Tribunale di Perugia, Sez. Pen., 07 febbraio 2024 - Responsabilità degli enti. Messa alla prova della società


 

 

Nota a cura di Machina Grifeo Francesco, in NT+ Diritto - Società, 21.02.2024 "Sì alla messa alla prova delle società, il Tribunale di Perugia va contro le Sezioni Unite" 

 

FattoDiritto

 

Il Tribunale, sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova avanzata dalla società (...) in persona del procuratore speciale (...), incolpata nell'ambito del procedimento penale n. 912/2018 R.G.N.R. e n. 292/2021 R.G. Dib. in relazione all'illecito amministrativo di cui all'art. 25 septies d.lgs 231 del 2001 e proposta all'udienza del 9 gennaio 2024 dal Difensore e procuratore speciale Avv. Co.Br.;

acquisito il consenso espresso dal Pubblico Ministero;

OSSERVA

Ritiene il Tribunale che la richiesta avanzata dal Difensore della società (...), in persona del procuratore speciale, possa trovare accoglimento.

Premessa imprescindibile da anteporre alla conclusione raggiunta attiene alla possibilità per l'ente di essere ammesso alla prova, ai sensi dell'art. 168-bis cod. pen., nell'ambito del processo instaurato a suo carico per l'accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Le norme relative alla messa alla prova, infatti, non contengono alcun riferimento agli "enti" quali possibili soggetti destinatari di esse e neppure le norme del d. lgs. 231 del 2001, sebbene introdotte antecedentemente a quelle disciplinanti l'istituto della messa alla prova per gli imputati maggiorenni, contengono agganci o richiami deponenti per l'immediata applicabilità dell'istituto di più recente introduzione agli enti. Gli artt. 34 e 35 del d. lgs. 231 del 2001, nel dettare le disposizioni generali sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato, oltre a prevedere l'osservanza delle norme specificamente dettate dal decreto, contengono un richiamo esclusivamente alle disposizioni del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili.

L'applicazione dell'istituto della messa alla prova agli enti - in mancanza di norme di richiamo o di collegamento - ha fatto registrare nella giurisprudenza di merito decisioni contrastanti, contrapponendosi ad un gruppo di ordinanze negative all'ammissione dell'ente alla prova (cfr. ad es. Trib. Milano, 27/3/2017; Trib. Bologna, 10/12/2020; Trib. Spoleto, 21/4/2021), altre pronunce, invece, favorevoli (Trib. Modena, 19/10/2020; Trib. Bari, 22/6/2022).

Per quanto maggiormente interessa in questa sede, la Corte di Cassazione, nella sua massima composizione, ha da ultimo affrontato la questione con sentenza, Sez. Un., n. 14840 del 2023.

Più nel dettaglio, dopo essersi pronunciate sulle questioni di diritto rimesse -relative alla legittimazione del procuratore generale ad impugnare, con ricorso per cassazione, l'ordinanza che ammette l'imputato alla prova, e in caso affermativo per quali motivi, nonché alla legittimazione del procuratore generale a impugnare, con ricorso per cassazione, la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell'art. 464 septies cod. proc. pen. - le sezioni unite della Corte hanno ritenuto di privilegiare l'interpretazione, secondo cui l'istituto della messa alla prova, di cui all'art. 168-bis cod. pen., non può essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità amministrativa dipendente da reato, di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.

La Corte, nel dar conto delle ragioni in favore di tale opzione interpretativa, ha prima di tutto riassunto i punti di approdo della giurisprudenza di legittimità e costituzionale riguardanti le due discipline da porre a confronto - quella di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 e quella della messa alla prova ex art. 168-fois cod. pen.- al fine di saggiarne la compatibilità e, dunque, la possibilità di applicare il procedimento di messa alla prova all'ente.

Ebbene, rispetto ai modelli tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa - ha evidenziato la Corte - nel delineare il sistema di responsabilità dell'ente, come chiaramente evincibile dalla Relazione ministeriale di accompagnamento al d.lgs. n. 231 del 2001, il legislatore ha inteso optare per un tertium genus di responsabilità, coniugante i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo, nel tentativo di contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia.

