Cassazione Penale, Sez. 4, 08 aprile 2024, n. 14059 - Prolungata esposizione ad amianto e patologie di mesotelioma pleurico


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta da:

Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente

Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere

Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere

Dott. MARI Attilio – Consigliere

Dott. D'ANDREA Alessandro - Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 


sui ricorsi proposti da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI TRIESTE

nel procedimento a carico di:

A.A. nato a A il (Omissis)

B.B. nato a M il (Omissis)

nel procedimento a carico di questi ultimi

inoltre:

PARTI CIVILI

INAIL

REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA

FIOM- CGIL VIA PA 21, (Omissis), M

ASSOCIAZIONE ESPOSTI ALL'AMIANTO - SEZIONE DI MONTEFALCONE

C.C.

D.D.

E.E.

FININCANTIERI-CANTIERI NAVALI ITALIANI Spa VIA GE 1, 34121, T

avverso la sentenza del 17/01/2022 della CORTE APPELLO di TRIESTE

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO D'ANDREA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi di A.A. e B.B. e relativamente al ricorso del Procuratore Generale della Corte di Appello di Trieste conclude per la correzione dell'errore materiale del ricorso del F.F. e rigetto nel resto.

È presente per l'avvocato MARIN ANNAMARIA del foro di VENEZIA, difensore della parte civile ASSOCIAZIONE ESPOSTI ALL'AMIANTO- SEZIONE DI MONTEFALCONE, il sostituto processuale avvocato FERRO GIUSEPPINA del foro di Roma, come da nomina ex art. 102 c.p.p. depositata in udienza. Il difensore presente, depositando conclusioni scritte e nota spese, chiede che venga accolto il ricorso proposto dal Procuratore Generale.

È presente per l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, difensore della parte civile REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA, l'avvocato SANTINI GIORGIO del foro di Roma che chiede l'accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore Generale e il rigetto dei ricorsi proposti dagli imputati, come da conclusioni e nota spese depositate in udienza.

Per la parte civile INAIL è presente l'avvocato ROSSI ANDREA del foro di ROMA che, come da conclusioni e nota spese depositate in udienza, chiede che venga annullata con rinvio la sentenza impugnata e accolto il ricorso proposto dal Procuratore Generale.

È presente per l'avvocato GIORDANENGO GUGLIELMO del foro di TORINO, difensore di A.A., il sostituto processuale avvocato LETORIO MATTEO MARIO medesimo foro, come da nomina ex art. 102 c.p.p. depositata in udienza. Il difensore dopo aver esposto dettagliatamente i motivi di doglianza insiste nell'accoglimento depositando altresì brevi note di udienza.

In difesa di A.A. è altresì presente l'avvocato LAGANÀ GIANCARLO del foro di ROMA che, dopo aver integrato con ulteriori argomentazioni la difesa di A.A., conclude chiedendo il rigetto del ricorso del Procuratore Generale.

In difesa del ricorrente B.B. è presente l'avvocato PAGANO CORRADO del foro di GENOVA il quale dopo aver esposto nei dettagli alcuni punti del ricorso e riportandosi nel resto, conclude chiedendo la conferma della sentenza impugnata e il rigetto del ricorso del Procuratore Generale.

 

Fatto


1. Con sentenza del 17 gennaio 2022 la Corte di appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Gorizia del 31 luglio 2017 - per quanto di specifico interesse in questa sede - ha: assolto gli imputati A.A. e B.B. dai delitti loro ascritti ai capi 2), 16), 23), 26), 27), 29), 30), 32), 34), 37), 38), 42) e 43) del procedimento 1718/08 RGNR, nonché dai delitti di cui ai capi 8), 9), 17) e 19) del procedimento 2331/14 RGNR, perché il fatto non sussiste, per l'effetto revocando le statuizioni civili loro imposte; dichiarato non doversi procedere nei confronti di A.A. e B.B. in ordine ai delitti rubricati ai capi 11) e 18) del procedimento 1718/08 RGNR ed ai capi 2), 4), 5), 10), 11), 14), 15), 16), 18) e 22) del procedimento 2331/14 RGNR per essere i medesimi estinti per prescrizione, conseguentemente revocando le pene accessorie loro inflitte, nonché riducendo gli importi liquidati a titolo di provvisionale alle parti civili costituite, con condanna alla rifusione delle spese processuali in favore di queste ultime.

Agli imputati erano state ascritte diverse ipotesi di omicidio colposo commesse, nelle loro rispettive qualità, ai sensi degli artt. 589, commi 1, 2 e 4, 40 e 41 cod. pen., in danno di lavoratori dipendenti della società Italcantieri Spa, operanti nello Stabilimento di M, in conseguenza di malattie determinate dalla prolungata esposizione all'amianto.

2. La Corte di appello, dopo avere assunto, in ossequio alla disposta rinnovazione istruttoria, la nuova audizione dei consulenti tecnici delle parti nonché acquisito produzioni documentali, ha parzialmente accolto le doglianze dedotte da parte degli appellanti, riformando l'originaria pronuncia di condanna degli imputati, in ordine a tutte le fattispecie di omicidio colposo aggravato loro contestate commesse in danno di lavoratori deceduti per mesotelioma pleurico, altresì pronunciando identica decisione assolutoria con riferimento a un cospicuo numero di reati concernenti morti determinate da tumore polmonare.

Con riguardo al mesotelioma pleurico, infatti, dopo averne evidenziato la natura di malattia monofattoriale, con correlata sostanziale insussistenza di problemi connessi a decorsi alternativi cagionati da fattori di rischio diversi dall'esposizione all'amianto, la Corte di merito ha considerato il peculiare contenuto di tale malattia, secondo le indicazioni offerte dalle teorie scientifiche accreditate e nel rispetto dei dettami resi dalla giurisprudenza di legittimità, al fine giungendo ad affermare di non poter riferire causalmente alla condotta dei due imputati, nella ricoperta posizione di garanzia, l'intervenuta insorgenza e il successivo compimento del processo di cancerogenesi nelle vittime, fino alla verificazione del c.d. "failure time", e cioè, alla irreversibilità delle loro patologie di mesotelioma pleurico.

Con riferimento, invece, ai casi di decesso per tumore polmonare, la Corte di appello, valutata la natura multifattoriale della malattia, e dunque la possibilità che essa potesse non essere stata cagionata dall'esposizione dei lavoratori alle polveri di asbesto, bensì da altri fattori causali alternativi del tutto autonomi nella determinazione dell'evento oncologico, ha operato una verifica dettagliata, caso per caso, della durata e dell'intensità dell'esposizione dei singoli lavoratori agli agenti cancerogeni, secondo predeterminati criteri fissati dal sapere scientifico, infine giungendo, in talune ipotesi, ad assolvere gli imputati laddove è stata esclusa l'attribuzione dell'incidenza causale della morte dei lavoratori per tumore polmonare alle condotte loro contestate, ed invece riconoscendo la penale responsabilità dello A.A. e dello B.B. quando è stata ravvisata la suddetta relazione eziologica. Rispetto a tali ultime fattispecie, tuttavia, la Corte territoriale ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dei due imputati per essere i medesimi reati estinti per prescrizione, in conseguenza del disposto riconoscimento, in favore dei due prevenuti, delle già concesse circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza rispetto alla contestata aggravante.

3. Avverso la sentenza della Corte territoriale hanno proposto ricorso per cassazione, con tre differenti atti, il Procuratore generale presso la Corte di appello di Trieste nonché, a mezzo dei loro rispettivi difensori, gli imputati A.A. e B.B.

3.1. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Trieste ha formulato sei motivi di ricorso, con il primo dei quali ha dedotto mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per assenza di indicazione e di valutazione delle teorie scientifiche che, secondo la Corte di appello, verrebbero a fondare il giudizio di impossibilità di accertamento del termine della c.d. "latenza clinica" nel processo di cancerogenesi.

Il ricorrente contesta l'argomentazione con cui la Corte di merito ha ritenuto di non ravvisare alcuna responsabilità da parte dei due prevenuti con riguardo alle imputazioni riguardanti i decessi determinati da mesotelioma pleurico sul presupposto che, diversamente da quanto ritenuto da parte del primo giudice, non sarebbe stato possibile individuare il momento in cui l'indicata patologia avrebbe assunto la natura di processo irreversibile, impermeabile ad ogni ulteriore esposizione all'amianto. Secondo tale impostazione, cioè, risulterebbe impossibile provare, nel caso di successione nel tempo di esposizione del lavoratore a fibre di amianto di più soggetti gestori del rischio, la singola responsabilità individuale - in ipotesi dimostrabile solo ove vi fosse la sovrapposizione totale del periodo di assunzione della posizione di garanzia con l'esposizione del lavoratore - altresì considerata l'assenza di una legge scientifica di copertura di carattere universale, non fondata sulla mera probabilità statistica-epidemiologica.

A dire del ricorrente, invece, l'indicata interpretazione non si conformerebbe all'opinione scientifica più accreditata, non confrontandosi con l'effettivo funzionamento del processo di cancerogenesi multistadiale, come considerato nei più recenti studi e adeguatamente rappresentato dal consulente tecnico del P.M. Risulterebbe, in particolare, omessa la stima del c.d. periodo di "latenza clinica", a partire dal quale ogni successiva esposizione ad amianto risulterebbe del tutto irrilevante. La Corte di merito, cioè, non avrebbe considerato come sia opinione accreditata presso la comunità scientifica quella per cui, rispetto alle indicate patologie neoplastiche, pur non potendosi accertare il c.d. "failure time", sia comunque possibile stimare la durata della c.d. "latenza clinica" - normalmente individuata in un arco temporale compreso tra i quattro e i dieci anni antecedenti alla diagnosi - da ritenersi sufficiente per determinare il periodo di esposizione efficace, e, quindi, la riferibilità di esso al periodo di titolarità della posizione di garanzia ricoperta dal singolo gestore del rischio.

Numerosi studi epidemiologici, nonché altri, anche recentissimi, effettuati nella letteratura scientifica, perfino confluiti in documenti di consenso, hanno, con adeguata certezza, individuato, rispetto al mesotelioma pleurico, una latenza minima di almeno dieci anni, per cui, retroagendo di tale periodo, si avrebbe la ragionevole sicurezza di trovarsi in presenza di un processo non ancora divenuto irreversibile. Di tali aspetti non avrebbe tenuto conto la Corte territoriale, operando una lettura inadeguata dei dati processuali, anche basandosi su teorie scientifiche oramai superate, in tal maniera addivenendo ad una non corretta pronuncia assolutoria con riguardo alle ipotesi di decesso determinato da mesotelioma pleurico contestate agli imputati.

Con la seconda censura il Procuratore generale ha dedotto mancanza o contraddittorietà della motivazione per assenza di indicazione e valutazione comparativa delle diverse teorie scientifiche, proposte nel processo, riguardanti l'accertamento della sussistenza di una legge scientifica riconosciuta dalla comunità scientifica relativa al c.d. "effetto acceleratore' delle esposizioni successive alle prime, tale da causare un'anticipazione della malattia o una diminuzione della latenza.

Sarebbe viziata, cioè, la motivazione del provvedimento impugnato per avere succintamente ed irragionevolmente escluso l'esistenza di una legge scientifica accreditata fondante l'esistenza del c.d. "effetto acceleratore", di rilievo ai fini dell'accertamento della causalità individuale, omettendo, quindi, di confrontarsi con una valutazione comparativa delle diverse teorie invece attestanti il dubbio dell'esistenza di tale legge scientifica, sia pur connotata da natura statistica e non universale.

Diversamente da quanto ritenuto dai giudici di appello, infatti, risulterebbero del tutto univoche le conclusioni espresse dal "III Consensus Conference", per cui una più elevata esposizione di un soggetto all'amianto determinerebbe non solo una maggiore incidenza, ma anche; un'accelerazione nel tempo dell'evento, e quindi un'anticipazione della comparsa della patologia neoplastica. Sarebbe, altresì, carente la motivazione della sentenza impugnata per non avere minimamente valutato i più recenti studi svolti dalla letteratura scientifica sul tema, tra cui, in particolare, quello effettuato da Lacourt, costituente la più vasta analisi epidemiologica fino ad oggi svolta sul mesotelioma, di assoluta conferma della fondatezza della teoria del c.d. "effetto acceleratore".

Con la terza doglianza, il ricorrente ha lamentato mancanza di motivazione in ordine alla valutazione comparativa della affidabilità, indipendenza e professionalità dei consulenti tecnici delle parti, a mezzo dei quali il sapere scientifico è stato veicolato nel processo e sottoposto all'esame dei giudici.

Lamenta, in particolare, il Procuratore generale che la Corte di appello avrebbe fondato la propria decisione sui pareri espressi dai consulenti della difesa, in particolar modo con riguardo alle tematiche della stima della c.d. "latenza clinica" e sul c.d. "effetto acceleratore", senza tener conto delle difformi valutazioni espresse dai consulenti tecnici del P.M., omettendo, quindi, di sviluppare un giudizio comparativo tra le conclusioni rese dai diversi consulenti intervenuti. La parte pubblica, infatti, aveva evidenziato, anche nel corso del dibattimento, una serie di indici attestanti la scarsa affidabilità, indipendenza e coerenza dei consulenti della difesa, di cui, invece, i giudici di secondo grado inopinatamente non avrebbero tenuto conto.

Con il quarto motivo sono stati eccepiti contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione risultante dalla errata interpretazione delle leggi scientifiche relative all'accertamento della causalità tra esposizione alle fibre di amianto e tumore polmonare, nonché sussistenza di un ragionamento probatorio sviluppato sulla base di presupposti scientifici non corretti e travisati.

Rileva il ricorrente come la sentenza impugnata presenterebbe profili di travisamento della prova scientifica in merito alla prova della causalità tra l'esposizione alle fibre di amianto e la verificazione del tumore polmonare. Pur a fronte di condivisibili premesse di carattere generale in ordine alla causalità nelle patologie multifattoriali, effettuata distinguendo tra l'incidenza dei fattori interferenti e dei fattori alternativi nonché rappresentando i principali studi scientifici di consenso internazionale effettuati in materia, la Corte di appello sarebbe incorsa in vizio motivazionale laddove avrebbe ritenuto di sviluppare il proprio percorso argomentativo facendo riferimento al concorso causale sussistente tra il tabagismo e la esposizione all'amianto, ragionando sui presupposti fattuali necessari a far ritenere provata la sussistenza del nesso causale tra esposizione ad amianto e tumore, altresì individuando, senza alcun fondamento scientifico, una soglia di sicurezza, al di sotto della quale non vi sarebbero rischi di contrarre una patologia neoplastica in conseguenza dell'esposizione a fibre di amianto, del tutto smentita dai più recenti studi svolti sul tema.

Analogamente priva di motivazione scientifica sarebbe, poi, l'affermazione per cui la causalità nella produzione del tumore della esposizione all'amianto non potrebbe essere ricostruita sulla base della valutazione della esposizione ricostruita dall'analisi della vita lavorativa del singolo, in assenza di misurazioni della esposizione ambientale o della presenza di asbestosi.

Avrebbe, in particolare, errato la Corte di merito nell'avere affermato di dover rigettare gli appelli proposti avverso le assoluzioni per reati riguardanti decessi per tumori polmonari nei casi in cui non sia oggettivamente e seriamente dimostrata la presenza (cumulativa o alternativa) dei dati rappresentati dai segni tissutali di asbestosi e delle misurazioni disponibili dell'esposizione, così omettendo di tener conto del rilievo, invece,, avuto dalla presenza di corpuscoli e di fibre rinvenute nel tessuto polmonare di talune persone offese (G.G., H.H., I.I., J.J., K.K. e L.L.). Risulterebbe, infatti, particolarmente evidente l'illegittimità della motivazione resa nel provvedimento impugnato con cui sarebbe stata esclusa la sussistenza del nesso di concausalità tra esposizione all'amianto e tumore nei riguardi di persone offese, anche fumatrici, che avevano presentato indici biologici di esposizione, corpuscoli e fibre rilevanti, coerenti con la loro specifica storia lavorativa.

D'altro canto, sarebbe posizione del tutto prevalente nella comunità scientifica quella per cui sussisterebbe sempre un fenomeno di interazione, e cioè di potenziamento reciproco, tra esposizione a fumo e ad amianto, con effetto crescente con l'aumento dell'intensità di esse, per cui tale sinergismo renderebbe, di fatto, indistinguibile l'effetto determinato dai singoli fattori concorrenti.

Con la quinta censura il ricorrente ha dedotto violazione di legge per difformità tra dispositivo e sentenza, laddove, a fronte di una motivazione di accoglimento del motivo di appello da lui proposto avverso la pronuncia di assoluzione di primo grado riguardante il delitto relativo al decesso per tumore polmonare del lavoratore M.M., ha ritenuto, poi, di confermare in dispositivo la sentenza impugnata anche con riferimento a tale capo. La Corte di appello, cioè, per presumibile errore materiale, avrebbe omesso di indicare la specifica imputazione rubricata sub 21) tra l'insieme delle fattispecie rispetto alle quali, pur ritenuta la responsabilità degli imputati, è stata dichiarata l'estinzione dei reati per prescrizione, in forza del disposto riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulla contestata aggravante.

Con l'ultima doglianza, infine, è stata eccepita violazione di legge per motivazione assente o contraddittoria in ordine alle ragioni di riconoscimento delle attenuanti generiche in giudizio di prevalenza sulla ritenuta aggravante ex art. 589, comma 2, cod. pen.

Avrebbe, in particolare, errato la Corte di appello per aver riconosciuto, diversamente dal giudice di primo grado, il già concesso beneficio negli indicati termini, senza, tuttavia, definire diversamente il ruolo esercitato dagli imputati nell'ambito dell'organigramma aziendale, così rendendo una motivazione contraddittoria e carente. Tale ultima sarebbe, in particolare, viziata per avere ribaltato il giudizio di subvalenza espresso dal primo giudice criticandone l'eccessiva e immotivata severità, senza, tuttavia, esplicare i presupposti nella cui ricorrenza ha ritenuto di riconoscere le attenuanti generiche in termini di prevalenza, e non già di equivalenza, sull'aggravante, come il tenore motivazionale della sentenza avrebbe lasciato intendere.

L'insieme degli aspetti fattuali caratterizzanti la posizione dello A.A. e dello B.B., invero evidenziati dalla Corte territoriale nell'ambito della propria decisione, nonché presenti anche in precedenti sentenze passate in giudicato, avrebbe dovuto più congruamente suggerire una diversa determinazione in sede di effettuazione del giudizio di bilanciaimento tra circostanze.

3.2. A.A. ha dedotto due motivi di doglianza, con il primo dei quali ha eccepito mancanza di motivazione in ordine all'accertamento della causalità generale ed individuale, alla effettiva posizione di garanzia da lui ricoperta, nonché violazione dell'art. 192, commi 1 e 2, cod. proc. pen., contraddittorietà ed illogicità della motivazione e travisamento della prova.

Il ricorrente lamenta come, pur essendo stati dichiarati prescritti alcuni reati, vi sia stata comunque la configurazione di una sua condotta responsabile a seguito di un'erronea identificazione della posizione di garanzia da lui ricoperta, con inesatta individuazione del periodo di svolgimento dei correlati ruoli direttivi all'interno della Italcantieri Spa

A dire dell'imputato, infatti, con riferimento al tema della effettività e concretezza della posizione di garanzia da lui ricoperta nell'ambito della struttura societaria, deve, in primo luogo, essere evidenziato come la stessa Corte territoriale abbia già escluso ogni addebito a suo carico con riferimento alle condotte a lui riferibili comprese nel periodo tra il 28 giugno 1972 e l'agosto 1974, o per tutto l'anno 1974 o addirittura fino al 1976, come pure indicato in taluni passaggi della sentenza impugnata. Tale ultimo riferimento temporale sarebbe, invero, quello da ritenersi più corretto ai fini dell'identificazione del periodo di copertura di una effettiva posizione di garanzia, quale figura datoriale tenuta alla tutela della salute dei lavoratori, per i giudici di merito ritenuta coincidente con l'appartenenza al Consiglio di Amministrazione di Italcantieri Spa, per l'appunto iniziatasi dallo A.A. a far data dal giugno 1976. L'indicato aspetto si porrebbe, pertanto, in evidente: contraddittorietà rispetto al periodo di responsabilità contestato all'imputato, decorrente dal 1975 al 28 agosto 1982.

