Cassazione Penale, Sez. 6, 14 giugno 2023, n. 25764 - Prescrizione dell'illecito amministrativo ex D.Lgs. 231/01: nessuna incostituzionalità


 

 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente -

Dott. GALLUCCI Enrio - rel. Consigliere -

Dott. PACILLI Giuseppina A.R. - Consigliere -

Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere -

Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

(Omissis) Spa ;

avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 09/06/2022;

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Enrico Gallucci;

sentite le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Giuseppe Riccardi, che ha chiesto che il ricorso venga rigettato;

sentito il difensore di (Omissis) Spa , Avvocato Aldo Meyer, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
 

Fatto


1. La Corte di appello di Milano con sentenza emessa in data 9 giugno 2022, pronunciandosi a seguito di annullamento con rinvio della sentenza di appello, emessa dalla Corte milanese il 28 novembre 2017, disposto da questa Corte, Sez. 2, sent. n. 50710 del 6 novembre 2019, "limitatamente all'omessa motivazione sul capo L.13", ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano in data 20 settembre 2011 con la quale è stata applicata nei confronti di (Omissis) Spa la sanzione pecuniaria di Euro 50.000, oltre alla confisca di 66.666 Euro, in merito ad illecito dipendente da reato ex d.lg. n. 231 del 2001, ferme restando le statuizioni irrevocabili delle sentenze del 24 ottobre 2013 e del 28 novembre 2019 della Corte di appello di Milano.

2. In particolare, il su indicato annullamento con rinvio era stato disposto in quanto "l'illecito amministrativo è stato contestato all'ente in conseguenza della commissione dei reati sub L.13) e 1.16) dell'imputazione, ascritti al legale rappresentante della società A.A.. La Corte di appello, in sede di rinvio, ha motivato esclusivamente sulla sussistenza del reato contestato al capo 1.16) dell'imputazione (pagg. 168-170), omettendo ogni considerazione in ordine all'altro reato presupposto, disattendendo così sul punto la statuizione della Corte di cassazione nella sentenza rescindente" (il riferimento è a Sez. 6, sent. n. 28299 del 10/11/2015 - dep. 2016 che, per profili diversi, aveva già annullato con rinvio la precedente sentenza di appello).

3. Avverso la sentenza di appello la società (Omissis), a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso nel quale deduce due motivi.

3.1. Con il primo motivo si censura l'affermazione di responsabilità dell'ente in relazione all'illecito ex D.Lgs. n. 231 del 2001 rubricato L.13), dipendente dal reato di cui al capo di imputazione R.26) ascritto - anche - al legale rappresentante della (Omissis) (al quale sono stati contestati i reati di cui agli artt. 110, 321, 319 e 319 bis c.p.). Il ricorrente - premesso che dalla commissione dei fatti (luglio 2004) è trascorso un tempo assai lungo, che ha obiettivamente inciso negativamente sul diritto di difesa dell'ente incolpato - eccepisce: a) in primo luogo, che la motivazione della Corte milanese per ritenere la responsabilità di (Omissis) si è basata in gran parte sulle sentenze di applicazione della pena emesse nei confronti dei coimputati dell'amministratore dell'ente (nelle more del procedimento penale deceduto); invero, nonostante l'orientamento della giurisprudenza sul punto, si evidenzia che le sentenze ex art. 444 c.p.p., motivate necessariamente in modo sintetico, anche ai fini di escludere la sussistenza delle cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., non presuppongono una ammissione di colpevolezza dell'imputato nè contengono un accertamento della penale responsabilità dello stesso (e a tal fine non può valere la generica "clausola di equivalenza" di cui all'art. 445 c.p.p.); b) la inidoneità delle deposizioni testimoniali rese dalle persone fisiche sentite ex artt. 197 bis c.p.p. a corroborare - come erroneamente sostenuto dalla Corte di appello milanese - le predette sentenze di applicazione della pena, trattandosi di dichiarazioni irrilevanti o, in taluni casi favorevoli all'ente; c) la contraddittorietà e apparenza della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui si sostiene che (Omissis) non ha contestato il criterio di imputazione all'ente dell'illecito amministrativo relativo al reato ascritto alla persona fisica, dal momento che la motivazione sul punto da parte della sentenza poi annullata dalla cassazione era del tutto assente e, comunque, su tale profilo sono stata formulati specifici rilievi critici in ordine ai quali la Corte milanese non ha fornito risposta; d) l'illogicità della parte della motivazione nella quale si fa - apoditticamente - derivare dalla condanna definitiva dell'ente per il segmento relativo al capo 1.16) la sussistenza dei presupposti per affermarne la responsabilità anche in ordine all'illecito in esame, trattandosi di addebiti che, in relazione ai soggetti coinvolti, alle coordinate temporali e ai diversi elementi oggettivi, risultano del tutto distinti.