La natura della responsabilità amministrativa dell'ente, riconducibile ad un tertium genus, è stata fatta propria anche dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24 aprile 2011, Espenhahn, Rv.261112. Secondo tale decisione il sistema normativo introdotto dal d. lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, che coniuga i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo. Parimenti - ha ancora evidenziato la pronuncia in questione - non è dubbio che il complesso normativo in esame sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo e che abbia evidenti ragioni di contiguità con l'ordinamento penale a causa della connessione con la commissione di un reato (che ne costituisce il primo presupposto), della severità dell'apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento.

A fronte della natura della responsabilità amministrativa dell'ente - da ritenersi concettualmente inquadrabile in un tertium genus - ad avviso della Corte la messa alla prova ex art. 168 bis cod. pen. deve, invece, inquadrarsi nell'ambito di un "trattamento sanzionatorio" penale e, come tale, incompatibile con la prima.

L'istituto della messa alla prova dei maggiorenni, ispirato all'analogo istituto previsto per i minori ex artt. 28 e 29 del d.P.R. n. 448 del 22 settembre 1998, introdotto dalla legge 28 aprile 2014 n. 67, è volto alla risocializzazione del reo, assicurando in relazione alla finalità specialpreventiva un percorso che tiene conto della natura del reato, della personalità del soggetto e delle prescrizioni imposte, così da consentire la formulazione di un favorevole giudizio prognostico. Esso si inscrive in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice - nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria, o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti di cui all'art. 550, comma 2, cod. proc. pen. - decide con ordinanza (ai sensi dell'art. 464-quater cod. proc. pen.) sulla richiesta dell'imputato (formulata secondo le forme e modalità di cui all'art. 464-bis cod. proc. pen.) di sospensione del procedimento con messa alla prova.

Nel tracciare il percorso attraverso il quale si è affermato che la messa alla prova si traduce in un "trattamento sanzionatorio" la Corte - richiamando plurime pronunce dei giudici delle leggi (cfr. sentenza n. 240 del 2015, sentenza n. 91 del 2018, sentenza n. 68 del 2019 e, da ultimo, le sentenze n. 146 del 2022 e 174 del 2022, la Corte costituzionale ha ribadito le innegabili connotazioni sanzionatorie dell'istituto della messa alla prova che, da un lato, è uno strumento di definizione alternativa del procedimento, che si inquadra a buon diritto tra i riti alternativi (Corte cost. sentenze n. 14 del 2020, n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015) e, nel contempo, disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo e alla pena, (Corte cost. sentenza n. 68 del 2019), che conduce, in caso di esito positivo, all'estinzione del reato) ha in particolar modo evidenziato alcuni indici rivelatori, tra cui:

- l'obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto - ai sensi dell'art. 168 bis, comma 3, cod. pen. - di prestare lavoro di pubblica utilità, consistente in una "prestazione non retribuita (...) di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività" e la cui "durata giornaliera non può superare le otto ore";

- la "prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno";

- gli obblighi che derivano dalle prescrizioni concordate all'atto dell'ammissione al beneficio, che possono comprendere "attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali", prescrizioni, queste ultime, incidenti in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto, sia pure in maniera meno gravosa rispetto a quanto accadrebbe nel caso di applicazione di una pena detentiva;

- il rapporto di proporzionalità delle prescrizioni cui il soggetto è vincolato rispetto alla gravità del fatto commesso, nonché la durata della messa alla prova, variabile a seconda della gravità del reato contestato all'imputato;

- la valutazione dell'idoneità del programma di trattamento "in base ai parametri di cui all'articolo 133 del codice penale" e cioè in base ai criteri che sovraintendono ordinariamente alla commisurazione della pena;

- la previsione di cui all'art. 657 bis cod. proc. pen., in caso di condanna conseguente al fallimento della messa alla prova, di scomputare dalla pena ancora da eseguire un periodo corrispondente a quello in cui il soggetto ha effettivamente eseguito le prescrizioni che gli erano state imposte "e ciò sulla base di un coefficiente stabilito dalla legge, che si fonda a sua volta su una valutazione di minore afflittivià - ma pur sempre di afflittivià - delle prescrizioni medesime rispetto a quella che deriva dalla pena detentiva".

In definitiva, secondo la Corte, il procedimento in questione dà luogo ad una fase incidentale in cui si svolge un vero e proprio "esperimento trattamentale", sulla base di una prognosi di astensione dell'imputato dalla commissione di futuri reati, che, in caso di esito positivo, determina l'estinzione del reato (cfr. Cass. pen., Sez. un., n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238).

Tenuto conto della natura della responsabilità degli enti, un genus diverso da quello penale, e della natura della messa alla prova la Corte ha concluso che l'istituto della messa alla prova non può essere applicato agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione.

