REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCALI Piero

 - Presidente

Dott. IACOPINO Silvana Giovanna

 - Consigliere

Dott. ROMIS Vincenzo

 - rel. Consigliere

Dott. BIANCHI Luisa

 - Consigliere

Dott. MASSAFRA Umberto

 - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
1) C.L. N. IL ***;
avverso la sentenza n. 3140/2008 CORTE APPELLO di ROMA, del 02/02/2009;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/05/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO ROMIS;
udito il P.G. in persona del Dott. MURA Antonio che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. Ottaviani Nicola il quale ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.L. veniva tratto a giudizio, per rispondere del reato di cui all'articolo 589 c.p., perché, per colpa consistita in negligenza, imperizia ed imprudenza, nonché inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, agendo quale capocantiere della ditta di F.V. (nei cui confronti si è proceduto separatamente), aveva cagionato la morte dell'operaio V.G. (lavoratore in nero dipendente di fatto della ditta del F.), secondo una dinamica così ricostruita nel capo di imputazione: il V. nel pomeriggio del ***, mentre espletava da solo le mansioni affidategli, era caduto da un'apertura posta all'altezza di circa sei metri dopo essere inciampato su una palanca, riportando, in conseguenza della caduta dall'alto, gravissime lesioni; il V. era stato lasciato quindi seduto su una sedia in gravi condizioni, e solo alla fine del turno di lavoro era stato riportato a ***, da dove, dopo essere stato caricato a braccia su un'auto di suoi parenti avvisati dell'accaduto, era stato trasportato all'ospedale di ***, con ricovero in prognosi riservata: presso tale nosocomio era poi deceduto il giorno seguente per shock traumatico ed ipovolemico secondario a pneumotorace destro drenato, frattura epifisi-metafisi distale del femore destro, frattura somatica amielica del corpo della 21 vertebra dorsale e lacerazione epatica con versamento emorragico libero endoaddominale; i profili di colpa specifica venivano contestati all'imputato sul rilievo del mancato uso da parte del V. della cintura di sicurezza, nonché della mancata predisposizione di misure di protezione idonee a prevenire il pericolo di caduta da balconcino-apertura dove il V. lavorava da solo senza alcun controllo.

All'esito del dibattimento, il Tribunale di Roma condannava il C. alla pena ritenuta di giustizia, previa concessione delle attenuanti generiche valutate equivalenti all'aggravante contestata.

A seguito di gravame ritualmente proposto nell'interesse del C., la Corte d'Appello di Roma confermava l'affermazione di colpevolezza pronunciata nei confronti dell'imputato e, per la parte che in questa sede rileva, dava conto del convincimento così espresso con argomentazioni che possono sintetizzarsi come segue:
1) la difesa del C. aveva dedotto che l'imputato era stato condannato per essergli stata riconosciuta la qualifica di capocantiere di fatto della ditta F., mentre invece egli era il legale rappresentante della E. P. C. P. s.r.l. ed in tale veste aveva stipulato un contratto di subappalto di alcuni lavori alla ditta F.V. alle cui dipendenze lavorava il V.; la Corte di merito disattendeva la tesi difensiva, osservando che:
a) dall'istruttoria dibattimentale, e dalle stesse dichiarazioni del C. in atti, era emerso che l'imputato, pur essendo il legale rappresentante della ditta appaltante, aveva in concreto esercitato le mansioni di direttore dei lavori e di capocantiere, provvedendo ad organizzare i lavori e ad impartire le direttive agli operai;
b) né risultava che il F. avesse mai provveduto a nominare un responsabile per la sicurezza del cantiere come previsto dall'articolo 4 del contratto di subappalto: di tal che tale onere non poteva che ricadere sulla persona che in concreto svolgeva le funzioni di sorveglianza, gestione e controllo del cantiere, e cioè il C.;
2) con i motivi di appello, la difesa dell'imputato aveva eccepito l'interruzione del nesso di causalità tra la caduta del V. ed il suo decesso, asserendo che il C.T. del P.M. ed il C.T. della difesa si erano espressi nel senso che un tempestivo soccorso avrebbe salvato la vita al V., e sostenendo che sarebbe stato quest'ultimo a ritardare qualsiasi forma di soccorso per sua autonoma decisione; la Corte distrettuale, sottolineando che non era stato eseguito l'accertamento autoptico e che i pareri erano stati forniti dai C.T. sulla base degli atti, disattendeva l'assunto difensivo, evidenziando che:
a) il C.T. del P.M. aveva tendenzialmente escluso che il ritardo di circa cinque ore intercorso tra l'infortunio ed il ricovero nella struttura ospedaliera avesse influito sull'esito infausto delle lesioni riportate dal V. ed il C.T. della difesa aveva espresso una valutazione di buon senso, piuttosto che un giudizio tecnico, nel concludere che un'assistenza anticipata "non gli avrebbe fatto male" (pag. 4 della sentenza);
b) era stato proprio il C. a tentare di sminuire l'entità delle lesioni riportate dal V. e ad indurre quest'ultimo ad attendere la fine del turno di lavoro - approfittando anche dello stato di soggezione del V. il quale lavorava "in nero" - nonché a convincere il V. stesso ai dichiarare al Pronto Soccorso di essere caduto da una scala in ambito privato.

Ricorre per Cassazione il C. svolgendo argomentazioni, sotto il duplice profilo della violazione di legge - per quel che riguarda l'asserito mancato rispetto del principio di correlazione tra imputazione e sentenza - e del vizio motivazionale, relativamente alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra l'infortunio ed il decesso del V., sostanzialmente reiterando le tesi già sottoposte al vaglio del giudice dell'appello e da questi disattese per le ragioni sopra sinteticamente ricordate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, perché basato su doglianze che, attraverso considerazioni già compiutamente vagliate dal giudice dell'appello, e pur se dedotte sotto gli asseriti profili di violazione di legge e vizio motivazionale, tendono sostanzialmente ad una rivalutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità.

