REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCALI Piero
Dott. BRUSCO Carlo G.
Dott. ROMIS Vincenzo
Dott. IZZO Fausto
Dott. PICCIALLI Patrizia

- Presidente
- rel. Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
1) Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Salerno;
2) C.C., parte civile;
3) C.T., S.A., D.L., C.S., C.G. e M.R., parti civili;
4) A.I., A.M., A.S., C.M., C.D., C.R., C.S., C.F., C.G., D.G., D.M., M.C., P.G., P.N., S.A., S.S. e S.V., parti civili;
5) I.C., D.M.T. e D.M.C., parti civili;
6) D.F.R. e E.F., parti civili;
contro
1) B.G. nato a ***, imputato;
2) C.F. nato a ***, imputato;
avverso la sentenza 6 ottobre 2008 della Corte d'Appello di Salerno.
Udita la relazione del Consigliere Dott. Carlo Giuseppe BRUSCO;
- sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del S. Procuratore Generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi proposti nei confronti di C.F. e per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei confronti di B.G..
Uditi:
- l'avv. RAPALO Roberto per la parte civile ricorrente C. C. e, in sostituzione dell'avv. FERRANDINO Luigi, per le parti civili non ricorrenti D.M.T. e B.R.;
- l'avv. CINIGLIA Marina per le parti civili non ricorrenti C.G.F., C.T., C.P., C.C., D.G., D.C., M.E., M.C., M.A., M.A., M.E., M.C., m.s., N.F. e M.L. nonchè, in sostituzione dell'avv. Francesco Paolo LAUDISO, per le parti civili non ricorrenti R.R., R.S., R.R., R.M. e O.C.;
- l'avv. Lucio BARBATO, in sostituzione dell'avv. Gennaro IOVINO, per le parti civili ricorrenti I.C., D.M.T. e D. M.C.; in sostituzione dell'avv. Enrico Vittorio DE FILIPPO, per le parti civili ricorrenti D.F.R. e E.F.; in sostituzione dell'avv. Erasmo FUSCHILLO per le parti civili ricorrenti C.T., S.A., D.L., C.S., C.G. e M.R.;
i quali hanno tutti richiesto l'accoglimento dei ricorsi.
Uditi inoltre:
- l'avv. Domenico DE LIGUORI per il responsabile civile Comune di ***;
- l'avv. Dello Stato Maurizio GRECO per i responsabili civili Ministero dell'interno e Ministero della protezione civile;
- l'avv. Michele TEDESCO per l'imputato C.F.;
- l'avv. Silverio SICA per l'imputato B.G.; i quali hanno tutti richiesto il rigetto dei ricorsi.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

PARTE 1^: I FATTI E LE SENTENZE DI MERITO.


Sezione prima: i fatti oggetto del presente giudizio. L'esercizio dell'azione penale.

1. Gli eventi del ***.

Il *** da una montagna denominata ***, sita al confine tra le province di ***, scendevano numerose colate rapide di fango che investivano gli abitati di ***. L'abitato maggiormente colpito da questo evento era il comune di *** dove si verificavano 137 morti di persone che si trovavano nella località indicata.
Le colate erano state provocate dallo scioglimento, ad opera di precipitazioni di pioggia intensissime e durate diversi giorni, dei sedimenti di origine vulcanica formatisi sulla montagna e poggianti su un substrato solido di roccia calcarea. I sedimenti imbevuti di acqua avevano cominciato a sciogliersi e a scivolare verso valle acquistando sempre maggiore velocità a causa della ripidità dei pendii.
Si tratta di un fenomeno ricorrente per gli abitati siti alle pendici della montagna; in particolare nel comune di *** ne erano conosciuti almeno quattro verificatisi nel corso del ventesimo secolo sia pure con caratteristiche di minor gravità e intensità.
I giudici di merito (in particolare la sentenza di primo grado) hanno accertato che alcune frazioni del comune di *** ( ***) tra le ore 16,15 e le ore 23,50 del *** erano state investite da quattordici colate di fango scese dalla montagna indicata.
Queste colate provocavano varie tipologie di danni alle costruzioni (crollo totale di immobili, crollo parziale di altri, danni localizzati in alcune parti di altri immobili, danni lievi di parti non strutturali) ma, soprattutto, numerosissime morti di abitanti - il primo dei quali alle 18,10 e gli altri nelle ore successive - provocate in particolare dal crollo di edifici tra cui un padiglione di un ospedale denominato "***".
Nella sentenza di primo grado vengono descritti analiticamente gli eventi nella loro successione temporale evidenziando i danni provocati dalle prime colate verificatesi dopo le ore 16, gli sgomberi di zone a rischio spontaneamente effettuati da parte di appartenenti all'arma dei Carabinieri e alla polizia di Stato.
Vengono poi descritti gli eventi verificatisi dalle ore 18,30 alle ore 20,50 dandosi atto che alle ore 18,30 era stato convocato presso la prefettura di Salerno il centro coordinamento soccorsi formalmente insediato alle ore 18,55. 2. L'esercizio dell'azione penale.
In esito alle indagini preliminari svolte dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nocera Inferiore veniva disposto il rinvio a giudizio, davanti al Tribunale della medesima Città, di B.G. - all'epoca sindaco del Comune di *** - e di C.F. all'epoca assessore del medesimo Comune che aveva collaborato con il sindaco nella gestione dell'emergenza provocata dal disastro naturale verificatosi.
Ad entrambi veniva contestato il delitto "di cui agli artt. 113 e 40 c.p. e art. 589 c.p., commi 1 e 3" per aver cagionato la morte di 137 persone per colpa generica e per la violazione del piano di protezione civile del comune di ***, approvato il 12 luglio 1995, della L. 22 febbraio 1992, n. 225, art. 15, commi 3 e 4 nonché della relativa direttiva applicativa del Presidente del consiglio dei ministri, dipartimento della protezione civile, del dicembre 1996.
La contestazione ai due imputati veniva letteralmente così formulata: "in particolare il B. omise di dare tempestivamente il segnale di allarme alla popolazione, di disporre l'evacuazione delle persone residenti nelle zone a rischio, di convocare ed insediare tempestivamente il comitato locale per la protezione civile, di dare tempestivo e congruo allarme alla Prefettura di Salerno alla quale, anzi, fino alle ore 20,47, forniva notizie imprudentemente rassicuranti sull'emergenza in corso suscettibili di non provocare l'adeguato allertamento degli organi competenti.
Entrambi, poi, fornivano alla popolazione in pericolo notizie imprudentemente rassicuranti sulla emergenza in atto diffondendo il B. due appelli televisivi ed il C. un appello televisivo, tutti trasmessi dall'emittente "***", con i quali invitavano i cittadini a restare nelle proprie abitazioni facendo cosi ritenere che la situazione fosse sotto controllo ed inesistente il pericolo; ambedue, inoltre, a fronte di una precisa richiesta di evacuazione dei plessi ospedalieri di ***, in pericolo, avanzata dall'Autorità sanitaria competente, rifiutavano tale evacuazione assumendo la insussistenza di pericolo per la vita dei pazienti".

Sezione seconda: la sentenza di primo grado.

1. La descrizione dello sviluppo degli eventi.

All'esito del giudizio di primo grado, sviluppatosi nell'arco di numerose udienze celebrate tra il 28 giugno 2000 e il 3 giugno 2004 in quest'ultima data il Tribunale di Nocera Inferiore pronunziava sentenza con la quale assolveva entrambi gli imputati dal reato loro ascritto con la formula "perché il fatto non sussiste" (ritenuta più favorevole di quella perché il fatto non costituisce reato pur adottabile non essendo stata dimostrata la colpa); assoluzione pronunziata ai sensi dell'art. 530 cod. proc. pen., comma 2 nei confronti di B.G. e ai sensi del comma 1, medesimo art. nei confronti di C.F..
Il Giudice - dopo aver respinto alcune eccezioni di natura processuale e ricostruito gli elementi costitutivi del reato ipotizzato - ha illustrato la condotta contestata agli imputati e descritto analiticamente lo sviluppo dei tragici eventi verificatisi il 5 maggio 1998 illustrando i vari momenti che si sono succeduti nell'evolversi del fenomeno ed in particolare le quattordici colate di fango scese dalla montagna, il loro percorso e la parte di abitato colpita. Ha poi individuato le tipologie dei danni provocati agli immobili e accertato, per quanto possibile, le ore e i luoghi dei decessi.
La sentenza di primo grado prosegue poi precisando che i fenomeni di cui trattasi hanno iniziato a verificarsi alle ore 16 e indicando gli interventi effettuati dai Carabinieri del luogo e dai vigili del fuoco e i danni provocati alle condotte del gas. Descrive poi l'invasione di alcune parti della città da parte del fango sulla base delle testimonianze il cui contenuto è riportato nella sentenza.
Dopo aver dato atto che, alle ore 18,30, si era insediato presso la prefettura di Salerno il Centro coordinamento soccorsi (CCS) mentre alle ore 19,10 risultavano operanti i Centri operativi misti (CC.OO.MM.) di *** - deputati a monitorare lo sviluppo degli eventi a livello intercomunale e competenti per i comuni di *** - la sentenza descrive poi gli eventi verificatisi presso la frazione Episcopio ed in particolare lo sgombero spontaneo della maggior parte delle circa 150 persone che si erano rifugiate presso la chiesa sita in questa località ed illustra il contenuto delle testimonianze che hanno riferito sul succedersi delle varie fasi della vicenda e il coinvolgimento delle diverse frazioni del comune di ***.
La sentenza passa poi ad esaminare le attività svolte da altri organi istituzionali ed in particolare dalla prefettura di Salerno e riporta alcuni passi di una relazione dal vice prefetto vicario dell'epoca che riferiva di un fax trasmesso dal Sindaco di *** nel quale venivano segnalati "gravi danni, zone coperte da fango e nuclei familiari bisognosi di aiuto per lasciare le case sommerse".
Descrive l'attività del sindaco e il suo incontro, all'interno del palazzo comunale, col direttore sanitario e col vice direttore sanitario della ASL del luogo che avrebbero chiesto l'evacuazione dei plessi sanitari di *** e riferisce del contenuto di due interviste rilasciate dal sindaco B. e dall'assessore C. ad un'emittente televisiva locale nelle quali i due amministratori, in buona sostanza, invitavano la popolazione locale a stare tranquilla e a rimanere chiusa nelle abitazioni.
La sentenza precisa poi che la fase di soccorso vera e propria iniziò concretamente dopo la mezzanotte quando giunsero a *** due elicotteri uno dei quali non era però abilitato al volo notturno mentre il pilota del secondo velivolo non conosceva i luoghi per cui iniziò la sua opera solo quando un carabiniere si rese disponibile ad accompagnarlo.

2. Il quadro normativo all'epoca dei fatti.

La sentenza di primo grado passa poi ad illustrare la normativa in materia di protezione civile iniziando dall'illustrazione delle norme previgenti e descrivendo poi il quadro normativo delineatosi con l'entrata in vigore della L. 24 febbraio 1992, n. 225 con l'indicazione dei soggetti cui sono attribuite, in sede centrale e periferica, competenze in tema di protezione civile.
Venendo ad esaminare la posizione del sindaco la sentenza evidenzia come la legge abbia attribuito a questa figura la qualità di "autorità comunale di protezione civile" e abbia valorizzato la sua figura con l'attribuzione di maggiori responsabilità organizzative e di attuazione dei primi interventi di soccorso e assistenza alle popolazioni colpite. Precisa poi che, al verificarsi dell'emergenza nel territorio comunale, il sindaco assume la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza e provvede agli interventi necessari dandone immediata comunicazione al prefetto e al presidente della giunta regionale (art. 15, comma 3). Disposizioni confermate dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, art. 108, comma 1, lett. c) che peraltro ha attribuito ai comuni le funzioni riguardanti "l'adozione di tutti i provvedimenti, compresi quelli relativi alla preparazione dell'emergenza, necessari ad assicurare i primi soccorsi in caso di eventi calamitosi in ambito comunale".
Ricorda poi la sentenza che la L. n. 225, art. 15, comma 4 prevede che, quando l'evento non può essere fronteggiato con i mezzi a disposizione del comune, il sindaco chieda l'intervento di altre forze e strutture al prefetto che adotta i provvedimenti di competenza coordinando i propri interventi con quelli dell'autorità comunale di protezione civile.
Il giudice inserisce a questo punto della sentenza una valutazione negativa sui limiti di questa normativa rilevando che la legge non ha provveduto "ad una chiara schematizzazione degli organi ed apparati tenuti ad intervenire e del tipo di funzioni loro attribuite, né tanto meno ad una palese indicazione dei meccanismi di raccordo attivabili tra gli stessi organi ed apparati". Questi compiti erano stati demandati ad un regolamento esecutivo che, all'epoca dell'evento, non era stato ancora emanato.

3. La posizione di garanzia del sindaco.

La sentenza premette che il sindaco è sicuramente titolare di una posizione di garanzia in tema di protezione civile i cui contenuti sono riconducibili alle attività di previsione, prevenzione, soccorso e superamento dell'emergenza.
Con riferimento al caso in esame - ed in particolare alla prevenzione dei danni in caso di calamità (art. 3, comma 2) - la sentenza sottolinea che in questa attività devono farsi rientrare non solo i compiti da svolgere prima degli eventi; la prevenzione, nel caso di eventi che si protraggano nel tempo, può riguardare anche lo sviluppo dei medesimi.
Rileva però la sentenza che l'attività di prevenzione, in base alla normativa vigente alla data del 5 maggio 1998, non era attribuita al sindaco non essendo questi gravato di compiti di previsione. Il Tribunale esclude altresì che al sindaco possa essere attribuito un compito di evacuazione la cui attuazione presuppone la formazione di un piano; in questi casi il sindaco può soltanto informare il prefetto che potrà adottare gli interventi ritenuti necessari coordinandoli con quelli del sindaco cui peraltro rimangono attribuiti i compiti di soccorso e assistenza.
La sentenza prosegue richiamando il quadro normativo e giurisprudenziale che individua nel prefetto il titolare degli obblighi di allertamento della popolazione; obbligo che al sindaco compete solo in via residuale quando non sia possibile l'attivazione dell'apparato prefettizio ordinariamente competente. È invece obbligo del sindaco, secondo il primo giudice, dare immediata notizia al prefetto e al presidente della giunta regionale degli eventi verificatisi.
Quanto alla cd. direttiva Barberi del 1996 il Tribunale ne esclude ogni efficacia normativa qualificandolo come "un elaborato scientifico, ovvero come una specie di prontuario tecnico-pratico".
La sentenza passa poi ad esaminare la terza fonte su cui l'accusa fonda l'esistenza e l'ampiezza della posizione di garanzia del sindaco - il piano di protezione civile del comune di *** - e ritiene che il piano "si sia tradotto in una sostanziale riproposizione degli obblighi già sanciti dalla L. n. 225 del 1992 (quelli di immediata comunicazione al Prefetto, nonché di direzione e coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni ex art. 15, comma 3)" con una maggior specificazione. Il primo giudice rileva poi come il piano non faccia menzione delle colate di fango e costituisca un documento superficiale e privo di alcuna indagine multidisciplinare compilato su un modulo prestampato fornito dalla prefettura a tutti i comuni.
Trattando poi del tema della colpa generica il Tribunale rileva che alcun elemento rilevante ulteriore aggiunge questo esame al tema in oggetto.

4. La sottovalutazione della gravità dell'evento.

La sentenza affronta questo tema ripercorrendo le varie fasi della calamità. Ricorda che tra le ore 16,45 e 16,50 il sindaco aveva ricevuto una telefonata dal vice prefetto vicario dott. M.P. che gli aveva segnalato un problema a via ***;
recatosi sul luogo il sindaco verificava uno sprofondamento della strada per una lunghezza di circa 30-40 metri. Il sindaco, tornato in comune, veniva avvertito che dal vallone ***, si era riversato fango sulla strada e recatosi sul luogo (verso le 17,30-17,45) constatava che la strada era occupata dal fango per un'altezza di circa 20-30 cm. Si recava poi nel rione *** nel quale, in viale ***, il fango aveva l'altezza di "circa un gradino".
In relazione alla situazione in viale *** il Tribunale ha ritenuto inattendibili i testi che hanno riferito di aver segnalato al sindaco gravi situazioni di pericolo ricevendone risposte tranquillizzanti.
La sentenza prosegue poi ripercorrendo gli spostamenti del sindaco e giungendo alla conclusione che non vi è agli atti la prova che questi - subito dopo il sopralluogo in via *** contigua al canalone *** - avesse cognizione di case crollate o di persone decedute essendo al corrente solo dell'esistenza di abitazioni invase o isolate dal fango. Di qui la percezione dell'inidoneità dei mezzi a disposizione del comune e il successivo contatto con la prefettura di Salerno.
Ma è verso le 20-20,30 che il sindaco ha potuto avere la percezione della gravità della situazione quando vedeva personalmente le colate di fango scendere con velocità e potenza distruttiva; la conclusione, secondo il Tribunale, è che questa percezione si ebbe in tutti non prima delle ore 19,50 e alla stessa ora si può parlare della percezione del pericolo da parte dell'assessore C. che in precedenza non aveva partecipato ai sopralluoghi del sindaco.

5. Gli indicatori del pericolo e la percezione del medesimo.

Il tribunale così argomenta sull'esistenza di indicatori del pericolo.
Quanto alle caratteristiche del territorio la sentenza sottolinea come due siano i fattori naturali che, oltre alla pioggia, favoriscono fenomeni naturali quali quello verificatosi a ***: la forte pendenza dei versanti e il loro assetto geologico costituito da materiali leggeri di origine vulcanica (ceneri e pomici). Nel ventesimo secolo, secondo i dati riportati in sentenza, in *** si erano verificati 33 eventi franosi delle coperture piroclastiche ma solo in circa dieci casi questi eventi avevano avuto un'estensione ampia. Questi fenomeni, secondo la sentenza, non erano stati studiati in modo approfondito dalla comunità scientifica; con la conseguenza che questa pericolosità non poteva essere avvertita dagli imputati.
Quanto ai precedenti storici la sentenza sottolinea come alcuni eventi verificatisi nei due secoli passati sono costituiti da inondazioni dovute a straripamento di corsi d'acqua mentre i quattro eventi franosi delle coperture piroclastiche, verificatisi nel ventesimo secolo, hanno avuto un'estensione limitata mentre il fenomeno del *** si è sviluppato con almeno 14 colate alcune delle quali con pluralità di inneschi. Nessuno di questi eventi era dunque simile a quello verificatosi e ciò non può non aver indotto il sindaco e l'assessore a ritenere che l'evento del 1998 fosse assimilabile a quelli pregressi.
Quanto all'incidenza della pioggia sul verificarsi dell'evento il Tribunale ritiene che si sia trattato di un fatto non particolarmente significativo che comunque "in assenza di qualsiasi studio preventivo diretto ad individuare le zone del territorio comunale a rischio di colata e le soglie pluviometriche che avrebbero potuto rendere possibile l'innesco della colata medesima, nonché in mancanza di una adeguata rete di monitoraggio della piovosità e dei movimenti del terreno" i rilievi sulla pioggia costituirebbero elementi empirici che non potevano costituire "significativi e specifici indicatori di quel fenomeno distruttivo".
Analoghe considerazioni vengono fatte per i rumori provocati dall'evento franoso dandosi particolare significato solo al "boato" verificatosi verso le ore 20 - 20,30 perché indicativo di un evento di ben diversa portata.
Passando ad esaminare il problema del fango la sentenza ricorda che il comune di *** è storicamente esposto a fenomeni di fanghiglia e detriti che scendevano a valle allagando scantinati e seminterrati per cui è ragionevole che gli amministratori abbiano ricondotto il fenomeno ai consueti fenomeni già verificatisi in passato anche perché il sindaco aveva verificato che, in viale *** e nei pressi del vallone ***, la fanghiglia non superava i 20 - 30 cm. di altezza. Solo alle 18,30 il sindaco avrebbe potuto rendersi conto, osservando il fango uscito dal canale ***, che il fenomeno aveva dimensioni diverse e ben maggiori.
In quel momento il sindaco si trovava in altra località ma, si dice nella sentenza, se anche avesse avuto conoscenza delle dimensioni del fenomeno, "non avrebbe potuto prevedere che la melma medesima fosse addirittura in grado di far crollare le case e, dunque, di provocare morti e feriti" mancando la consapevolezza che il fango avrebbe potuto acquisire una velocità tale da provocare gli effetti distruttivi in effetti verificatisi. Solo alle 20,30 il sindaco ha avuto coscienza di questa velocità. E la velocità della colata è ritenuto appunto l'indicatore più significativo della "disastrosa portata" dell'evento calamitoso.
La conclusione del Tribunale, sulla percezione del pericolo, è che né B. né C. fino alle ore 20,30 avessero la possibilità di percepire la gravità del pericolo. Ed è in questo momento che i due imputati, alle ore 20,47, inviano alla prefettura un fax in cui, con toni drammatici, si segnalava l'estrema gravità della situazione con particolare riferimento alle dimensioni dell'onda di fango (definita "gigantesca"), ai crolli di edifici e alla possibilità che vi fossero state vittime.
Dunque i due imputati hanno tempestivamente segnalato alla prefettura la gravità del pericolo che le dimensioni del disastro di cui prima non potevano avere coscienza. Fino alle 18,30, secondo il Tribunale, l'emergenza era fronteggiabile "con gli strumenti ordinari in dotazione dell'amministrazione municipale di ***" per quanto limitati; strumenti che furono interamente impiegati fin dalle prime ore del pomeriggio.

6. Le condotte omissive addebitate agli imputati. La mancata segnalazione tempestiva dell'allarme.

La sentenza premette che, da un punto di vista formale, le condotte omissive risultano addebitate al solo sindaco e non anche all'assessore. In merito alle singole condotte omissive contestate così argomenta il Tribunale.
Quanto all'omessa segnalazione tempestiva dell'allarme alla popolazione il Tribunale sottolinea che questo compito spettava al sindaco in via esclusiva fino a quando l'evento "fosse rimasto nel ristretto ambito comunale e potesse essere fronteggiato mediante interventi attuabili dal singolo Comune attraverso l'uso dei mezzi ordinari a sua disposizione". Se non era fronteggiabile con questi mezzi il compito di segnalazione era "riservato essenzialmente al Prefetto, estendendosi al Sindaco non in alternativa alla predetta componente, ma bensì in via residuale e, precisamente, solo "in caso di urgenza", ossia quando la situazione di pericolo avesse rivestito un tale carattere di cogenza e di imminenza da non permettere l'attivazione dell'apparato prefettizio ordinariamente competente".
La sentenza riconosce che - "come è emerso in maniera inconfutabile dall'espletata istruttoria dibattimentale" - il comportamento adottato dai due imputati "è stato effettivamente caratterizzato dall'omissione prospettata dalla pubblica accusa" atteso che, nell'arco delle otto ore di evoluzione del fenomeno, i due imputati non hanno disposto alcuna forma di allertamento dei cittadini di *** né via radio, nè con auto munite di altoparlanti né con appelli televisivi. Anzi, quanto al mezzo televisivo, hanno rilasciato interviste ad un emittente locale fornendo notizie "rassicuranti".
Secondo il Tribunale l'omissione è però da ritenere "palesemente irrilevante" fino alle ore 18; fino a quest'ora non esistevano infatti i presupposti per l'adozione di un provvedimento inteso ad allertare la popolazione essendo, le caratteristiche del fenomeno, riconducibili ai fenomeni già verificatisi gli anni precedenti. È con la colata che colpisce la frazione *** e si innesca alle 17,30, con la morte di S.R. delle ore 18,10 e con il fango che, alle ore 18,21, investe nuovamente viale *** che la calamità assume "una capacità distruttiva che l'hanno resa non più inquadrabile nell'archetipo già riprodottosi in passato".
Ma poiché, in questa fase, il fenomeno si stava sviluppando nel territorio di tre comuni (***) il Tribunale ritiene che "l'obbligo di segnalazione alla popolazione D.P.R. n. 66 del 1981, ex art. 36 spettasse, in via quasi esclusiva, al Prefetto e, solo in via d'urgenza e, dunque, residuale, al Sindaco di ***".
In ogni caso, si dice nella sentenza, la procedura di allertamento ha un senso se è funzionale all'adozione di uno specifico comportamento da parte del cittadino. Non essendo mai stato effettuato alcun tipo di programmazione preventiva una segnalazione anticipata non avrebbe consentito di adottare gli opportuni comportamenti.
Proprio per la mancata conoscenza del fenomeno delle colate rapide di fango non erano ipotizzabili i cedimenti delle strutture degli edifici, soprattutto di quelli in cemento armato. È solo tra le ore 19,50 e le ore 20,30 (seconda e terza colata "***", prima e seconda "***") che le dimensioni del fenomeno sono apparse chiare al sindaco che ha rischiato di essere travolto da una di queste colate.
Prima di questo momento era invece ragionevole pensare che la sicurezza dei cittadini fosse maggiormente garantita se le persone rimanevano nelle loro abitazioni. D'altro canto, in mancanza di interventi della prefettura, l'esercizio dei compiti residuali del sindaco "avrebbe potuto provocare un numero di vittime più alto" e comunque sarebbe stato inattuabile per "la necessità di preavvisi, scenari ed esercitazioni; l'impossibilità di individuare con precisione le zone a rischio; la ridottissima transitabilità delle strade; gli ostacoli costituiti da buio, nebbia e sospensione dell'erogazione dell'energia elettrica; il problema del panico; la carenza dei mezzi in dotazione al Comune di ***".

7. Le condotte omissive. Il mancato ordine di evacuazione e la comparazione con le condotte di altri sindaci. Gli sgomberi operati dalle forze dell'ordine.


Il Tribunale precisa poi, per quanto riguarda il mancato ordine di evacuazione, che la condotta del sindaco si giustifica in base alle medesime argomentazioni riguardanti il mancato allertamento.
La sentenza descrive poi le iniziative - di allertamento ed evacuazione delle zone in pericolo - prese dai sindaci di *** - e pone in evidenza le differenze tra gli eventi verificatisi in questi comuni e quelli di *** soprattutto:
- per i volumi significativamente diversi delle masse franose, per il numero di persone da evacuare (8-900 evacuate a ***; circa 1.000 evacuate a ***; 2.550 evacuate a ***) che a *** non poteva essere inferiore a 7-8.000 o 10-12.000 secondo calcoli diversi;
- per la maggiore ampiezza delle colate verificatesi nel comune di ***;
- per le ore notturne in cui si sono verificate quelle di ***;
- per il mancato supporto da parte dell'ufficio tecnico del Comune di *** il cui responsabile fu reperito solo "a tarda sera";
- per i diversi precedenti storici riguardanti il comune di *** rispetto agli altri comuni interessati dal fenomeno delle colate pur provenienti dalla medesima montagna.
La sentenza di primo grado descrive poi analiticamente gli sgomberi autonomamente operati da appartenenti all'Arma dei Carabinieri, alla Guardia di finanza, alla Polizia di Stato e ai Vigili del Fuoco (sgomberi riguardanti centinaia di persone) ma, si sostiene nella sentenza, questi interventi non possono essere assimilati all'evacuazione ("abbandono sistematico imposto da motivi di emergenza") perché "consistevano in occasionali sollecitazioni a lasciare le proprie abitazioni, legate essenzialmente alla contingente circostanza dell'invasione delle abitazioni medesime ad opera del fango".

8. La gestione da parte della prefettura di Salerno e del Centro Coordinamento Soccorsi.

La sentenza esamina poi gli interventi operati da funzionari della prefettura di Salerno e del Centro Coordinamento Soccorsi (CCS.) istituito presso la medesima prefettura alle ore 18,30 del *** e sottolinea la totale inadeguatezza (si parla, nella sentenza, di generale impreparazione, disorientamento, rassegnazione) di questi organi nella gestione dell'emergenza confermata anche dall'incompletezza ed erroneità dei documenti redatti e la sconcertante circostanza che il fax inviato dal sindaco di *** alla prefettura alle ore 20,47 neppure fu sottoposto ai membri del CCS. Dalle deposizioni acquisite al dibattimento - il cui contenuto è riportato nella motivazione - emerge che da parte di alcuno di parlò di evacuazione di parti dell'abitato di ***.
Vengono poi esaminate le attività svolte, in quell'emergenza, dai vigili del fuoco (la cui attività viene analiticamente descritta e nella quale trovò la morte uno degli appartenenti al Corpo), dai rappresentanti del Genio civile, della Polizia di Stato, dei Carabinieri, del Corpo forestale dello Stato, delle Forze Armate (il cui intervento fu richiesto alle ore 20,10 dal prefetto al loro rappresentante nel CCS.) sottolineando, ancora una volta, come da alcuno fosse stata sollecitata l'evacuazione dei siti a rischio.
Quanto agli enti territoriali la sentenza evidenzia l'attività svolta da un assessore della Regione Campania (che, pur essendo la regione priva di funzioni operative di gestione dell'emergenza, si attivò con la costituzione di un'informale "unità di crisi") e della Provincia di Salerno. Si evidenzia poi quanto compiuto dai funzionari della A.S.L., dai vigili urbani del comune di *** e dai funzionari dell'ufficio tecnico (il cui dirigente peraltro non fu mai visto da alcuno).
E la sentenza ribadisce nuovamente che da alcuno fu prospettata la necessità dell'evacuazione così come si esclude che analoga sollecitazione sia venuta da semplici cittadini o, come era stato ipotizzato, da un giornalista i cui genitori risiedevano in ***.
Peraltro, secondo il primo giudice, l'evacuazione era sostanzialmente irrealizzabile per le seguenti ragioni:
- la mancata preventiva individuazione delle zone a rischio e delle procedure di evacuazione;
- la non transitabilità della maggior parte delle strade di *** perché invase dal fango che costituiva un'insuperabile ostacolo per l'allontanamento di centinaia o migliaia di persone;
- gli ostacoli costituiti da buio, nebbia e sospensione dell'erogazione dell'energia elettrica (che hanno reso meno efficaci anche gli appelli trasmessi col mezzo televisivo) essendosi, gli eventi più gravi, verificati nelle ore notturne;
- la carenza di mezzi in dotazione al comune (che avrebbe reso difficilmente praticabile l'evacuazione) e l'incognita del panico in mancanza di informazioni preventive.
In conclusione, su questo punto, secondo il Tribunale, l'evacuazione era sostanzialmente inattuabile dopo le ore 20. 9. Omessa convocazione e omesso insediamento del comitato locale di protezione civile.
Il Tribunale da atto che il comitato in questione non è stato né convocato nel tanto meno insediato ma sottolinea che l'istituzione del comitato (avvenuta, per il comune di ***, nel 1995) era meramente facoltativa, che il piano era sostanzialmente ripetitivo degli obblighi della L. n. 225 del 1992 e che era stato redatto da persona priva delle cognizioni tecniche necessarie sulla base di uno schema prestabilito fornito dalla prefettura.
Secondo il Tribunale l'obbligo di convocare il comitato è sorto per il sindaco alle ore 18,45 quando le dimensioni del fenomeno iniziarono ad apparire più consistenti rispetto a quelle degli anni precedenti.
Per ritenere l'esistenza del rapporto di causalità tra l'omessa convocazione del comitato e la morte di 137 persone, osserva il Tribunale, sarebbe stato però necessario poter dimostrare che, con il tempestivo insediamento del comitato, quegli eventi non si sarebbero verificati. E, secondo la sentenza, l'efficacia causale impeditiva della tempestiva convocazione (peraltro impossibile per alcuni dei componenti non essendovi reperibilità) sarebbe stata praticamente nulla sia per la mancanza di competenze tecniche per la gran parte dei componenti sia perché coloro che di queste conoscenze disponevano avevano comunque fornito la loro collaborazione al sindaco (il coordinatore dei vigili urbani ten. D.; il sostituto del dirigente dell'ufficio tecnico ing. A.; il comandante della stazione Carabinieri) o non erano stati reperiti (il dirigente dell'ufficio tecnico ing. S.).
In particolare, ribadisce ancora una volta la sentenza, dal comitato, se riunito, non sarebbe venuta alcuna sollecitazione all'evacuazione delle zone a rischio come del resto non è venuta dal CCS. composto da persone aventi ben maggiori competenze tecniche. In ogni caso i tempi di convocazione e insediamento non avrebbero verosimilmente anticipato i tempi di comunicazione alla prefettura di fatto avvenuti con l'invio del fax del sindaco avvenuto alle ore 20,47.

