Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 ottobre 2023, n. 28320 - CCNL e art. 36 della Cost.: non è legittima la norma del CCNL dei servizi fiduciari che esclude il pagamento delle ore straordinarie dalla retribuzione normale durante le ferie



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido - Presidente -

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere -

Dott. RIVERSO Roberto - Consigliere -

Dott. PANARIELLO Francescopaolo - rel. Consigliere -

Dott. CINQUE Guglielmo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
 


sul ricorso iscritto al n. 28496/2022 r.g., proposto da:

G.S.A. - Gruppo Servizi Associati Spa in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Via della Conciliazione n. 10, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Franco Toffoletto, Raffaele De Luca Tamajo, Federica Paternò, e Ezio Moro;

- ricorrente -

contro

A.A., + Altri Omessi, elettivamente domiciliati in Via Giulio Uberti n. 6, Milano, rappresentati e difesi dagli avv.ti Alberto Guariso, e Livio Neri;

- controricorrenti -

nonchè Azienda Trasporti Milanesi Spa in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Via Ovidio n. 32, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Bruno Bitetti, e Antonella Loiacono;

- controricorrente - ricorrente incidentale -

avverso la sentenza della Corte d'Appello di Milano n. 98/2022 pubblicata in data 31/05/2022, n. r.g. 542/2021;

Udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Francescopaolo Panariello;

Udite la discussione e le conclusioni rassegnate in udienza dal P.G., in persona dell'Avvocato Generale Dott.ssa Sanlorenzo Rita;

Udita la discussione dei difensori delle parti.

 

Fatto


1.- A.A. e altri esponevano di essere dipendenti di GSA Spa con mansioni di portiere, di essere addetti alla guardiania presso le sedi di ATM Spa committente dell'appalto di servizi e di svolgere la loro prestazione lavorativa prevalentemente nel turno notturno (dalle ore 19,40 alle ore 06,50) senza pausa, per quattro notti consecutive e due giorni di riposo, per un turno giornaliero di 11 ore e 10 minuti, nonchè di essere inquadrati nel livello D ccnl per i dipendenti di istituti ed imprese di vigilanza privata servizi fiduciari.

Assumevano che la loro retribuzione tabellare lorda era pari al netto mensile di Euro 863,00 per tredici mensilità, ossia ad una paga oraria (con applicazione del divisore di 173 ore previsto dal ccnl) di Euro 5,49, e che non avevano mai percepito la maggiorazione per il lavoro notturno.

Deducevano che la loro retribuzione era al di sotto della soglia di povertà e quindi non conforme ai principi di cui all'art. 36 Cost.

Chiedevano pertanto al Tribunale di Milano l'accertamento del loro diritto ad una retribuzione mensile lorda pari a quella riconosciuta dal ccnl portieri (dipendenti da proprietari di fabbricati), categoria D1; del loro diritto alla maggiorazione per il lavoro notturno ex art. 2108 c.c.; del loro diritto a percepire per ogni giorno di ferie la retribuzione relativa ad ore 11 e minuti 17; la condanna in solido di GSA Spa e ATM Spa al pagamento delle conseguenti differenze retributive, anche a titolo di t.f.r.

2.- Il Tribunale adito, in parziale accoglimento delle domande, dichiarava il diritto dei ricorrenti, dalle date di rispettiva assunzione, ad una retribuzione mensile ordinaria lorda di Euro 1.218,00, oltre agli scatti di anzianità, per tredici mensilità; condannava in solido le società resistenti a pagare la somma complessiva di Euro 5.431,25 in favore di A.A. e gli altri nonchè di Euro 3.777,28 in favore di B.B.; dichiarava il diritto dei ricorrenti alla corrispondente integrazione del t.f.r., rigettando le domande nel resto.

3.- A seguito di separati appelli proposti dalle due società, poi riuniti, e di appelli incidentali proposti dai lavoratori, la Corte d'Appello, con la sentenza in epigrafe, rigettava i primi ed accoglieva in parte i secondi e quindi, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava le due società a pagare, in solido, ai lavoratori le differenze retributive a titolo di ferie liquidate nelle somme ivi indicate, nonchè alla conseguente integrazione del t.f.r., liquidata nelle somme ivi indicate; confermava nel resto le altre statuizioni del Tribunale.

Per quanto rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

a) il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente è previsto dall'art. 36 Cost. con forza imperativa, tale da determinare la nullità della clausola contrattuale, del contratto di lavoro, individuale o collettivo, che preveda una retribuzione inferiore a questa soglia minima (Cass. n. 2245/2006; Cass. n. 546/2021);

b) da tale principio, affermato dalla Corte di Cassazione, deriva che, contrariamente a quanto sostenuto da GSA Spa il fatto che la retribuzione sia prevista da un CCNL (vigilanza sezione servizi fiduciari) proveniente da associazioni pacificamente rappresentative, non è sufficiente a far ritenere di per sè legittimo il trattamento retributivo, ben potendo il Giudice dichiararne la nullità laddove, all'esito di uno scrutinio improntato a prudenza, risulti che tale retribuzione non sia sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa;

c) pertanto la valutazione del Tribunale è corretta, perchè ha preso come raffronto un CCNL applicato ad altri lavoratori che svolgono le medesime mansioni, e va condivisa, laddove ha considerato che i lavoratori svolgono mansioni di portierato e di addetti alla guardiania presso le sedi di ATM, lavorano nel turno di notte (19,40-06,50) senza pausa per quattro notti consecutive e due notti di riposo, con un turno di lavoro giornaliero di 11 ore e 10 minuti, con una retribuzione tabellare lorda di Euro 930,00, integrata dalla somma di Euro 20,00 quale anticipazione sui futuri aumenti contrattuali, il tutto pari alla somma netta di Euro 863,00 per tredici mensilità;

d) tale retribuzione non è proporzionata sul piano oggettivo, se solo si consideri che l'impegno lavorativo non solo è defatigante per l'orario, ma è tale da rendere impossibile lo svolgimento di altre attività lavorative;

e) inoltre tale retribuzione non è sufficiente, poichè non raggiunge neppure la soglia della somma netta di Euro 1.000,00 e quindi non consente al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, che non può essere inteso come un mero diritto alla sopravvivenza;

f) la sproporzione e l'insufficienza emergono chiaramente anche dal raffronto con altri ccnl astrattamente applicabili al medesimo settore produttivo di GSA (multiservizi, commercio, portieri), sottoscritti da organizzazioni sindacali parimenti rappresentative, per mansioni sovrapponibili a quelle svolte dai lavoratori a parità di anzianità;

g) a ciò si aggiunga che la retribuzione percepita dai lavoratori che lavorano esclusivamente in turni di notte, non è comprensiva di una maggiorazione retributiva per il lavoro notturno ordinario, a causa dell'assenza di una specifica clausola contrattuale; il turno notturno è oggettivamente più penoso di quello diurno, perchè sottrae il lavoratore al normale riposo notturno, costringendolo a rinviarlo alle ore diurne, che vengono così sottratte ad altre attività della vita quotidiana;

h) nessuna rilevanza ha il diverso divisore previsto dai contratti collettivi messi a confronto; va quindi respinta la tesi di GSA Spa secondo cui il ccnl applicato, prevedendo il divisore 173, assicura una retribuzione oraria di Euro 5,49, superiore a quella di Euro 5,38 garantita dal ccnl portieri livello A1;

i) va infatti considerato che la categoria più vicina a quella D del CCNL servizi fiduciari nella quale sono inquadrati i lavoratori è quella D1 prevista dal CCNL portieri, che ricomprende lavoratori addetti all'attività di vigilanza in modo non discontinuo per stabili a prevalente utilizzo commerciale e che utilizzano anche i monitor, laddove invece i lavoratori inquadrati nella categoria A sono addetti alla vigilanza di stabili adibiti prevalentemente ad uso abitativo e tra i suoi profili prevede solo i portieri e non anche gli addetti alla vigilanza non armata, cui sono addetti gli odierni appellati, che esercitano un controllo continuativo dei vari accessi di ATM anche a mezzo del controllo dei monitor di sorveglianza;

j) peraltro, la retribuzione presa a riferimento dal Tribunale è la più bassa fra quelle previste dai CCNL invocati dai lavoratori;

k) ne consegue la declaratoria di nullità dell'art. 23 CCNL servizi fiduciari;

l) sul piano della sufficienza la retribuzione netta di Euro 863,00 è appena sopra la soglia di povertà, che, secondo il rapporto ISTAT per l'anno 2018, per un residente di età compresa fra i 18 e i 59 anni, residente in un'area metropolitana del nord Italia, è pari ad una capacità di spesa e quindi ad una retribuzione netta di Euro 834,66, che aumenta ad oltre Euro 1.600,00 nel caso di moglie e due figli a carico di età compresa fra i 4 e i 10 anni;