Sarebbe, poi, viziato il provvedimento impugnato per aver omesso di considerare come, con riferimento all'identificazione della causalità generale, dovesse essere fatto necessario riferimento alle specifiche deleghe funzionali conferite allo A.A. iure proprio - invero espressamente individuate nel corso dell'istruttoria dibattimentale (in particolare mediante le testimonianze di N.N. e O.O.) - idonee a consentire di specificare in concreto le competenze a lui direttamente spettanti in tema di tutela della sicurezza del lavoro. Un adeguato esame dell'indicato aspetto avrebbe consentito di verificare l'insussistenza di un nesso di causalità tra la posizione ricoperta dall'imputato e la colpevole esposizione all'amianto dei lavoratori.

Sarebbe, poi, viziata la motivazione della seconda sentenza anche con riguardo all'individuazione della responsabilità del prevenuto sotto il profilo della causalità individuale, riferentesi alle singole parti offese decedute a seguito di tumore polmonare, considerato che fino al 1976 l'imputato non avrebbe fatto parte del Consiglio di Amministrazione e che almeno fino al giugno 1977, in cui era stato nominato Direttore Generale della Italcantieri Spa, non avrebbe posseduto alcuna delega funzionale in temei di precetti sulla sicurezza sul lavoro.

Sulla scorta degli indicati aspetti, allora, avrebbe errato la Corte di merito nel non aver assolto nel merito lo A.A. anche con riguardo al decesso di talune persone offese (P.P. e Q.Q.) la cui attività lavorativa presso il Cantiere di M era cessata nel corso dell'anno 1977.

Altresì rilevante, ai fini della contraddittorietà ed illogicità della motivazione, sarebbe, poi, la circostanza per cui le condotte delittuose sarebbero state perpetrate non genericamente presso la Italcantieri Spa, bensì presso lo Stabilimento di M, per cui, in ragione del principio di effettività della funzione e delle specifiche deleghe funzionali rilasciate nell'ambito di una struttura aziendale particolarmente complessa, la responsabilità per gli intervenuti decessi dei lavoratori si sarebbe dovuta riferire non già ai componenti del Consiglio di Amministrazione, ma ai gestori del rischio presso tale Cantiere, ed in particolare alla figura del Direttore di Stabilimento - oltre al Vice Direttore di Stabilimento e al Responsabile Generale del Servizio di Sicurezza - aventi il ruolo di garante della tutela del bene della salute.

Ancora di rilievo, ai fini dell'esclusione di ogni responsabilità a suo carico, sarebbero, poi, le circostanze per cui lo A.A. non avrebbe mai fatto parte del Comitato Esecutivo della Società e non avrebbe mai compiuto atti di spesa, tipicamente espressivi dell'esercizio di un potere datoriale. Neppure significativo, inoltre, sarebbe stato il formale ruolo da lui ricoperto di Presidente del Comitato Centrale di Sicurezza, avendo tale organo, diversamente c'a quanto ritenuto in sentenza, proficuamente adempiuto alle proprie incombenze, riunendosi regolarmente, altresì non risultando comprovato in quale maniera esso, come pure ritenuto dai giudici di appello, avrebbe potuto impedire gli eventi oggetto del presente giudizio.

Allo A.A. sarebbe stata inviata sempre documentazione particolarmente scarna da parte dei responsabili dello Stabilimento di M e tra di essa la Corte territoriale avrebbe del tutto erroneamente dato rilevanza, ai fini della prova della conoscenza da parte dell'imputato della sussistenza dei rischi derivanti dall'utilizzo di amianto, a due documenti da lui rispettivamente ricevuti nelle qualità di Condirettore generale e di Direttore generale della Società, atteso che essi non si sarebbero riferiti al Cantiere di M, con palese vizio di travisamento della prova, e che sarebbero stati illogicamente valutati da parte dei giudici di merito, in quanto vagliati senza tener conto del fatto che in quel preciso momento le regole cautelari vigenti non vietavano l'utilizzo dell'amianto. Un attento esame delle risultanze probatorie, sia dichiarative che documentali, dimostrerebbe, peraltro, come già nella prima metà degli anni '70 fosse iniziata un'opera di totale dismissione delle lavorazioni con esposizione all'asbesto presso il Cantiere di M.

Con la seconda censura, lo A.A. ha dedotto mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine all'accertamento della condotta omissiva e commissiva ex artt. 43 e 40, comma 2, cod. pen. contestatagli in relazione alle violazioni dei D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 e 19 marzo 1956, n. 303, con riferimento alle regole cautelari adottate e disponibili al momento dei fatti, oltre a violazione dell'art. 192, commi 1 e 2, cod. proc. pen.

A dire del ricorrente, considerata la peculiare tipologia di regole cautelari vigenti all'epoca dei fatti e gli specifici aspetti nella cui ricorrenza può essere imputata la verificazione di un evento quale conseguenza dell'intervenuta violazione di esse, dovrebbe essere censurata la modalità con cui i giudici di merito hanno proceduto all'individuazione delle norme violate, in particolar modo con riguardo alla considerata sussistenza, da tempo immemore, di un obbligo positivo di speciale cautela quanto all'utilizzo delle polveri, comprensivo di quelle di amianto, nonché alla continuità normativa tra risalenti e successive discipline, ed alla ritenuta complessiva cattiva gestione dell'amianto nel Cantiere di M. In proposito, infatti, lo A.A. ha evidenziato come le regole cautelari anteriori al 1992, anno in cui in Italia fu proibito del tutto il ricorso all'amianto, fossero radicalmente diverse, tutelando l'utilizzo delle polveri ed invece consentendo l'uso dell'amianto, sia pure nel rispetto di determinate cautele. Per il ricorrente, pertanto, non potrebbero essere applicate automaticamente le regole cautelari dettate a tutela dei lavoratori dalle polveri di amianto, anche perché collocate in contesti storici assai lontani e diversi, così come non potrebbe essere fatto ricorso neanche alla genericissima tutela prevista dall'art. 2087 cod. civ.

Ed allora, per il ricorrente, considerato come nel tempo siano particolarmente mutate le conoscenze relative alla pericolosità dell'amianto e la sensibilità circa il rischio ad esso connesso, tutte le doglianze in proposito sollevate in appello non sarebbero state adeguatamente vagliate dalla Corte territoriale, nonché disattese con motivazione pertinente, essendosi, tra l'altro, trascurata la circostanza per cui mai l'Ispettorato del lavoro, reiteratamente intervenuto presso il Cantiere di M, avrebbe mosso rilievo alcuno circa le modalità di utilizzo dell'amianto, nonché in ordine al rispetto della normativa dettata a tutela dei lavoratori dalle polveri.

I giudici appello, quindi, non avrebbero effettuato nessuna corretta verifica circa la possibilità di scongiurare i decessi dei lavoratori mediante l'adozione delle specifiche precauzioni vigenti in quel determinato contesto temporale, altresì accertando se il titolare della posizione di garanzia avesse avuto la possibilità di prevedere il rischio in effetti, poi, concretizzatosi. Un'effettiva verifica in tal senso avrebbe determinato l'esclusione dell'elemento soggettivo richiesto per l'integrazione del delitto contestato, con quel che ne consegue in termini di totale esclusione della configurazione della responsabilità penale dell'imputato.

3.3. B.B. ha eccepito tre motivi di ricorso, con il primo dei quali ha lamentato mancanza ed erronea applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen., nonché carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per essere stata dedotta la sussistenza del nesso causale tra le omissioni addebitategli e l'evento del mero aumento del rischio di contrarre il tumore/carcinoma polmonare determinato dalle esposizioni a polveri di amianto intervenute nel periodo in cui avrebbe ricoperto la posizione di garanzia.

La Corte di appello, infatti, avrebbe erroneamente ritenuto di dichiarare l'estinzione per intervenuta prescrizione, e non già l'assoluzione nel merito, dei reati contestatigli ai capi 11) e 18) del procedimento 1718/08 RGNR ed ai capi 2), 4), 5), 10), 11), 14), 15), 16), 18) e 22) del procedimento 2331/14 RGNR, basando la propria decisione sui criteri adottati dal Consensus Report di Helsinki del 1997.

Tali ultimi, infatti, pur avendo desunto, dagli svolti studi epidemiologici di gruppo, importanti indicazioni in ordine all'aumento del rischio (fino al doppio) di contrarre una patologia tumorale da parte della popolazione degli esposti, non avrebbero mai saputo individuare, nemmeno per gli autori del Consensus, l'insieme delle condizioni da dover soddisfare per poter affermare o negare la riconducibilità all'amianto di un carcinoma polmonare del singolo soggetto esposto. Nell'individuo, infatti, anche ove si ravvisi la presenza di un quadro di asbestosi, con seri danni ai polmoni già provocati dall'amianto, non potrebbe comunque essere stabilita, in termini deterministici precisi, l'effettiva causa originante del carcinoma.

L'avere la Corte territoriale ancorato l'attribuzione causale dei tumori dei lavoratori defunti all'esposizione all'amianto, e quindi a una patologia di natura multifattoriale, rappresenterebbe, pertanto, solo un tentativo inadeguato di determinare l'origine della malattia, fondato su valutazioni suggestive e su criteri scientifici palesemente insufficienti.

Con la seconda censura lo B.B. ha dedotto mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per essere stata affermata la sussistenza del nesso causale senza confrontarsi con l'impossibilità scientifica di determinare la fine del periodo di induzione anche in relazione ai casi di carcinoma/tumore polmonare.

