REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORGIGNI Antonio
Dott. ROMIS Vincenzo
Dott. MASSAFRA Umberto
Dott. MARESCA Mariafrancesca
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: 1) C.M., N. IL ***;
avverso SENTENZA del 10/03/2008 CORTE APPELLO di LECCE;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. MARESCA MARIAFRANCESCA;
estensore il Cons. Dr. MASSAFRA Umberto, designato in sostituzione per l'impedimento del relatore;
udito il Procuratore Generale in persona del Dr. GALASSO Aurelio, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
udito il difensore avv. Colucci F., che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo

Con sentenza emessa in data 10.3.2008, la Corte d'Appello di Lecce confermava quella del Tribunale di Brindisi - sezione di Mesagne - emessa in data 31.5.2004, appellata da C.M., con la quale lo stesso era stato riconosciuto colpevole del reato di lesioni colpose aggravate, conseguenti alla violazione di alcune disposizioni della normativa prevenzionale (D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 4, 10, 16 e 68) (in ***), ed era stato condannato, concesse attenuanti generiche e ritenuta la continuazione, alla pena di Euro 800,00 di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile A.V., da liquidarsi in separata sede, e alla rifusione delle spese di lite a favore della parte civile.
Rilevava la Corte che era pacifico che A.V., operaio edile alle dipendenza della ditta C.M., mentre era intento a rimuovere i sostegni metallici posti a sostegno del solaio, sul cantiere allestito presso l'ospedale "***" di *** (oggetto di un rilevante intervento di ristrutturazione), ebbe a precipitare nel vuoto da un'altezza di circa 3 metri, riportando lesioni al capo e in varie parti del corpo, dalle quali esitarono lesioni giudicate guaribili in gg. 76 e conseguente invalidità permanente del 6%.
La Corte condivideva la ricostruzione del sinistro, operata dal primo giudice, quale eziologicamente correlata alla condotta colposa del datore di lavoro, avendo, questi, omesso di apprestare le dovute misure precauzionali.
Rilevava la Corte che, dai rilievi fotografici, allegati ai rilievi tecnici effettuati dallo S.P.E.S.A.L. di ***, si rilevava come le opere prevenzionali fisse, previste dal D.P.R. n. 164 del 1956, art. 16 e art. 68, comma 3, fossero del tutto sconosciute all'interno del cantiere edile della ditta C. e non solo nel punto in cui era precipitato l' A..

In particolare dalle foto nn. 2, 4, 5 e 8 si evidenziava come l'edificio sul quale era intento a lavorare l' A. per rimuovere i puntelli metallici che reggevano il solaio, raffigurati, in dettaglio alle foto nn. 3 e 7, fosse del tutto privo di adeguate protezioni dal pericolo di cadute, tale non potendosi considerare quella tavola trasversale, che si notava nella foto n. 1, che palesava chiaramente la sua assoluta inadeguatezza sia perché non copriva tutto il versante sul vuoto sia perché lasciava comunque aperti ampi spazi dai quali era largamente possibile il pericolo di cadute.
Né si poteva sostenere che nella fattispecie in esame era stato proprio l' A. a rimuovere, schiodandola, una tavola che fungeva da protezione, in quanto il teste A.P., in dibattimento, aveva escluso la presenza di tavole di protezione e, su contestazione della difesa, circa il parapetto che sarebbe stato eliminato, aveva radicalmente negato che alcun parapetto fosse stato mai rimosso, perché su quell'edificio non vi erano parapetti.
Secondo la Corte, tali dichiarazioni trovavano riscontro nei rilievi fotografici in atti, dai quali si rileva che anche per le parti dell'edificio, diverse da quelle in cui si era verificato l'incidente, non vi era neppure un punto in cui il piano di calpestio o i muri prospicienti sul vuoto siano protetti da opere provvisionali, previste dal citato D.P.R., art. 16, così che era ancor più ragionevole ritenere che anche nel punto dal quale era precipitato l' A. non vi fossero le opere provvisionali.
Osservava la Corte che, secondo la consolidata giurisprudenza:
- in tema di misure antinfortunistiche, le opere provvisionali sono finalizzate a proteggere i lavoratori anche per il caso di imprudenza, imperizia, inosservanza di disposizioni interne e, perciò, anche nel caso di comportamento colposo del lavoratore;
- la disposizione contenuta nel D.P.R. n. 156 del 1964, art. 16 non riguarda soltanto i lavori murali, ma anche quelli relativi alla costruzione delle indicate impalcature o ponteggi, fissi o mobili;
- l'obbligo imposto dal cit. D.P.R., art. 10 all'imprenditore e relativo all'uso delle cinture di sicurezza è prescritto in modo cumulativo e non alternativo con il dovere di approntare impalcature e parapetti di protezione;
- l'obbligo per il datore di lavoro di dare esecuzione alle precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e cose è di carattere assoluto ed è inteso a proteggere il lavoratore in ogni momento della sua attività.
Rilevava la Corte che, anche a voler ritenere provato, ma così non era, quanto sostenuto dalla difesa, sarebbe ugualmente sussistente la responsabilità del datore di lavoro, dal momento che la prescrizione di cui al cit. D.P.R., art. 16 ha carattere assoluto e va osservata anche in relazione all'approntamento delle stesse opere provvisionali.

Conclusivamente, la Corte di merito affermava che, in base al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4, il datore di lavoro è tenuto a disporre e ad esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione a loro disposizione, così che sarebbe stata, comunque, irrilevante una manovra incongrua del lavoratore, ovverosia la rimozione di una tavola di protezione, in quanto solo un comportamento abnorme e del tutto eccezionale del lavoratore avrebbe potuto, eventualmente, escludere il nesso di causalità, ma questo non si era Verificato nel caso di specie.

Propone ricorso per Cassazione il difensore di fiducia di C.M., deducendo i seguenti motivi.

1. La violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), c) e d), in relazione all'art. 192 c.p.p., artt. 40 e 590 c.p., D.P.R. n. 547 del 1955, art. 26, D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 10, 16 e 68.
Premette il ricorrente che solo se fossero state dimostrate omissioni imputabili al prevenuto e queste fossero state sussumali in un coefficiente probabilistico pari del 100%, i giudici di merito avrebbero potuto concludere di aver accertato il rapporto di causalità tra omissione ed evento con alto grado di probabilità, ovverosia oltre ogni ragionevole dubbio. In particolare, sostiene la difesa che la Corte non aveva fatto buon governo dei principi ermeneutici dell'art. 40 c.p., soccombendo alle suggestioni del rapporto dello S.P.E.S.A.L. di *** e spingendo la presunzione di colpevolezza fino ad affermare che le opere prevenzionali fisse fossero del tutto sconosciute nell'intero cantiere edile.
Rileva il ricorrente che, al contrario, era emerso che lungo l'estradosso dal quale era caduto l' A. esistevano opere prevenzionali e che l'ispettore L. dello S.P.E.S.A.L. ne aveva escluso la presenza perché non aveva ritenuto idonei i parapetti, in quanto non robusti (segue stralcio di alcune pagine di trascrizione dell'esame di del L.).

Pertanto, l'omessa verifica da parte degli ispettori dello S.P.E.S.A.L. di *** della rispondenza o meno alle prescrizioni di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 26 delle opere prevenzionali imponeva l'accertamento con metodo induttivo della loro natura o meno di parapetto normale e, allo scopo, non dovevano essere utilizzate solo i rilievi fotografici, come erroneamente fatto dalla Corte territoriale, ma anche le dichiarazioni testimoniali di P.N., alla cui attendibilità nulla ostava, che aveva realizzato le opere e che aveva descritto le caratteristiche della protezione visibile nei rilievi fotografici (segue stralcio di alcune pagine di trascrizione dell'esame del P.).

Rileva il difensore che sussiste la violazione dell'art. 192 c.p.p., perché, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'Appello, l'edificio era provvisto di adeguate protezioni dal pericolo di cadute e che tale protezione, come affermato dal teste P. soddisfaceva i requisiti di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 26, lett. a), b) ed e), mentre la capacità di resistenza al massimo sforzo non poteva essere presunta sia perché non vi erano tratti rotti sia perché l' A. non era caduto contro la protezione sia perché nessuna verifica in tal senso era stata effettuata dagli ispettori dello S.P.E.S.A.L. di ***.

Pertanto, lungo l'estradosso vi era un normale parapetto con arresto al piede e, comunque, una protezione equivalente, in conformità al disposto del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 26, così che l'imputato non era tenuto a fornire la cintura di sicurezza il cui obbligo è stabilito dal D.P.R. n. 164 del 1956, art. 10, in assenza di impalcati di protezione o parapetti.

2. La violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b), c) e d) in relazione agli artt. 327 bis, 391 bis e 391 decies e 192 c.p.p.; art. 40 e 590 c.p., sotto altro profilo.
Rileva la difesa che le indagini difensive e le sommarie informazioni assunte dagli ispettori dello S.P.E.S.A.L. di *** portano a concludere che il parapetto lungo l'estradosso era stato rimosso da A.V. su ordine del fratello P. poco prima che si verificasse l'infortunio.

Rileva il difensore che le contrarie conclusioni alle quali era pervenuta la Corte erano frutto di argomentazione contraddittoria, travisatrice dei fatti, ed erroneamente applicatrice della legge penale nonché frutto di mancata assunzione di prove decisive.
Osserva che gli elementi di prova raccolti dal difensore, ai sensi dell'art. 391 bis c.p.p., sono equiparabili, quanto ad utilità e forza, a quelli raccolti dal P.M. e che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni hanno efficacia probatoria, ove risultino situazioni che compromesso la genuinità dell'esame testimoniale.
Tanto premesso, rileva il difensore che A.P., sentito a s.i.t., dalla P.G., a distanza di 24 ore dall'infortunio, dopo aver manifestato la convinzione dell'esistenza dei parapetti, aveva dichiarato (segue stralcio di alcune pagine di trascrizione dell'esame di A.P.) che, prima di iniziare a lavorare, aveva trovato una tavola posta a protezione contro la caduta proprio nella zona ove sottostante era posta la rampa, nel frattempo, per poter lavorare e togliere il puntello metallico, l'avevano momentaneamente rimossa e non più ricollocata nelle sua sede, perché nel frattempo si era verificato l'incidente.
In sede di indagini difensive A.P. aveva reso dichiarazioni dello stesso tenore. Alla P.G. A.V. aveva dichiarato che gli ordini gli erano stati impartiti dal fratello che conosceva i lavori poiché operava nel cantiere da diverso tempo.

Osserva il ricorrente che la modificazione, in sede dibattimentale delle dichiarazioni univoche rese dai due fratelli era stata dettata dall'esigenza di escludere sia qualsivoglia responsabilità di A.P. sia un comportamento abnorme di A.V..
Argomenta la difesa che le dichiarazioni testimoniali dei testi C.M. (segue stralcio di alcune pagine di trascrizione dell'esame di C.M., da dove emerge che lo stesso aveva dichiarato la presenza di "tavole", quali parapetti di protezione), L. (segue stralcio di alcune pagine di trascrizione dell'esame del L., da dove emerge che lo stesso aveva escluso l'esistenza di opere provvisionali per l'inidoneità dei parapetti esistenti) e P. nonché quelle dei fratelli A., alla P.G. ed al difensore dell'imputato, conducevano all'univoca conclusione dell'assenza di responsabilità dell'imputato, avendo egli dotato l'estradosso dal quale era caduto A.V. di parapetto idoneo, perché dotato di due correnti intermedi e provvisto di tavola fermapiede, così come previsto dal del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 26. Mentre, alla luce delle dichiarazioni rese dai fratelli A., alla P.G. ed al difensore dell'imputato, era configurabile la colpa dell'infortunato per aver adottato di sua iniziativa modalità pericolose di esecuzione del lavoro, prendendo ordini dal fratello, così violando l'obbligo su lui gravante ex D.P.R. n. 547 del 1955, art. 6. Conseguentemente il comportamento di A.V., che aveva abbassato il parapetto, lungo l'estradosso, dal quale subito dopo era caduto, per togliere i puntelli interni di sostegno di solaio, era da qualificarsi come "abnorme", non prevedibile dal datore di lavoro. Da ultimo si evidenzia che l'imputato non aveva conferito espressa delega per le funzioni di controllo in materia di prevenzione A.P. né, in alcun modo, lo stesso poteva considerarsi di fatto preposto.
In data 30.6.2009 la difesa della parte civile ha depositato una memoria difensiva.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile essendo le censure mosse di mero fatto nonché aspecifiche.

Invero, anzitutto, i motivi di ricorso s'appalesano, sostanzialmente, aspecifici riproponendo in questa sede le medesime doglianze rappresentate in grado d'appello e da quel giudice disattese con motivazione ampia e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile, nemmeno adeguatamente contestata dal ricorrente.
Ed è stato affermato che "è inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità" (Cass. pen. Sez. 4, 29.3.2000, n. 5191, Rv 216473 e successive conformi, quale: Sez. 2, 15.5.2008 n. 19951, Rv. 240109).
Peraltro, le censure addotte dal ricorrente (sia sub 1 che sub 2), non rientrano in alcuna delle previsioni normative richiamate (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E, B, D, cioè vizio di motivazione, la violazione di norme penali, mancata assunzione di una prova decisiva, nemmeno indicata) bensì sono di mero fatto, cercando d'introdurre una rivalutazione degli accadimenti non consentita nella presente sede di legittimità: pure il nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non ha alterato la fisionomia del giudizio di Cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto.
In questa prospettiva, non è possibile tuttora per la Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il novum, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova" (e non già del fatto), finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all'interno della decisione (Cass. pen. Sez. 4, 19.6.2006, n. 38424).

Inoltre, il riferimento agli atti del processo, va interpretato in un senso che non privi di qualsiasi significato il limite della contestualità imposto dalla stessa disposizione; e quindi va interpretato come relativo solo agli atti dai quali derivi un obbligo di pronuncia che si assuma violato dal giudice del merito, come ad esempio la richiesta di una circostanza attenuante o della sostituzione della pena detentiva.
Ciò, peraltro, vale nell'ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell'ipotesi di doppia pronunzia conforme (in cui le sentenze di primo e secondo grado s'integrano completamente a vicenda in un unicum inscindibile), come nel caso di specie, il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità (cfr. Cass. pen., sez. 2, 15.1.2008, n. 5994).

Inoltre, non ogni possibile incongruenza logica nell'apparato motivazionale della sentenza di merito, è deducibile come vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), e, conseguentemente, censurabile in sede di legittimità: deve trattarsi di incongruenze logiche macroscopiche, assolutamente evidenti dalla lettura del provvedimento gravato, che rendano la conclusione raggiunta, per come giustificata, intrinsecamente contraddittoria e/o gravemente insufficiente, se non addirittura apodittica.
E nel caso di specie nessun vizio logico è possibile rinvenire nel ragionamento seguito dalla Corte territoriale, corretto ed esaustivo in ogni sua argomentazione a confutazione delle censure avanzate con l'atto d'appello, né quelli indicati dalla difesa possono farsi rientrare tra quelli deducibili in questa sede: invero la Corte, nel ritenere la "inesistenza di opere prevenzionali", pone a base della decisione gli accertamenti eseguiti dal Dipartimento di Prevenzione della Regione Puglia, la cui valenza ricostruttiva, assieme al materiale fotografico visionato e commentato, è ovviamente preponderante (attesa l'oggettività, immediatezza e documentazione fotografica dei rilievi, in una alla specifica competenza degli addetti) sotto il profilo tecnico e probatorio rispetto ad ogni altra acquisizione testimoniale: del resto la deposizione dell'isp. L., adeguatamente valutata dalla sentenza di primo grado la cui ricostruzione di fatti è stata richiamata espressamente e condivisa da quella impugnata, ha palesemente escluso che quelli di cui alle foto mostrategli fossero veri ed idonei parapetti con tavole fermapiede e non piuttosto tavole normali: ne consegue che era altresì indispensabile la misura prevenzionale della cintura di sicurezza con fune di trattenuta ancorata a parte fissa. Infatti l'uso delle cinture di sicurezza - misura di carattere generale e imperativo - deve essere adottato in tutti i casi in cui il lavoratore sia esposto al rischio di caduta dall'alto, con la sola esclusione della ipotesi di presenza di impalcati di protezione e di parapetti idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta: ne consegue che l'esonero dalla protezione delle cinture non è previsto allorché tali parapetti siano idonei soltanto a facilitare il lavoro, o, tutt'al più, ad attenuare soltanto il rischio. (Cass. pen. Sez. 4, 13/1/2005 n. 10213, Rv. 231249).
Per ogni altro dettaglio, giova rammentare che nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, come appunto ha fatto la Corte territoriale, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo.
Per quanto attiene, in particolare, alla censura sub 2, relativa alla rappresentata ascrivibilità dell'evento alla condotta colposa dell'infortunato, si deve osservare che questa, per giungere a interrompere il nesso causale (tra condotta colposa del datore di lavoro o chi per esso, ed evento lesivo), ed escludere, in definitiva, la responsabilità del garante, deve configurarsi come un fatto assolutamente eccezionale, del tutto al di fuori della normale prevedibilità, dovendosi ritenere che il datore di lavoro sia esonerato da responsabilità soltanto quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che o sia stato posto in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (cfr. ex plurimis: Cass. pen. Sez. 4, 7.6.2005 n. 36339, Rv. 232227).

E nel caso in esame, non può certamente essere considerata abnorme, ma al più imprudente, la condotta dell' A.V..
Va dichiarata, pertanto, l'inammissibilità del ricorso, ed a tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali verso l'Erario e in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2009.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2010