m) contrariamente alla tesi di ATM Spa opera la solidarietà D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 29 come insegna la Corte di Cassazione (Cass. n. 10777/2017; Cass. n. 24375/2019);

n) l'appello incidentale dei lavoratori è fondato e pertanto va accolto; con riferimento alla retribuzione da corrispondere durante le ferie, anche in considerazione dell'interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, la Corte di Cassazione (Cass. n. 37589/2021) ha affermato che deve essere assicurata la medesima retribuzione, proprio per non indurre il lavoratore a rinunziare al diritto alle ferie, ossia al riposo annuale;

o) quindi nel caso in esame deve essere corrisposta per ogni giorno di ferie la stessa retribuzione che sarebbe corrisposta per un giorno di lavoro costituito da 11 ore e 10 minuti;

p) in tale conteggio va considerato che la retribuzione normalmente percepita per quelle ore comprende anche la maggiorazione per il lavoro straordinario feriale notturno e diurno, dal momento che l'art. 11 ccnl stabilisce che a tal fine si intende per lavoro notturno quello compreso fra le 22,00 e le 06,00; pertanto ai lavoratori va riconosciuta, oltre alla normale retribuzione per le prime otto ore, va poi riconosciuta la retribuzione con la maggiorazione per lavoro straordinario notturno per 2,17 ore (dalle 3,40 alle 5,50), pari al 35%, nonchè la retribuzione con la maggiorazione per lavoro straordinario diurno per 1 ora (dalle 05,50 alle 06,50, ossia quasi totalmente collocata dopo le 06,00), pari al 25%;

q) in tal senso i lavoratori hanno ridotto la loro domanda formulata in primo grado ed hanno escluso dai loro conteggi la maggiorazione per lavoro notturno sulle prime otto ore, non avendo impugnato il capo della sentenza di primo grado, con cui il Tribunale ha escluso il diritto a tale maggiorazione vantata ex art. 2108 c.c.;

r) possono essere utilizzati i conteggi rielaborati dai lavoratori, in quanto non contestati e comunque corretti, poichè sono stati considerati i soli giorni di ferie effettivamente fruiti nel periodo e detratto come percepito le somme lorde indicate nelle buste paga.

4.- Avverso tale sentenza Gruppo Servizi Associati Spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

5.- A.T.M. Spa si è costituita con controricorso ed ha proposto a sua volta ricorso incidentale, affidato a due motivi.

6.- A.A. e altri hanno resistito con controricorso.

7.- Tutte le parti hanno depositato memoria.
 

Diritto


A) RICORSO PRINCIPALE. 1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 36, 39, 4, 111 Cost., artt. 2070, 2077, 2099 c.c. per avere la Corte territoriale omesso di tenere conto del fatto che essa società ha pacificamente retribuito i dipendenti secondo quanto previsto dal CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (CGIL e CISL) e coerente con il settore merceologico in cui opera, ossia quello dei servizi di portierato / reception svolti per conto di terzi.

Assume che non è possibile utilizzare altri e diversi contratti collettivi, atteso che ad esempio quello Multiservizi, all'art. 1, relativo alla sua sfera di applicazione, prevede testualmente che "Sono... escluse dalla sfera di applicazione del contratto le eventuali autonome attività, anche per specifici contratti di committenza, ai rapporti di lavoro delle quali si applichino, secondo la vigente normativa, autonomi e specifici cc.c.c.nn. ll. corrispondenti".

Deduce che l'art. 36 Cost. è invocabile solo "per i rapporti non tutelati da contratto collettivo", perchè altrimenti deve ritenersi conforme a Costituzione quel trattamento retributivo previsto dallo specifico contratto collettivo, come nel caso in esame. In tal modo viene altresì garantita l'autonomia delle parti sociali e, in ultima analisi, il principio di libertà e di autonomia sindacale ex art. 39 Cost.

Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato in relazione alle censure specificamente articolate.

1.1. Il motivo è inammissibile in relazione agli invocati artt. 4 e 111 Cost., nonchè agli artt. 2070, 2077, 2099 c.c., rispetto ai quali non è stata articolata alcuna censura, nè è stata specificata in cosa si sarebbe sostanziata la prospettata "violazione" o "falsa applicazione".

1.2. Con riguardo, invece, alle censure specificate va evidenziato che, in primo luogo, contrariamente all'assunto della ricorrente, la Corte territoriale ha esaminato la circostanza dedotta (applicazione del ccnl servizi fiduciari) e l'ha espressamente ritenuta insufficiente ad impedire la verifica di proporzionalità e di sufficienza retributiva ex art. 36 Cost. All'uopo ha utilizzato ulteriori parametri - le relazioni annuali ISTAT sulla povertà e i contratti collettivi relativi a settori analoghi o affini - dai quali è emersa in modo manifesto la violazione del precetto costituzionale.

Restringere la portata precettiva dell'art. 36 Cost. ai soli rapporti di lavoro non tutelati dal contratto collettivo è un'interpretazione non condivisibile, perchè non giustificata dal dato normativo. Anzi, la verifica giudiziale si impone proprio qualora - come nel caso in esame - risulti che il trattamento economico previsto dalle parti sociali sia appena di qualche Euro sopra la soglia di povertà accertata da un ente pubblico non economico come l'ISTAT. Tale potere di accertamento giudiziale è stato affermato da questa Corte anche con riguardo al contratto collettivo (Cass. n. 2245/2006, ricordata pure dalla società ricorrente: v. ricorso, pp. 33-34; Cass. ord.n. 546/2021).

1.3. Nell'ambito di tale accertamento va tenuto conto del fatto che il valore soglia di povertà assoluta viene calcolato ogni anno dall'Istat relativamente ad un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell'età, dell'area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia. Invece i concetti di sufficienza e di proporzionalità mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma persino dignitosa; orientando il trattamento economico non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più, che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all'interno dell'Unione n. 2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n. 28: " oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali").

Pertanto, nell'ambito dell'operazione di raffronto tra il salario di fatto e salario costituzionale il giudice è tenuto ad effettuare una valutazione coerente e funzionale allo scopo, rispettosa dei criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità. A tal fine non potrà perciò assumere a riferimento la retribuzione lorda (che non si riferisce ad un importo interamente spendibile da un lavoratore) e confrontarlo con l'indice ISTAT di povertà (che ha riguardo invece alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali). Il livello Istat di povertà non costituisce peraltro un parametro diretto di determinazione della retribuzione sufficiente; può però aiutare ad individuare, sotto il profilo della sufficienza, una soglia minima invalicabile. Ma di per sè non è indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale che, come già rilevato, deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo inoltre rispettare l'altro profilo della proporzionalità con la quantità e qualità del lavoro svolto.

1.4. Secondo quanto affermato da questa Corte (Cass. n. 24449/2016) l'art. 36 Cost., comma 1 garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, "nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda": quello ad una retribuzione "proporzionata" garantisce ai lavoratori "una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata"; quello ad una retribuzione "sufficiente" dà diritto ad "una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo", ovvero ad "una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa". In altre parole, l'uno stabilisce "un criterio positivo di carattere generale", l'altro "un limite negativo, invalicabile in assoluto".

1.5. Il giudice, pertanto, non può sottrarsi ad alcuna delle due valutazioni che, seppur integrate, costituiscono le direttrici per determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.

1.6. In nessun caso la verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta, anche attraverso la considerazione del livello Istat di povertà assoluta, può esaurire l'oggetto della articolata valutazione demandata al giudice ai sensi dell'art. 36 Cost. Essa deve condurre sempre alla determinazione del quantum del salario costituzionale (pars costruens), operazione che l'univoca giurisprudenza di questa Corte e lo stesso ordinamento (in alcune disposizioni di legge) vuole improntata in partenza al confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva (v. Cass.17/05/2003 n. 7752, Cass. 08/01/2002 n. 132, Cass. 09/03/2005 n. 5139, Cass. 01/02/2006 n. 2245), ritenuti idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali di sufficienza e di proporzionalità. Ma è pur sempre fatto salvo, oltre ad eventuali disposizioni di legge, l'intervento correttivo del giudice sulla stessa contrattazione collettiva a tutela della precettività dell'art. 36 Cost.

1.7. Quanto ai poteri demandati al giudice nella materia, in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai requisiti indicati dall'art. 36 Cost., mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all'art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l'entità della retribuzione, e non anche l'insufficienza o la non proporzionalità, che rappresentano l'oggetto dell'accertamento giudiziale. Al lavoratore spetta soltanto l'onere di dimostrare l'oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l'allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990; Cass. n. 8097/2002).