La Corte di merito, in particolare, avrebbe omesso di affrontare il tema relativo alla durata del periodo di induzione, invece da ritenersi di assoluto rilievo, considerato che il tumore polmonare, al pari del mesotelioma pleurico, costituisce una malattia neoplastica che si sviluppa secondo lo schema della teoria multistadio della cancerogenfsi, per cui assumerebbero rilevanza causale ai fini della sua verificazione le sole esposizioni intervenute nella fase di induzione (c.d. "failure time"), e non già quelle relative alla successiva fase di latenza clinica o progressione. Con riferimento al periodo di induzione, invero per sua natura non certamente determinabile, si sarebbe dovuto procedere, pertanto, alla verifica dell'integrale sovrapposizione temporale tra la durata dell'attività svolta dal singolo lavoratore e la coincidenza della sussistenza della posizione di garanzia da parte dell'imputato.

Con la terza doglianza è stato eccepito vizio di motivazione per travisamento del fatto e della prova in ordine alla conferma della sussistenza di una posizione di garanzia nei confronti del ricorrente, oltre a mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, altresì deducendosi l'erronea applicazione dell'art. 4 D.P.R. n. 547 del 1955, dell'art. 4 D.P.R. n. 303 del 1956 e dell'art. 40 cod. pen., per averlo individuato quale soggetto che avrebbe dovuto impedire l'evento, prescindendosi da ogni valutazione concernente l'effettiva ripartizione di compiti, poteri e responsabilità.

Il ricorrente lamenta di essere stato ritenuto responsabile pur avendo svolto attività lavorativa presso la Società Fincantieri solo per un arco temporale di poco inferiore a dieci anni, quale capo del Servizio del Personale del Cantiere di M dal 1975 al 1977 e poi come Vice Direttore del Settore Personale della Sede Centrale dal 1978 al 1983 e Direttore per un anno dal 1° aprile 1983, peraltro in un periodo in cui è stato considerato meno incisivo il rischio per i lavoratori di esposizione all'amianto, essendo stato accertato come la sua definitiva cessazione fosse intervenuta nel 1985.

Evidenzia, poi, lo B.B. come gli sarebbe stata contestata una condotta asseritamente perpetrata ricoprendo posizioni lavorative diverse, caratterizzate da competenze e responsabilità differenti, e, quindi, con una evidente confusione nella relativa determinazione e una conseguente genericità nell'imputazione ascrittagli. Ne sarebbe conseguita una posizione di garanzia inesistente, fondata su errate o approssimative deduzioni, prive di riscontro ed anzi smentite da precisi riscontri documentali, in evidente contrasto con i dettami resi dalla giurisprudenza di legittimità.

Con riferimento, in particolare, al periodo in cui lo B.B. aveva ricoperto il ruolo di Capo del Servizio del Personale dello Stabilimento di M, avrebbero errato i giudici di merito nel non aver considerato come i tecnici preposti alla responsabilità della sicurezza locale fossero stati dipendenti dall'imputato solo in via gerarchica, con riguardo ad aspetti strettamente amministrativi, invece essendo stati funzionalmente dipendenti, per i profili operativi, dal Servizio Centrale di Sicurezza, con conseguente rilievo ai fini della gestione del rischio lavorativo poi effettivamente concretatosi. Lo B.B., quindi, non avrebbe potuto avere la diretta percezione delle modalità di svolgimento del lavoro, per l'effetto non governando, nel senso ritenuto da la giurisprudenza della Suprema Corte, alcun tipo di rischio lavorativo, altresì risultando formalizzato in documenti interni come presso lo Stabilimento di M la gestione della produzione fosse stata affidata, con conseguente ripartizione dei compiti in materia di sicurezza, al Vice Direttore di Stabilimento.

Osservando, quindi, le competenze effettivamente conferite allo B.B. nel ricoperto ruolo di Capo del Personale di Stabilimento, come contenute nella procura rilasciatagli da parte della Società di appartenenza, si evincerebbe come non gli sarebbe spettato nessuno dei poteri (disciplinare, formazione, informazione, ecc.) nella cui ricorrenza i giudici di merito hanno ritenuto di configurare la sua responsabilità penale.

Sarebbe generica, infine, la motivazione con cui la sentenza impugnata ha confusamente ritenuto di riconoscere la sua responsabilità con riferimento al successivo periodo lavorativo, svoltosi tra il 1978 e il 1983 presso il Settore Personale della Sede Centrale, con conseguente sua partecipazione quale membro di diritto al Comitato Centrale di Sicurezza, senza distinguere tra il breve periodo in cui era stato Direttore e quello in cui aveva ricoperto il ruolo di Vice Direttore, con significativo rilievo nella determinazione della sua responsabilità, atteso che nella sola qualità di Direttore aveva potuto partecipare, quale membro di diritto, al suddetto Comitato Centrale di Sicurezza.

4. Il difensore della costituita parte civile Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), in persona del Commissario Straordinario prò tempore, ha depositato articolata memoria in esito alla quale ha avanzato richiesta di accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Trieste, con conseguente annullamento della sentenza impugnata, nonché rigetto dei ricorsi proposti da A.A. e B.B.

 

Diritto


1. I proposti ricorsi non sono fondati, per l'effetto dovendo esserne disposto il rigetto, con le precisazioni di seguito esposte.

2. In primo luogo non fondata è la doglianza introduttiva del ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Trieste, con cui è stata lamentata l'omessa indicazione e valutazione delle teorie scientifiche che, a dire della Corte territoriale, con riferimento alle patologie asbesto correlate, fonderebbero il giudizio di impossibilità di accertamento del termine della c.d. "latenza clinica" nel processo di cancerogenesi.

Lamenta, in particolare, il ricorrente che la Cotte di merito, mal comprendendo il funzionamento del processo di cancerogenesi multistadiale, avrebbe erroneamente affermato l'impossibilità di individuare il momento in cui il processo formativo del mesotelioma diviene irreversibile, e quindi impermeabile ad ogni ulteriore esposizione all'amianto. In senso contrario, infatti, diversi studi epidemiologici, anche recentemente presentati nella letteratura scientifica, sarebbero in grado di attestare come rispetto al mesotelioma pleurico, pur non potendosi accertare in modo sicuro il c.d. "failure time", ossia il momento della induzione, sia comunque possibile stimare la durata della c.d. "latenza clinica", normalmente individuata in un arco temporale compreso tra i quattro e i dieci anni antecedenti alla diagnosi, così che retroagendosi di almeno dieci anni rispetto ad essa vi sia la possibilità di raggiungere la ragionevole sicurezza di trovarsi in presenza di un processo di cancerogenesi non ancora divenuto irreversibile. Ciò risulterebbe sufficiente, pertanto, a determinare, rispetto ad ogni singolo lavoratore affetto dall'indicata patologia neoplastica, il relativo periodo di esposizione efficace, e, quindi, l'eventuale riferibilità di esso all'epoca di titolarità della posizione di garanzia da parte dei different1 gestori del rischio.

Ad avviso di questo Collegio, la prospettata impostazione del Procuratore generale incontra un decisivo limite nell'essere stata fondata su una convinta adesione ad una teoria scientifica che, per quanto certamente accreditata, si palesa, comunque, come la risultanza di studi aventi solo natura statistico-epidemiologica, non asseverati da una legge scientifica di copertura di carattere universale. Ciò determina, quindi, che a fronte di indicazioni statistiche, per lo più rappresentative di dati di tendenza eventualmente valevoli in termini di causalità generale, l'indicata teoria scientifica non può che soffrire di un'evidente aporia giuridica al momento dell'effettuazione dell'accertamento della causalità individuale, laddove ritiene che l'indicata regola di carattere epidemiologico si possa concretamente applicare a tutti i singoli soggetti affetti da mesotelioma pleurico, così da poter affermare, in modo certo, che rispetto a ciascuno di essi non vi fosse la presenza di alcun processo tumorale divenuto irreversibile dieci anni prima della formulazione della diagnosi.

L'attribuzione colposa dei decessi per patologia mono fattoriale (quale è il mesotelioma pleurico) non già ad una legge scientifica di copertura universale, bensì ad una legge che, per quanto qualificata, abbia natura solo probabilistica, in quanto fondata su studi di tipo statistico-epidemiologico, non consente di attribuire, nella prospettiva necessariamente rigorosa che è propria dell'accertamento della responsabilità pensile - per la quale non sono tollerabili "scorciatoie probatorie" - sicuro rilievo causale, in senso giuridico, alla durata della posizione di garanzia di ogni imputato, soprattutto in ragione della estrema ampiezza e variabilità dei tempi di latenza della malattia.

La scienza, infatti, è solita considerare la latenza lato sensu come compresa tra un minimo di dieci-quindici anni ed un massimo di (anche) sessanta-settanta anni dall'esposizione all'asbesto, con una media matematica di circa trenta-quaranta anni, e la latenza strido sensu come avente una ragionevole durata di circa dieci-quindici anni (come invero accreditato da numerose fonti scientifiche, rappresentato nelle sentenze di merito e ritenuto dagli stessi consulenti tecnici del P.M.).

Ne consegue, allora, in ossequio a quanto adeguatamente ritenuto dalla Corte di appello in esito all'esame degli indicati aspetti, con valutazione esente da ogni illogicità e fondata su precise conoscenze di natura scientifica, come gli indicati parametri di natura tecnica rendano, di fatto, del tutto incerta la possibilità di riferire, in maniera razionalmente plausibile e probatoriamente affidabile, all'incidenza causale della condotta dei due imputati - quando aventi la posizione di garanzia - l'intervenuta insorgenza e il successivo compimento del processo di cancerogenesi nelle persone offese, fino alla verificazione del c.d. "failure time", e cioè alla irreversibilità delle singole patologie di mesotelioma sofferte. Ciò sarebbe possibile - per come congruamente ritenuto, ancora, dalla Corte di merito - solo nei casi, non ravvisabili nelle fattispecie in esame, di sovrapposizione cronologica integrale, o quasi integrale, tra il periodo di attività lavorativa della singola persona offesa esposta all'amianto e la durata della posizione di garanzia dell'imputato.