10. Tempestività e congruità dell'allarme alla prefettura di Salerno.


La sentenza affronta poi questo tema premettendo una breve sintesi degli obblighi del sindaco in tema di protezione civile. Dopodiché esamina le tre fasi nelle quali si è svolto il rapporto tra sindaco e prefettura.
Nella prima fase ritiene il Tribunale, "senza timore di essere smentiti", che l'obbligo di immediata comunicazione al prefetto del verificarsi dell'emergenza - ai sensi della L. n. 225 del 1992, 'art. 15, comma 3 - "sia stato sufficientemente e fedelmente adempiuto dal B., nella fase di evoluzione del fenomeno che va dalle ore 16 alle ore 18:30-18:45 circa, mediante i contatti telefonici tra il vice-Prefetto Vicario di allora dr. M.P.." Nella percezione del sindaco, secondo il Tribunale, il fenomeno non era diverso da quelli verificatisi negli anni precedenti e dunque non esistevano altri obblighi da adempiere. La situazione è mutata, "agli occhi del Sindaco", quando, verso le ore 20-20,30, ha avuto percezione della velocità della colata significativa di una "ben maggiore potenzialità distruttiva della calamità in atto" e dell'impossibilità di far fronte al fenomeno con i mezzi a disposizione del comune - anche perché il sindaco rischiò di essere personalmente travolto in viale ***.
La sentenza riferisce dei tentativi del sindaco di porsi in contatto con la prefettura e di colloqui che B. riferisce essere avvenuti prima delle ore 20 con un funzionario della prefettura (dr. S. che ha negato di aver parlato personalmente con il sindaco) ricevendone la risposta che, in mancanza di persone decedute in conseguenza dell'evento, la prefettura non poteva muoversi.
Il Tribunale (in mancanza dei tabulati telefonici che non erano stati acquisiti nel corso delle indagini preliminari e che, a causa del tempo trascorso, non è stato possibile acquisire in dibattimento) ha ritenuto credibile la versione del sindaco sulla base dei riscontri contenuti nelle testimonianze delle persone che avevano con lui collaborato nella gestione dell'emergenza e ha ritenuto quello del dott. S., le cui dichiarazioni il Tribunale ritiene smentite anche in altri punti, "un, pur comprensibile, tentativo di difendere da eventuali censure la propria persona ed il proprio operato".
Con la conclusione che della situazione sia stata data, da B., tempestiva ed aggiornata comunicazione alla prefettura peraltro ricevendone infastidite risposte di tipo burocratico.


11. Il fax delle ore 20,47.


Il fax inviato alla prefettura di Salerno alle ore 20,47, e firmato dall'assessore C. per la momentanea assenza del sindaco, era del seguente tenore:
"Comunico che situazione Comune di *** è gravissima. Onda gigantesca di fango ha sommerso la zona ***. La pioggia continua sta aggravando sempre di più la situazione. Le Forze impiegate sono inadeguate alla gravità del momento. Si teme che ci siano anche vittime umane, sommerse dal fango e dai crolli delle case situate nelle zone ***. Si richiede intervento urgentissimo di altri mezzi di soccorso. In zona *** sono stati segnalati nuclei abitativi sommersi dal fango ed è urgente l'impiego di mezzi (elicotteri) per il loro salvataggio. La situazione si aggrava sempre di più e aumentano le zone in pericolo in quanto la lava di fango si sposta anche verso le zone intensamente abitate.........
Si ribadisce che la situazione è drammatica e disperata".
La sentenza, esaminando le modalità con le quali si pervenne alla redazione del documento (materialmente formato da persone dell'amministrazione comunale) opta, tra le contraddittorie versioni rese dai testi su questo punto, per quella che riferiva di un'intenzione del sindaco di prospettare una situazione ancor più grave di quella percepita per avere maggiori probabilità di ottenere gli interventi richiesti.
In ogni caso, secondo il Tribunale, il contenuto del fax (la cui sigla di ricezione viene attribuita, sia pure con un margine d'incertezza, al dr. S.) era idoneo ad "allertare totalmente l'intera struttura di protezione civile facente capo alla stessa Prefettura" i cui funzionari peraltro, esaminati in dibattimento, hanno o negato o ammesso con difficoltà che il fax in questione fosse stato esaminato nel corso della riunione del CCS. i cui componenti, peraltro, hanno per la gran parte negato di averne avuto conoscenza. Altra circostanza significativa è che il prefetto, alcuni giorni dopo i tragici eventi, ebbe a chiedere al sindaco di *** copia del fax di cui sopra.
La sentenza poi riferisce dei contatti successivamente avuti tra i responsabili del comune di *** e la prefettura (ritenuta non preparata a fronteggiare l'emergenza anche per la confusione che vi regnava) che sembrava scegliere le priorità di intervento in base al numero di vittime segnalate nei comuni.

12. Le condotte attive contestate. La comunicazione di notizie rassicuranti alla prefettura e alla popolazione.


La sentenza richiama le considerazioni svolte sul problema del mancato allertamento della prefettura ed esclude che gli imputati abbiano fornito notizie tranquillizzanti sulla situazione in atto con riferimento alla percezione che del fenomeno poteva aversi nei singoli momenti.
Quanto alla comunicazione di notizie imprudentemente rassicuranti alla popolazione la sentenza - premesso che si tratta del "risvolto attivo" di condotte omissive già ritenute inesistenti nella parte relativa all'esame della mancata segnalazione alla popolazione della situazione di emergenza - la sentenza esamina anzitutto gli appelli (due di B. e uno di C.) diffusi tramite l'emittente locale "***" (rilevando peraltro che solo di quello dell'assessore è stata reperita la cassetta di riproduzione).
Vengono poi riportate alcune testimonianze che riferiscono del contenuto degli appelli del sindaco (uno in ora precedente le ore 20;
il secondo tra le 21,30 e le 22) e riportata integralmente la trascrizione dell'intervista all'assessore C. rilasciata tra le 21,30 e le 22.
La sentenza non esclude che il contenuto di queste dichiarazioni avesse natura "tranquillizzante" e che gli imputati avessero invitato i cittadini di *** a rimanere nelle loro abitazioni ma ribadisce che, tra le ore 18,45 e le 20, sarebbe stato "palesemente illogico" esercitare in via d'urgenza l'obbligo di segnalazione attribuito (D.P.R. n. 66 del 1981, art. 36) in via "quasi" esclusiva al prefetto e riconduce comunque l'invito a rimanere nelle loro abitazioni all'inesistenza dei motivi per disporre l'evacuazione peraltro inattuabile per le ragioni già in precedenza indicate.
A maggior ragione, secondo la sentenza, non sono censurabili le notizie rassicuranti date da sindaco e assessore tra le 21,30 e le 22 trattandosi di "interventi che sono palesemente posteriori al drammatico e famoso fax delle ore 20:47 e, dunque, al momento in cui il cerino si era ormai definitivamente spostato nelle mani, quasi esclusive, della Prefettura di Salerno cui spettava in modo, quasi esclusivo, l'obbligo di segnalazione e dalla quale erano peraltro pervenuti inviti a non allarmare la popolazione".

13. Il rifiuto alla richiesta di evacuazione dei plessi ospedalieri.


Era stato contestato agli imputati di aver rifiutato l'evacuazione dei plessi ospedalieri siti in *** uno dei quali (***) successivamente crollato a causa della colata lavica con numerosi morti tra i pazienti e il personale sanitario.
La Corte ha ritenuto che l'esame del testimone assistito dott. C. (vice direttore sanitario che, insieme al direttore sanitario dott. P. - che si è avvalso della facoltà di non rispondere - si era recato in comune verso le ore 21) dimostrasse che era stato effettivamente chiesto lo sgombero ma solo del plesso denominato *** e non di quello denominato *** (poi crollato) ma non per il timore del crollo bensì per il timore che la struttura rimanesse isolata.
A questa conclusione il Tribunale perviene a seguito dell'esame analitico delle deposizioni di persone presenti nel palazzo municipale, di altri dirigenti Asl, di persone presenti nel plesso ospedaliere *** e di altre persone che prestavano la propria attività nell'ospedale *** o che si trovarono nei pressi del nosocomio. Il primo giudice ritiene non attendibili le dichiarazioni dei testimoni (in particolare dell'ing. S.G. responsabile dell'ufficio tecnico del comune di ***) che hanno dichiarato che la richiesta di evacuazione si riferiva a tutti i plessi ospedalieri.

