Cassazione Penale, Sez. 3, 22 novembre 2023, n. 46876 - Violenza sessuale sulla dipendente da parte del datore di lavoro


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GALTERIO Donatella - Presidente -

Dott. CORBETTA Stefano - Consigliere -

Dott. NOVIELLO Giuseppe - Consigliere -

Dott. MAGRO Maria Beatrice - Consigliere -

Dott. ZUNICA Fabio - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 18-03-2022 della Corte di appello di Lecce;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dr. Fabio Zunica;

lette le conclusioni scritte rassegnate dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Pedicini Ettore, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.

lette le conclusioni scritte trasmesse dall'avvocato Stefano Stendardo, difensore di fiducia della parte civile, che ha concluso per l'inammissibilità o per il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del grado in favore della parte civile.

 

Fatto


1. Con sentenza emessa in data 18 marzo 2022, la Corte di appello di Lecce confermava a decisione del 28 aprile 2016, con cui il G.U.P del Tribunale di Lecce aveva condannato A.A., riconosciuta l'attenuante della minore gravità con giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante ex art. 61 c.p., n. 11 alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato continuato di violenza sessuale, a lui contestato per aver costretto in più occasioni B.B. a subire atti sessuali, consistiti in repentini palpeggiamenti, toccamenti delle parti intime e in un bacio sulla bocca; fatti commessi in (Omissis), con abuso delle relazioni di prestazione d'opera. Veniva altresì confermata la statuizione con cui l'imputato era stato condannato al risarcimento del danno, liquidato in Euro 5.000, in favore della costituita parte civile B.B..

2. Avverso la pronuncia della Corte di appello salentina, A.A., tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando ventitrè motivi.

Con i primi tre, esposti congiuntamente, la difesa contesta, sotto il profilo della manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, oltre che dell'erronea applicazione dell'art. 609 bis c.p., la valutazione di credibilità della persona offesa, evidenziando che i giudici di merito non hanno tenuto conto delle oggettive discrepanze ravvisabili nelle quattro versioni fornite dalla B.B., non considerando, ad esempio, che in due versioni su quattro non si parla di alcun bacio sulla bocca, che non risulta specificato se le presunte condotte dell'imputato abbiano riguardato zone erogene o se il comportamento si è arrestato alla soglia del tentativo. Nè può sostenersi che le incongruenze siano ricollegabili al tempo trascorso dai fatti, atteso che il primo dei quattro ascolti ha avuto luogo a distanza di poche ore dai presunti accadimenti, mentre l'ultimo è avvenuto a meno di sei mesi di distanza dai fatti.

La Corte territoriale avrebbe violato quindi i canoni interpretativi dettati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza cd. "Bell'Arte" (n. 41461 del 2012), che impongono un più penetrante e rigoroso controllo sulle dichiarazioni della persona offesa rispetto a quelle degli altri testimoni, controllo che nel caso di specie è mancato, essendo risultate le versioni della B.B. contraddittorie e animate da evidenti interessi economici, non potendosi inoltre sottacere che la donna era affetta da anni da un conclamato turbamento emotivo e psichico.

Con il quarto, quinto, sesto e settimo motivo, la difesa eccepisce il vizio di motivazione della sentenza impugnata con specifico riferimento all'individuazione delle concrete modalità di realizzazione delle presunte violenze, in primis nell'ambito del colloquio di lavoro: la Corte di appello, in particolare, avrebbe omesso di considerare che la persona offesa, in due delle sue quattro versioni, nei descrivere il primo colloquio di lavoro, non ha fatto cenno ad alcun tipo di problema sorto con A.A., parlando di un "normale colloquio di lavoro", escludendo quindi di aver subito le avances dell'imputato, mentre in un'altra versione la donna ha accusato il ricorrente di aver commesso violenze in suo danno prima che il colloquio avesse fine e, nella quarta versione, l'episodio dei colloquio non è stato neppure riferito, riverberandosi la contraddittorietà di queste ricostruzioni sulla tenuta logica della motivazione della sentenza.

La Corte di appello, infatti, ha ignorato le incongruenze del racconto della persona offesa, escludendo intenti calunniatori in ragione del fatto che il terzo racconto della presunta vittima aveva confermato la prima versione, ma tale valutazione costituisce una mera congettura, atteso che secondo l'id quod plerumque accidit, la successiva conferma di una prima versione poco prima invece ritrattata (se pur in via implicita) non rappresenta affatto prova dell'attendibilità del propalante, quanto dell'esatto opposto, costituendo il continuo mutamento delle versioni un indice della natura menzognera della complessiva ricostruzione fornita.