Giova sottolineare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, "esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito" (Sez. Un. n. 6402/97, imp. Dessimone ed altri, RV. 207944).
Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi puntuali contenuti motivazionali - quali sopra riportati (nella parte relativa allo "svolgimento del processo") e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni - forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti l'infortunio oggetto del processo: la Corte distrettuale, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (dinamica dell'infortunio, posizione di garanzia del C., nesso causale) ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità dell'imputato.

Per completezza argomentativa si impongono talune ulteriori precisazioni in relazione alle questioni sollevate dal ricorrente.

Manifestamente infondato è il primo motivo con il quale è stata dedotta l'asserita violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza. Innanzi tutto, giova evidenziare che nel capo di imputazione risulta attribuita al C. la qualifica di capocantiere di fatto, pur se in collegamento con l'appaltatore F., e la condanna è stata pronunciata proprio sul rilievo che il C. svolgeva in concreto le mansioni di capocantiere (d'altra parte, con lo stesso ricorso non si esclude che il C. ricoprisse tale ruolo, sia pure, asseritamente, nell'interesse della stessa società dal C. stesso rappresentata e non per conto del F.). A ciò aggiungasi che la posizione di garanzia del C. era riconducibile anche alla sua veste di legale rappresentante della E. P. C. P. s.r.l. che aveva dato in (sub)appalto alcuni lavori alla ditta del Fa. : nella giurisprudenza di questa Corte è stato infatti affermato il principio secondo cui l'appaltante risponde, come datore di lavoro, dell'assolvimento degli obblighi nei confronti dei dipendenti dell'appaltatore (cfr. Sez. 4, n. 14361/02, Abbadini ed altro, RV. 221378, con la quale è stato precisato che alla responsabilità dell'appaltante si aggiunge anche quella dell'appaltatore ove sia dimostrato che quest'ultimo, lungi dall'operare come mero prestatore di lavoro, abbia conservato un potere di ingerenza nella gestione delle attività svolte dai dipendenti). La Corte distrettuale non ha mancato di porre in rilevo che dall'istruttoria dibattimentale, e dalle stesse dichiarazioni del C. in atti, era emerso che l'imputato, pur essendo il legale rappresentante della ditta appaltante, aveva in concreto esercitato le mansioni di direttore dei lavori e di capocantiere, provvedendo ad organizzare i lavori e ad impartire le direttive agli operai: orbene, anche sul punto è sufficiente richiamare il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui "in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro chiunque, in qualsiasi modo, abbia assunto posizione di preminenza rispetto ad altri lavoratori, così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, deve essere considerato automaticamente tenuto, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 547 del 1955, articolo 4, ad attuare le prescritte misure di sicurezza e a disporre e ad esigere che esse siano rispettate, a nulla rilevando che vi siano altri soggetti contemporaneamente gravati dallo stesso obbligo per un diverso e autonomo titolo" (in termini, "ex plurimis", Sez. 4, 19 febbraio 1998, n. 3948). Sui profili di colpa oggetto della valutazione dei giudici del merito, la difesa, come è agevole rilevare da tutte le questioni di volta in volta sollevate nei giudizi di primo e secondo grado/in ordine al ruolo ed alla condotta del C., ha avuto completa ed assoluta possibilità di interloquire: di tal che, il diritto di difesa, alla cui tutela è finalizzato il principio di correlazione in argomento, non è risultato in alcun modo compromesso; al riguardo è stato enunciato da questa Corte il seguente, condivisibile, principio: "si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali in modo tanto determinante da comportare un effettivo pregiudizio ai diritti della difesa. In applicazione di tale principio, si è escluso che la condanna per il fatto di offerta, messa in vendita e comunque cessione di stupefacente, a fronte di contestazione di mera detenzione, integri la violazione suddetta" (Sez. 6, n. 12156 del 05/03/2009 Ud. - dep. 19/03/2009 - Rv. 243025). Va poi evidenziato che, come si rileva agevolmente dalle integrative pronunce di primo e secondo grado, si è trattato di circostanze fattuali in ordine alle quali l'imputato ha avuto ampia possibilità di difesa: nella giurisprudenza di legittimità è stato invero affermato che "il precetto dell'articolo 521 c.p.p., comma 1, che enuncia il principio della correlazione tra accusa e sentenza va inteso non in senso "meccanicistico formale", ma in funzione della finalità cui è ispirato, quella cioè della tutela del diritto di difesa; ne consegue che la verifica dell'osservanza di detto principio non può esaurirsi in un mero confronto letterale tra imputazione e sentenza, occorrendo che ogni indagine in proposito venga condotta attraverso l'accertamento della possibilità per l'imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto" (in termini, "ex plurimis", Sez. 6, n. 618/96 - ud 8/11/95 - RV. 20337).

Per quel che riguarda le censure concernenti il nesso di causalità, trattasi di doglianze che presentano evidenti profili di inammissibilità, perché generiche, e non consentite in sede di legittimità, in quanto finalizzate ad una lettura delle risultanze probatorie diversa ed alternativa rispetto a quella fornita dalla Corte di merito, con un percorso motivazionale privo di qualsiasi connotazione di illogicità, già sopra ricordato nella parte narrativa: "In tema di ricorso per cassazione, poiché esula dal controllo della Suprema Corte la rilettura degli elementi di fatto posti a base della decisione, non costituisce vizio comportante controllo di legittimità la mera prospettazione di una diversa (e, per il ricorrente, più favorevole) valutazione delle emergenze processuali" ("ex plurimis", Sez. 5, 21 aprile 1999, Jovino, RV 213638).

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende.