REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido
Dott. DE RENZIS Alessandro
Dott. STILE Paolo
Dott. IANNIELLO Antonio
Dott. MELIADÓ Giuseppe

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- rel. Consigliere
- Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
I.C. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L. SETTEMBRINI 30, presso lo studio dell'avvocato FERRETTI MARCO, rappresentata e difesa dall'avvocato GIACONIA GIUSEPPE, giusta procura in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro R.M.A. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DARDANELLI 13, presso lo studio dell'avvocato LIUZZI ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato SPAGNOLO SANTO, giusta delega in calce al controricorso;

- controricorrente -

e contro
V.G.;

- intimato -

e sul ricorso n. 23246/2006 proposto da:
V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 71, presso lo studio dell'avvocato CANFORA MAURIZIO, rappresentato e difeso dall'avvocato VIRGA MICHELE, giusta delega in calce al controricorso e ricorso incidentale;

- controricorrente e ricorrente incidentale -

contro
- I.C. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L. SETTEMBRINI 30, presso lo studio dell'avvocato FERRETTI MARCO, rappresentata e difesa dall'avvocato GIACONIA GIUSEPPE, giusta procura in calce al ricorso;
- R.M.A. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DARDANELLI 13, presso lo studio dell'avvocato LIUZZI ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato SPAGNOLO SANTO, giusta delega in calce al controricorso;

- controricorrenti al ricorso incidentale -

avverso la sentenza n. 92 8/2 006 della CORTE D'APPELLO di CATANIA, depositata il 15/02/2006 R.G.N. 1199/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/05/2010 dal Consigliere Dott. IANNIELLO Antonio;
udito l'Avvocato FRANCESCO DI STEFANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

V.G., operaio dipendente della I.C. s.r.l. dal 2 settembre 1996 al 12 maggio 1999, avendo subito un grave infortunio sul lavoro in data ***- cadendo in uno scavo profondo circa mt. 2,50 realizzato per l'istallazione di un pozzetto in cemento armato, mentre era intento ad apporvi una recinzione di protezione -, dopo avere ottenuto dall'Inail il riconoscimento della conseguente inabilità lavorativa del 45%, aveva promosso un giudizio avanti al Tribunale del lavoro di Caltagirone per ottenere dalla datrice di lavoro (che a sua volta aveva chiamato in causa la R.M.A. s.p.a. per essere garantita in caso di soccombenza, avendo con essa stipulato un contratto di assicurazione della responsabilità civile) il risarcimento del danno biologico e di quello morale conseguente all'infortunio, da attribuire a negligenza della società, che avrebbe violato gli obblighi stabiliti dall'art. 2087 c.c..

Con sentenza in data 18 giugno 2003, il Tribunale aveva condannato le due società, in via tra di loro solidale, a pagare al V. la somma di Euro 116.183,42, e on gli accessori di legge, a titolo di risarcimento dei danni richiesti.

Su appello della R.M.A. e appello incidentale delle altre due parti, la Corte d'appello di Catania, con sentenza depositata il 15 febbraio 2006 e notificata, unitamente al precetto, in data 1 giugno 2006:
- ha confermato la valutazione di responsabilità per colpa della I., per avere tale società omesso di fornire al lavoratore la necessaria cintura di sicurezza dotata di bretelle collegate ad una fune trattenuta, che avrebbe impedito l'infortunio;
- ha accertato che il contratto di assicurazione non forniva copertura assicurativa in ordine ai danni biologico e morale, ma unicamente al danno patrimoniale di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11 riformando pertanto la sentenza nel capo di condanna di tale società;
- ha ritenuto nuova la domanda svolta dal V., in sede di appello, di risarcimento del danno esistenziale, quale componente del danno biologico, accogliendo viceversa l'appello del lavoratore nella parte in cui questi aveva censurato la determinazione del quantum del danno liquidato dal primo giudice, procedendo pertanto ad una nuova liquidazione.

Avverso tale sentenza propone ora ricorso la I.C. s.r.l., chiedendone l'annullamento con quattro motivi.

Resistono alle domande sia la società di assicurazione che V.G., con distinti controricorsi, il secondo dei quali, quello del V. è altresì associato ad un ricorso incidentale, affidato a tre motivi, cui resistono con controricorsi le altre due parti.

La R.M.A. ha depositato una memoria illustrativa ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1 - Il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., avendo ad oggetto una unica sentenza.

2a - Col primo motivo, la I. denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11, artt. 1362, 1366, 1370 e 1375 c.c. relativamente al capo della sentenza che aveva respinto la richiesta di garanzia della società nei confronti della R.M.A..
La corretta interpretazione delle norme di legge citate e delle disposizioni del contratto di assicurazione che rinviano alle prime (riprodotte in ricorso, per la parte ritenuta significativa), al di là del mero tenore letterale di quest'ultimo, avrebbe dovuto convincere la Corte territoriale del fatto che l'ambito dell'assicurazione copriva integralmente il danno da infortunio, nell'ipotesi in cui l'assicurazione obbligatoria INAIL non esonerasse il datore di lavoro da responsabilità, come sarebbe accaduto nel caso in esame in cui, in relazione all'infortunio, i responsabili della società erano stati sottoposti a procedimento penale concluso con una archiviazione.

2b - Col secondo motivo, la difesa della I. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2087 c.c. e del D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, art. 10.
La Corte territoriale aveva ritenuto la responsabilità della società datrice di lavoro - per avere omesso di fornire al dipendente la necessaria cintura di sicurezza che avrebbe impedito l'infortunio - esclusivamente sulla base della descrizione dell'episodio effettuata dal ricorrente e valutata come "sostanzialmente, sul punto, non contestata da controparte".
Questo accertamento dei giudici viene contestato dalla I., la quale deduce di avere da sempre dedotto in giudizio che il V. non aveva fornito alcuna prova della eventuale responsabilità addebitabile alla resistente, del danno, dell'agire colposo o doloso del presunto responsabile nonché del nesso di causalità che deve necessariamente legare l'azione o l'omissione all'evento dannoso.
Lo stesso giudice di primo grado, in una ordinanza interlocutoria, avrebbe rilevato l'assenza in giudizio di qualsivoglia deduzione istruttoria delle parti, ammettendo poi contraddittoriamente in un momento successivo una CTU, per la valutazione dei danni e accogliendo infine inopinatamente le domande.

2c - Col terzo motivo viene dedotta dalla I. la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in ordine al metodo applicato dalla Corte d'appello di Catania nella liquidazione del danno biologico denunciato dal V., attraverso l'utilizzazione delle tabelle da RCA e non quelle INAIL, errando altresì "in ordine al procedimento della rivalutazione e devalutazione delle somme".

2d - Infine, la società denuncia l'errata applicazione della legge e l'omessa motivazione della sentenza nel capo di condanna alle spese di lite.
Sostiene infatti al riguardo che, essendo stato il giudizio di appello promosso dalla R.M.A., costringendo il V. a difendersi, la Corte territoriale avrebbe fatto bene a compensare le spese anche nei confronti di I. e non solo nei confronti della M.. Comunque la Corte territoriale non avrebbe indicato le ragioni della propria pronuncia.

3a - Col primo motivo del ricorso incidentale, V.G. deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 2059 c.c., in riferimento all'art. 2043 e 2087 c.c. nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata.
Il motivo investe la dichiarazione di inammissibilità dell'appello incidentale relativo alla domanda di liquidazione del danno esistenziale, in quanto ritenuta tardiva.
Ricordando che quello esistenziale non era considerato una figura autonoma di danno non patrimoniale al tempo della proposizione dell'azione giudiziaria, il ricorrente incidentale sostiene che esso andava comunque ricompresso fin dall'inizio nella domanda di risarcimento del danno morale, descritta (nel ricorso introduttivo con riferimento a lesioni tali da rendere evidenti le menomazioni alla vita di relazione familiare e sociale del danneggiato (impotenza, infertilità, incontinenza urinaria etc.).