14. Il rapporto di causalità tra le condotte contestate e gli eventi verificatisi.


Dopo aver esaminato gli orientamenti giurisprudenziali sul tema del rapporto di causalità la sentenza premette che se l'allertamento e l'evacuazione fossero avvenuti tra le ore 16,15 e le ore 16,35 avrebbero impedito la morte delle 137 vittime. Ma la sentenza ribadisce che a quell'ora il fenomeno non si discostava, per le sue caratteristiche, dallo schema della "lava" verificatosi negli anni precedenti mentre è solo dopo le ore 17,30 che il fenomeno assume carattere di maggior gravità; ma in questa fase i poteri di iniziativa spettavano ormai in via quasi esclusiva al prefetto per aver superato l'ambito comunale.
La sentenza prosegue precisando che se anche il sindaco avesse deciso, nell'arco temporale che va dalle ore 18,10 alle ore 23,50 del 5 maggio 1998, di allertare la popolazione e disporne l'evacuazione non è possibile affermare che le persone si sarebbero salvate con elevato grado di credibilità razionale. In particolare se l'ordine di evacuazione fosse stato dato tempestivamente le persone che sono decedute a causa del crollo delle abitazioni sarebbero state ugualmente investite per strada dalla colata lavica.
Anzi, secondo il Tribunale, ben maggiori potevano essere le conseguenze del disastro se le persone si fossero riversate per le strada (invece di rimanere nelle abitazioni e ai piani alti degli edifici che hanno resistito alla colata) venendo poi investite dalla colata come in realtà è avvenuto per diverse vittime.
Quanto alle condotte attive addebitate agli imputati parimenti, ritiene la sentenza, non può essere alle medesime eziologicamente ricollegata la morte delle 137 persone per tre ordini di ragioni: non esiste la prova che le persone non abbiano lasciato le abitazioni perché a ciò determinate a seguito dei messaggi tranquillizzanti; è verosimile che la più parte dei cittadini di *** non era in grado di ricevere le trasmissioni per le interruzioni dell'energia elettrica; una sollecitazione televisiva ad abbandonare le proprie abitazioni dopo le ore 20 avrebbe verosimilmente aggravato il bilancio delle vittime per le ragioni anzidette.
In relazione al contestato ritardo nell'invio del fax delle ore 20,47 il Tribunale ritiene che possa affermarsi che, anche se inviato un paio d'ore prima (assurdo sarebbe pensare ad un'ulteriore anticipazione) la comunicazione non avrebbe impedito il verificarsi dell'evento essendo provato che la prefettura non avrebbe esercitato i poteri di allertamento ed evacuazione come risulta dalle già descritte vicende che hanno riguardato le condotte dei funzionar prefettizi. Tanto più che la prefettura era rimasta sostanzialmente inerte pur essendo stata informata dell'evolversi degli eventi non solo dal sindaco B. ma anche attraverso altre fonti.
Parimenti priva di efficienza causale dove ritenersi, secondo il Tribunale, la mancata convocazione del comitato locale di protezione civile la cui convocazione avrebbe dovuto avvenire intorno alle ore 18,45 quando si delineava il quadro di maggior gravità perché ciò non avrebbe mutato la percezione su questa gravità. E lo stesso deve affermarsi per quanto riguarda la contestata sottovalutazione dell'oggettiva gravità del fenomeno in atto.
Infine, nella trattazione del rapporto di causalità, la sentenza di primo grado afferma che l'eccezionalità della colata di fango può configurare un fatto autonomo tale da escludere il rapporto di causalità ex art. 41 c.p., comma 2.

15. L'elemento soggettivo del reato contestato.


La sentenza di primo grado procede anzitutto ad inquadrare le condotte contestate come colpose nelle categorie della colpa specifica e della colpa generica.
Ipotesi di colpa specifica sono considerate la mancata segnalazione tempestiva al prefetto della situazione di emergenza verificatasi (violazione della L. n. 225 del 1992, art. 15, comma 3); la mancata segnalazione tempestiva e congrua alla popolazione (violazione del D.P.R. n. 66 del 1981, art. 36); la mancata convocazione e l'omesso insediamento del comitato locale di protezione civile (violazione della deliberazione della giunta municipale del 12 luglio 1995).
Vengono invece qualificate ipotesi di colpa generica la negligente sottovalutazione dell'oggettiva gravità degli eventi; la comunicazione di notizie imprudentemente tranquillizzanti sia alla prefettura di Salerno che alla popolazione; la mancata evacuazione delle persone che si trovavano nelle zone a rischio ed in particolare dei plessi ospedalieri.
Passando al tema della prevedibilità dell'evento la sentenza ritiene che le risultanze processuali "inducano a propendere per l'assoluta imprevedibilità della calamità verificatasi il *** ed, in particolare, della sua stessa evoluzione" sulla base dei seguenti elementi: la particolarità del fenomeno delle "colate rapide" di fango; l'impreparazione rispetto a tale fenomeno della comunità scientifica e del sistema di protezione civile italiano; i precedenti storici.
La sentenza supporta la valutazione espressa riportando i pareri degli studiosi di questi fenomeni sentiti in dibattimento (in particolare quelli del prof. O. e del prof. B.) i quali hanno ammesso che la comunità scientifica non aveva ancora elaborato, all'epoca dei fatti, conoscenze specifiche sul tema delle colate rapide e ribadisce le ragioni già esposte in precedenza, in contrasto con i pareri dei consulenti tecnici del pubblico ministero, sull'impossibilità di rendersi conto dell'entità del fenomeno prima delle ore 18,30. D'altra parte questa era la percezione degli imputati e dei loro collaboratori oltre che "della maggior parte dei cittadini ***".
Del resto anche dopo le ore 20-20,30 - allorché la percezione delle dimensioni del fenomeno apparve in tutta la sua gravità - non era comunque prevedibile l'evoluzione successiva.
Né questo giudizio può mutare, secondo il Tribunale, considerando le specifiche competenze del sindaco B., di professione ingegnere edile, che anzi "si potrebbe addirittura ritenere............che le presumibili cognizioni in materia di ingegneria edile............abbiano maggiormente legittimato il suo convincimento in ordine al fatto che gli immobili medesimi fossero in grado di resistere alle colate di fango".
Difetterebbe dunque, per le ipotesi di colpa generica contestate, la prevedibilità dell'evento mentre, per le ipotesi di colpa specifica, il giudicante richiama l'orientamento giurisprudenziale che non ritiene necessaria la prevedibilità in queste ipotesi anche se non sembra condividerlo.
Conclusivamente, sul tema della colpa, la sentenza rileva che difettavano, nel caso in esame, la conoscenza o riconoscibilità della situazione di pericolo, del fine dell'azione doverosa, dei mezzi necessari al raggiungimento del fine medesimo oltre che della possibilità di agire.

16. La posizione specifica dell'assessore C..


Esaminando la posizione dell'assessore C. la sentenza esclude che questi fosse titolare di una posizione di garanzia e - quanto alla qualifica di "delegato" del sindaco ipotizzata dal pubblico ministero - rileva che l'unico atto formale compiuto dall'assessore è la firma apposta al fax inviato alle ore 20,47 del *** alla prefettura di Salerno e come, dal contenuto di questo atto, non possa evincersi l'attribuzione di una delega perché non essendo stato B. privato della sua competenza a gestire l'emergenza come di fatto ha continuato a fare.
Si tratterebbe dunque di una mera "delega di firma" mentre difetta un atto formale di delega. D'altro canto la sentenza osserva che B. mai ha smesso di esercitare i suoi poteri decisionali e quelli di C. si sono limitati allo svolgimento di funzioni meramente esecutive. Neppure potrebbe parlarsi di "sostituzione" atteso che il sindaco mai è stato impedito nello svolgimento delle sue funzioni che comunque, se anche di impedimento dovesse parlarsi, avrebbero dovuto essere svolte dal vice sindaco (tra l'altro C., pur rivestendo la qualità di assessore, neppure era delegato alla protezione civile).
Neppure potrebbe parlarsi, secondo il Tribunale, di "auto assunzione volontaria dell'obbligo di garanzia" che, anche se fosse ritenuta ammissibile, richiederebbe che l'imputato avesse effettivamente svolto compiti di tutela del bene giuridico protetto mentre non risulta che egli si sia concretamente ingerito nelle scelte di gestione dell'emergenza.
Né è configurabile una partecipazione attiva dell'imputato nella causazione degli omicidi colposi con riferimento all'appello televisivo delle ore 22 con il quale si invitavano i cittadini di *** a rimanere nelle loro abitazioni non esistendo la prova: che le 137 vittime non abbiano lasciato le loro abitazioni a seguito dell'appello televisivo; che le sospensioni dell'erogazione dell'energia elettrica abbiano consentito la diffusione dell'appello;
che un eventuale accoglimento dell'appello avrebbe contribuito a ridurre il numero delle vittime.
D'altro canto l'assessore C. rilasciò l'intervista che riprendeva gli appelli già formulati dal sindaco e non ha dunque fatto altro che comunicare quale era la direttiva dell'autorità comunale di protezione civile e della stessa prefettura di Salerno che aveva espressamente invitato a non allarmare la popolazione.