Il dedotto contrasto a tale conclusiva affermazione finisce, quindi, per involgere una situazione di opposizione ai dati scientifici considerati dalla Corte di appello e alle risultanze probatorie valutate ai fini del giudizio, e dunque ad aspetti inerenti ad elementi di merito non passibili di vaglio da parte di questa Corte di legittimità, a fronte delle congrue e logiche motivazioni espresse sul punto dai giudici di secondo grado.

3. Del pari infondata è la censura con cui il Procuratore generale ha lamentato, in tema di accertamento della causalità individuale, la ricorrenza di un vizio motivazionale in ordine alla ritenuta assenza di una legge scientifica accreditata che, eventualmente anche connotata da natura statistica e non universale, possa risultare idonea a configurare l'esistenza del c.d. "effetto acceleratore" delle esposizioni all'amianto successive alla prima, tali, cioè, da cagionare un'anticipazione della malattia asbesto correlata, ovvero una diminuzione del periodo di latenza. A dire del ricorrente, in particolare, assumerebbero significativo rilievo, agli indicati fini, le conclusioni rese dal "III Consensus Conference", ovvero i recenti studi svolti da parte di Lacourt, confermativi della fondatezza della teoria del c.d. "effetto acceleratore".

Orbene, ad avviso di questo Collegio, la così prospettata doglianza non appare essersi confrontata, in modo congruo, con il contesto motivazionale nel cui ambito la Corte territoriale ha considerato la rilevanza della suddetta teoria scientifica. La relativa tematica, infatti, è stata esaminata solo dopo essere stato diffusamente esplicato - in esito alle conclusioni rese in tema di causalità generale - come, sotto il profilo della causalità individuale, non vi fosse possibilità alcuna di ascrivere allo A.A. e allo B.B. la determinazione di processi causativi del mesotelioma pleurico in lavoratori che erano stati esposti alle polveri di amianto già da molti anni prima (in molti casi più decenni) dell'assunzione delle posizioni di garanzia da parte dei due imputati, periodi durante i quali, stante la mancata conoscenza del reale ed effettivo momento di completamento per ogni singola vittima del meccanismo della cancerogenesi, non risultava, comunque, possibile stabilire con certezza quando vi fosse stato il completamento del processo tumorale, rendendo irreversibile la malattia. Ciò è stato affermato non solo ritenendo razionalmente illogico che lavoratori sottoposti ad amianto sin dagli anni '50 e '60 non avessero ancora completato il periodo di induzione alla metà degli anni '70 (momento di assunzione della posizione apicale di garanzia da parte dei due prevenuti), ma anche con riguardo a coloro che avevano iniziato ad essere sottoposti alle polveri di amianto tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni '70, nella considerata impossibilità di escludere da inequivoci elementi di carattere scientifico che l'effettuata esposizione all'amianto avesse già determinato l'irreversibile innesco del processo tumorale.

Rispetto alla decisività delle superiori considerazioni, argomentate dai giudici di appello con valutazioni adeguate, non manifestamente illogiche né contraddittorie, appaiono, invero, di secondario momento, in quanto all'evidenza assorbite, le censure con cui il Procuratore generale ha lamentato la scarna considerazione in sentenza della teoria del c.d. "effetto acceleratore", a suo dire solo succintamente considerata, senza tener conto dei recenti studi confermativi della sua fondatezza scientifica.

Ed infatti, per come congruamente considerato dai giudici di secondo grado, l'indicata teoria, anche a volerla considerare realmente accertata e condivisa da parte della comunità scientifica, si qualificherebbe, comunque, come una legge di copertura di natura solo probabilistica, necessitante di una verifica empirica, da effettuarsi caso per caso, in ordine alla intervenuta effettiva abbreviazione in ciascun lavoratore del periodo di latenza della malattia. In tal caso, cioè, ricorrerebbe la necessità di stabilire con rigore, ai fini della verifica della sussistenza della causalità individuale, in che modo l'esposizione all'amianto avesse effettivamente agito, determinando l'insorgenza della malattia o abbreviandone i tempi di latenza, verificando se essa fosse ricaduta, o meno, nel periodo di latenza clinica.

Soprattutto, la teoria del c.d. "effetto acceleratore" non risulterebbe mai in grado di modificare le conclusioni rese dalla Corte territoriale, in precedenza rappresentate, rispetto alle quali I'"effetto acceleratore" non si potrebbe che porre in termini neutri ed irrilevanti, apparendo del tutto consequenziali e logiche le considerazioni rese dai giudici di appello in sentenza, per cui "l'arco temporale all'interno del quale si colloca, nei singoli casi, l'esposizione all'amianto è in tutti i casi ben ampio, onde non è dato determinare con univoca certezza se i periodi di responsabilità apicale dello A.A. e dello B.B. abbiano o meno trovato collocazione temporale all'interno della fase di induzione delle singole cancerogenesi, e ciò ben a prescindere da un ulteriore arretramento temporale delle stesse in ragione dell'operatività di un effetto acceleratore".

In ogni modo, la censura espressa dal Procuratore generale, finalizzata a valorizzare una specifica legge scientifica (teoria del c.d. "effetto acceleratore"), finisce per porsi, all'evidenza, come un'aperta critica al sapere tecnico utilizzato da parte della Corte di appello, onde confutarne i risultati scientifici considerati, in tal maniera intendendo sollecitare, di fatto, una risposta di merito, di certo non esprimibile da questa Corte nella presente sede di legittimità.

4. Priva di ogni pregio è, poi, la censura dedotta con il terzo motivo dal Procuratore generale, non ravvisandosi nella sentenza impugnata - diversamente da quanto sostenuto in ricorso - nessuna assenza di considerazione delle tesi scientifiche rappresentate dai consulenti tecnici del P.M., in particolar modo non risultando presente alcuna omessa valutazione di esse in comparazione con le diverse teorie espresse dai consulenti tecnici delle difese.

La superiore doglianza, invero proposta in termini particolarmente generici e assertivi da parte del ricorrente, risulta, infatti, palesemente contraddetta da plurimi passaggi motivazionali in cui la Corte di appello, con riferimenti impliciti ovvero con espressa rappresentazione delle argomentazioni espresse dai consulenti tecnici del P.M., ha, all'evidenza, dimostrato di aver pienamente considerato le valutazioni scientifiche da essi formulate, in particolar modo in tema di determinismo causale delle patologie asbesto correlate.

A titolo meramente esemplificativo, può essere fatto richiamo, a conforto, a quanto riportato a pagina 326 della sentenza impugnata, in ordine al convincimento espresso dai consulenti del P.M. circa la natura dose dipendente del mesotelioma, ovvero al contenuto di pagina 342, ove è stato diffusamente dato conto delle conclusioni rese dal consulente tecnico del P.M., dott. R.R., in ordine alla possibilità di configurare l'asbesto quale causa o concausa del tumore polmonare.

5. Ancora non fondato è il motivo con cui il Procuratore generale ha lamentato, nella sua quarta doglianza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo all'errata interpretazione delle leggi scientifiche relative all'accertamento della causalità individuale tra l'esposizione alle fibre di amianto e la contrazione del tumore polmonare. A dire del P.G., infatti, sussisterebbe un travisamento della prova scientifica con riferimento a talune specifiche ipotesi, dettagliatamente indicate in ricorso, in cui la Corte di appello avrebbe erroneamente pronunciato l'assoluzione degli imputati sulla scorta della ritenuta insussistenza di un nesso eziologico tra l'esposizione all'amianto del lavoratore e la causazione del tumore ai polmoni, cagionativo del decesso della persona offesa, in quanto fondato su di una non corretta metodologia argomentativa - in particolar modo afferente al concorso causale intercorrente tra tabagismo ed esposizione all'asbesto - per essere stata stabilita, senza alcun fondamento scientifico, una soglia di sicurezza al di sotto della quale non vi sarebbero rischi di contrarre una patologia neoplastica in conseguenza dell'esposizione a fibre di amianto.

Orbene, il Collegio ritiene l'infondatezza dell'indicata doglianza, evidenziato come nessun vizio motivazionale, né alcuna violazione di legge scientifica, possa essere ravvisata nell'iter motivazionale seguito da parte dei giudici di appello.

In primo luogo, infatti, è stato compiutamente dato conto in sentenza di come rispetto al tumore polmonare, avente (a differenza del mesotelioma pleurico) eziologia multifattoriale, necessiti un maggiore approfondimento valutativo circa l'effettiva imputabilità causale della patologia tumorale all'amianto, con riferimento ad ogni singolo lavoratore esposto.

Ai fini della configurazione della responsabilità penale, infatti, è necessario che non rilevi la ricorrenza di un'ipotesi di causalità ex art. 41, comma 2, cod. pen., per cui l'esposizione alle polveri di amianto deve, comunque, aver determinato, pur a fronte di fattori causali preesistenti o concomitanti, una relazione eziologica in ordine alla verificazione del successivo evento oncologico.

Risulta evidente, allora, come, nei concreti casi oggetto di impugnazione da parte del P.G. ricorrente, i giudici abbiano motivatamente escluso l'attribuzione dell'incidenza causale della morte dei lavoratori alle condotte degli imputati, sulla scorta di obiettivi riscontri riguardanti la durata e l'intensità dell'esposizione dei singoli lavoratori agli agenti cancerogeni, in ossequio ai criteri scientifici seguiti dalla Corte di merito - e diffusamente rappresentati in sentenza - in particolar modo desunti dai criteri adottati dal Consensus Report di Helsinki del 1997 (non modificato da quello del 2014), ritenuto sapere scientifico condiviso in tema di accertamento dell'eziopatogenesi dei tumori al polmone.

Inoltre, una volta esaminate le caratteristiche del singolo caso, e valutata l'intensità dell'esposizione professionale del lavoratore a uno o più agenti cancerogeni, il percorso seguito dai giudici di appello è risultato pienamente conforme al criterio dell'equivalenza delle cause, senza palesare nessuna incertezza o incongruenza valutativa in proposito.