3b - Col secondo motivo del ricorso incidentale, V.G. denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 437 c.p.c., comma 2, in riferimento agli artt. 2059, 2043 e 2087 c.c. nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata.
Correttamente interpretando la domanda formulata nel ricorso introduttivo, i giudici di merito avrebbero dovuto ritenere, alla stregua del contesto e delle deduzioni difensive svolte, che essa riguardava tutti i danni non patrimoniali, e quindi anche quello cd. esistenziale.

3c - Col terzo motivo, il ricorrente incidentale deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 416 c.p.c. e dell'art. 437 c.p.c., comma 2 in riferimento al D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11 e agli artt. 1362, 1366, 1370 c.c. nonché il vizio di motivazione della sentenza.
In proposito, ricorda che in primo grado la M.A. si era costituita tardivamente in giudizio, per cui il difensore del V. aveva chiesto immediatamente che venisse dichiarata la decadenza da ogni eccezione non rilevabile d'ufficio, deduzione poi reiterata nella memoria di costituzione in appello.
Ciononostante, la Corte d'appello di Catania non aveva preso posizione in ordine a tale richiesta e anzi aveva accolto l'eccezione della R.M. di inoperatività della garanzia assicurativa quanto al danno non patrimoniale.
Sennonché una tale eccezione era anche nuova, in quanto in primo grado la società di assicurazione aveva unicamente eccepito (tardivamente) che la, garanzia assicurativa aveva il limite di L. 500.000.000.

4 - Nel controricorso al ricorso principale della I. e in quello relativo al ricorso incidentale del V., la R.M.A. deduce l'inammissibilità dei due ricorsi in quanto privi di quesiti di diritto, richiesti, a pena di inammissibilità, dall'art. 366 bis c.p.c..
Nel secondo controricorso deduce altresì la nullità della notifica del ricorso incidentale In quanto operata dall'ufficiale giudiziario di Catania anziché di quello di Roma.
Ambedue le deduzioni sono manifestamente infondate.
È infatti manifestamente infondata la prima, in quanto la norma di cui all'art. 366 bis c.p.c., introdotta nel codice di rito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 (e abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d) con riguardo ai ricorsi per cassazione proposti successivamente alla data del 3 luglio 2009), era applicabile, a norma dell'art. 27, comma 2 del medesimo decreto legislativo, ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze depositate successivamente alla data del 1 marzo 2006, mentre nel caso in esame la sentenza impugnata è stata depositata nella cancelleria della Corte d'appello di Catania in data 15 febbraio 2006.
Manifestamente infondata è anche la seconda deduzione, in ragione del fatto che la L. 20 gennaio 1992, n. 55, art. 1 stabilisce testualmente che "La notificazione del controricorso e del ricorso incidentale dinanzi alla Corte di cassazione può essere effettuata anche dall'ufficiale giudiziario del luogo ove ha sede il giudice che ha pronunziato il provvedimento impugnato, a mezzo del servizio postale", che è quanto avvenuto nel caso in esame.

5 - Seguendo l'ordine logico delle questioni sottoposte al giudizio della Corte, va esaminato per primo il secondo motivo del ricorso principale seguito dal terzo e quindi dal primo e dal secondo motivo del ricorso incidentale. Successivamente andranno esaminati il terzo motivo del ricorso incidentale, quindi il primo e infine il quarto del ricorso principale.