Sezione terza: la sentenza d'appello.


1. Gli appelli proposti contro la sentenza di primo grado e la decisione della Corte d'Appello di Salerno.


Contro la sentenza di primo grado sono stati proposti i seguenti appelli:
- da parte del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Nocera Inferiore nei confronti del solo B.G.;
- da parte del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Salerno (con atto meramente adesivo dell'appello del Procuratore della Repubblica);
- da parte di numerose parti civili nei confronti sia di B.G. che di C.F.;
- da parte di B.G. che ha proposto appello incidentale chiedendo l'assoluzione ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 1.
La Corte d'Appello di Salerno, con sentenza 6 ottobre 2008, ha preliminarmente dichiarato inammissibile, per carenza d'interesse, l'appello incidentale proposto da B.G..
La medesima sentenza ha poi dichiarato infondati gli appelli proposti contro la sentenza di primo grado che ha integralmente confermato.

2. La posizione di garanzia del sindaco.


Dopo aver riportato analiticamente le censure proposte con gli appelli la Corte esordisce con l'affermazione "che la ricostruzione in termini residuali dei compiti attribuiti al Sindaco dalla normativa vigente all'epoca dei fatti rispetto alle competenze ed al ruolo del Prefetto" sia da ritenere condivisibile. Il complesso normativo di riferimento consente infatti di individuare nel prefetto della provincia l'organo cui, in caso di calamità naturali di carattere eccezionale, spettava l'organizzazione ed il coordinamento unitario della protezione civile.
É al prefetto che spetta, nell'ambito provinciale, valutare la ricorrenza dello stato di preallarme ed eventualmente di allarme dopo aver raccolto le informazioni necessarie e aver individuato le zone a rischio, disponendo che tutte le forze necessarie e le strutture operative siano impiegate per la gestione dell'emergenza.
Correttamente dunque, secondo la sentenza d'appello, è stato ritenuto che il prefetto fosse il titolare di una posizione di garanzia nel caso di calamità naturali e catastrofi interessanti aree più vaste di quelle comunali. Ai sindaci è invece riservato il compito di assistenza e soccorso delle popolazioni colpite. Di ciò la sentenza trae conferma dalla circostanza che, nel caso siano colpiti più comuni, l'opera dei sindaci deve essere coordinata anche perché ai medesimi non è riservato il potere di emettere ordinanze extra ordinem né di avvalersi di imperio delle strutture di soccorso nazionali. E ancora al prefetto compete l'obbligo di informazione alle popolazione sul comportamento da tenere in caso di emergenza.
Secondo la Corte territoriale neppure possono incidere sul carattere residuale delle competenze del sindaco le disposizioni di rango secondario e locale invocate dal p.m. appellante (per i principi che governano la gerarchia delle fonti) introducendo obblighi di informazione e di disporre eventualmente l'evacuazione affidati dalla legge al prefetto fermo restando l'obbligo, non disciplinato dalla legge, di insediare il comitato locale di protezione civile al fine prevalente di assumere la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e assistenza alle popolazioni.

3. Le competenze del prefetto nella gestione dell'emergenza.


Secondo la Corte di merito nella fase successiva alle ore 18,10 del *** il fenomeno "aveva assunto dimensioni, per estensione ed intensità, tali da rendere operante la piena e diretta competenza del Prefetto, ma non vi erano le condizioni di urgenza per attivare la residuale competenza del Sindaco, che correttamente si era limitato ad avvisare la Prefettura (che già alle ore 18,30 aveva convocato il centro coordinamento soccorsi) al fine di consentirle di attivare i propri strumenti per far scattare tutti i meccanismi di prevenzione che la legge riconosce di suo esclusivo compito." A seguito dell'evoluzione del fenomeno avvenuta dopo le ore 20 con l'incremento della velocità delle colate il prefetto di Salerno era in possesso di tutte le informazioni "necessarie e sufficienti per far scattare tutti i predetti meccanismi di prevenzione; sicché certamente non era quella la situazione in cui potesse ritenersi operante il dovere di intervento diretto del Sindaco per coprire - evitando lacune del sistema - uno spazio temporale in cui la Prefettura non era in grado di farlo".
Secondo la Corte non è infatti possibile riconoscere al sindaco una competenza in via d'urgenza di allertare ed evacuare la popolazione "quando già la prefettura era stata attivata e messa nelle condizioni di dispiegare i propri mezzi nell'ambito delle precise competenze di prevenzione attribuitegli in via primaria". Una diversa conclusione "significherebbe attribuire al sindaco un ruolo non già residuale in materia, ma del tutto concorrente ed anzi surrogatorio rispetto a quello prefettizio" in contrasto con il ruolo apicale del prefetto negli interventi in caso di catastrofi.
Di qui la conclusione che è privo di autonomo rilievo il comportamento di B. e C. in occasione degli appelli televisivi in quanto "l'invito a rimanere nelle abitazioni appare consequenziale alla mancanza dell'obbligo di allertamento e della correlata competenza a disporre l'evacuazione." Secondo la Corte "non si vede perché, in mancanza di ogni indicazione contraria da parte del Prefetto.........gli odierni imputati avrebbero dovuto trasmettere un messaggio di contenuto diverso".
Quanto all'efficienza causale delle condotte di aver omesso di convocare e insediare il comitato locale per la protezione civile la Corte riferisce di non aver preso in considerazione l'addebito avendo, il p.m. appellante, condiviso l'opinione del primo giudice sul punto.

4. Le comunicazioni del sindaco al prefetto sulla situazione di emergenza verificatasi.


Su questo aspetto della vicenda la sentenza ritiene che queste informazioni siano state regolarmente e tempestivamente trasmesse alla prefettura attraverso i ripetuti contatti telefonici con il vice prefetto vicario di allora, dr. M.P..
In queste comunicazioni il sindaco ha rappresentato fedelmente lo stato di cose constatato alle ore 17,30 in via *** quale da lui percepito. Solo nel corso del sopralluogo - effettuato alle 18,30 - 18,45 in *** - il sindaco ha avuto cognizione dell'esistenza di abitazioni invase o isolate dal fango prendendo in quel momento coscienza dell'inidoneità dei mezzi a disposizione del comune per fronteggiare il fenomeno anche se solo più tardi percepirà l'elemento di maggior gravità costituito dalla velocità delle colate.
Occorre tener conto, del resto, delle difficoltà incontrate nelle comunicazioni con la prefettura e delle difficoltà di far percepire alla medesima la gravità della situazione; tanto da pervenire infine alla necessità di inviare il fax delle ore 20,47.
Con la conclusione che il sindaco abbia ottemperato all'obbligo di fornire una descrizione appropriata di ciò che stava accadendo.