Con l'ottavo e il nono motivo, il ricorrente censura l'apparato motivazionale della sentenza impugnata, nella parte in cui ha negato rilevanza alle dichiarazioni testimoniali delle dipendenti D.D. e E.E., le quali hanno affermato che non sarebbe stato possibile rimanere da soli con l'imputato durante l'orario lavorativo, valendo tali affermazioni a smentire l'assunto accusatorio, essendo invece apodittica e del tutto ipotetica la deduzione dei giudici di appello secondo cui "è inevitabile ritenere che il A.A. ponesse in essere le condotte contestate approfittando dei momenti in cui rimaneva solo con la B.B.".

Con il decimo, l'undicesimo e il dodicesimo motivo, oggetto di doglianza è la valutazione delle dichiarazioni della teste G.G., premettendosi al riguardo che la B.B., nelle sue prime tre versioni, non ha mai fatto cenno al ruolo svolto dalla teste, citata solo in occasione del quarto ascolto; peraltro, la G.G., la prima volta che è stata sentita, ha scagionato l'imputato, salvo ritrattare in seguito le sue veritiere dichiarazioni in occasione della sua seconda escussione, quando ha confermato il racconto della vittima con affermazioni menzognere, essendo emerso che la teste non ha esitato in più occasioni a proporre alle sue ex colleghe di inventare falsi infortuni sul lavoro o inesistenti violenze, all'unico fine di ricattare A.A. per farsi dare del denaro, avendo la teste F.F. riferito di aver appreso direttamente dalla G.G. dei suoi intenti ritorsivi nei confronti dell'imputato, avendole riferito a frase "te vedrai il giorno che non lavoro più qua che gli combino", frase questa che rende palese l'inaffidabilità della teste, che invero è stessa smentita dalla stessa B.B., secondo cui le presunte violenze del ricorrente sarebbero avvenute in assenza di testimoni.

Dunque, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, la deposizione della G.G. non sarebbe affatto marginale, essendo invece centrale per comprovare la falsità delle accuse rivolte a A.A. e la macchinazione ordita ai suoi danni dalle sue dipendenti.

Con il tredicesimo motivo, viene ritenuto manifestamente illogico il percorso argomentativo attraverso il quale i giudici di appello hanno relegato a mero "elemento secondario" la necessità di chiarire la circostanza, oggetto di plurime contraddizioni tra quanto riferito dalla B.B. e da suo marito H.H., se sia stato o meno quest'ultimo a indurre la donna ad andare dai Carabinieri (avendo appreso i fatti da una chiamata casualmente avviatasi), oppure se l'abbia accompagnata o meno in Caserma, dovendosi piuttosto ritenere tali evenienze assolutamente centrali nella valutazione dell'attendibilità della persona offesa.

Con il quattordicesimo, quindicesimo, sedicesimo e diciassettesimo motivo, la difesa deduce il vizio della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui, ai fini della valutazione della sua credibilità, non ha considerato il certificato medico attestante che B.B. era in cura già da alcuni anni con antidepressivi e ansiolitici, circostanza questa che, unitamente alle numerose incongruenze del racconto, avrebbe imposto maggiore prudenza nella verifica della credibilità della testè, non potendo ritenersi sufficienti mere dichiarazioni de relato. Inoltre, del tutto congetturale e presuntiva è l'affermazione dei giudici di appello, secondo cui la morte del padre della B.B., a seguito di un'aggressione di cani randagi, costituisse "verosimilmente la ragione per la quale la donna era in trattamento con antidepressivi e ansiolitici", avendo al contrario la persona offesa dichiarato che ella cercava di "aiutarsi con i tranquillanti" per superare lo shock derivante dalle paventate violenze subite, di fatto delineando un diretto turbamento emotivo e psichico tale da richiedere quantomeno un'analisi più scrupolosa delle sue dichiarazioni; la Corte di appello ha poi escluso che la B.B. si sia recata dal medico nella medesima data (il 10 luglio 2014) in cui A.A. presentò querela nei suoi confronti, nell'intento di premunirsi di una prova (i referti medici) contro di esso, argomentando che "non vi è modo di affermare che la visita sia successiva al verbale di identificazione, il che appare improbabile, in quanto sarebbe avvenuta nel tardo pomeriggio", essendo la precisazione dei giudici di appello circa l'orario di svolgimento delle visite mediche agevolmente confutabile sulla base della comune esperienza, secondo cui gli appuntamenti presso gli studi medici vengono dati la mattina o la sera, piuttosto che la mattina.