Anche quando chiede la disapplicazione di un trattamento retributivo collettivo per ritenuta inosservanza dei minimi costituzionali, il lavoratore è tenuto a fornire utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto, dovendo in mancanza presumersi adeguata e sufficiente la retribuzione corrisposta nella misura prevista - in relazione alle mansioni esercitate - dal contratto collettivo del settore (Cass. n. 11881/1990, Cass. n. 163/1986, Cass. n. 4096/1986, Cass. n. 7563/1987). Inoltre, la violazione dell'art. 36 Cost. è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo, potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore presenti caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicchè non può escludersi che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo (Cass. n. 2302/1979; sul punto già Cass. n. 1255/1976 e Cass. n. 2380/1972).

1.8. Il compito del giudice non subisce alterazione, rispetto al principio dispositivo della domanda, neanche quando il lavoratore - che deduca l'insufficienza del salario percepito, descriva il lavoro svolto e produca in giudizio le buste paga - si limiti ad indicare come termine di raffronto quello tra paga oraria percepita e retribuzione protetta a livello costituzionale, atteso che tale indicazione non modifica la natura della domanda svolta in giudizio, nè l'interesse di cui si chiede protezione, l'identificazione dei quali non richiede "formule sacramentali". Vale il principio secondo cui "il giudice di merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un'istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il petitum e la causa petendi" (tra le tante Cass. n. 3012/2010).

1.9. Sotto il profilo del quantum, è priva di fondamento la tesi secondo cui ai fini dell'art. 36 Cost. bisogna prendere a riferimento il trattamento complessivo della retribuzione, comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario, in quanto riconosciuto dalla Corte Cost n. 470/2002 e dalla sentenza di questa Corte n. 5934/2004. In realtà la sentenza n. 470/2002 la Corte Costituzionale si è occupata del diverso problema del quantum della singola componente retributiva, ossia della questione se, ai sensi dell'art. 36 Cost., il lavoro straordinario debba essere necessariamente compensato con una maggiorazione di paga, per la penosità del lavoro svolto oltre l'orario normale di lavoro. In questo specifico contesto, nel negare tale copertura costituzionale, la Consulta ha riaffermato il principio secondo cui per giudicare della legittimità costituzionale della retribuzione bisogna fare riferimento al trattamento complessivamente percepito e non soffermarsi sull'entità del singolo emolumento. Ma non ha mai affermato che per giudicare della compatibilità all'art. 36 Cost. del trattamento complessivo percepito dal lavoratore occorra tener conto anche del compenso per il lavoro straordinario. Il che andrebbe escluso in termini generali, sia perchè si tratta di un emolumento eventuale e non ordinario; sia perchè sarebbe incongruo affermarlo quante volte il lavoratore, proprio in ragione della esiguità di base del salario percepito, fosse costretto a svolgere molte ore di lavoro straordinario proprio per raggiungere la soglia minima di conformità richiesta dalla Costituzione.

1.10. Dalla giurisprudenza di questa Corte che si è via via pronunciata nella materia si desume inoltre che in sede di applicazione dell'art. 36 Cost. il giudice di merito gode, ai sensi dell'art. 2099 c.c., di un'ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli contrattual-collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l'unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell'art. 36 Cost.

1.11. Pertanto l'apprezzamento dell'adeguatezza della retribuzione in concreto resta riservato al giudice del merito (v. fra le altre Cass. n. 20216/2021, Cass. n. 19467/2007; Cass. n. 16866/2008 Cass. n. 3586/1985, Cass. n. 4326/1983, Cass. n. 1428/1981, Cass. n. 1926/1979). La sua determinazione, se effettuata nel rispetto dei criteri imposti dall'art. 36 Cost., e con adeguata motivazione in ordine agli elementi utilizzati, non è censurabile in sede di legittimità neppure sotto il profilo del mancato ricorso ai parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva (v. Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 2791/1987, Cass. n. 2193/1985).

1.12. Resta, peraltro, sempre valido il monito formulato dalla giurisprudenza di questa Corte (le già citate Cass.01/02/2006, n. 2245 e Cass. 14/01/2021 n. 546) con cui si invita il giudice che si discosti da quanto previsto dai contratti collettivi ad usare massima prudenza e adeguata motivazione, "giacchè difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali".

Ciononostante, nella variegata casistica giurisprudenziale si registrano, alla luce dei fatti concreti, frequenti deviazioni dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, essendo sempre stato inteso, quello del riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi post-corporativi di categoria, come una facoltà piuttosto che un obbligo inderogabile per il giudice di merito, fatto salvo l'onere della motivazione conforme (Cass. n. 5519/2004). In tal senso si è infatti affermato che il giudice:

a) può individuare d'ufficio (Cass. n. 7528/2010 e Cass. n. 1393/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata (anche in difformità dalla domanda), desumendo criteri parametrici utilizzabili al fine di determinare, anche mediante consulenza tecnica d'ufficio, la retribuzione rispondente ai criteri imperativamente stabiliti dal precetto costituzionale, domandata in linea subordinata, non essendo in tale ipotesi configurabile alcuna violazione nè dell'art. 112 c.p.c. (corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) nè dell'art. 420 c.p.c., comma 1, u.p. (in tema di possibilità di modificazione di domande, eccezioni o conclusioni) e del successivo art. 421 c.p.c. (poteri istruttori del giudice);

b) quando escluda l'applicabilità alla fattispecie del contratto collettivo invocato (di cui la controparte ha contestato l'applicabilità), può tuttavia desumere d'ufficio (Cass. n. 12271/2005) dallo stesso contratto i criteri utilizzabili al fine di determinare - anche mediante consulenza tecnica d'ufficio - la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi processualcivilistici sopra richiamati;

c) può giudicare un contratto collettivo pur corrispondente all'attività svolta dal datore non applicabile nella disciplina del rapporto ex art. 2070 c.c. e tuttavia utilizzarlo ai fini della giusta determinazione del salario, deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto dal contratto collettivo applicato (Cass. n. 7157/2003, Cass. sez. un. 2665/1997);

d) fatte salve contrarie disposizioni normative (per esempio ai fini del c.d. minimale contributivo), il giudice è libero di selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti (Cass. n. 19284/2017, Cass. n. 2758/2006, Cass. n. 18761/2005, Cass. n. 14129/2004).

1.13. Inoltre, il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e "fondare la pronuncia, anzichè su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi" (Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 2791/1987, Cass. n. 2193/1985; più di recente Cass. n. 24449/2016). Più volte i giudici di merito hanno tenuto conto delle dimensioni o della localizzazione dell'impresa, di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (Cass. n. 14211/2001, Cass. n. 5519/2004, Cass. n. 27591/2005, Cass. n. 24092/2009, Cass. n. 3918/1982).

La stessa giurisprudenza di merito, oltre alla soglia di povertà calcolata dall'Istat, ha utilizzato come parametri di riferimento l'importo della NASPI o della CIG, la soglia di reddito per l'accesso alla pensione di inabilità e l'importo del reddito di cittadinanza; tutte forme di sostegno al reddito che fanno però riferimento a disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza, ma non idonei a sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione nei termini prima indicati.

1.14. In virtù dell'integrazione del nostro ordinamento a livello Europeo ed internazionale, l'attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è divenuta un'operazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall'Unione Europea e dall'ordinamento internazionale.

1.15. A tal riguardo la recente Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 "relativa a salari minimi adeguati nell'Unione Europea" - dei cui contenuti il giudice interno deve tenere conto, secondo le ripetute indicazioni della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, anche prima della scadenza del recepimento (Corte di Giustizia, sentenza Adelener et al. causa C-212/04, sentenza Sorge causa C98/09, sentenza Pfeiffer causa C-397/01 e C-403/01, obbligo che trova però i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di irretroattività e nel divieto di un'interpretazione contra legem del diritto nazionale; v. sentenza Sorge, cit., punto 52, e, per analogia, sentenza Adeneler et al., cit., punto 110) - convalida in più di una disposizione il riferimento in questa materia agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà, oltre che ad altri strumenti di computo ed indicatori nazionali ed internazionali.

Nel considerando n. 28 la Direttiva prevede allo scopo che "un paniere di beni e servizi a prezzi retali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso" e aggiunge - quanto al livello di vita da conseguire attraverso un salario minimo adeguato - che " oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali".

Nello stesso considerando n. 28 è inoltre previsto che, nella individuazione di parametri utili per determinare l'adeguatezza del salario, "la valutazione potrebbe inoltre basarsi su valori di riferimento associati a indicatori utilizzati a livello nazionale, come il confronto tra il salario minimo netto e la soglia di povertà e il potere d'acquisto dei salari minimi".