Ciò si conforma, adeguatamente, ai generali principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia di patologie multifattoriali, rispetto alle quali necessita l'applicazione della c.d. "regola dell'esclusione", per cui la malattia tumorale può essere attribuita alla causa indiziata solo dopo che sia stato escluso che un fattore alternativo possa avere avuto un ruolo eziologico - sempre che esso abbia operato in assoluta autonomia, posto che la natura causale di un determinato antecedente non è esclusa dall'esistenza di una concausa (art. 41 cod. pen.) -. Pertanto, non escludono il nesso di causa i fattori interferenti, che spiegano una efficienza sinergica in corrispondenza dell'insorgenza della malattia o della sua ingravescenza, mentre lo escludono i fattori alternativi, e cioè quelli che sono in grado di operare in assoluta autonomia. Nel primo caso si parla di incidenza concausale, con applicazione del criterio giuridico dell'equivalenza delle cause di cui all'art. 41 cod. pen., mentre, nel secondo caso, il fattore alternativo non può porsi in termini di concausa, trovando applicazione la disciplina dettata dall'art. 41, comma 2, cod. pen. (cfr., in questi termini, Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna, Rv. 270385-01; Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013, Battistella, Rv. 257113-01).

Nella sentenza impugnata, allora, risulta pienamente rispettata la regola di giudizio dell'elevato grado di credibilità razionale, essenziale nei casi di patologie multifattoriali per affermare la relazione causale esistente tra l'esposizione professionale e la malattia, essendo stati adeguatamente evidenziati gli indici per cui, nei singoli casi, è stata ritenuta non provata la malattia, ovvero è stato escluso che la stessa fosse stata determinata dall'inalazione di polveri di asbesto.

In definitiva, il percorso logico-giuridico seguito in sentenza per escludere, rispetto alle ipotesi contestate dal Procuratore generale, il collegamento dell'evento morte dei lavoratori a una patologia da esposizione professionale ad agenti cancerogeni è stata svolta in maniera del tutto logica e adeguata, con corretta indicazione ex ante delle leggi scientifiche applicabili, l'inferenza induttiva ex post della non riferibilità, con razionale certezza, dei casi concreti nell'ambito di operatività di tali leggi.

A fronte di tali conclusioni, risulta, pertanto, del tutto infondata la doglianza con cui il P.G. ricorrente ha lamentato, nella motivazione seguita dalla Corte di appello, il mancato riferimento a specifiche evidenze scientifiche, ovvero l'omessa considerazione delle diverse risultanze emerse in differenti studi di settore, in particolar modo riguardanti il fenomeno del potenziamento reciproco tra tabagismo ed esposizione all'amianto. Trattasi, infatti, solo dell'intervenuta diversa adesione a differenti teorie scientifiche, all'evidenza insufficiente ad inficiare la congruenza e logicità del percorso motivazionale con cui i giudici di appello hanno ritenuto di motivare la propria decisione.

6. Invece corretta è la censura dedotta dal P.G. con il quinto motivo di ricorso, ravvisandosi un'evidente difformità in sentenza tra il corpo della motivazione e il conseguente dispositivo, laddove, a fronte di un espresso accoglimento di uno specifico motivo di appello dedotto avverso la pronuncia di assoluzione di primo grado per il delitto relativo al decesso per tumore polmonare del lavoratore M.M. - rubricato al capo 21) del procedimento n. 2331/14 -, la Corte di merito ha, poi, omesso di indicare, per evidente errore materiale, tale specifica imputazione tra l'insieme delle fattispecie rispetto alle quali, pur ritenuta la responsabilità degli imputati, è stata dichiarata l'estinzione dei reati per prescrizione, in conseguenza del disposto riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulla contestata aggravante.

Trattasi di omissione cui, stante l'evidente rilievo della sua natura, può essere direttamente posto rimedio da parte di questa Corte, correggendosi l'errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza emessa il 17 gennaio 2022 dalla Corte di appello di Trieste con inserimento, subito dopo la menzione del capo 18 del procedimento n. 2331/14, dell'indicazione del capo 21 tra i delitti per cui è stato dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati A.A. e B.B. per essere i reati estinti per prescrizione.

7. Concludendo l'esame dei motivi di censura dedotti dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Trieste, deve essere ritenuta, infine, l'infondatezza della doglianza afferente alla ritenuta erroneità della decisione con cui la Corte territoriale ha riconosciuto le già concesse circostanze attenuanti generiche in termini di prevalenza, e non già di equivalenza - come, a dire del ricorrente, avrebbero suggerito le risultanze processuali acquisite - rispetto alla contestata aggravante di cui all'art. 589, comma 2, cod. pen.

Il Collegio rileva, infatti, come la motivazione resa sul punto dalla Corte di merito ben rappresenti e giustifichi, in punto di diritto, le ragioni per cui il giudice di secondo grado ha ritenuto di concedere all'imputato il beneficio ex art. 62-bis cod. pen. in termini di prevalenza rispetto alla contestata aggravante, esprimendo una motivazione priva di vizi logici e coerente con le emergenze processuali, in quanto tale insindacabile in questa sede di legittimità (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi e altri, Rv. 242419-01). La Corte di appello, in particolare, ha diffusamente esplicato le ragioni per cui, nel rispetto del principio di proporzionalità, ha ritenuto di esercitare il potere discrezionale riconosciutole dagli artt. 132 e 133 cod. pen. disponendo la concessione delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza, in virtù di una motivazione logica e congrua, in cui è stata soprattutto valorizzata la risalenza nel tempo delle condotte ascritte ai prevenuti - rispettivamente cessate nell'agosto del 1982 (A.A.) e nell'ottobre del 1984 (B.B.) - nonché la conseguente attuale insussistenza di un profilo di capacità a delinquere riferibile a soggetti oggi ultraottantenni, peraltro con riguardo ci una responsabilità di natura apicale inerente ad una vicenda aziendale oramai da tempo storicamente superata. Altresì adeguata, nell'effettuazione del siffatto giudizio di bilanciamento, è stata la considerazione della complessiva minore gravità dei fatti imputati ai ricorrenti, stante la disposta riforma in appello della originaria pronuncia di condanna con riguardo a tutte le ipotesi di decesso per mesotelioma e a un cospicuo numero di morti per tumore polmonare.

Le censure mosse dal P.G. ricorrente a tale percorso argomentativo appaiono, pertanto, solo assertive e prive di pregnanza, e perciò tali da risultare inidonee a modificare il giudizio di adeguatezza della motivazione espressa da parte del giudice di secondo grado.

8. Passando, quindi, all'esame dei ricorsi proposti dagli imputati A.A. e B.B., deve essere rilevata, in primo luogo, l'infondatezza delle doglianze con cui - rispettivamente nel primo (A.A.) e nel terzo (B.B.) motivo di ricorso - i prevenuti hanno lamentato la mancata ricorrenza di una posizione di garanzia da loro effettivamente ricoperta al momento di integrazione delle fattispecie delittuose ascrittegli.

8.1. Preliminarmente alla valutazione delle singole posizioni di garanzia, e dunque alle doglianze eccepite da parte dei due imputati, deve essere osservato, tuttavia, come la sentenza impugnata abbia correttamente fatto riferimento, ai fini della generale individuazione delle posizioni di garanzia, ai fondamentali principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia, in particolar modo formatasi sugli insegnamenti resi dalla sentenza Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261108-01, in tema di gestione del rischio nelle organizzazioni societarie particolarmente complesse.

È stato affermato, in particolare, che gestore del rischio, penalmente responsabile, può essere il consiglio di amministrazione nel suo complesso, il comitato esecutivo che ne è emanazione o i singoli suoi componenti, purché sia ravvisabile la loro reale partecipazione ai processi decisori, e cioè la loro ingerenza nelle scelte decisionali e nell'ambito operativo della società, con particolare riferimento alle condizioni di igiene e sicurezza del lavoro (Sez. 4, n. 55005 del 17/11/2017, Pesenti, Rv. 271719-01).

Sono stati, altresì, ribaditi principi, reiteratamente affermati da parte di questa Suprema Corte, per cui, in tema di individuazione delle responsabilità penali all'interno delle organizzazioni complesse: non può attribuirsi, in via automatica, all'organo di vertice la responsabilità per l'inosservanza della normativa di sicurezza, dovendosi sempre considerare l'effettivo contesto organizzativo e le condizioni in cui detto organo ha dovuto operare (così, Sez. 4, n. 13858 del 24/02/2015, Rota, Rv.263286-01); gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega sia espresso, inequivoco e certo ed investa persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, fermo restando, comunque, l'obbligo, per il datore di lavoro, di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (Sez. 4, n. 24908 del 29/01/2019, Ferrari, Rv. 276335-01); nelle strutture lavorative complesse, la delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, se specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega (Sez. 4, n. 988 del 11/07/2002, dep. 2003, Macola, Rv. 226999-01).

Sulla scorta degli indicati parametri di riferimento, allora, la Corte di appello, conformemente alle conclusioni rese da parte del primo giudice, ha evidenziato, con argomentazione adeguata e scevra da ogni illogicità, come al momento dei fatti sussistesse in Italia un generale e diffuso "problema amianto", non solo ravvisabile nello Stabilimento di M, essendovi state molte segnalazioni e comunicazioni, all'epoca intervenute a vari livelli, di avvertimento circa i rischi connessi all'utilizzo dell'asbesto, nonché della conseguente necessità di proteggere i lavoratori dall'esposizione alle polveri di amianto.

Per la Corte territoriale, pertanto, ciò aveva assunto un rilievo tale da far ritenere comunque comprovato che la delicatezza della relativa questione fosse stata posta all'attenzione e, quindi, rimessa alla competenza decisoria degli organi apicali delle strutture complesse, per cui nessun esonero di responsabilità poteva essere concesso a chi, in quel momento, ricopriva incarichi di amministratore, nel senso che i vari componenti dei consigli di amministrazione.

Anche ove non avessero mai trattato direttamente la "questione amianto", sarebbero stati, comunque, responsabili di non avere adempiuto al loro preciso ed esclusivo dovere di controllo della gestione della sicurezza del lavoro, anche in caso di intervenuta delega di tali compiti ad altri organi societari.