3.2. Con il secondo motivo, subordinato, si eccepisce la illegittimità costituzionale della disciplina della prescrizione dell'illecito amministrativo dipendente da reato dettata dall'art. 22 del D.Lgs. n. 231 del 2001. Essa, infatti, totalmente distonica rispetto alla prescrizione penale, delinea un regime che viola plurimi principi costituzionali. In particolare: 1) l'art. 3 Cost., per irragionevole di Spa rità di trattamento dell'ente rispetto alla persona fisica imputata del reato presupposto, atteso che la responsabilità dell'ente deve qualificarsi come avente natura penale; in ogni caso, la soluzione non muterebbe anche riconoscendo alla stessa natura di tertium genus connotato da profili punitivi dal momento che alla luce dei principi della Conv.EDU, come declinati dalla relativa Corte, ad essa dovrebbero comunque applicarsi le garanzie spettanti al soggetto cui viene contestato un illecito rientrante nella "matiere penale"; 2) l'art. 24, per la violazione del diritto di difesa derivante dall'impossibilità di avvalersi del "diritto di difendersi provando" in relazione a fatti che - stante il regime di sostanziale imprescrittibilità dell'illecito - possono essere giudicati, come nel caso di specie, a moltissimi anni di distanza dal loro verificarsi; 3) l'art. 41, per il vulnus del diritto di iniziativa economica privata in ragione della grave compromissione della possibilità dell'ente di continuare a svolgere la propria attività (anche per effetto delle norme limitative dell'accesso alle pubbliche gare nei confronti dell'ente sotto processo); 4) infine, l'art. 111 Cost., per la violazione del giusto processo, nella parte in cui prescrive che esso debba avere una ragionevole durata, impedita in radice dalla imprescrittibilità dell'illecito dipendente da reato; ragionevole durata che, ai sensi dell'art. 6 della Conv.Edu, vale anche nei confronti delle persone giuridiche (profilo, questo, che rileva anche quale violazione dell'art. 117 Cost.). Pertanto, attesa la rilevanza e la non manifesta infondatezza, si chiede alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale in merito alla predetta disciplina normativa.

4. Il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Giuseppe Riccardi, ha concluso chiedendo che il ricorso venga rigettato. Il difensore dell'ente (Omissis), Avv. Meyer, ha insistito per l'accoglimento del ricorso.

 

Diritto


1. Il ricorso è complessivamente infondato.

2. In ordine al primo motivo e in riferimento alla dedotta impossibilità delle sentenze di "patteggiamento" a rappresentare "le sentenze irrevocabili" di cui all'art. 238 bis c.p.p., la censura proposta non può essere condivisa.

2.1. In primo luogo, tale conclusione - accolta dalla pacifica giurisprudenza di questa Corte: da ultimo, v. Sez. 5, n. 7723 del 12/11/2014 - dep. 2015, Mazzola, Rv. 264058; conf. Sez. 5, n. 12344 del 05/12/2017 - dep. 2018, Nicho Ca Sas , Rv. 272665 - deriva dalla equiparazione espressa alla sentenza di condanna, contenuta nell'art. 445 c.p.p. Nè su tale profilo normativo ha inciso la recente modifica apportata all'art. 445 cit. dal D.Lgs. n. 150 del 2022 che ha ivi introdotto il comma 1 bis secondo il quale "se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di legge, diverse da quella penale, che equiparano la sentenza prevista dall'art. 444 comma 2 c.p.p. alla sentenza di condanna"; in riferimento alla valenza penale di dette pronunce, e in specie ai fini all'art. 238 bis c.p.p., nulla è dunque cambiato.

