Cassazione Civile, Sez. 6, 20 gennaio 2022, n. 1807 - Condanna di un istituto bancario al risarcimento del danno da demansionamento della funzionaria. Preclusione della crescita professionale e perdita di aggiornamento professionale


 

Numero registro generale 20145/2020
Numero sezionale 11241/2021
Numero di raccolta generale 1807/2022
Data pubblicazione 20/01/2022

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SESTA SEZIONE CIVILE - L

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso 20145-2020 proposto da:
INTESA SANPAOLO SPA, i persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio dell'avvocato MARCO MARAZZA, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato MAURIZIO MARAZZA;

- ricorrente -


contro
Omissis elettivamente domiciliata in ... presso lo studio dell'avvocato che la rappresenta e difende;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 364/2019 della CORTE D'APPELLO di ANCONA, depositata il 07/01/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/12/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ELENA BOGHETICH.

RILEVATO CHE

1. Con sentenza n. 364 depositata il 7.1.2020 la Corte di appello di Roma, confermando la pronuncia di prime cure, ha accertato la sussistenza di una dequalificazione professionale – dal marzo 2013 - della dott.ssa Omissis Quadro direttivo – IV livello, presso Intesa Sanpaolo s.p.a. (passata a disimpegnare il ruolo da Direttore di filiale a quello di Gestore di imprese) ed ha condannato l’istituto bancario al pagamento del danno professionale subìto;
2. propone ricorso avverso tale sentenza la Banca affidandosi a tre motivi e la lavoratrice resiste con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria;
3. veniva depositata proposta ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio;

CONSIDERATO CHE

1. con il primo motivo del ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 c.c. e 82 e 83 CCNL quadri direttivi e personale delle aree professionali dipendenti da imprese creditizie, finanziarie e strumentali (ex art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ.) avendo la Corte distrettuale affermato, in maniera erronea e con motivazione apodittica, che la lavoratrice svolgeva mansioni non ascrivibili alla categoria dei Quadri direttivi, posto che nell’ambito di un rapporto di lavoro bancario l’attribuzione di un potere di autonoma ed esclusiva gestione di un gruppo di clienti e l’attività di elaborazione di soluzioni e di piani personalizzati costituisce una delle espressioni più rilevanti della professionalità, da valutarsi secondo un’accezione “dinamica”; invero, la prova per testimoni e la documentazione hanno dimostrato che il nuovo ruolo di Gestore di imprese ha implicato lo svolgimento di mansioni coinvolgenti una professionalità analoga – se non maggiore – rispetto a quella precedentemente posseduta, considerato che gli altri dipendenti aventi il medesimo ruolo possedevano lo stesso inquadramento (QD4) ed era stato mantenuto il coordinamento di collaboratori aventi un livello retributivo inferiore; la mansione era, dunque, agevolmente riconducibile nell’ambito dei Quadri direttivi, tra “gli incaricati di svolgere attività specialistiche caratterizzate generalmente dal possesso di metodologie professionali complesse, da procedure prevalentemente non standard, con input parzialmente definiti ed in contesti sia stabili che innovativi” (art. 82 CCNL);
2. con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. come novellato dal d.lgs. n. 81 del 2015 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo la Corte distrettuale trascurato che l’ordinamento civile ammette, dal 25 giugno 2015, lo ius variandi nell’ambito della categoria di appartenenza del lavoratore, senza più alcun riferimento alla valutazione di equivalenza delle mansioni;
3. con il terzo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2103, 2697 cod.civ., 115 c.p.c. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la lavoratrice non aveva assolto il rigoroso onere di allegazione e prova, su di lei incombente, in ordine al pregiudizio subìto;
4. il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto, nonostante il formale richiamo al paradigma della violazione di norme di legge, le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione delle deduzioni e del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., che - nella versione ratione temporis applicabile - lo circoscrive all'omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al "minimo costituzionale" il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014);
5. nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori; la sentenza impugnata, ampiamente motivata, ha precisato che le risultanze istruttorie segnalavano in maniera convergente che, viceversa, nel più recente ruolo di “Gestore imprese”, tale potere decisionale o deliberativo nella erogazione del credito alle imprese-clienti [dapprima esercitato nell’ambito del ruolo di Direttore responsabile di filiale], affidatele in portafoglio, di livello basso “C”, fosse riservato ai vertici della struttura di Ascoli Piceno; segnatamente al Direttore oppure al Coordinatore che lo coadiuvava o, infine, a qualche gestore appositamente delegato all’esercizio del potere deliberativo di concessione degli affidamenti (gestore ”Top manager”)”; né il suddetto ruolo poteva ricondursi a colui che è preposto a “…metodologie professionali complesse, da procedure non standard” in quanto “i compiti affidati alla Omissis non potevano rientrare neanche in tale declinazione dell’attività del Quadro direttivo consistendo, in concreto, in mansioni prive della necessaria autonomia e limitate al compimento di analisi e valutazioni sottoposte al vaglio altrui”;
6. il secondo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto le censure non colgono la ratio decidendi perché la ricorrente insiste sulla mancata considerazione del testo novellato dell’art 2103 c.c. (che consente l’esercizio dello ius variandi nell’ambito della medesima categoria di appartenenza, nel caso di specie, Quadri direttivi) ma nulla deduce sull’argomentazione sviluppata nella sentenza impugnata secondo cui, sulla base della ricognizione delle mansioni concretamente espletate dalla Omissis dal marzo 2013 nonché delle declaratorie contenute nel CCNL e del Regolamento aziendale del gennaio 2019, le nuove mansioni affidate appartenevano alla diversa categoria impiegatizia (e non alla categoria dei Quadri direttivi);
7. il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato essendosi conformata, la Corte territoriale, all’orientamento consolidato di questa Corte, in base al quale il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell'art. 2729 c.c., attraverso l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. S.U. n. 6572 del 2006, e da ultimo, ex multis, Cass. n. 25743 del 2018, Cass. n. 21 del 2019);
8. il giudice di merito, invero, ha dedotto la ricorrenza di un danno alla professionalità non solo dalla preclusione della crescita professionale, ma anche dalla “inevitabile perdita di aggiornamento professionale, non essendo la funzionaria più addetta alla materia dei criteri di valutazione del merito creditizio e dei presupposti per l’attività deliberativa degli affidamenti, in linea con la veloce evoluzione della materia specialistica”, oltre che dalla “posizione di soggezione a due livelli di funzionari (direttore e coordinatore)”;
9. in conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.;
10. sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013);

 

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per spese ed Euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, addì 14 dicembre 2021.
Il Presidente Dott.ssa Adriana Doronzo