Con il diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo motivo, viene censurata la motivazione della decisione impugnata rispetto all'esame delle ragioni per le quali la persona offesa ha deciso di interrompere il rapporto di lavoro: si evidenzia sul punto che, sebbene la B.B. abbia dichiarato di aver lasciato il lavoro dopo solo quattro giorni dall'assunzione, in primis a causa dello svolgimento di mansioni non concordate e, solo in secondo luogo, per via delle "proposte oscene di natura sessuale" provenienti da A.A. (senza dunque menzionare affatto nè i palpeggiamenti, nè il bacio sulle labbra), i giudici di appello, oltre ad aver negato irragionevolmente qualsivoglia rilevanza all'ordine di esposizione delle ragioni, hanno ritenuto che non potesse "desumersi da esso che le aggressioni sessuali subite fossero dalla B.B. considerate subvalenti rispetto alle ragioni lavorative", equiparando del tutto impropriamente le "proposte oscene", biasimevoli, ma penalmente irrilevanti, alle presunte "aggressioni sessuali"; parimenti inconferente sarebbe inoltre il ragionamento seguito dalla Corte territoriale, laddove, per cercare di giustificare la sproporzionata richiesta della B.B.', pari a più del doppio di quanto concordato (come riconosciuto pure dai giudici di appello, i quali tuttavia non hanno chiarito se i giorni di lavoro fossero tre o quattro), hanno ritenuto tale somma, in maniera esagerata e irragionevole, "probabilmente comprensiva anche di quanto dovuto a titolo di buonuscita, nonchè delle ore lavorative in eccesso effettuate dalla B.B.", senza considerare che il mancato accoglimento da parte di A.A. dell'esorbitante richiesta di pagamento avanzata dalla donna poteva costituire una chiave di lettura della successiva denuncia, non potendosi trascurare le ragioni di risentimento della persona offesa, proveniente da un contesto sociale disagiato, nel quale anche una cifra modesta può avere un suo rilievo.

In tal senso, la difesa contesta l'affermazione della Corte territoriale secondo cui la B.B. non avrebbe avuto alcun contrasto con l'imputato, essendo invece pacifica, in ragione delle indebite ed esorbitanti pretese economiche avanzate, la sussistenza di un cd. "interesse inquinante" in capo alla querelante, che avrebbe imposto maggiore rigore nella verifica della sua attendibilità.

Il ventunesimo e il ventiduesimo motivo sono dedicati alla contraddittorietà e alla manifesta illogicità della motivazione della sentenza, nella parte in cui la Corte di appello, trattando dei presunti lividi riportati dalla persona offesa, ha affermato, da un lato, che si sarebbe in presenza di elementi che non attengono al nucleo essenziale del fatto, nonostante si verta in materia di accertamento di reati sessuali e, dall'altro, che sul punto la parte lesa non si sarebbe contraddetta, quando invece la B.B., inizialmente, aveva attestato l'esistenza di questi lividi, riconducendoli ai "soprusi lavorativi" cui il datore di lavoro la sottoponeva durante il suo impiego, per poi ometterne ogni menzione nei racconti seguenti, risultando in ogni caso le iniziali dichiarazioni della persona offesa in palese contrasto da quelle di G.G., secondo la quale tali lividi le sarebbero stati mostrati proprio dalla B.B. a dimostrazione delle violenze sessuali subite ad opera di A.A..

Con il ventitreesimo motivo, infine, è stata dedotta la manifesta illogicità della decisione impugnata nella parte in cui la denuncia per tentata estorsione sporta da A.A. contro la B.B. a due giorni dai fatti, è stata ritenuta "circostanza non decisiva" per sostenere la buona fede e la conseguente innocenza dell'imputato, non essendosi considerato che la denuncia fu presentata dall'imputato nella piena convinzione che i Carabinieri sarebbero così venuti per la prima volta a conoscenza della vicenda, per cui deve ritenersi che l'iniziativa del ricorrente fu ispirata dalla convinzione della propria innocenza, perchè, diversamente, egli non avrebbe corso il rischio di mettere a conoscenza le forze dell'ordine di quanto accaduto 48 ore prima.