2.2. Inoltre, la sentenza di "patteggiamento" integra un accertamento penale, seppur fondato sugli atti delle indagini preliminari le cui risultanze non vengono contestate dall'imputato; e proprio per tale ragione la sentenza di patteggiamento deve considerarsi compatibile con i principi della Costituzione (si veda sul punto, Corte Cost., sent. n. 155 del 1996 che ha rilevato come la sentenza ex art. 444 c.p.p. presupponga pur sempre la "responsabilità" dell'imputato; Corte Cost., sent. n. 336 del 2009 che ha evidenziato che alla rinuncia a contestare "il fatto" e la propria "responsabilità" consegue coerentemente che su quel "fatto", e sulla relativa attribuibilità, si formi il giudicato penale).

Pertanto, correttamente la sentenza impugnata ha fondato la sua decisione anche sulle sentenze di applicazione della pena nei confronti dei coimputati del legale rappresentante della (Omissis), deceduto nelle more del procedimento penale.

3. Infondata è anche la deduzione difensiva secondo cui mancherebbero i riscontri - richiesti dall'art. 238-bis c.p.p. per corroborare quanto accertato in sentenza penale irrevocabile - rispetto ai fatti oggetto delle sentenze di "patteggiamento". Invero, la Corte di appello ha dapprima richiamato le deposizioni testimoniali confermative di un generico schema corruttivo, non specificatamente riferibile al singolo episodio riguardante la (Omissis), ma poi ha - con motivazione non illogica - valorizzato precisi elementi individualizzanti, specificamente riferiti all'illecito contestato all'ente, come si desume dalle richiamate dichiarazioni di B.B. e A.H. (pag. 14), D.D. (p.15), nonchè dalle risultanze documentali coerenti con lo schema riferito che attestano i rapporti tra (Omissis) e la società di consulenza di B.B.. La stessa sentenza dà poi logico conto del ruolo di A.A. (autonomamente evincibile da ulteriori congrue indicazioni contenute in sentenza), dando altresì spiegazione del fatto che questi non avesse rapporti diretti con D.D. (pag. 16 e 17); elementi dai quali emerge la prova della condotta corruttiva posta in essere dal legale rappresentante dell'ente attraverso la dazione di somme di denaro - costituenti il 3% del valore della commessa - a favore di D.D., Project Manager di (Omissis) Spa Viene infine chiarito, con motivazione adeguata, come - una volta accertati i presupposti del reato ascrivibile alla figura apicale - A.A., appunto - vi siano gli elementi per il riconoscimento della responsabilità dell'ente ex D.Lgs. n. 231 del 2001 (pag. 16 ss).

3.1. Per il resto il ricorso evidenzia profili di fatto, non proponibili in questa sede. Invero, è principio pacifico che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 - dep. 2021, F., Rv. 280601).

4. In ordine al secondo motivo, relativo alla dedotta illegittimità costituzionale della disciplina della prescrizione dell'illecito dipendente da reato, non può che rilevarsi che questa Corte ha, con argomentazioni che il Collegio condivide pienamente, già dichiarato "manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22 D.Lgs. n. 231 del 2001, per asserito contrasto con gli artt. 3, 24, comma 2, e 111 Cost., in relazione alla presunta irragionevolezza della disciplina della prescrizione prevista per gli illeciti commessi dall'ente-imputato rispetto a quella prevista per gli imputati-persone fisiche, atteso che la diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente, e l'impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità "ex delicto" di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001 nell'ambito e nella categoria dell'illecito penale, giustificano il regime derogatorio della disciplina della prescrizione" (Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015 - dep. 2016, Bonomelli, Rv. 267047).