L'introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un "trattamento sanzionatorio" - quello della messa alla prova - ad una categoria di soggetti - gli enti - non espressamente contemplati dalla legge quali destinatari di esso, in relazione a categorie di illeciti non espressamente previsti dalla legge penale, si pone in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce corollario, che si traduce nel principio, secondo cui "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".

Le sezioni unite proseguono che non possono soccorrere, al fine di ritenere applicabile agli enti l'istituto della messa alla prova, né l'analogia in bonam partem, né tantomeno l'interpretazione estensiva, come invece sostenuto nelle pronunce di merito favorevoli all'applicazione agli enti della messa alla prova.

Invero, le regole per l'applicazione analogica sono dettate dagli artt. 12 e 14 disp. prel. cod. civ., che definiscono il ragionamento per similitudine, ma, nel contempo, ne restringono l'ambito applicativo, disponendo il divieto di analogia in materia penale.

Il divieto di analogia per le norme penali in applicazione del principio di tassatività, ulteriore corollario del principio di legalità, si traduce per il giudice nell'impossibilità di applicare fattispecie e sanzioni, oltre i casi espressamente e specificamente contemplati dalla legge.

Tale divieto, sostiene la Corte a maggior ragione, dovrebbe trovare applicazione nella fattispecie in esame, in cui viene in questione la traslazione o meglio l'innesto del "trattamento sanzionatorio penale" della messa alla prova in un sistema - quello della responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato - che non solo non è assimilabile ad un sistema penale - ma riguarda appunto gli enti, ossia soggetti giammai indicati quali destinatari di precetti penali, dichiaratamente esclusi dal novero di essi dalla già citata Relazione ministeriale di accompagnamento al d.lgs. n. 231 del 2001.

Lo stesso d.lgs. n. 231 all'art. 2, richiama espressamente il principio di legalità, quale principio ineludibile affinché l'ente possa essere sanzionato.

Dunque, non è consentito ricorrere all'analogia in bonam partem - che, anche ove ritenuta consentita, in certi ambiti, in materia penale - non potrebbe comunque riguardare il caso in esame, tenuto conto del fatto che non vengono in questione sistemi omogenei.

Infine, reputa la Corte che alcuno spazio può trovare neppure l'interpretazione estensiva delle norme, poiché tale operazione attiene alle ipotesi in cui il risultato interpretativo si mantiene, comunque, all'interno dei possibili significati della disposizione normativa, situazione questa, neppure astrattamente, confacente alla fattispecie in esame.

Da ultimo, le sezioni unite hanno sottolineato come la disciplina della messa alla prova ex art. 168 bis cod. pen. sia disegnata e modulata specificamente sull'imputato persona fisica e sui reati allo stesso astrattamente riferibili, caratteristiche queste che la rendono insuscettibile di estensione all'ente. Più nel dettaglio, la modulazione dell'istituto della messa alla prova sull'imputato - "persona fisica", emergerebbe dalla mera lettura dell'art. 168-bis cod. pen., laddove si fa riferimento all'affidamento dell'imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma implicante, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, "alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali".

Del pari, il riferimento alla prestazione di lavoro di pubblica utilità - che deve tener conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato con prestazione svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell'imputato e la cui durata giornaliera non può superare le otto ore - non può che attenere alla persona fisica.

Ancora, le condizioni che consentono l'accesso dell'imputato alla messa alla prova - ossia l'allegazione alla richiesta ex art. 464-bis cod. proc. pen. di un programma di trattamento, ovvero la richiesta di elaborazione del predetto programma, contemplante, tra l'altro, a) le modalità di coinvolgimento dell'imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; b) le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all'attività di volontariato di rilievo sociale non possono che confermare che il soggetto destinatario del programma sia l'imputato-persona fisica.

Emblematico, poi, risulta il criterio di cui all'art. 464 quater, comma 3, cod. proc. pen. - secondo cui la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen. reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l'imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati - che rende ancor più evidente che la disciplina è stata modellata per l'imputato e per la sua rieducazione e risocializzazione e non può essere traslata ad una persona giuridica, soggetto non "imputato", privo di sostrato psicofisico.