La scelta dell'impiego dell'amianto, senza alcuna politica di informazione e formazione, era, pertanto, da imputarsi a tutti coloro che avevano ricoperto posizioni di vertice o cariche dirigenziali nelle funzioni aziendali coinvolte nella sicurezza del lavoro, sia a livello centrale che periferico, per tutto il periodo di induzione del processo patologico.

Tenuta in doverosa considerazione l'incidenza degli indicati aspetti, allora, deve essere osservato come la ritenuta responsabilità degli imputati, derivante dalla posizione di garanzia ricoperta all'interno delle società avvicendatesi nella gestione del Cantiere di M, non è stata attribuita in maniera automatica da parte dei giudici di merito, per il solo fatto di rivestire un ruolo apicale o decisionale, ma in considerazione del contesto organizzativo e delle specifiche condizioni in cui entrambi i prevenuti avevano concretamente operato.

Sono state correttamente individuate, cioè, le condotte loro effettivamente imputate, sia in termini di causalità omissiva che commissiva, in coerenza con gli acquisiti elementi in fatto e nel rispetto dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, previa esatta individuazione del ruolo da essi effettivamente ricoperto all'interno dell'organico aziendale, con individuazione delle specifiche posizioni di garanzia da loro assunte.

8.2. Ciò vale, in primo luogo, con riferimento a A.A., avendo la Corte di merito adeguatamente dato conto delle ragioni per cui è stata riconosciuta la sua responsabilità in ordine alle fattispecie da lui ritenute integrate in sentenza.

Per come in quest'ultima compiutamente precisato,, infatti, l'imputato aveva ricoperto inizialmente, dal 28 giugno 1972 al 3 agosto 1973, il ruolo di componente del Consiglio di amministrazione della Italcantieri Spa, di cui, dopo un'esperienza lavorativa espletata presso una differente struttura aziendale, era stato Condirettore generale dal 16 luglio 1974 al 28 giugno 1977, data in cui era divenuto Direttore generale della Società, con incarico espletato fino al 27 agosto 1982.

In ragione delle considerazioni precedentemente svolte, la Corte territoriale ha configurato la responsabilità dello A.A. per avere assunto, nelle indicate funzioni apicali, specifiche posizioni di garanzia all'interno della struttura societaria a far data dall'agosto 1974.

Gli sono state ascritte, in dettaglio, scelte gestionali inadeguate ad affrontare il rischio amianto nell'ambito delle lavorazioni svolte, risultando, in particolar modo, comprovato da plurimi documenti formali e da varie comunicazioni inviategli, come lo A.A. fosse stato pienamente consapevole dei rischi connessi all'utilizzo dell'asbesto, in quanto del tutto conscio dell'esistenza di un diffuso e generalizzato "problema amianto".

La sentenza impugnata, inoltre, ha anche valorizzato, ai fini della configurazione della sua posizione di garanzia, la circostanza che lo A.A. fosse stato componente del Comitato Centrale di Sicurezza, organo apicale della struttura prevista a tutela della sicurezza sul lavoro, avente specifica competenza nell'adozione di politiche in tema di adozione di mezzi di protezione sui luoghi di lavoro. Come, in modo congruo, evidenziato dai giudici di appello, in tal maniera si era cumulata nella persona dello A.A. anche una posizione di garanzia derivatagli dall'essere stato componente di una struttura direttamente preposta alla tutela della sicurezza del lavoro, senza che la circostanza che tale organo si fosse riunito solo assai sporadicamente potesse costituire un'argomentazione di carattere esimente, considerato, anzi, che ove non vi fosse stato questo atteggiamento inerte e disinteressato (anche) da parte dell'imputato, quest'ultimo avrebbe potuto acquisire conoscenze in tema di pericolosità dell'amianto e di strategie di prevenzione per la tutela dei lavoratori che avrebbe ben potuto trasfondere, nel diverso ruolo gestionale di Condirettore o di Direttore generale, in scelte operative di pregnante incidenza ai fini della tutela dei dipendenti della Italcantieri Spa

A fronte dell'adeguatezza argomentativa delle superiori considerazioni, rese dai giudici di appello senza palesare vizi motivazionali o di natura logica, le contrarie doglianze eccepite da parte del ricorrente - in ordine: alla presunta esistenza di una sua posizione di garanzia solo a far data dal 1976; al ritenuto rilievo di deleghe funzionali a lui conferite; alla mancata sua partecipazione al Comitato Esecutivo della Società; all'invio di scarna documentazione da parte dei responsabili dello Stabilimento di M - risultano, all'evidenza, del tutto inidonee a modificare il rappresentato giudizio, peraltro inerendo ad aspetti fattuali di merito non passibili di diretta valutazione da parte di questo Collegio.

8.3. Del pari adeguata e corretta è la modalità con cui la Corte di appello ha individuato la posizione di garanzia ricoperta da B.B. all'interno della Italcantieri Spa, con conseguente affermazione della sua responsabilità in ordine alle condotte delittuose riconosciutegli in sentenza.

Alla stregua di quanto ivi indicato, infatti, l'imputato, per come evinto dalle risultanze in atti, era stato Capo del Servizio Personale presso lo Stabilimento di M dal 1° gennaio 1975 al 1° ottobre 1978, quindi divenendo Vice Direttore e, a seguire, Direttore Centrale del Personale fino al 1° aprile 1984, infine ricoprendo l'incarico di Direttore Responsabile del Settore Personale presso la Divisione costruzioni navali mercantili.

Nei confronti di tale prevenuto, pertanto, la responsabilità è stata correlata alle cariche dirigenziali ricoperte nell'esercizio di funzioni aziendali coinvolte nella sicurezza del lavoro, considerato che il Settore Personale della sede centrale della Italcantieri Spa svolgeva il fondamentale compito - oltre che di gestione delle risorse umane - di provvedere alla rilevazione degli aspetti inerenti alla sicurezza sul lavoro, e quindi anche dei rischi connessi all'utilizzo dell'amianto.

Conseguentemente, la responsabilità dello B.B., direttamente derivatagli dall'indicata posizione di garanzia di Vice Direttore e Direttore Centrale del Personale - che, peraltro, lo rendeva anche partecipe del Comitato Centrale per la Sicurezza - è stata individuata nel fatto di avere sottovalutato, sotto vari profili, i pericoli derivanti dall'asbesto, nonché omesso di adottare ogni conseguente iniziativa (propositiva, informativa, organizzativa e di vigilanza) volta a tutelare i lavoratori, pur avendo ricevuto numerose segnalazioni, da parte dei più disparati organi preposti, circa la mancata osservanza delle norme cautelari sui luoghi di lavoro, nonché dei rischi di cancerogenicità connessi all'utilizzo dell'amianto.

Lo B.B. era stato, altresì, garante, per come congruamente esplicato dalla Corte territoriale, anche nel ricoperto ruolo (dal 1975 al 1978) di Capo del Servizio Personale presso lo Stabilimento di M, atteso che in tale veste aveva assunto titolarità gerarchica nei confronti dei soggetti preposti alla responsabilità della sicurezza locale, sotto il profilo della diretta percezione e conoscenza delle modalità di svolgimento del lavoro nel Cantiere, altresì esercitando poteri di iniziativa sanzionatoria e disciplinare sui dipendenti.

A fronte della logica adeguatezza delle argomentazioni indicate, allora, non risultano di nessun pregio le contrarie deduzioni espresse dallo B.B. in ricorso, peraltro afferenti anche ad aspetti di merito in questa sede non valutabili, inerenti ad una (del tutto) presunta e generica confusione nella individuazione delle competenze e responsabilità a lui spettanti nei diversi ruoli professionali svolti, nonché in ordine ad una ipotetica natura solo amministrativa della ricoperta sua funzione di superiore gerarchico, quale Capo del Servizio Personale presso lo Stabilimento di M, rispetto ai tecnici effettivamente preposti alla responsabilità della sicurezza locale, per l'effetto addirittura pervenendo ad affermare, in maniera del tutto assertiva, che in tale veste non poteva governare alcun rischio di tipo lavorativo.

9. Stesso giudizio di infondatezza deve essere espresso, poi, anche con riguardo alla seconda doglianza eccepita da parte di A.A., mediante cui il ricorrente ha dedotto l'erronea modalità con cui i giudici di merito hanno individuato le regole cautelari violate con le condotte contestategli, considerate le disposizioni effettivamente conosciute e vigenti al momento dei fatti, altresì lamentando la genericità del richiamo, operato in sentenza, alla sussistenza di un obbligo di speciale cautela quanto all'utilizzo delle polveri (tra cui anche quelle di amianto), atteso che, in termini opposti, fino al 1992 le regole cautelari, pur tutelando l'uso delle polveri, comunque consentivano l'utilizzo dell'amianto, sia pur previa adozione di specifiche cautele.

Orbene, a fronte della prospettata censura, il Collegio rileva come, in termini palesemente difformi, la Corte territoriale abbia fornito precisa e dettagliata elencazione della disciplina vigente all'epoca dei fatti, espressamente dettata a tutela dei lavoratori (anche) dalle polveri di amianto.

Il riferimento concerne, in particolare, le disposizioni di cui agli artt. 4, 377 e 387 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) e degli artt. 4, 19 e 21 del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (norme generali per l'igiene del lavoro) - peraltro trasfuse nel T.U. 9 aprile 2008, n. 81, con continuità normativa tra le norme abrogate e quelle in vigore - dovendosi, tra l'altro, pure tener conto del fatto che già con la legge 12 aprile 1943, n. 455 erano state estese anche all'asbestosi le norme sull'assicurazione obbligatoria per le malattie professionali. La sentenza impugnata, inoltre, ha correttamente fatto richiamo alla disposizione dell'art. 2087 cod. civ., vera a propria norma di chiusura dell'ordinamento, la quale impone al datore di lavoro di adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, risultano necessarie a tutelare (anche) l'integrità fisica dei lavoratori.