4.1. In tale pronuncia si è evidenziato come "la responsabilità dell'ente si fonda su un illecito amministrativo e la circostanza che tale illecito venga accertato nel processo penale, spesso unitamente all'accertamento del reato posto in essere dalla persona fisica, non determina alcun mutamento della sua natura: il sistema di responsabilità ex delicto di cui al D.Lgs. n. 231 è stato qualificato come tertium genus (Sez. U, n. 38343 del 18/09/2014, TyssenKrupp s.p.a), sicchè non può essere ricondotto integralmente nell'ambito e nelle categorie dell'illecito penale. Pertanto, se i due illeciti hanno natura differente, allora può giustificarsi un regime derogatorio e differenziato con riferimento alla prescrizione". La Corte ha altresì rilevato che "deve escludersi che la disciplina prevista dall'art. 22 cit. sia confliggente con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.), anche inteso come diritto ad essere giudicato senza ritardo, con riferimento all'art. 24 Cost. e all'accezione del canone di ragionevole durata in termini di garanzia soggettiva. Il riferimento alla durata ragionevole del processo, inserito nella Costituzione con la riforma del 1999 (legge Cost. n. 2 del 1999), sviluppa principi già contenuti nell'art. 6 CEDU e nell'art. 14 del Patto internazionale per i diritti civili - che però sottolineano, prevalentemente, il diritto della persona ad essere giudicata in tempi ragionevoli -, ma accentua il profilo, eminentemente oggettivo, di garanzia della giurisdizione. In altri termini, l'art. 111, comma 2, Cost. esprime un principio rivolto soprattutto al legislatore, perchè predisponga gli strumenti normativi in grado di contenere i tempi del processo e di assicurare una giustizia efficiente. Tuttavia, la ragionevole durata cui si riferisce il principio costituzionale non deve essere intesa come semplice speditezza in funzione di un'efficienza tout court, ma piuttosto come razionale contemperamento dell'efficienza con le garanzie, la cui concreta attuazione è rimessa alle opzioni del legislatore. Ciò premesso, non può certo affermarsi che la prescrizione, così come disciplinata nell'art. 22 D.Lgs. n. 231 del 2001, sia in contrasto con il principio dell'art. 111, comma 2, Cost.: in questo caso il legislatore ha, da un lato, introdotto un termine di prescrizione oggettivamente breve, pari a soli cinque anni dalla consumazione dell'illecito, nella dichiarata intenzione di contenere la durata della prescrizione e di non lasciare uno Spa zio temporale eccessivamente ampio per l'accertamento dell'illecito nel corso delle indagini, anche per favorire le esigenze di certezza di cui necessita l'attività delle imprese, dall'altro, ha previsto un regime degli effetti interruttivi che replica la disciplina civilistica, stabilendo che, una volta contestato l'illecito amministrativo, "la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio". Così il legislatore ha realizzato un bilanciamento tra le esigenze di durata ragionevole del processo, soprattutto nel prevedere un termine breve di prescrizione, e le esigenze di garanzia, corrispondenti nella specie al valore della completezza dell'accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all'illecito amministrativo dell'ente. L'effetto di un tale bilanciamento risiede nella tendenziale riduzione del rischio di prescrizione una volta che, esercitata l'azione penale, si instauri il giudizio, con il contrappeso rappresentato dalla ridotta durata del termine di prescrizione, fissato per tutti gli illeciti in cinque anni, termine sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale. Una volta contestato l'illecito nel termine di cinque anni risulta difficile che si verifichi la prescrizione nel corso del giudizio, a differenza di quanto accade per i reati, ma ciò avviene sulla base di una scelta del legislatore che vuole evitare che, in presenza dell'interesse dell'autorità procedente a far valere la potestà punitiva dello Stato, manifestata attraverso l'esercizio dell'azione penale, si corra il rischio di dover dichiarare l'estinzione dell'illecito per il sopraggiungere della prescrizione".

4.2. D'altro canto, proprio per evitare che il procedimento a carico degli enti possa instaurarsi a notevole distanza di tempo dalla commissione del reato che costituisce il presupposto dell'illecito a carico dello stesso, il legislatore del D.Lgs. n. 231 del 2001 ha introdotto una specifica disposizione - art. 60 - in base alla quale non può procedersi alla contestazione dell'illecito amministrativo nel caso in cui il reato presupposto sia già estinto per prescrizione. Quindi, una volta verificatasi la prescrizione del reato presupposto senza che sia stato contestato l'illecito amministrativo ai sensi dell'art. 59 D.Lgs. cit., viene meno la potestà sanzionatoria a carico dell'ente.