3. In data 31 maggio 2023, il difensore della costituita parte civile ha trasmesso conclusioni scritte, con cui ha chiesto di dichiarare inammissibile o di rigettare il ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del grado in favore della parte civile.

 

Diritto


Il ricorso è inammissibile perchè manifestamente infondato.

1. Ritiene il Collegio che i ventitrè motivi di ricorso vadano trattati unitariamente, sia perchè tra loro sovrapponibili, in quanto tutti riferiti al tema della valutazione di attendibilità della persona offesa, sia perchè accomunati dalla loro tendenza a sollecitare differenti apprezzamenti di merito, che tuttavia esulano dal perimetro del giudizio di legittimità.

Al riguardo deve infatti richiamarsi la consolidata affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482) secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. E' stato altresì precisato (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, Rv. 281647 - 04 e Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Rv. 270519), che il principio dell'"oltre ragionevole dubbio", introdotto nell'art. 533 c.p.p. dalla L. n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità, come avvenuto nel caso di specie, sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell'appello, giacchè Corte è chiamata a un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito.

2. Alla luce di tali premesse interpretative, le doglianze difensive non possono trovare accoglimento in questa sede, in quanto sostanzialmente volte a prefigurare una rivalutazione delle fonti probatorie, la cui disamina da parte dei giudici di merito risulta immune da censure. Ed invero sia il G.U.P che la Corte di appello hanno operato un'adeguata ricostruzione dei fatti di causa, richiamando in particolare le dichiarazioni rese da B.B.: costei, il 30 giugno 2014, si recava spontaneamente presso la Stazione c.c. di (Omissis) e, dalla relazione di servizio redatta dai militari, risultava che la donna, in maniera molto agitata e anche in lacrime, aveva riferito che cinque giorni prima aveva iniziato a lavorare come lavapiatti presso il ristorante "(Omissis)" sito in (Omissis) e gestito da A.A.; questi, oltre a costringerla a svolgere mansioni ulteriori, anche pesanti, l'aveva più volte molestata, chiedendole esplicitamente di fare sesso con lui e palpeggiandola sui glutei e sulle parti intime. Il successivo 30 settembre 2014 la B.B. presentava denuncia ai Carabinieri di (Omissis), dichiarando che il 24 giugno 2014, all'esito del primo colloquio di lavoro, A.A. le aveva palpeggiato il seno e baciate sulle labbra, al che ella si ritrasse chiedendogli cosa gli fosse saltato in mente, sentendosi rispondere candidamente che gli piaceva e che avrebbe preferito che tornasse la sera stessa, perchè aveva urgente bisogno di una lavapiatti. Disorientata, la B.B. si allontanò dai ristorante, rispondendo che gli avrebbe fatto sapere; tornata a casa, la donna, auspicando che quanto avvenuto fosse dipeso da un momento di debolezza del suo interlocutore, accettò la proposta di lavoro, anche perchè le sembrava allettante, per cui alle 20.30 tornò di nuovo al ristorante. Al termine del suo turno, A.A. le ribadì che gli piaceva, aggiungendo che, se fosse stata accondiscendente, non le avrebbe fatto mancare nulla, al che la denunciante replicò che la sua intenzione era solo quella di lavorare dignitosamente, essendo tra l'altro ella sposata e madre di tre figli. Nei giorni successivi, ossia (Omissis), la B.B. fu destinataria di altre molestie da parte del suo datore di lavoro, i quale la palpeggiò ripetutamente sui glutei e sulle parti intime, adibendola, a causa dei rifiuti di lei, a mansioni ulteriori, come spazzare, lavare per terra e pulire bagni e porte.

Vista la situazione creatasi, la persona offesa, il 28 giugno, decideva di non presentarsi più al lavoro e nell'immediatezza dei fatti raccontò informalmente l'accaduto al suo commercialista I.I. e a due Carabinieri, ossia i marescialli L.L. e M.M.. Il 30 giugno la B.B. tornò al ristorante, chiedendo alla moglie di A.A. di essere retribuita per le giornate di lavoro prestate, ma costei la aggredì verbalmente, per cui ella se ne andò via.