Ebbene, i giudici di merito hanno constatato, con motivazione adeguata e logica, l'intervenuta violazione del contenuto precettivo di tali norme - costituenti regole cautelari vigenti all'epoca dei fatti - sottolineando l'intervenuto massiccio utilizzo di amianto presso lo Stabilimento di M, con adozione di modalità lavorative (specie coibentazione) implicanti la diffus one di polveri di amianto, la contemporaneità e la promiscuità dell'esecuzione delle lavorazioni, in violazione di specifiche direttive impartite al riguardo, nonché in spregio di numerose comunicazioni, reiteratamente rese con documenti ufficiali, segnalanti i pericoli derivanti dalle indicate condotte.

La sentenza impugnata ha, altresì, dato conto di evidenti carenze nell'adempimento dell'obbligo di informazione e di controllo circa il rispetto delle misure di protezione necessarie a contenere il rischio di inalazione di polveri di amianto, peraltro effettuando espliciti riferimenti all'insalubrità dell'ambiente di lavoro, all'omessa misurazione delle polveri e alla mancata adozione di specifiche misure preventive. In tal maniera, pertanto, è stata constatata la violazione della prima e fondamentale norma di prevenzione, basata sull'informazione e sulla formazione del lavoratore, risultando omessa l'adozione di ogni adeguata politica di responsabilizzazione circa l'assunzione da parte dei dipendenti di idonee misure di protezione individuali e collettive.

Gli indicati aspetti finiscono per assumere, pertanto, decisivo rilievo ai fini della configurazione, da parte del ricorrente, dell'elemento soggettivo dei reati riconosciutigli, in particolar modo con riguardo al profilo oggettivo della ritenuta violazione delle regole cautelari vigenti al momento dei fatti.

Quanto al profilo soggettivo della colpa, invece, la prevedibilità dell'evento risulta, oltremodo, evincibile dalla circostanza che l'amianto, già dagli inizi del secolo scorso, fosse stato qualificato come una sostanza pericolosa - tanto da indurre il legislatore dell'epoca ad introdurre la filatura e la tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri o pericolosi (il riferimento è al R.D. 14 giugno 1909, n. 442, nell'ambito di norme dettate a tutela dei fanciulli) - altresì venendo riconosciuto dalla comunità scientifica, fin dagli anni '40, il rischio industriale dell'asbesto, con indicazione delle misure idonee a neutralizzarlo o a ridurlo (separazione delle lavorazioni polverose, ventilazione adeguata, controlli medie periodici).

Ne consegue, pertanto, il necessario rigetto del proposto motivo di ricorso, ritenuta la congruità della motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale, invero non scalfita dalle contrarie doglianze eccepite da parte dello A.A., né dalla circostanza, di non decisivo rilievo, per cui il competente Ispettorato del lavoro, intervenuto sui luoghi del Cantiere di M, non avrebbe mai mosso alcun tipo di rilievo circa le modalità di utilizzo dell'amianto.

10. Infine prive di ogni pregio sono le doglianze eccepite da B.B. nei suoi due primi motivi di ricorso, afferenti a presunti vizi motivazionali riguardanti la ritenuta sussistenza di un nesso causale tra le condotte omissive addebitategli e l'evento del mero aumento del rischio di contrarre il tumore polmonare determinato dalle esposizioni a polveri di amianto durante il periodo in cui aveva ricoperto la posizione di garanzia, atteso che l'indicato aspetto non sarebbe stato riscontrato, né risulterebbe invero riscontrabile, in termini di assoluta certezza - non essendo asseverabile da nessuna legge scientifica di copertura capace di individuare l'insieme delle condizioni da dover soddisfare per poter affermare o negare la riconducibilità all'amianto di un carcinoma polmonare del singolo soggetto esposto - peraltro non essendo stato neanche effettuato, nel caso di specie, nessun adeguato confronto con l'impossibilità scientifica di determinare la fine del periodo di induzione anche in relazione ai casi di tumore polmonare.

Orbene, l'infondatezza di tali censure rileva, in tutta la sua evidenza, ove si perimetri, in maniera adeguata, la corretta prospettiva da cui le stesse doglianze devono essere valutate.

Ed infatti - per come, peraltro, evidenziato dallo stesso B.B. in ricorso - le dedotte censure ineriscono, come del resto ovvio, ai soli delitti di omicidio colposo determinati dalla contrazione di tumore polmonare rispetto alle quali non è stato escluso il riconoscimento della sua responsabilità, sia pur essendone stata dichiarata la relativa estinzione per intervenuta prescrizione.

In tali casi, allora, il giudice di appello è tenuto a decidere sull'impugnazione agli effetti civili e, a tal fine, i motivi di impugnazione proposti dall'imputato devono essere compiutamente esaminati, non potendo essere confermata la condanna al risarcimento del danno sulla base della mancata prova dell'innocenza dell'imputato ai sensi dell'art. 129, comma secondo, cod. proc. pen. (Sez. V, n. 3869 del 07/10/2014, dep. 2015, Lazzari, Rv. 262175-81). Il giudice di appello, cioè, nel dichiarare una causa estintiva del reato per il quale in primo grado è intervenuta condanna, in presenza della parte civile, è comunque tenuto a compiutamente esaminare i motivi di gravame proposti dall'imputato sul capo o punto della sentenza relativo all'affermazione di responsabilità, al fine di decidere sull'impugnazione agli effetti civili (così, espressamente, Sez. 2, n. 29499 del 23/05/2017, Ambrois, Rv. 270322-01). Ed ancora, il giudice d'appello, anche qualora sia intervenuta la prescrizione del reato contestato, deve valutare la sussistenza dei presupposti per una dichiarazione di responsabilità limitata cigli effetti civili e può condannare l'imputato al risarcimento del danno o alle restituzioni qualora reputi fondata l'impugnazione, in modo da escludere che possa persistere la sentenza di merito più favorevole all'imputato (cfr. Sez. 2, ri. 6568 del 26/01/2022, D'Isa, Rv. 282689-01).

Ciò è esattamente quanto avvenuto nel caso di specie, essendo risultata gravata la Corte di merito, a fronte della dichiarata estinzione dei reati per prescrizione, dell'unico compito di decidere sulla proposta impugnazione agli effetti civili.

Nell'espletare tale incombenza, tuttavia, stante la residuata natura solo civilistica della controversia pendente, la Corte di appello è stata chiamata ad esaminare la questione rimessale assumendo quale parametro di valutazione quello proprio dei contenziosi civilistici del "più probabile che non". Questa Suprema Corte ha, in proposito, affermato l'inequivoco principio per cui il giudice di appello, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato per il quale, in primo grado, è intervenuta anche condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede ex art. 539 cod. proc. pen., è tenuto a decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili relativi alla generica condanna risarcitoria e, a tal fine, non deve verificare se si sia perfezionato il reato contestato, bensì accertare se la condotta dell'imputate sia stata idonea a provocare un danno ingiusto ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. secondo il criterio del "più probabile che non" o della "probabilità prevalente" (così, Sez. 2, n. 11808 del 14/01/2022, Restaino, Rv. 283377-01).

Ed allora, se è con il criterio presuntivo del "più probabile che non" che le condotte ascritte allo B.B. dovevano essere valutate da parte dei giudici di appello, non è vi è dubbio che esse sono state correttamente considerate da parte di costoro, con motivazione logica e congrua, nel momento in cui ne hanno riconosciuto l'indubbia valenza eziologica rispetto alla formazione di patologie neoplastiche in lavoratori lungamente esposti alle polveri di asbesto.

Esclusa la necessità di riferirsi ai più pregnanti oneri probatori richiesti nel giudizio penale ai fini della configurazione di una responsabilità "al di là di ogni ragionevole dubbio", una valutazione causale espletata in termini meramente presuntivi e probabilistici non può che condurre a ritenere che una reiterata inalazione di polveri di amianto, protratta per molti anni, necessariamente implichi, stante la sua notoria natura cancerogena, la prognostica determinazione di un tumore ai polmoni del soggetto esposto, con rischio vieppiù elevato ove lo stesso - come nella quasi totalità dei casi dei lavoratori deceduti per ritenuta responsabilità dello B.B. - risulti essere anche dedito al tabagismo.

Del resto, per come evidenziato dallo stesso ricorrente, numerosi studi svolti in ambito scientifico, anche di tipo epidemiologico di gruppo, hanno fornito importanti indicazioni in ordine all'aumento del rischio (fino al doppio) di contrarre un carcinoma polmonare da parte di individui esposti costantemente alle fibre di amianto.

Ne deriva, pertanto, la correttezza delle valutazioni espresse dai giudici di appello e il conseguente giudizio di infondatezza delle doglianze dedotte da parte del ricorrente.

11. Alla stregua di tutte le considerazioni espresse, allora, deve essere disposto il rigetto sia del ricorso del Procuratore generale che di quelli proposti da A.A. e B.B., con condanna di questi ultimi al pagamento delle spese processuali.

Sussistono adeguati motivi per compensare le spese tra le parti processuali nel presente giudizio, stante la complessità e tecnicità della materia collegiale.

Deve essere disposta, infine, la correzione dell'errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza d'appello emessa il 17 gennaio 2022 dalla Corte di appello di Trieste, mediante l'inserimento subito dopo la menzione del capo 18, del procedimento n. 2331/14, dell'indicazione del capo 21 del medesimo procedimento, tra i reati per i quali è stato dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati A.A. e B.B. per essere i reati estinti per prescrizione.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso del Procuratore generale. Rigetta i ricorsi di A.A. e B.B., che condanna al pagamento delle spese processuali. Compensa le spese tra le parti. Dispone la correzione dell'errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza d'appello emessa il 17 gennaio 2022 dalla Corte di appello di Trieste, inserendo subito dopo la menzione del capo 18, del procedimento n. 2331/14, l'indicazione del capo 21 del medesimo procedimento, tra i reati per i quali è stato dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati A.A. e B.B. per essere i reati estinti per prescrizione. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti e le annotazioni di rito.

Così deciso in Roma il 7 dicembre 2023.

Depositato in Cancelleria l'8 aprile 2024.