Ai fini dell'accertamento giudiziale ex art. 36 Cost. possono venire in rilievo inoltre i criteri, menzionati nel considerando n. 28 (e richiamati anche nell'art. 5 della direttiva), degli indicatori e dei valori di riferimento associati per orientare la valutazione degli Stati circa l'adeguatezza dei salari minimi legali ("Gli Stati membri potrebbero scegliere tra gli indicatori comunemente impiegati a livello internazionale e/o gli indicatori utilizzati a livello nazionale. La valutazione potrebbe basarsi su valori di riferimento comunemente impiegati a livello internazionale, quali il rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50 % del salario lordo medio, valori che attualmente non sono soddisfatti da tutti gli Stati membri, o il rapporto tra il salario minimo netto e il 50 % o il 60 % del salario netto medio").

La citata Direttiva vuole conseguire gli obiettivi della dignità del lavoro, l'inclusione sociale e il contrasto alla povertà, sicchè la salvaguardia e l'adeguamento dei salari minimi "contribuiscono a sostenere la domanda interna". Il primo obiettivo dichiarato della Direttiva è quello della "convergenza sociale verso l'alto" dei salari minimi (art. 1, comma 1); si precisa che i minimi debbono essere "adeguati" per conseguire "condizioni di vita e di lavoro dignitose". Lo scopo della direttiva, dunque, è quello di ottenere un miglioramento dei minimi più bassi, perchè si avvicinino ai più alti.

1.16. Nella recente ordinanza n. 17698/2022 questa Corte ha richiamato sia la previsione del salario minimo legale (suggerito dall'Organizzazione internazionale del lavoro - OIL, come politica per garantire una "giusta retribuzione"), sia le norme interne sul salario legale dettate per i soci lavoratori di cooperative attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva comparativamente più rappresentativa (L. n. 142 del 2001, art. 3, comma 1, e D.L. n. 48 del 2007, art. 7, comma 4, convertito in L. n. 31 del 2008).

1.17. Già la convenzione OIL n. 26 del 16/06/1928 prevede l'introduzione o la conservazione di meccanismi per la definizione di salari minimi legali "mediante contratto collettivo o in altro modo e laddove i salari siano eccessivamente bassi" (art. 1). Mentre la convenzione OIL n. 131/1970 (pur non ratificata dall'Italia) impegna a stabilire un sistema di salari minimi che protegga tutti i gruppi di lavoratori dipendenti (art. 1) e prevede che "I salari minimi devono avere forza di legge e non potranno essere abbassati" (art. 2).

1.18. Altre disposizioni in materia sono dettate dall'art. 4 della Carta sociale Europea e negli artt. 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Ancora, il Pilastro Europeo dei Diritti sociali del 2017, nel punto 6, lettera a), prefigura la necessità di una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso e la lettera b) impegna all'implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia.

1.19. Un altro criterio utile allo scopo si rivela l'individuazione percentuale del salario medio e/o mediano, che può essere individuato anche attraverso i dati Uniemens censiti dall'INPS (mentre sui c.d. working poors v. da ultimo XXII Rapporto INPS, pag.99 e ss. presentato al Parlamento il 13 settembre 2023), suggerimento che il giudice interno può dunque valorizzare ai fini della complessiva valutazione di conformità nei termini equitativi richiesti da questa giurisprudenza ex art. 36 Cost.

1.20. Il confronto con l'art. 36 Cost. richiede di individuare il concetto di salario proporzionato e sufficiente, evidenziando in premessa che la soluzione delle questioni sollevate non richiede di allontanarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale elaborato in materia di "equità salariale" dalla Corte Costituzionale e da questa Corte di legittimità.

1.21. Secondo quanto affermato in epoca risalente dalla Corte costituzionale quello al salario minimo costituzionale delineato nell'art. 36 Cost. integra un diritto subiettivo perfetto (sentenza n. 30/1960), che "deve rispondere a due fondamentali e diverse esigenze" indicate dalla norma (Corte Cost. n. 74/1966 e C. Cost. n. 559/1987). La norma costituzionale non si limita a stabilire l'an del diritto al salario, ma attribuisce a chi lavora il diritto ad un salario con contenuti qualificanti, che si riferiscono al quantum del corrispettivo oggetto dell'obbligazione contrattuale.

Si tratta di indicazioni immediatamente precettive, idonee a conformare le clausole relative al corrispettivo del lavoro contenute all'interno di ciascun contratto di lavoro.

Tali indicazioni interpellano anzitutto gli agenti negoziali (associazioni sindacali e datoriali) in quanto massima autorità salariale. Si rivolgono inoltre al legislatore, chiamato a compiere scelte politiche di valorizzazione e di sostegno al reddito in funzione della promozione individuale e sociale dei lavoratori e delle indeclinabili esigenze familiari a cui lo stesso reddito deve far fronte.

In questo contesto il giudice è chiamato ad intervenire in ultima istanza, per assicurare, nell'ambito di ogni singolo rapporto oggetto di controversia, la rispondenza dei predetti interventi allo statuto del salario delineato a livello costituzionale ed in caso di violazione ripristinare la regola violata, dichiarando la nullità della clausola individuale e procedendo alla quantificazione della giusta retribuzione costituzionale (in applicazione delle regole civilistiche di cui agli artt. 2099 c.c., comma 2 e art. 1419 c.c., comma 1).

1.22. Per ciò che riguarda, in particolare, l'opera compiuta in materia dalla giurisprudenza è noto che secondo un'elaborazione che dura oramai da oltre settanta anni (Cass. n. 1184/1951; Cass. n. 461/1952; Cass. n. 663/1958, Cass. n. 308/1962) questa Corte di legittimità ha affermato che il giudice chiamato ad adeguare - in base all'art. 2099 c.c., comma 2, - il trattamento retributivo all'art. 36 Cost. può fare riferimento - come parametri esterni per la determinazione del giusto corrispettivo - alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi nazionali di categoria, i quali fissando standard minimi inderogabili validi su tutto il territorio nazionale, finiscono così per acquisire, per questa via giudiziale, un'efficacia generale, sia pure limitata alle tabelle salariali in essi contenute.

1.23. Tutto questo avviene ovviamente nei limiti e con le difficoltà, le variabili e gli opportuni adattamenti di un'operazione di estensione di una regola generale all'interno di ogni concreta controversia individuale; attesa la carenza a tutt'oggi di altri meccanismi tali da garantire in concreto ad ogni individuo che lavora nel nostro Paese il diritto ad un salario minimo giusto o altrimenti una soddisfazione automatica o un controllo documentale della corretta erogazione del salario costituzionale all'infuori di una controversia processuale (o di un accertamento ispettivo).

1.24. Orbene, il riferimento al salario di cui al CCNL integra solo una presunzione relativa di conformità a Costituzione, suscettibile di accertamento contrario. Attraverso questo sistema si è pure temperata, in mancanza dell'attuazione dell'art. 39 Cost., la tesi espressa dalla già ricordata sentenza delle Sezioni Unite n. 2655/1997, secondo cui l'ordinamento consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare. Pur esclusa l'applicabilità dell'art. 2070 c.c. ai contratti collettivi di diritto comune, che vincolerebbe la regolamentazione collettiva all'area professionale di pertinenza, si è infatti ammesso comunque che il lavoratore possa invocare un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non già per ottenerne l'applicazione, bensì come termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione, deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto di lavoro (Cass. Sez. Un. 2665/1997; Cass. n. 7157/2003, Cass. n. 9964/2003, Cass. n. 26742/2014, Cass. n. 4951/2019).

1.25. L'oggetto dell'intervento giudiziale può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di "uscire" dal salario contrattuale della categoria di pertinenza. Infatti, per la cogenza dell'art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione con norma precettiva di rango sovraordinato (in tema di "uscita" dal contratto nazionale di categoria v. Cass. n. 17698/2022, nonchè, in una controversia analoga alla presente, con precipuo riferimento alla "uscita" dal CCNL Servizi fiduciari oggetto di questa pronuncia, Cass. n. 20216/2021).

1.26. Quello appena richiamato integra un orientamento già consolidato a cui questo Collegio intende dare continuità, in quanto conforme alle regole ed allo spirito della Costituzione, ed a cui occorre apportare solo alcune limitate precisazioni per fugare taluni dubbi, a fronte della realtà di fatto determinatasi negli ultimi tempi, in cui si colloca la questione della sindacabilità del contratto collettivo nazionale di categoria sottoscritto da OO.SS. maggiormente rappresentative, che è oggetto della controversia. Si tratta di una realtà che è stata posta più volte all'attenzione della magistratura del lavoro, della magistratura amministrativa e persino della magistratura penale, chiamate ad interloquire in diverso modo sulla misura dei salari fissati in sede collettiva, anche ad opera di organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Ciò ha creato una rinnovata attenzione dialettica sul tema anche da parte della dottrina, sollecitata da ultimo dall'intervento della Direttiva sopra richiamata in materia di salari adeguati all'interno dell'Unione Europea, n. 2022/2041 del 19 ottobre 2022.

1.27. Diverse questioni vengano dibattute in questo contesto: a) la frammentazione della rappresentanza e la presenza sulla scena negoziale di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di discutibile rappresentatività (sottoscrittori di contratti definiti col nome evocativo di "contratti pirata"); b) la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie; c) la conseguente proliferazione del numero dei CCNL (il CNEL ne ha censiti 946 per il settore privato, di cui solo un quinto sarebbe stato stipulato da sindacati più rappresentativi a copertura della maggior parte dei dipendenti); d) la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro ed la mortificazione dei salari soprattutto ai livelli più bassi; e) il ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi, la cui durata impedisce un effettivo adeguamento dei salari ai mutamenti economici (l'ultimo Report del CNEL denuncia come scaduti 563 contratti del settore privato, pari al 60%); f) una dinamica inflazionistica severa negli ultimi due anni, con la conseguente perdita del potere di acquisto dei salari.

Si parla notoriamente di "lavoro povero", ovvero di "povertà nonostante il lavoro", principalmente dovuto, come si è detto, alla concorrenza salariale "al ribasso" innescata dai fattori suindicati, in particolare dalla molteplicità dei contratti all'interno della stessa contrattazione collettiva. Questa, pur necessaria perchè espressione della libertà sindacale e funzionale alla tutela dei diritti collettivi dei lavoratori, può entrare in tensione con il principio dell'art. 36 Cost. che essa stessa è chiamata a presidiare per garantire il valore della dignità del lavoro.

Naturalmente pur in questo contesto va sempre tenuto presente il monito (Cass. 01/02/2006, n. 2245, Cass. 14/01/2021 n. 546 più volte ricordate) secondo cui il giudice deve sempre operare "con grande prudenza e rispetto", attesa la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale, quale principio garantito dalla Costituzione e anche dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (v. spec. Corte EDU, Demir e Baykara c. Turchia (GC), no. 34503/97, 12 novembre 2008).

Al contempo, però, va ricordato che nella Costituzione c'è un limite oltre il quale non si può scendere. E questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale, in particolare quando la presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto più se sottoscritti da soggetti poco o nulla rappresentativi (significativa ad esempio in materia di trattamenti contrattuali collettivi dei c.d. riders è la circolare del Ministero del lavoro del 19/11/2020), diventa un fattore di destabilizzazione, mettendo in discussione l'attitudine alla tendenziale parità di salario a parità di lavoro che il rinvio alla determinazione collettiva sottende. Questo limite diventa pertanto cogente quando - come ha avvertito la Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 51/2015, dedicata alla disciplina del salario collettivo dei soci di cooperativa - venendo meno alla sua storica funzione, la stessa contrattazione collettiva sottopone la determinazione del salario al meccanismo della concorrenza invece "di contrastare forme di competizione salariale al ribasso".

1.28. Pertanto, non cambia, e non può cambiare (considerata l'inderogabilità dell'art. 36 Cost.) la sperimentata regola della presunzione iuris tantum, salvo prova contraria, di conformità del trattamento salariale stabilito dalla contrattazione collettiva alla norma costituzionale: essa opera non solo "in mancanza di una specifica contrattazione di categoria", ma anche "nonostante" una specifica contrattazione di categoria. Ciò non è in realtà in contraddizione neppure con la sentenza di questa Corte n. 7528 del 29/03/2010, in cui il riferimento alla mancanza di una specifica contrattazione di categoria come presupposto del potere determinativo del giusto salario ex art. 36 Cost. da parte del giudice, configura un mero obiter dictum nell'economia della decisione (che risulta invero resa in un caso in cui il datore di lavoro non aveva applicato alcun contratto collettivo di diritto comune ed in cui perciò i medesimi giudici di merito avevano dovuto fare riferimento ad una specifica contrattazione collettiva secondo i principi qui ribaditi ab imis).

Diversa è la fattispecie di cui si discute invece nel presente giudizio, che si presenta allorchè il giudice deve sottoporre a valutazione un salario determinato a mezzo di una contrattazione collettiva che il lavoratore deduca essere in contrasto con l'art. 36 Cost. Anche in tale diversa fattispecie non muta la regola di giudizio sempre affermata da questa Corte (Cass. Sez. Un. 2665/1997, Cass. n. 7157/2003, Cass. n. 9964/2003, Cass. n. 26742/2014, Cass. n. 4951/2019), dovendo applicarsi comunque il principio per cui, pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL, non è escluso che questi siano sottoposti a controllo e nel caso disapplicati allorchè l'esito del giudizio di conformità all'art. 36 Cost. si riveli negativo, secondo il motivato giudizio discrezionale del giudice, con conseguente nullità delle relative clausole.

La stessa Corte costituzionale, nella notissima sentenza n. 106 del 1962, pronunciandosi sulla proroga della c.d. Legge Vigorelli (che estendeva i minimi contrattuali erga omnes per legge), aveva già affermato che nell'attuale ordinamento costituzionale (ed a maggior ragione in una situazione di mancata attuazione dell'art. 39 Cost) non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario.

1.29. La predetta operazione di riferimento esterno alla contrattazione, come parametro di orientamento dell'equità giudiziale ex art. 2099 c.c., non viola l'art. 39 Cost. e la procedura ivi dettata per attribuire efficacia erga omnes della contrattazione collettiva, e neppure il principio di libertà e di autonomia sindacale. Nessuna lesione al principio di libertà sindacale è predicabile, nemmeno quando il giudice non applichi un CCNL di categoria sottoscritto dalla associazione maggiormente rappresentative ancorchè richiamato in una legge. Nella materia retributiva non viene in discussione la libertà sindacale nel momento in cui la stessa norma costituzionale (o anche una norma ordinaria) impone un parametro esterno al rapporto di lavoro e rispetto ad esso eteronomo (anche a soggetti non obbligati all'applicazione del CCNL o anche al di fuori del CCNL altrimenti legittimamente applicato), allo scopo di attuare il principio costituzionale della giusta retribuzione riconosciuto in capo ad ogni lavoratore, nonchè al fine di un equilibrato contemperamento dei diversi interessi di carattere costituzionale (quand'anche venisse attuato l'art. 39 Cost.: cfr. Corte Cost. n. 106 cit.).

La Costituzione ha accolto infatti una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all'autodeterminazione delle parti individuali nè dei soggetti collettivi. I due requisiti di sufficienza e proporzionalità costituiscono limiti all'autonomia negoziale anche collettiva. Pur con tutta la prudenza necessaria nel trattare la materia retributiva e con il rispetto della competenza attribuita normalmente alla contrattazione collettiva, autorità salariale massima, non può che ribadirsi perciò come i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione siano gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva ed abbiano contenuti (anche attinenti alla dignità della persona) che preesistono e si impongono dall'esterno nella determinazione del salario.

1.30. Alla luce di tali considerazioni, nessuna rilevanza può avere la clausola del CCNL Multiservizi sul suo ambito applicativo, invocata dalla ricorrente, sia perchè la Corte territoriale ha reputato corretto il riferimento - operato dal Tribunale - al diverso CCNL per i dipendenti di proprietari di fabbricati addetti ai servizi di portierato rispetto ad immobili residenziali o commerciali (e non al CCNL Multiservizi), sia perchè in ogni caso il diverso CCNL è stato utilizzato solo in via parametrica, ossia per individuare la retribuzione rispettosa del precetto posto dall'art. 36 Cost. Quindi non ne è stata fatta un'applicazione diretta, questa soltanto esclusa dalla clausola contrattual-collettiva invocata dalla ricorrente.

Nè sussiste violazione dell'art. 39 Cost. e dell'autonomia collettiva garantita da tale norma costituzionale: la verifica giudiziale della retribuzione attiene ad un profilo prettamente individuale del rapporto di lavoro ex art. 36 Cost. ed è rispettosa delle scelte delle parti sociali qualora il parametro utilizzato sia pur sempre rappresentato da un ccnl regolante un settore merceologico analogo o affine a quello oggetto di causa. Quindi, contrariamente all'assunto della ricorrente (v. ricorso, p. 23), la Corte territoriale non ha in alcun modo alterato la relazione fra gli artt. 36 e 39 Cost. Essa è intervenuta in funzione correttiva rispetto a scelte delle organizzazioni sindacali dello specifico settore della ricorrente rivelatesi palesemente inadeguate a seguito di una verifica compiuta alla luce di standards reddituali, individuati - all'esito di specifiche indagini socio-economiche e statistiche - da un ente pubblico non economico come l'ISTAT. 2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione" degli artt. 36 e 111 Cost., artt. 2070, 2099, 2697, 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. In particolare censura la sentenza impugnata:

a) per avere omesso di considerare che la retribuzione prevista dal contratto collettivo ha una "presunzione" di adeguatezza a quei principi, sicchè era onere dei lavoratori allegare e dimostrare la pretesa non proporzionalità e l'insufficienza della retribuzione garantita dal CCNL servizi fiduciari;

b) per avere la Corte territoriale omesso di rilevare che i lavoratori non avevano assolto lo specifico onere di allegare e dimostrare, sulla base di parametri di riferimento esterni al contratto collettivo, la pretesa non proporzionalità e l'insufficienza della retribuzione garantita dal CCNL servizi fiduciari;

c) per avere confuso e sovrapposto i due distinti principi di proporzionalità e di sufficienza della retribuzione, adottando una motivazione illogica e contraddittoria;

d) per avere utilizzato come parametro il CCNL dipendenti di proprietari di fabbricati, che non attiene in alcun modo al settore dei servizi di portierato, vigilanza non armata e reception, come già affermato dalla Corte di legittimità con la sentenza n. 4951/2019;

e) in subordine, per avere preso come retribuzione-parametro quella prevista per il livello D dal CCNL dipendenti di proprietari di fabbricati, piuttosto che per il livello A;

f) per avere ritenuto insufficiente la retribuzione mensile assicurata dal CCNL servizi fiduciari nonostante risultasse complessivamente ben superiore alla soglia di povertà rilevata dall'ISTAT. Il motivo è in gran parte infondato ed in parte inammissibile.

In relazione alle censure sub a) e b), sulla base delle specifiche allegazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la Corte territoriale ha confermato il procedimento logico-giuridico compiuto dal Tribunale: sottoposta a verifica la "presunzione" invocata dalla ricorrente e ritenuta smentita alla luce di alcuni dati rilevati dall'ISTAT sulle soglie di povertà, si è posta la conseguente necessità di ricercare altri parametri - ossia un diverso CCNL - per stabilire la "giusta" retribuzione ex art. 36 Cost.

Con riguardo alla censura sub c), la Corte territoriale ha motivato analiticamente il proprio convincimento circa la violazione dei due requisiti costituzionali della retribuzione, valorizzando dati ricavati dalla stessa disciplina contenuta nel CCNL servizi fiduciari (come ad esempio la retribuzione complessiva netta mensile in relazione ad un orario giornaliero di 11 ore e 10 minuti, di qualche Euro appena superiore rispetto alla soglia di povertà rilevata dall'ISTAT; la mancata previsione di una maggiorazione retributiva per il lavoro notturno ordinario).

In relazione alla censura sub d), la Corte territoriale ha evidenziato che il CCNL utilizzato in via parametrica dal Tribunale era quello che prevedeva la retribuzione mensile "più bassa" fra tutti i contratti collettivi indicati come parametri dai lavoratori, motivando in modo quindi congruo l'esercizio "prudente" del potere discrezionale (di determinazione giudiziale della "giusta" retribuzione), in senso conforme al principio di diritto dettato da questa Corte nella sopra ricordata sentenza n. 2245/2006.

Inoltre il precedente di questa Corte di cui alla sentenza n. 4951/2019 è citato dalla ricorrente (v. ricorso, p. 36) in modo non pertinente (in quel caso si trattava di determinare la retribuzione dei soci di una cooperativa e il CCNL dipendenti dei proprietari di fabbricati è stato ritenuto non utilizzabile per la concorrente ragione di non soddisfare il requisito previsto dalla L. n. 31 del 2008, il cui art. 7 fa riferimento al contratto collettivo sottoscritto, anche per la parte datoriale, dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, mentre il CCNL dipendenti dei proprietari di fabbricati risultava sottoscritto soltanto dalla Confedilizia).

Con riguardo alla censura sub e), essa è inammissibile, in quanto involge l'interpretazione delle clausole contrattuali relative alle declaratorie e ai profili professionali, attività che è riservata al giudice del merito.

Anche la censura sub f) è inammissibile per assoluta genericità, non avendo la ricorrente precisato se e a quanto ammontino le ulteriori voci retributive (13 e t.f.r.) e quelle asseritamente percepite dagli odierni controricorrenti (per scatti di anzianità ed altri titoli eventuali), nè se e quando (ossia in quale fase o grado processuale) questa questione sia stata da essa sollevata in modo tempestivo sub specie di eccezione di merito. In ogni caso, con riguardo alle voci da comparare nell'ambito della verifica giudiziale del rispetto dell'art. 36 Cost., la soluzione non può valere in astratto, ma in concreto ed in concreto la società ricorrente non ha specificato quali e quante somme sono state pagate ai controricorrenti.

3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) la ricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.

Il motivo è inammissibile per assoluta genericità e per avere la ricorrente omesso di indicare specificamente quale sarebbe il fatto di cui sarebbe stato omesso l'esame. La ricorrente si è riferita ai "fatti controversi", adoperando genericamente il plurale. Tale deduzione smentisce da sè l'assunta decisività, che - nella logica precettiva del motivo di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) - richiede che il fatto di cui si lamenta l'omesso esame sia uno soltanto, perchè solo a tale condizione può rivelarsi "decisivo".

4.- Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) la ricorrente denunzia la nullità della sentenza d'appello per violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, e art. 118 disp. att. c.p.c. per avere la Corte territoriale adottato una motivazione solo "apparente".

Il motivo è manifestamente infondato alla luce delle considerazioni sopra svolte in relazione ai primi tre motivi.

5.- Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la ricorrente lamenta "violazione e/o falsa applicazione" della Direttiva 2003/88/CE, nonchè dell'art. 36 Cost., del D.Lgs. n. 66 del 2003 e del CCNL servizi fiduciari relativamente alla retribuzione delle ferie.

Il motivo è inammissibile nella parte relativa alla Direttiva comunitaria, fonte invocata in blocco, di cui vengono poi indicati alcuni articoli in realtà non pertinenti rispetto alla questione oggetto del giudizio.

Il motivo è infondato per il resto.

Va premesso che, come questa Corte ha avuto modo di affermare, "Ai fini del calcolo della retribuzione feriale dei lavoratori subordinati, la cui determinazione è rimessa alla contrattazione collettiva in mancanza di apposite previsioni da parte delle fonti legali (art. 36 Cost. e art. 2109 c.c.), la mancata inclusione di tutte le voci della retribuzione corrisposta durante il periodo di attività non contrasta con i principi dettati dal predetto art. 36 Cost., il quale non risponde al criterio della "onnicomprensività", ma demanda alla fonte contrattuale la garanzia di un trattamento "sufficiente", peraltro sempre controllabile dal giudice riguardo alla sua congruità rispetto ai parametri costituzionali" (Cass. 23/06/2022, n. 20126; nello stesso senso Cass. n. 1823/2004).

Nel caso oggetto del presente giudizio, tuttavia, la questione è diversa: non si tratta di includere o escludere alcune voci della retribuzione, quanto di considerare che il lavoro degli odierni controricorrenti è connotato da un'evidente peculiarità, poichè si articola sempre su quattro giorni settimanali, con un orario giornaliero di 11 ore e 10 minuti, a cui fanno seguito due giorni di riposo. E l'orario giornaliero si svolge sempre dalle ore 19,40 alle ore 06,50.

Quindi, alla luce dell'art. 11 CCNL, la Corte territoriale ha motivatamente affermato che nei quattro giorni lavorati vi sono otto ore di lavoro ordinario, mentre il tempo di lavoro eccedente le prime otto ore vanno considerate come straordinario (ovviamente giornaliero), "diurno" e "notturno" a seconda della collocazione temporale secondo quanto dispone l'art. 11 cit.

E' vero che l'art. 86 CCNL servizi fiduciari prevede che durante le ferie spetti la "normale retribuzione", la cui nozione è dettata dall'art. 23 CCNL cit. Ed è vero che in tale nozione non è prevista pure la retribuzione per lavoro straordinario.

Tuttavia va considerato che nel caso in esame, in relazione all'organizzazione del lavoro dettata da una precisa scelta della società ricorrente, il tempo di lavoro degli odierni controricorrenti si connota per turni fissi e predeterminati, tali da imporre sempre - nei quattro giorni di lavoro - lo svolgimento di lavoro straordinario (notturno e diurno).

Ne deriva che se si accogliesse la tesi della ricorrente, certamente il risultato non sarebbe conforme nè alla direttiva comunitaria, come interpretata dalla Corte di Giustizia U.E. nelle sentenze citate dalla Corte territoriale, nè all'art. 36 Cost. Infatti, la retribuzione che verrebbe percepita durante il periodo feriale sarebbe di molto inferiore a quella percepita durante il periodo di lavoro. Quindi non sarebbe neppure "paragonabile" a quest'ultima, sicchè il lavoratore sarebbe in concreto indotto a rinunziare alle ferie pur di non perdere un'apprezzabile parte del suo trattamento retributivo.

Questo rischio è assolutamente da scongiurare.