Intanto, il 2 luglio 2014, A.A. denunciava la B.B., esponendo che, nel corso dell'incontro avvenuto il (Omissis) con sua moglie N.N., la B.B. aveva minacciato la sua consorte, dicendole: "è meglio che hai a che fare con me oggi e mi dai 200 Euro, altrimenti domani non so chi può venire al posto mio...tuo marito dopo avermi baciata ha tentato di violentarmi"; veniva così instaurato un procedimento penale a carico dell'odierna persona offesa (n. 9348/2014 R.G.R.N.) e il 13 ottobre 2014 veniva escussa, quale indagata, la B.B., la quale confermava che l'imputato, durante la sua attività lavorativa, le aveva fatto delle proposte oscene di natura sessuale che l'avevano destabilizzata a livello emotivo e psicologico, avendo ella sporto querela per questi fatti, precisando altresì che ella si era poi rivolta alla moglie di A.A., che reagì male, per chiedere di essere retribuita per le giornate di lavoro. Da ultimo, il 3 dicembre 2014 la B.B. veniva sentita nell'ambito di questo procedimento e, in tale occasione, confermava di aver subito il palpeggiamento del seno e il bacio sulla bocca, aggiungendo di aver continuato a lavorare nonostante le molestie sessuali del suo datore di lavoro perchè aveva bisogno di soldi, anche per comprare le medicine necessarie per la madre.

2.1. Orbene, all'esito di una disamina esauriente e razionale dell'intero compendio probatorio, la narrazione di B.B. è stata ragionevolmente ritenuta credibile dai giudici di merito, dovendosi premettere che la ricostruzione fornita dalla persona offesa è stata valutata; sia in primo che in secondo grado, nel solco dei criteri ermeneutici elaborati da tempo dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, Rv. 275312, Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Rv. 265104, SS.UU. n. 41461 del 19/07/2012, Rv. 253214 e Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, Rv. 248016), secondo cui, in tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, con la precisazione che, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, nè assistere ogni segmento della narrazione.

In tal senso, è stato osservato dai giudici di merito che la ricostruzione della B.B. si è rivelata sufficientemente precisa e lineare, essendo evidente che il racconto più dettagliato è quello contenuto nella querela, mentre le altre dichiarazioni risentono evidentemente della sommarietà delle relative escussioni, a iniziare da quella raccolta dai due Carabinieri, con i quali la persona offesa si è soffermata sulle condotte più rilevanti, ossia i palpeggiamenti sul seno e il bacio in bocca, mentre le ulteriore, condotte sono state meglio descritte nella querela. Alla querela, del resto, la B.B. ha fatto rinvio durante l'audizione del 13 ottobre 2014, nella quale, sia pure in termini più generici (quel procedimento non aveva ad oggetto le molestie sessuali), la donna ha comunque riferito che A.A. le aveva messo "le mani addosso".

Le sommarie informazioni rese al P.M. il 3 dicembre 2014 si sono rivelate poi in larga parte sovrapponibili alla querela, per cui tra le diverse versioni della persona offesa non sono state ravvisate significative contraddizioni, e ciò anche rispetto al fatto che delle molestie sessuali commesse già durante il primo colloquio, la B.B. ha parlato solo nella querela e nelle sommarie informazioni del 3 dicembre 2014, ma non nel colloquio con i Carabinieri del (Omissis) e nell'audizione quale indagata del 13 ottobre 2014, non potendo su ciò fondarsi un giudizio di inattendibilità della persona offesa, posto che, come già evidenziato, in queste due ultime occasioni la B.B. si è mantenuta su una descrizione più generica delle violenze subite, in ragione dell'inforrnalità della rivelazione (incontro con i Carabinieri) e del differente contesto procedimentale in cui ha avuto luogo l'audizione della B.B. quale soggetto indagato.