L'operazione ermeneutica - secondo cui gli organi dell'ente, in quanto investiti da un rapporto di immedesimazione organica sono equiparabili all'"imputato" e garantirebbero sufficientemente il soddisfacimento degli obiettivi e delle finalità della messa alla prova - si tradurrebbe, come ben evidenziato dal Procuratore generale, in una sorta di immedesimazione rovesciata in cui le colpe dell'ente ricadrebbero sugli organi e questi sarebbero chiamati a rieducarsi per conto di un diverso soggetto, operazione questa in evidente contrasto anche con le finalità proprie del d.lgs. n. 231 del 2001.

Va, inoltre, rilevato che l'art. 168-ter cod. proc. pen. prevede che l'esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede, ma non pregiudica l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge, a dimostrazione ulteriore del fatto che le sanzioni diverse da quelle penali, operando in ambiti e per finalità diverse, non sono interessate dal percorso della messa alla prova e possono essere egualmente irrogate.

Peraltro, ulteriori argomenti ostativi all'applicazione della messa alla prova nel sistema della responsabilità amministrativa dell'ente la Corte li ha ricavati anche dal d.lgs. n. 231 del 2001.

La Corte ha all'uopo citato l'art. 67, che, nel prevedere le ipotesi in cui il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere nei confronti dell'ente, richiama esclusivamente i casi previsti dall'art. 60 e l'estinzione per prescrizione della sanzione. In base a tale disposto testuale si dedurrebbe che, in caso di esito positivo della messa alla prova, il giudice non potrebbe pronunciare sentenza di non doversi procedere ex art. 464 septies cod. proc. pen., non essendo tale ipotesi prevista tra quelle espressamente indicate di estinzione dell'illecito, con conseguente necessità di "creazione" in tal caso di una causa estintiva dell'illecito al di fuori del sistema espressamente disciplinato dal d.lgs. n. 231 del 2001.

Così riassunte le argomentazioni spese dalla Corte, ritiene il Tribunale di non condividere le conclusioni appena passate in rassegna per le ragioni che di qui a breve verranno esposte.

Prima, tuttavia, di passare al vaglio delle ragioni sottese a tale affermazione, si rende opportuno un chiarimento iniziale che attiene alla efficacia vincolante o meno del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte nella sua massima composizione nella pronuncia citata e, dunque, della possibilità da parte del Tribunale di discostarsi dallo stesso.

A tal riguardo si osserva che la legge 23 giugno 2017, n. 103 ha introdotto il nuovo comma 1 bis dell'articolo 618 cod. proc. pen. il quale prevede una rimessione "obbligatoria", che scatta ogni qual volta un collegio di una delle sezioni semplici ritenga di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite. In altri termini è stato codicizzato il principio dello stare decisis, tuttavia, limitato alle sole sentenze delle sezioni unite. La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 49744 del 7 dicembre 2022 ha significativamente chiarito che il vincolo derivante dal principio di diritto affermato, ai sensi dell'art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., dalle Sezioni Unite della Corte riguarda esclusivamente l'oggetto del contrasto interpretativo rimesso e non si estende ai temi accessori o esterni. Volendo fare applicazione del principio di diritto appena richiamato deve escludersi che nel caso di specie la affermata inapplicabilità agli enti della disciplina della messa alla prova possa spiegare effetti vincolanti ciò in quanto si tratta, all'evidenza, di un tema in alcun modo collegato con l'oggetto del contrasto giurisprudenziale rimesso alla soluzione dell'organo di composizione dei contrasti, che atteneva a una questione prettamente processuale legata alla legittimazione da parte del Procuratore Generale della impugnazione dei provvedimenti emessi in materia di messa alla prova.

Parimenti pacifico è il dato giuridico della non operatività nel caso in disamina -stante la diversità di situazioni - dell'ulteriore ipotesi di vincolatività delle decisioni della Corte di Cassazione contemplato dall'art. 627 comma terzo cod. proc. pen., a mente del quale il giudice di rinvio si uniforma alla sentenza della corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa.

Fatta tale fondamentale premessa, ritiene quindi il Tribunale di potersi discostare dalla soluzione adottata dalla Corte.

In primo luogo, si dubita che l'istituto della messa alla prova possa essere equiparato sic et simpliciter a un trattamento sanzionatorio. A differenza, di quest'ultimo, infatti, che non contempla alcun coinvolgimento dell'imputato nel processo decisionale e applicativo della pena, la sospensione del procedimento con messa alla prova presuppone indefettibilmente la volontà dell'imputato che, non contestando l'accusa, si sottopone al trattamento. Del resto, come evidenziato dagli stessi giudici di legittimità nella sentenza Sorcinelli, Sez. un., n. 36272 del 2016, il trattamento programmato non è eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un'attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell'imputato, il quale liberamente può farla cessare con l'unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso.