Questa Corte ha già affermato che "In materia di base di calcolo della retribuzione dovuta al lavoratore durante le ferie annuali, la mancanza di precise indicazioni nelle disposizioni dell'art. 2109 c.c. e della Convenzione OIL 24 giugno 1970 n. 157, ratificata con L. 10 aprile 1981, n. 157, non comporta l'inesistenza anche di qualsiasi vincolo desumibile dall'art. 36 Cost., che garantisce di diritto del lavoratore a ferie retribuite, e tuttavia la norma costituzionale non impegna la contrattazione collettiva a riferirsi alla nozione omnicomprensiva di retribuzione dettata dalla legge ai fini della misura dei trattamenti di fine rapporto e, in particolare, non comporta l'illegittimità di una norma contrattuale che faccia riferimento ad una nozione di retribuzione mensile di fatto non comprensiva di componenti retributive, come la maggiorazione per lavoro notturno, collegate a modalità contingenti della prestazione e non garantite, sotto il profilo della continuità dell'erogazione, dall'art. 2103 c.c." (Cass. 17/10/2001, n. 12683; nello stesso senso Cass. n. 17077/2002; Cass. n. 7040/2003).

Alla luce di tale principio di diritto, una clausola del contratto collettivo che preveda una nozione restrittiva di "retribuzione" utile ai fini delle ferie, con esclusione di determinate voci legate al lavoro notturno o straordinario, è legittima - sul piano della garanzia offerta al singolo dipendente dall'art. 36 Cost. - a condizione che il lavoro notturno o quello straordinario rappresentino mere modalità di esecuzione della prestazione, che potrebbero cioè venire meno in qualunque momento.

Nel caso in esame ciò non è: all'esito dell'accertamento di fatto compiuto dai giudici di merito è risultato che la prestazione lavorativa dei controricorrenti - per una precisa scelta organizzativa della società ricorrente - è concentrata nell'orario giornaliero dalle 19,40 alle 06,50. Quindi vi è lavoro notturno e straordinario (notturno e diurno) non come mere modalità di esecuzione della prestazione, bensì come tratto tipico ed ontologicamente intrinseco al rapporto di lavoro dei controricorrenti.

Ne consegue che la motivazione della Corte territoriale è conforme al principio di diritto affermato da questa Corte.

Infatti, mentre per 13 e 14 non vi sono altre ragioni che incidano sulla determinazione della base di computo, per la retribuzione delle ferie, invece, è pregnante l'incidenza del principio di irrinunziabilità dettato dall'art. 36 Cost., u.c..

Quindi è vero che in tema di ferie la norma costituzionale non determina la misura della retribuzione, così come identica lacuna vi è nell'art. 2109 c.c., sicchè occorre rifarsi alle scelte dell'autonomia collettiva. Ed è vero che non vige un principio di omnicomprensività della retribuzione. Ma è altresì vero che opera un ulteriore principio, quello della irrinunziabilità delle ferie annuali.

Dunque il giudice è chiamato a verificare se la clausola collettiva sulla retribuzione delle ferie, combinata con la peculiare organizzazione dell'orario di lavoro del dipendente, possa indurre il lavoratore a rinunziare alle ferie. In presenza di questo rischio la clausola collettiva dovrà essere considerata nulla e quindi ben può (anzi deve) il giudice determinare la retribuzione spettante durante le ferie includendovi i compensi per lavoro straordinario e notturno qualora abbiano la connotazione di emolumenti necessari (non eventuali) in virtù della particolare organizzazione del lavoro cui è obbligato il dipendente.

A ciò si aggiunga - in senso confermativo delle considerazioni sopra svolte - che la "normale retribuzione" prevista dal CCNL servizi fiduciari, alla luce di quanto sopra argomentato in relazione ai primi tre motivi di ricorso, si è rivelata non conforme al principio costituzionale della "giusta" retribuzione, proporzionata e sufficiente. Quindi giammai potrebbe essere considerata come idonea retribuzione delle ferie.

B) RICORSO INCIDENTALE. 1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la ricorrente incidentale lamenta "violazione e/o falsa applicazione" degli artt. 39 Cost., artt. 2070 e 1362 c.c. con riferimento agli artt. 1 CCNL vigilanza e servizi fiduciari, 1 CCNL portieri, 1 CCNL multiservizi, al paragrafo "validità e sfera di applicazione del contratto" CCNL terziario Confcommercio; degli art. 36 Cost. e art. 2099 c.c. in relazione all'art. 23 CCNL vigilanza e servizi fiduciari; D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 3 e art. 5, u.c..

Il motivo è inammissibile nella parte in cui si censura "violazione e/o falsa applicazione" delle norme in diritto con riferimento all'art. 1 CCNL multiservizi e al paragrafo "validità e sfera di applicazione del contratto" CCNL terziario Confcommercio, atteso che la Corte territoriale si è limitata a confermare la scelta del Tribunale della retribuzione-parametro prevista dal CCNL portieri dipendenti da proprietari di fabbricati. Quindi, per questa parte, la censura non è pertinente rispetto al decisum.

Il motivo è, altresì, inammissibile nella parte in cui si censura violazione dell'art. 1362 c.c., atteso che quella compiuta dai giudici di appello non è stata un'operazione interpretativa del contratto collettivo, bensì una diversa duplice operazione: a) di verifica di rispondenza della retribuzione prevista dal CCNL vigilanza e servizi fiduciari ai requisiti imposti dall'art. 36 Cost.; b) all'esito, di scelta di un CCNL di settore analogo per prestazioni lavorative analoghe, non per farne un'applicazione diretta, non consentita dalla clausola relativa al suo ambito applicativo, ma soltanto come "parametro" in base al quale determinare la "giusta" retribuzione nel senso costituzionale del termine.

Per il resto valgono le considerazioni già espresse con riguardo al primo e al secondo motivo di ricorso principale.

Infine, con riguardo al D.Lgs. n. 66 del 2003, la ricorrente incidentale lamenta che la Corte territoriale abbia ignorato la norma (art. 3) sull'orario normale di lavoro, fissato in 40 ore settimanali, nonchè la norma (art. 5, ult. co.) sui riposi compensativi del lavoro straordinario.

Il motivo è inammissibile sotto plurimi profili.

E' inammissibile laddove si invoca il D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 3 senza considerare che è risultato accertato (e pacifico) in fatto che gli odierni controricorrenti osservano un orario giornaliero di 11 ore e 10 minuti per quattro giorni consecutivi, sicchè l'orario settimanale per loro è pari a 44 ore e 40 minuti, con un monte di lavoro straordinario settimanale, fisso e continuativo e ontologicamente intrinseco al loro rapporto di lavoro, di 4 ore e 40 minuti. Quindi non vi è "pertinenza" della censura rispetto all'accertamento giudiziale e alla conseguente decisione.

Il motivo è altrettanto inammissibile con riguardo al riposo compensativo.

Contrariamente all'assunto della ricorrente incidentale, la Corte territoriale non ha omesso di rilevare questo dato di fatto, ma l'ha ritenuto irrilevante ai fini della determinazione della "giusta retribuzione", considerato che quella netta percepita è risultata essere di pochi Euro superiore alla soglia di povertà individuata dall'ISTAT. Va infatti evidenziato che la questione oggetto del giudizio non è quella di stabilire se il lavoro straordinario sia correttamente retribuito e in quale modo, bensì di stabilire se la retribuzione mensile netta percepita dai controricorrenti sia "giusta" nei sensi voluti dall'art. 36 Cost. Rispetto a questa questione, il dato di fatto di un giorno di riposo ulteriore a settimana, volto a compensare il lavoro straordinario, è del tutto irrilevante, in quanto non pertinente rispetto al thema controverso.

2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la ricorrente incidentale lamenta "violazione e/o falsa applicazione" degli art. 36 Cost., comma 3, D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 10, art. 7 della direttiva 2003/88/CE con riguardo alla retribuzione delle ferie, nonchè degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione agli artt. 10, 11 e 19 CCNL vigilanza e servizi fiduciari.

Il motivo è infondato alla luce delle considerazioni sopra svolte con riguardo al quinto motivo di ricorso principale.

3.- Infine la ricorrente incidentale evidenzia che la garanzia di irrinunziabilità delle ferie, prescritta sia dall'art. 36 Cost., sia dal D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 10 sarebbe misura sufficiente a scongiurare il rischio sopra paventato. In subordine, chiede a questa Corte di rimettere alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea (ai sensi dell'art. 267 TFUE) la questione pregiudiziale "se sono applicabili o meno, in maniera diretta, all'interno dell'ordinamento italiano i principi sanciti dalla giurisprudenza della CGUE... in materia di retribuzione dei giorni di ferie stante l'irrinunciabilità al diritto alle ferie...". In tal senso il suo difensore ha altresì ribadito tale invito in sede di discussione in pubblica udienza.