Il secondo motivo del ricorso principale della I.C. s.p.a. è infondato.
La Corte territoriale ha effettivamente accertato la responsabilità della società in ordine all'infortunio occorso sulla base "della ricostruzione dei fatti operata dal ricorrente e sostanzialmente, sul punto, non contestata da controparte".
Trattasi, come risulta dal contenuto del ricorso introduttivo, riprodotto dal ricorrente incidentale e riassunto nella sentenza, del fatto che il lavoratore era stato incaricato di porre una recinzione ai bordi di uno scavo profondo circa mt. 2,50, senza essere munito dal datore di lavoro della necessaria cintura di sicurezza, per cui, scivolando era caduto nella cavità, procurandosi le lesioni descritte agli atti.
Questa essendo la ricostruzione dei fatti che i giudici hanno ritenuto non contestata dalla società, quest'ultima sostiene viceversa di averla contestata, riproducendo all'uopo brani della memoria di costituzione e dell'atto di appello con cui peraltro eccepisce, in maniera solo generica, che il V. non avrebbe fornito "nessuna prova sulla eventuale responsabilità addebitatile alla resistente", senza contestare specificatamente, né in quella né in questa sede, che i fatti si siano effettivamente svolti nel modo descritto.
Ed è su tali fatti che i giudici di merito hanno fondato (quello di primo grado, dopo l'iniziale incertezza riferita dalla ricorrente) la valutazione di una omissione colposa di cautele doverose (ex art. 2087 c.c. e del D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, art. 10) da parte della datrice di lavoro, le quali avrebbero evitato, se effettivamente adottate, la caduta del lavoratore all'interno della buca e con essa il danno conseguente e quindi dando conto della ricorrenza degli estremi della responsabilità civile della società in ordine al danno provocato dall'infortunio occorso al V..

Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile per assoluta genericità, anzitutto laddove lamenta che la Corte territoriale avrebbe errato "in ordine al procedimento della valutazione e devalutazione delle somme", senza articolare in alcun modo tale censura, che resta pertanto non comprensibile.
Genericità che affligge anche la restante parte del motivo, laddove la ricorrente si limita alla mera contrapposizione al metodo di liquidazione equitativa del danno seguito dai giudici di merito quello di cui alle tariffe INAIL, viceversa notoriamente calibrate sulla natura indennitaria e non risarcitoria della relativa corresponsione.
Vanno quindi esaminati congiuntamente il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale, relativi alla pretesa liquidazione del danno esistenziale, che sono infondati.
Se corrisponde infatti a verità il fatto che all'epoca della proposizione del ricorso ex art. 414 c.p.c., il danno esistenziale non riceveva dalla giurisprudenza di questa Corte un rilievo autonomo, come componente del danno non patrimoniale (e tuttora ne è escluso alla luce della più recente sentenza delle sezioni unite di questa Corte - sent. 11 novembre 2008 n. 26972 -, ritornata, dopo l'intervallo iniziato con la sentenza n. 7713 del 7 giugno 2000 al binomio danno patrimoniale e non patrimoniale) il ricorrente per sostenere di avere richiesto fin dall'origine anche il danno c.d. esistenziale, avrebbe dovuto indicare in questa sede quali danni e sofferenze subiti a seguito e a causa dell'infortunio e di cui avrebbe col ricorso richiesto il risarcimento, rappresentano poste di danno diverse e ulteriori rispetto a quelle risarcibili e risarcite come danno biologico, anche nel suo aspetto dinamico - relazionale e come danno morale.
Viceversa, V.G. si limita al riguardo a riprodurre integralmente il ricorso introduttivo, che descrive la vicenda e i danni che ne sono derivati, senza enucleare, in maniera specifica, le componenti di danno "ulteriore" di cui chiedeva il risarcimento, sia pure all'interno del ristoro del danno biologico e di quello morale e che sono rimaste insoddisfatte in sede di liquidazione equitativa operata dai giudici.
A questa insufficiente rappresentazione della fondatezza delle proprie censure consegue il rigetto dei due primi motivi del ricorso incidentale.

Quanto al terzo, esso è inammissibile, per difetto di interesse del ricorrente incidentale a proporre una tale censura (ripresa, infine, ma tardivamente e quindi in maniera inammissibile, anche dalla I.).
Le domande iniziali del V. erano infatti - e sono necessariamente rimaste - esclusivamente rivolte nei confronti della I.C., la quale ha chiesto e ottenuto la chiamata in giudizio della R.M.A. esclusivamente per ottenere da questa il rimborso delle somme che avesse eventualmente dovuto erogare al V. a titolo di risarcimento danni a seguito del giudizio, tutt'al più chiedendo all'assicurazione di pagare direttamente al terzo danneggiato, a norma dell'art. 1917 c.c., comma 2.

Non sembra infine inopportuno rilevare che nell'ambito di tale giudizio tra la I. e la R.M.A. era la prima ad essere gravata dall'onere di provare che i danni richiestile dal V. erano ricompresi nella copertura assicurativa.