A ciò si aggiunga che l'esito positivo del lavoro di pubblica utilità ha natura di causa estintiva del reato per cui, lungi dall'allargare la tipologia di trattamenti sanzionatori da infliggere all'ente, amplia il ventaglio di procedimenti speciali a sua disposizione, consentendogli una miglior definizione della strategia processuale. In assenza, dunque, di effetti sfavorevoli nei confronti dell'ente - chiamato, si ribadisce, a svolgere lavoro di pubblica utilità solo in presenza di un suo espresso consenso e con effetti estintivi dell'illecito contestato - l'applicazione della disciplina della messa alla prova appare compatibile con il sistema di responsabilità da reato di cui al d. lgs n. 231/2001, dovendo escludersi la violazione dei principi di tassatività e di riserva di legge, tenuto conto che il divieto di analogia opera soltanto quando genera effetti sfavorevoli per l'imputato.

A seguito di un lungo dibattito oggi può dirsi superata l'opinione che attribuisce al divieto di analogia un carattere assoluto, nel senso che sia rivolto tanto alle norme penali incriminatrici, quanto alle norme di "favore", funzionale ad assicurare la certezza del comando penale. Infatti, il divieto di analogia è finalizzato ad assicurare, più che la certezza, l'esigenza di garantire le libertà del cittadino, libertà che vengono messe in pericolo se si riconosce al giudice il potere di applicare analogicamente - in senso sfavorevole - norme incriminatrici, mentre un tale pericolo non ricorre in presenza di una applicazione di norme di favore. Il divieto di analogia in materia penale, ricondotto all'art. 25 Cost., del quale si sottolinea, appunto, la dimensione garantistica, non si riferisce all'intera materia penale, ma si rivolge alle sole disposizioni punitive: in sostanza, si esclude che vi siano impedimenti di carattere costituzionale che consentano operazioni di interpretazione analogica che operino nel senso di un restringimento dei confini di ciò che è penalmente rilevante, ammettendo l'esperibilità di un intervento analogico in bonam partem. In sostanza, l'art. 25, comma 2, Cost. proibisce solo l'analogia in malam partem.

Si tratta di posizioni condivise dalla giurisprudenza di legittimità che considera l'interpretazione analogica in bonam partem pacificamente ammessa nel campo penale.

Riconosciuto il carattere "relativo" del divieto di analogia, riferito alla sola interpretazione delle norme penali sfavorevoli, occorre verificare i limiti di un'interpretazione analogica in bonam partem in presenza di una disposizione generale, come l'art. 14 preleggi, che esclude comunque l'applicazione analogica delle leggi eccezionali. In altri termini, si tratta di vedere se anche l'interpretazione analogica in bonam partem sia ostacolata in presenza di leggi eccezionali.

Ritiene il Tribunale che nel caso in esame il contrasto tra l'applicazione analogica dell'istituto della messa alla prova agli enti sia meramente apparente. Ciò in quanto si ritiene che le cause di estinzione del reato non abbiano carattere eccezionale e, dunque, per le stesse può riconoscersi uno spazio per l'applicazione analogica.

Tradizionalmente un'attenta e autorevole dottrina individua la disposizione eccezionale là dove deroga ad un principio generale dell'ordinamento.

Ebbene, le cause estintive del reato - tra cui quella derivante dall'esito positivo dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità - non hanno in alcun modo valenza eccezionale in quanto non introducono una deroga alle norme generali e, quindi, possono essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione incontestata di principi generali.

Non vale a escludere la possibilità per l'ente di esser ammesso alla prova neppure la sostenuta disomogeneità tra il sistema della responsabilità delle persone fisiche e quello della responsabilità a suo carico. Sul punto è appena il caso di rilevare come lo stesso legislatore, agli artt. 34 e 35 del d.lgs. 231 del 2001, operi un rinvio espresso alle norme del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all'imputato in quanto compatibili. Si tratta, all'evidenza, di un espresso richiamo analogico operato dallo stesso legislatore.