4.3. Manifestamente infondata è la questione di incostituzionalità anche in riferimento alla dedotta violazione dell'art. 41 della Cost. Sul punto è sufficiente rilevare che la citata disposizione prevede che "L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". La sottoposizione degli enti che svolgono attività economica alla disciplina del D.Lgs. n. 231, lungi da porsi in contrasto con il precetto costituzionale, ne costituisce al contrario attuazione, mirando ad evitare che, anzichè favorire l'attività sociale, l'iniziativa economica privata rappresenti l'occasione per agevolare la commissione di reati.

4.4. Neppure possono condividersi le deduzioni della ricorrente in ordine alla violazione dei principi convenzionali relativi alla "matiere penale". Sulla base dei criteri contenuti nella delega, il legislatore delegato ha configurato una disciplina nella quale la responsabilità dell'ente per l'illecito dipendente da reato è autonoma rispetto alla responsabilità penale della persona fisica per il reato che costituisce un presupposto dell'illecito a carico dell'ente (essendo inoltre necessario che sussista il criterio di imputazione soggettiva del "fatto" all'ente). A tale diversità e maggiore complessità dell'accertamento dell'illecito ex D.Lgs. n. 231 corrisponde una diversa disciplina - anche in tema di prescrizione - dei due illeciti, che non integra di per sè alcuna violazione dei principi della giurisprudenza della Corte EDU. 5. Infine, il Collegio ritiene che non possa essere condivisa l'interpretazione dell'art. 22 del d.lg. n. 231 del 2001, proposta all'odierna udienza dal difensore dell'ente, che dovrebbe limitare gli aspetti di irragionevole differenziazione della disciplina della prescrizione del reato e dell'illecito amministrativo. In particolare, il difensore della ricorrente ha sostenuto che il comma 4 del cit. art. 22, nel prevedere che "Se l'interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio", farebbe riferimento "al giudizio nei confronti della persona fisica" con la conseguenza che l'accertamento irrevocabile della penale responsabilità dell'autore del reato presupposto avrebbe l'effetto di far nuovamente decorrere la prescrizione dell'illecito dell'ente (che quindi nel caso in esame risulterebbe estinto).

5.1. Anche tale profilo è già stato affrontato da questa Corte che con giurisprudenza consolidata - che il Collegio condivide - ha precisato come "la sentenza che definisce il giudizio", cui fa richiamo l'art. 22, comma 4, dlgs. n. 231 del 2001, e dal cui passaggio in giudicato dipende la riattivazione del termine di prescrizione, è senza dubbio quella pronunciata a carico dell'ente, nel giudizio volto all'accertamento del suo distinto titolo di responsabilità (Sez. 1, n. 31854 del 05/05/2021, TIM Spa , Rv. 281761 - 01; Sez. 3, n. 1432 del 01/10/2019, dep. 2020, Martin Srl , Rv. 277943-01; Sez. 4, n. 30634 del 09/04/2019, Coperture Edil Srl , Rv. 276343-01; Sez. 2, n. 41012 del 20/06/2018, C., Rv. 274083-04; Sez. 5, n. 50102 del 22/09/2015, D'Errico, Rv. 265588-01; Sez. 2, n. 10822 del 15/12/2011, dep. 2012, Cerasino, Rv. 256705- 01).

D'altro conto, la soluzione alternativa proposta dalla ricorrente non tiene conto del fatto che ben può accadere che manchi una sentenza irrevocabile nei confronti dell'imputato persona fisica; il che, ai sensi dell'art. 8 del D.Lgs. n. 231, può avvenire quando l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile, ovvero se il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia (quindi - ed è proprio il caso del presente giudizio - quando il procedimento a carico dell'indagato per il reato presupposto viene archiviato per morte del reo).

Al rigetto del ricorso segue, come per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 


P.Q.M.
 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2023