Peraltro, è stato ritenuto dai giudici di merito non decisivo il fatto che, nelle dichiarazioni rese il 13 ottobre 2014, la B.B. abbia indicato, come prima ragione per cui lasciò il lavoro, la richiesta di A.A. di svolgere mansioni pesanti e diverse da quelle concordate, mentre le proposte sessuali dell'imputato sono state richiamate come secondo motivo delle dimissioni, avendo ai riguardo la Corte di appello sottolineato che l'ordine di esposizione non risulta rilevante, nè sintomatico del fatto che le aggressioni sessuali fossero considerate dalla B.B. subvalenti rispetto alle ragioni lavorative, dovendosi ribadire ancora una volta che la genesi del procedimento in cui ha avuto luogo l'audizione del 13 ottobre 2014 è stata non la querela della B.B. per gli abusi sessuali, ma la denuncia di A.A. per le minacce alle moglie, minacce chiaramente ricollegabili alle rivendicazioni economiche della B.B. per il lavoro da lei svolto.

A tal proposito, la Corte di appello ha escluso che la richiesta avanzata dalla persona offesa alla moglie dell'imputato fosse sproporzionata: lo stipendio di 800 Euro mensili concordato tra A.A. e la B.B. corrisponde infatti a Una paga giornaliera di 30 Euro per 26 giorni lavorativi, per cui la richiesta di 200 Euro avanzata dalla parte civile non era esorbitante (50 Euro al giorno invece di 30) e comunque tale da giustificare un'accusa di violenza sessuale, a fronte di 80 Euro reclamati più di quelli spettanti per i 4 giorni di attività lavorativa espletata, tanto più ove si consideri che la B.B. aveva considerato evidentemente anche le ore lavorative in eccesso e quanto dovuto a titolo di buonuscita, non potendosi sottacere che quei caicoli erano scaturiti da un preventivo confronto tra la donna e il suo commercialista H.H.. In ordine all'obiezione difensiva secondo cui il ricorrente non avrebbe potuto assegnare alla persona offesa mansioni che non le competevano, occupandosi di ciò la moglie, è stato replicato nella sentenza impugnata che, se ciò fosse vero, non sarebbe stato A.A. a effettuare il colloquio alla B.B., come riferito dallo stesso imputato nel suo interrogatorio, fermo restando che, ove si valorizzasse il solo dato formale, dovrebbe precisarsi che titolare dell'attività commerciale non era neanche la moglie dell'imputato, ma la figlia.

Quanto poi alla decisione di A.A. di denunciare la B.B. due giorni dopo che ella aveva parlato con i Carabinieri, i giudici di merito hanno osservato che da ciò non poteva trarsi la prova della buona fede dell'imputato, essendo in realtà significativo che la persona offesa si è rivolta glia Stazione di (Omissis) subito dopo il diverbio del (Omissis) 2014, mentre la denuncia dell'imputato è avvenuta due giorni dopo, per cui, pur non essendo noto se A.A. sia venuto a conoscenza del fatto che la B.B. si era già rivolta ai Carabinieri, è tuttavia certo che i militari di (Omissis) sono venuti a conoscenza delle condotte contestate direttamente dalla persona offesa, che è stata la prima a riferirli a loro.

Non ha mancato poi la Corte di appello di confrontarsi anche con le dichiarazioni delle testi della difesa D.D. e E.E., secondo cui non sarebbe stato possibile per la B.B. rimanere da soli con l'imputato durante l'orario lavorativo, e ciò anche in ragione delle ridotte dimensioni del ristorante in cui sarebbero state commesse le molestie sessuali.

Sul punto è stato infatti osservato che la persona offesa ha descritto come repentine e improvvise le aggressioni subite da parte dell'imputato, per cui è ben possibile che A.A. abbia agito approfittando dei momenti in cui la moglie e le altre dipendenti erano impegnate in altre attività, dovendosi considerare in tal senso, da un lato, che i gesti compiuti non erano rapporti sessuali completi, ma palpeggiamenti e toccamenti lascivi di breve durata, e dall'altro che la stessa denunciante ha riferito di non aver reagito in modo palese alle molestie subite per non attirare l'attenzione degli altri dipendenti e della moglie dell'imputato, il che presuppone che, evidentemente, queste persone erano presenti nel medesimo contesto spazio-temporale seppur non sempre fisicamente accanto a lei e al suo datore di lavoro.

Allo stesso modo, la Corte di appello ha rimarcato il fatto che talune discrasie del racconto della B.B. con i contenuti di altre dichiarazioni testimoniali, come ad esempio quella del marito I.I., hanno riguardato aspetti del tutto marginali della vicenda, così come di scarsa importanza è stato ritenuto il fatto che la persona offesa abbia parlato dei suoi lividi solo in due delle sue quattro dichiarazioni, non essendo parimenti decisivo il fatto che la B.B. abbia ricondotto i suoi lividi ai lavori pesanti cui era sottoposta e non alle violenze sessuali, tanto più che le diverse dichiarazioni della G.G. sul punto sono state rese in un altro procedimento penale, non essendo entrate nel patrimonio conoscitivo di questo giudizio.