Nell'operare tale rinvio il legislatore facoltizza espressamente l'operazione analogica individuando, tuttavia, - come evidenziato dalle sezioni unite della Corte a sostegno della conclusione cui è pervenuta - il limite della compatibilità. La Corte di Cassazione, nella sentenza richiamata, ha sostenuto come la disciplina della messa alla prova sia stata disegnata e modulata specificamente sull'imputato persona fisica. Ciò emergerebbe dalla mera lettura dell'art. 168-bis cod. pen., laddove si fa riferimento all'affidamento dell'imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma implicante, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, "alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali" nonché allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.

Neppure tali aspetti - ritiene il Tribunale - appaiono ostativi all'innesto della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nel procedimento volto all'accertamento della responsabilità degli enti.

L'art. 168-bis cod. pen., nel fissare le condizioni per la "Sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato", stabilisce al comma secondo che la "messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato". La messa alla prova comporta, dunque, innanzitutto la prestazione di condotte riparatone, volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno cagionato. La previsione che subordina la concessione della messa alla prova all'impegno risarcitorio dell'imputato ovvero ne prescrive la revoca o la declaratoria di esito negativo in caso di suo inadempimento, induce a ritenere che il risarcimento della vittima sia presupposto imprescindibile dell'istituto di nuovo conio, non alternativo ma congiunto alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose. D'altronde, il risarcimento del danno sembra caratterizzato non solo da una funzione di prevenzione generale, ma anche dalle stesse istanze special-preventive cui sembra ispirarsi la disciplina della messa alla prova dell'imputato adulto (Cass. pen., III Sez., 1 aprile 2016, n. 13235).

Ebbene, nel caso di specie, la società (...) ha provveduto al risarcimento integrale del danno subito dalla persona offesa corrispondendo la somma di 460.000 Euro. Ed infatti, (...) ha rimesso la querela sporta nei confronti della società e dell'amministratore unico ed è stato definito il giudizio civile intrapreso presso il Giudice del Lavoro di Perugia. Parimenti è stato risarcito il danno in favore dei prossimi congiunti della persona offesa e, segnatamente, sono stati corrisposti 40.000 Euro in favore di (...) in proprio, 28.000 Euro in favore di (...) in qualità di genitore esercente la responsabilità sui figli minori (...) e (...), 10.000 Euro in favore del padre (...), 10.000 Euro in favore della madre (...) nonché 5.000 Euro in favore di ciascun fratello e della sorella.

Oltre ad aver assolto ogni obbligazione risarcitoria, la società, a far data dal febbraio 2021, si è dotata di un modello di organizzazione, gestione e controllo e ha istituito un organismo di vigilanza deputato alla verifica dell'adeguatezza del modello.

Non solo, la società ha rispettato le regole contenute nel codice etico adottato dal Gruppo Tiberina del quale fa parte.

Da una attenta analisi, poi, del programma di trattamento elaborato dall'U.E.P.E. di Perugia si ricava che lo stesso, in ossequio a quanto disposto dall'art. 464 bis cod. proc. pen., contempla una serie di attività, prescrizioni e condotte, che rispondono alle caratteristiche proprie della messa che si sostanziano in prescrizioni e altri impegni specifici (tra cui il volontariato), nonché prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità.

In particolare, la società, d'intesa con la Croce Rossa di Città di Castello, finanzierà un corso di formazione - svolto da esperti della Croce Rossa - della durata di venti ore in materia di primo soccorso e sicurezza e salute sui luoghi di lavoro, da svolgere presso l'Istituto Superiore Itis di Città di Castello.

Il corso potrà essere seguito da circa 100 studenti e il costo è stato quantificato in 50 Euro (per complessivi 5.000 Euro). L'istituto Itis ha manifestato la sua disponibilità verso l'iniziativa, funzionale in vista dell'ingresso degli allievi nel mondo del lavoro in quanto ai partecipanti verrà rilasciato un attestato di partecipazione del quali potranno beneficiare per lo svolgimento dei programmi di alternanza scuola-lavoro.

Oltre all'organizzazione del corso, la società verserà delle somme di denaro in favore della Croce Rossa che saranno impiegate, in particolare:

- 10.000 Euro per l'acquisto di DPI per la sicurezza dei volontari dell'associazione ovvero per l'acquisto di strumenti per la formazione dei discenti o, ancora, per l'acquisto di materiale necessario per le attività di protezione civile;

- 5.000 Euro per l'acquisto di un'auto medica necessaria per l'espletamento dei servizi essenziali, anche di primo soccorso, svolti dalla Croce Rossa.

