincimento (anche) in base alle prove testimoniali richieste dalle parti. E’ altrettanto evidente che non è sostenibile alcuna violazione del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c.
La stessa Corte, inoltre, non ha sicuramente violato il principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., non avendo illegittimamente invertito tale onere ponendolo a carico di parte diversa da quella tenuta ad assolverlo.
Infine, neppure ha presunto alcunché in base ad altra presunzione, ma ha basato la propria decisione anche su deposizioni testimoniali richieste dalle parti sin dal primo grado.
12. E’, infine, infondato il quinto motivo di ricorso.

12.1. Le ulteriori anomalie motivazionali denunciate dai ricorrenti in tale censura non sussistono, come già posto in luce nell’esaminare il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso. La motivazione dell’impugnata sentenza, quindi, non è affatto perplessa o obiettivamente incomprensibile.
Del resto, i ricorrenti, nello sviluppo dell’ultimo motivo (cfr. pagg. 77-85 del ricorso), criticano piuttosto l’apprezzamento probatorio compiuto dalla Corte di merito e propongono una diversa lettura delle risultanze processuali, il che non è consentito in questa sede di legittimità.
13. In definitiva, sia sul piano processuale che sul piano del diritto sostanziale, appare incensurabile la conclusione raggiunta dalla Corte territoriale, e cioè che, nella specie, non poteva “ritenersi che il tempo di vestizione/svestizione sia conformato dal datore di lavoro, ossia eterodiretto”.
14. Pertanto, in accoglimento solo del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata dev’essere cassata con rinvio alla Corte territoriale che, in differente composizione, oltre a regolare le spese di questo giudizio di cassazione, dovrà esprimersi sulle questioni involte nel motivo d’appello dei lavoratori ricorrenti in questa sede, relativo alla domanda di risarcimento del danno asseritamente subito a causa di mancati lavaggio e stiratura della divisa di ognuno di loro da parte di Trenitalia.
 

P.Q.M.
 


La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigettati gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Messina, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 5.7.2023.