Orbene, va ricordato che, secondo la risalente giurisprudenza della Corte G.U.E., (Corte G.U.E. 06/10/1982 - causa c-283/81 - Cilfit Srl + 1 contro Ministero della Sanità), "l'obbligo di sottoporre alla Corte di Giustizia le questioni d'interpretazione del trattato e degli atti adottati dalle istituzioni della Comunità che l'art. 177, comma 3 del trattato impone ai giudici nazionali di ultima istanza rientrano nell'ambito della collaborazione, istituita al fine di garantire la corretta applicazione e l'interpretazione uniforme del diritto comunitario nell'insieme degli Stati membri, fra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell'applicazione delle norme comunitarie, e la Corte di Giustizia. La disposizione soprammenzionata mira più particolarmente ad evitare che si producano divergenze giurisprudenziali all'interno della Comunità su questioni di diritto comunitario. La portata di tale obbligo va pertanto valutata tenendo conto di questi scopi, in funzione della competenza rispettiva dei giudici nazionali e della Corte di Giustizia".

Tuttavia si è espressamente escluso che il rinvio pregiudiziale costituisca "un rimedio giuridico esperibile dalle parti di una lite pendente dinanzi ad un giudice nazionale. Non basta quindi che una parte sostenga che la controversia solleva una questione d'interpretazione del diritto comunitario perchè il giudice (di ultima istanza) sia obbligato a ritenere che sussista una questione sollevata ai sensi di detto articolo".

Inoltre si è affermato che i giudici di ultima istanza "... dispongono dello stesso potere discrezionale di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronunzia su un punto di diritto comunitario onde consentir loro di decidere. Tali giudici non sono pertanto tenuti a sottoporre alla Corte una questione d'interpretazione di norme comunitarie sollevata dinanzi ad essi se questa non è pertinente, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull'esito della lite".

Peraltro, qualora la Corte di Giustizia si sia già pronunziata, l'autorità dell'interpretazione data dalla Corte può far venir meno la causa dell'obbligo del rinvio pregiudiziale: "... ciò avviene in ispecie qualora la questione sollevata sia sostanzialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale ovvero qualora il punto di diritto di cui trattasi sia stato risolto dalla costante giurisprudenza della Corte, indipendentemente dalla natura dei procedimenti da cui essa ha tratto origine, anche in mancanza di stretta identità delle questioni controverse".

Altra ipotesi di esonero dall'obbligo del giudice di ultima istanza di disporre il rinvio pregiudiziale è stata rinvenuta nel caso in cui lo stesso giudice "... abbia accertato che la corretta applicazione del diritto comunitario s'impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi".

Questi principi sono stati di recente ribaditi dalla Corte G.U.E. Grande Sezione (sentenza 06/10/2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi Spa c. Rete Ferroviaria Italiana Spa in Causa c-561/19), che ha confermato le ipotesi - già delineate nella sentenza sopra ricordata - al ricorrere delle quali il giudice nazionale di ultima istanza, pur in presenza di una questione concernente l'applicazione del diritto Eurounitario, è esonerato dall'obbligo di investire la Corte tramite lo strumento del rinvio pregiudiziale. Tra queste ipotesi vi sono i casi di irrilevanza della questione: dell'acte èclairè, quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell'acte clair, quando l'interpretazione del diritto dell'Unione si imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi.

Nel caso in esame non sussistono ragioni per un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, dal momento che il rischio di una rinunzia alle ferie, quale criterio "guida" utilizzato dalla Corte Europea nell'interpretazione della direttiva 2003/88/CE (in tutte le sentenze citate dalla Corte territoriale e ricordate pure dalla ricorrente incidentale), attiene al piano concreto dello svolgimento del rapporto di lavoro e non a quello astratto dell'ordinamento, sicchè quel rischio non è affatto precluso o scongiurato dall'esistenza di una norma interna che vieti la rinunzia (preventiva) alle ferie.

Questa Corte ha più volte affermato (ex multis Cass. n. 13425/2019) che il diritto del lavoratore a fruire di un periodo di ferie retribuite rappresenta uno dei cardini sia del diritto interno (art. 36 Cost. ed art. 2109 c.c., comma 2) che di quello comunitario. L'espressione "ferie annuali retribuite", contenuta nell'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, come interpretato dalla Corte G.U.E. (nelle sentenze citate dalla Corte territoriale), sta a significare che, per tutta la durata delle ferie, deve essere mantenuta la retribuzione ordinaria, in modo che il lavoratore non sia scoraggiato nella fruizione delle ferie dalla previsione di una retribuzione più bassa rispetto ai periodi di lavoro effettivo.

Orbene, questa ratio - contrariamente all'assunto della ricorrente incidentale - resta inalterata pur in presenza di una normativa nazionale che preveda in via inderogabile l'irrinunziabilità delle ferie (e quindi la nullità di ogni atto o patto contrario). Infatti, ai fini della tutela di questo diritto al riposo annuale, rileva non la garanzia di irrinunziabilità, bensì l'effettività della fruizione, perchè destinata a tutelare sicurezza e salute del dipendente. Orbene, questa effettività ben potrebbe essere vanificata da una retribuzione più bassa, inducendo il lavoratore a rinunziarvi. In tale ipotesi è vero che il dipendente potrebbe invocare la nullità della rinunzia alle ferie e pretendere il risarcimento del danno. Ma questa forma di tutela si rivela estranea (ed insufficiente rispetto) alla ratio della direttiva sopra evidenziata: il risarcimento rappresenterebbe solo l'equivalente monetario del mancato riposo annuale, di per sè non reintegrabile perchè ormai passato ed irrecuperabile. Ed è proprio questa possibile conseguenza che la disciplina Eurounitaria della retribuzione delle ferie mira a scongiurare (art. 7 della direttiva 2003/88/CE) come interpretata dalla Corte G.U.E., secondo cui la finalità della direttiva è quella di tutelare la sicurezza e la salute del lavoratore (di recente v. Corte G.U.E. 13/01/2022, nella causa C-514/20, DS c/ Koch).

Nella pronuncia del 15 settembre 2011, Causa c-155/10, Williams e altri, la Corte di Giustizia ha osservato che "sebbene la struttura della retribuzione ordinaria di un lavoratore di per sè ricada nelle disposizioni e prassi disciplinate dal diritto degli Stati membri, essa non può incidere sul diritto del lavoratore... di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili a quelle relative all'esercizio del suo lavoro" (punto 23). Pertanto "qualsiasi incomodo intrinsecamente collegato all'esecuzione delle mansioni che il lavoratore è tenuto ad espletare in forza del suo contratto di lavoro e che viene compensato tramite un importo pecuniario incluso nel calcolo della retribuzione complessiva del lavoratore... deve obbligatoriamente essere preso in considerazione ai fini dell'ammontare che spetta al lavoratore durante le sue ferie annuali" (punto 24). All'opposto, non devono essere presi in considerazione nel calcolo dell'importo da versare durante le ferie annuali soltanto "gli elementi della retribuzione complessiva del lavoratore diretti esclusivamente a coprire spese occasionali o accessorie che sopravvengano in occasione dell'espletamento delle mansioni che incombono al lavoratore in ossequio al suo contratto di lavoro" (punto 25).

Alla luce di tali pronunzie interpretative, dunque, sussiste l'esonero di questa Corte dal generale dovere del rinvio pregiudiziale: alla direttiva - di cui la ricorrente incidentale invoca una nuova interpretazione da parte della Corte di Giustizia dell'Unione Europea - è già stata data l'interpretazione necessaria affinchè questa Corte possa pervenire alla decisione del presente ricorso (c.d. acte eclairè).

Infine nessun rilievo può avere il dato - tratto dalla giurisprudenza Eurounitaria - della media delle retribuzioni percepite nei dodici mesi precedenti, invocato dalla ricorrente incidentale (v. ricorso incidentale, p.35) e di cui si censura l'omessa considerazione da parte della Corte territoriale. E' infatti risultato accertato in fatto (in quanto pacifico tra le parti) che gli odierni controricorrenti svolgono sempre la loro prestazione lavorativa per quattro giorni consecutivi (seguiti da due giorni di riposo), osservando un orario giornaliero di 11 ore e 10 minuti dalle ore 19,40 alle ore 06,50 del giorno successivo. Quindi la media nei dodici mesi precedenti è comunque e sempre pari alla retribuzione percepita per tale orario di lavoro. In definitiva, la particolare organizzazione del lavoro, cui sono obbligati i controricorrenti, rende insussistente una "media", privando dunque della sua funzione il criterio di calcolo (la media dei dodici mesi precedenti) invocato da ATM spa.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater pari a quello per il ricorso principale e per quello incidentale a norma dell'art. 13, comma 1 bis D.P.R. cit., se dovuto.

 

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; condanna la ricorrente principale e quella incidentale a rimborsare, in solido, ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.

Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater pari a quello per il ricorso principale e per quello incidentale a norma dell'art. 13, comma 1 bis D.P.R. cit., se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, il 14 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2023