Non v'è alcuna ragione, dunque, per non ritenere ampiamente superate le perplessità manifestate dalla Corte di Cassazione. La tipologia di programma elaborato prevede un coinvolgimento diretto della società per cui non si verifica alcuna sorta di immedesimazione rovesciata in cui le colpe dell'ente ricadrebbero sugli organi e questi sarebbero chiamati a rieducarsi per conto di un diverso soggetto. Non solo, risulta soddisfatto anche il criterio di cui all'art. 464 quater, comma 3, cod. proc. pen. - secondo cui la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen. reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l'imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati - ciò in quanto una simile valutazione può essere traslata ad una persona giuridica che, ancorché priva di sostrato psicofisico, può dotarsi di modelli organizzativi tali da rendere prevedibile che l'ente si asterrà dalla commissione di ulteriori illeciti (anche in ragione dell'assenza a suo carico di precedenti specifici).

Da ultimo, non si ritiene dirimente - ai fini della esclusione della applicabilità della messa alla prova agli enti - la circostanza - valorizzata dalla Corte - che l'art. 67 d. lgs 231 del 2001, nel prevedere le ipotesi in cui il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere nei confronti dell'ente, non richiama il caso dell'esito positivo della messa alla prova. Come si è già avuto modo di rilevare, l'omessa indicazione non comporta alcuna creazione normativa in presenza di un espresso richiamo operato dagli artt. 34 e 35 del decreto alle norme del codice di procedure penale.

Alla luce di tali considerazioni, ritenuta la astratta compatibilità tra la disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova e il procedimento volto all'accertamento della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato - venendo ora al caso di specie, ritiene il Tribunale che non sussistono profili di inammissibilità della domanda, essendo stati soddisfatti i requisiti formali e sostanziali di cui all'art. 168 bis cod. pen. e 464 bis cod. proc. pen. e non essendovi preclusioni di fase.

Il reato di cui all'art. 590 cod. pen. (richiamato dall'illecito amministrativo di cui all'art. 25 septies del d.lgs. 231 del 2001) a norma dell'art. 168 bis cod. pen., l'applicazione della messa alla prova.

Inoltre, si ritiene che nel caso in esame non ricorrono i presupposti per pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129 cod. proc. pen..

Per quel che concerne la durata della messa alla prova, essa deve individuarsi in un periodo di sei mesi, da intendersi quale lasso temporale nell'arco del quale dovranno essere adempiute tutte le prescrizioni sopra descritte.

 

P.Q.M.

 

visti gli artt. 168 bis e seg. cod. pen., nonché 464 bis e seg. cod. proc. pen., dispone per la durata di mesi sei la sospensione del procedimento nei confronti dalla società (...), in persona del procuratore speciale (...)

dispone che la presente ordinanza, in uno al verbale di messa alla prova, venga trasmessa all'U.E.P.E. di Perugia per la presa in carico dell'ente, precisando che, ai sensi dell'art. 464 quater, sesto comma, cod. proc. pen., dalla data del verbale di messa alla prova decorre il suindicato termine di sospensione del procedimento nonché quello per l'adempimento delle prescrizioni e degli obblighi relativi alle condotte riparatone o risarcitorie.

dispone che l'U.E.P.E., ai sensi dell'art. 141 ter disp. att. cod. proc., pen., provveda ad informare questa A.G. - con relazioni periodiche da redigere e trasmettere al massimo ogni tre mesi - sull'andamento del trattamento e ad inviare, alla scadenza del periodo di prova, la relazione conclusiva sul decorso e sull'esito della prova medesima, da trasmettere alla cancelleria di questa A.G. almeno dieci giorni prima dell'udienza sottoindicata, per la sua valutazione, con facoltà per le parti di prenderne visione ed estrarne copia;

fissa per la valutazione della relazione conclusiva che sarà trasmessa dall'U.E.P.E. l'udienza del 18 settembre 2024 ore 11,30.

MANDA

alla Cancelleria per la comunicazione della presente ordinanza alle Parti nonché per gli adempimenti di propria competenza in ordine alla iscrizione per estratto della presente ordinanza nel casellario giudiziale, ai sensi dell'art. 3 co. 1 lett. i-bis) del D.P.R. 14.11.2001 n. 313, come modificato dall'art. 6 della legge 28.04.2014 n. 67.

Così deciso in Perugia il 7 febbraio 2024.

Depositata in Cancelleria il 7 febbraio 2024.