Rispetto proprio alla teste G.G., i giudici di merito hanno sottolineato che, pur elidendo le sue dichiarazioni, l'attendibilità della persona offesa non ne risentirebbe in alcun modo, dovendosi anzi considerare che se la teste aveva dei motivi di contrasto con A.A. tali da poterla avere indotta a mentire o a enfatizzare i fatti a lei riferiti dalla denunciante, una situazione analoga non è emersa rispetto alla B.B., che non aveva analoghe ragioni di acrimonia nei confronti dell'imputato, fermo restando che un vero e proprio contrasto tra le versioni della B.B. e della G.G. non era nemmeno riscontrabile, atteso che nè la prima nè la seconda hanno mai riferito che alcuno degli episodi contestati sia avvenuto in presenza della G.G., la quale ha riferito di aver assistito non a palpeggiamenti o ad altre molestie, ma solo a momenti in cui A.A. suggeriva alla B.B. di indossare indumenti più lascivi.

Con riferimento invece alla certificazione medica della Dott.ssa P.P. del 18 agosto 2014, dove si legge che la persona offesa era già in trattamento da alcuni anni con ansiolitici e antidepressivi, la Corte di appello ha evidenziato come tale circostanza non valga di per sè a minare la credibilità della B.B., la quale ha riferito al P.M. il 3 dicembre 2014 che il padre era morto sbranato da cani randagi nel 2008, evento questo che le aveva provocato una persistente sofferenza e che verosimilmente era la ragione per cui la donna era in cura.

I giudici di secondo grado hanno poi respinto, con argomenti non illogici, l'insinuazione difensiva secondo cui la visita sarebbe servita a precostituirsi una prova contro A.A., essendo avvenuta nello stesso giorno del verbale di identificazione della B.B. nell'ambito del procedimento scaturito dalla denuncia dell'imputato; si è infatti osservato al riguardo che il verbale di identificazione è stato redatto alle 16.30 del 10 luglio 2014, mentre non è noto l'orario della visita della dottoressa P.P., che dunque non può essere ritenuta certamente successiva all'iniziativa della P.G., apparendo in ogni caso poco probabile non tanto e non solo che la visita abbia avuto luogo nel tardo pomeriggio, quanto e soprattutto che la persona offesa abbia avuto la prontezza di spirito, una volta compiuto l'atto di P.G., di recarsi immediatamente dalla P.P. e raccontarle una storia asseritamente falsa, avendo inoltre l'accortezza di simulare anche un "pianto disperato" di cui si dà atto nella certificazione sanitaria in atti, della veridicità del cui contenuto non si ha peraltro motivo di dubitare.

2.2. In definitiva, in quanto ancorato a considerazioni scevre da aspetti di irrazionalità e coerenti con le acquisizioni probatorie, intese nel loro significato reale e logicamente correlate, il giudizio di attendibilità dèlla persona offesa compiuto nelle due conformi sentenze di merito non presta il fianco alle censure difensive che, come detto, si articolano nella non consentita proposta di una lettura alternativa e molto frammentaria del materiale istruttorio, a fronte di una razionale ed esauriente disamina compiuta prima dal G.U.P. e poi dalla Corte di appello, non essendo lontana dal vero l'icastica affermazione della sentenza impugnata (pag. 14-15), secondo cui "il confronto tra i veri apporti dichiarativi non può risolversi nel vivisezionare ogni singola affermazione, ponendo in essere una vera e propria "caccia all'errore", mentre invece le risultanze investigative devono essere valutate nella loro portata complessiva".

3. Ne consegue che il ricorso proposto nell'interesse di A.A. deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente di sostenere le spese del procedimento e di provvedere altresì alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla costituita parte civile, liquidate come da dispositivo.

Considerato infine che, ai sensi della sentenza della Consulta n. 186 del 13 giugno 2000, non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si dispone che il ricorrente versi la somma, fissata in via equitativa, di tremila Euro in favore della Cassa delle ammende.

 

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Lecce con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2023