Il primo motivo del ricorso principale e invece infondato.
Con esso la ricorrente in sostanza censura l'interpretazione data dai giudici di merito alla norma del contratto di assicurazione che deduce come stipulato nel ***e in cui veniva definito il rischio assicurato.
Al riguardo, le condizioni generali di polizza riprodotte dalla società stabiliscono che la società di assicurazione "si obbliga a tenere indenne il contraente di quanto questi sia tenuto a pagare (capitale interessi e spese) quale civilmente responsabile, ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 e 11 per gli infortuni (escluse le malattie professionali) sofferti da prestatori di lavoro da lui dipendenti".
"L'assicurazione è efficace alla condizione che, al momento del sinistro, il contraente sia in regola con gli obblighi per l'assicurazione di legge".
Poiché è indiscusso che l'assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie professionali dei lavoratori dipendenti non copriva all'epoca del contratto il cd. danno biologico (che vi è stato inserito solo con il D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13 con esclusivo riguardo agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali verificatisi o denunciati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale relativo alle tabelle delle menomazioni - luglio 2000), i giudici hanno correttamente ritenuto che l'assicurazione tra la R.M. e la I. riguardasse quanto la società fosse tenuta a pagare, ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 11 in via di regresso all'INAIL nell'ipotesi in cui, nonostante l'assicurazione obbligatoria, il datore di lavoro non fosse esonerato dalla responsabilità civile a norma del precedente art. 10 del D.P.R. citato.
Poiché trattasi di indennità "collegate e commisurate ai riflessi che l'infortunio aveva sull'attitudine al lavoro del dipendente", la Corte ha concluso nel senso che dall'ambito della copertura assicurativa restavano esclusi sia il danno biologico che il danno morale.
L'interpretazione alla base di tali conclusioni è censurata dalla ricorrente per violazione delle norme legali di ermeneutica contrattuale e per vizio di motivazione.

Quanto al primo profilo, pur sostenendo che l'interprete non deve limitarsi al tenore letterale della norma contrattuale, ma deve ricercare la comune intenzione delle parti, la ricorrente non indica poi significativi dati estratestuali utili per la individuazione di tale comune volontà, evidenziando elementi di significato neutro rispetto a tale finalità, quali il fatto che all'epoca del contratto di assicurazione fosse nota la categoria del danno biologico o affermando in maniera meramente assertiva che il contratto di assicurazione mirava a coprire il più ampio spettro di rischi, in ogni caso sostenendo una lettura correttamente ritenuta dai giudici di merito chiaramente esclusa dal tenore letterale della legge, che segna il primo e fondamentale dato significativo della comune volontà delle parti, qui consacrata in un testo scritto.

Anche la censura di vizio di motivazione è centrata sugli stessi ragionamenti o su considerazioni analoghe, cosicché il motivo non riesce a superare l'impressione che con esso si intenda coinvolgere la Corte nella diretta interpretazione della norma contrattuale, riservata viceversa ai giudici di merito e controllabile in questa sede solo per ciò che riguarda l'eventuale violazione delle norme di legge sulla e di interpretazione dei contratti o per specifici decisivi vizi motivazionali (per un caso analogo, di interpretazione da parte dei giudici di merito di una norma di un contratto di assicurazione di contenuto pressoché identico a quello in esame, cfr. Cass. 18 luglio 2006 n. 16376).

Infine, è manifestamente infondato l'ultimo motivo del ricorso principale, essendo stata la società soccombente nel grado di appello ove aveva anche proposto appello incidentale nei confronti del V. e avendo i giudici motivato in ragione di tale soccombenza la condanna alle spese della I..

Concludendo, alla luce delle considerazioni svolte, i ricorsi, principale e incidentale, vanno respinti.

L'esito della lite tra l'I. e V. e l'alternanza di giudizio nei due gradi di merito per ciò che riguarda l'ambito della copertura assicurativa del contratto tra la R.M. e la I., consigliano la compensazione integrale tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta compensando integralmente tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.