5. Le ipotesi di colpa generica contestate.


La Corte di merito premette che per ritenere l'esistenza della colpa generica occorre accertare se l'evento fosse prevedibile, se cioè il sindaco fosse in grado di rappresentarsi in concreto "il reale effetto distruttivo delle colate rapide che stavano sopraggiungendo o almeno i suoi tratti distintivi fondamentali e di conoscere o quanto meno poter riconoscere l'evacuazione come il mezzo necessario ad evitare l'evento".
La Corte ritiene che la calamità non fosse prevedibile per la particolarità delle colate rapide, per l'impreparazione del mondo scientifico - e quindi della protezione civile - ad affrontare questo fenomeno, per la mancata sollecitazione ad attuare provvedimenti di evacuazione dal parte di organismi e strutture più dotati di competenze tecniche (vigili del fuoco e genio civile), per la mancata sollecitazione dell'evacuazione da parte del comitato prefettizio.
Del resto, prima delle ore 20,30, difettava la consapevolezza della presenza del fondamentale elemento della velocità come indice inequivocabile della potenza distruttiva del fenomeno. Ma anche a quest'ora non era ancora prevedibile il succedersi degli eventi poi verificatisi.
A quell'ora del resto la scelta tra le due opzioni costituite dal far rimanere le persone nelle loro case (e di esporle al rischio di crolli) e dall'evacuarle (esponendole al rischio di essere investite dal fango) era del tutto opinabile e, con valutazione ex ante, entrambe le scelte apparivano plausibili; senza considerare che l'evacuazione di *** avrebbe richiesto tempi lunghi e difficoltà varie per la presenza dei degenti.
La Corte ritiene poi non paragonabili del condizioni dei comuni nei quali l'evacuazione era stata disposta ed eseguita in base a queste argomentazioni: l'estensione territoriale di questi comuni era più ristretta, la popolazione numericamente inferiore, le ore in cui si sono verificati i fenomeni franosi erano antecedenti a quelle di *** con la conseguente possibilità di effettuare l'evacuazione alla luce del giorno.

6. La mancata evacuazione del plesso ospedaliero di ***.


I giudici di appello condividono le valutazioni del primo giudice secondo cui non poteva ritenersi provato che fosse stata chiesta al sindaco e all'assessore C. l'evacuazione di plesso ospedaliero di ***.
La sentenza riferisce che, dopo la sentenza di primo grado, è intervenuta la sentenza, divenuta definitiva, di assoluzione di P.R. e C.V. dal reato di false dichiarazioni al pubblico ministero perché avrebbero negato dolosamente di aver richiesto espressamente all'assessore C. l'evacuazione di ***. E la Corte richiama le deposizioni raccolte nel giudizio di primo grado confermando la valutazione dei primi giudici sull'impossibilità di avere conferma dell'esistenza di questa richiesta.
In conclusione sulla posizione dell'imputato B., secondo la Corte d'Appello di Salerno, neppure è necessario prendere in considerazione la problematica relativa all'esistenza del rapporto di causalità perché le considerazioni svolte "consentono di non ritenere provata la configurabilità in capo al sindaco B. di una posizione di garanzia, per colpa specifica o generica, operante nel caso concreto".

7. I motivi d'appello delle parti civili sull'assoluzione dell'assessore C..


Su questo punto la Corte ritiene che, pur non potendosi ritenere che l'appello sia inammissibile per indeterminatezza, tuttavia "il carattere assolutamente sintetico e non innovativo delle censure............comporta...............la possibilità di fare proprie le considerazioni svolte dal primo giudice".
La Corte condivide queste considerazioni e afferma che la sottoscrizione del fax delle ore 20,47 non possa essere ritenuta assimilabile a una delega di poteri o di funzioni ma debba essere ritenuta una "mera delega di firma".
L'assessore C., secondo i giudici di appello, non avrebbe mai esercitato poteri decisionali ma solo funzioni esecutive; né vi erano i presupposti per la sostituzione nel ruolo del sindaco posto che tale istituto avrebbe potuto operare solo con il vice sindaco e non con l'assessore.

PARTE 2^: I RICORSI CONTRO LA SENTENZA D'APPELLO E LE MEMORIE.


Sezione prima: il ricorso del procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Salerno.


1. Premessa in fatto.


Il ricorrente premette una breve descrizione dell'evento calamitoso che ha colpito il Comune di *** il *** e ricorda che le colate interessarono solo una piccola parte del territorio comunale costituito sostanzialmente dalla frazione *** - dove si è avuta la quasi totalità delle vittime - e lasciarono "intatte le abitazioni che non si trovavano, nella diretta traiettoria dei fiumi di fango, a ridosso degli alvei naturali".
Si sottolinea nel ricorso come i sindaci degli altri tre comuni interessati dal "medesimo ed omogeneo fenomeno" avevano predisposto un tempestivo intervento di allerta ed evacuazione di tutte le persone abitanti nei pressi degli alvei per cui tali residenti si salvarono pur avendo le abitazioni distrutte.
Prosegue il ricorrente ricordando che se l'evacuazione fosse stata effettuata entro le ore 18,15 si sarebbero salvate tutte le vittime;
se fosse stata disposta entro le ore 19,40 se ne sarebbero salvate 134; se fosse stata disposta entro le ore 23,45 se ne sarebbero salvate 88.
L'evacuazione fu invece disposta solo il giorno seguente e il sindaco B., dopo aver inviato il fax delle 20,47, ha continuato a tranquillizzare la popolazione invitandola a rimanere nelle abitazioni dove si trovava.

2. Motivi di ricorso e quadro normativo.


Ciò premesso il ricorrente propone un unico complesso motivo di ricorso con il quale si deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione della L. n. 996 del 1970, del D.P.R. n. 66 del 1992, della L. n. 225 del 1992 nonché della direttiva della presidenza del consiglio n. 91 del 19 luglio 1995 e dell'art. 40 c.p., comma 2, art. 43 c.p., comma 3 e art. 45 cod. pen. e art. 97 Cost., comma 2.
L'atto di ricorso prosegue poi con la ricostruzione del quadro normativo all'epoca dei fatti con particolare riferimento alle competenze del sindaco previste in particolare dal D.P.R. n. 66 del 1981, art. 16. Si precisa in particolare che il sindaco è organo locale di protezione civile e deve provvedere a tutti gli interventi immediati dandone notizia al prefetto e comunque adottando tutti i provvedimenti necessari in caso di urgenza. Il ricorrente lamenta che la Corte di merito abbia completamente svalutato la direttiva della presidenza del consiglio già indicata (cd. direttiva "Barberi").
Esaminando poi la disciplina introdotta dalla L. 24 febbraio 1992, n. 225, e la tipologia degli eventi calamitosi da questa legge introdotta all'art. 2, il ricorrente ritiene che l'evento in esame sia inquadrabile nei tipi a) - eventi che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili dai singoli enti ed amministrazioni competenti in via ordinaria - e b) - eventi che, per la loro natura ed estensione, comportano l'intervento coordinato di più enti ed amministrazioni sempre competenti in via ordinaria -.
Ma se anche l'evento fosse da inquadrare nel tipo c) calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari - ciò non comporterebbe, secondo il ricorrente, "che il Sindaco, in tale tipo di emergenze, non conservi i propri poteri- doveri di autorità locale della Protezione civile".
Nel ricorso si sottolinea ancora che l'evento ha interessato una modesta porzione del territorio comunale e che bastavano i poteri ordinari del sindaco per fronteggiarlo (come è avvenuto negli altri tre comuni interessati dall'evento) come risulterebbe dalla descrizione dei compiti riservati dalla legge al sindaco e al prefetto.


3. In particolare: la cd. "direttiva Barberi".


Esaminando poi il contenuto della direttiva "Barberi" il ricorrente sottolinea la svalutazione di questo atto da parte del giudice di primo grado (che l'aveva qualificata "elaborato scientifico" e non "strumento di regolamentazione giuridica in senso proprio".
Si tratterebbe invece, secondo il ricorrente, di un atto normativo emesso in base a delega espressa della L. n. 225 del 1992 e quindi idoneo a fondare una precisa regolamentazione delle attribuzioni, competenze e responsabilità ai vari livelli territoriali.
Da questa direttiva emerge la centralità del ruolo del comune ed in particolare del sindaco "autorità responsabile, in emergenza, della gestione dei soccorsi sul territorio di propria giurisdizione, in raccordo col Prefetto, e pertanto ha il diritto dovere di coordinare l'impiego di tutte le forze intervenute".
Il ricorrente richiama in particolare il contenuto dell'appendice n. 4 dell'all. E della direttiva in questione che attribuisce espressamente al sindaco il potere di evacuazione di aree abitate.
Con la definitiva conclusione che la direttiva completa e precisa i compiti dei soggetti cui sono attribuiti compiti di protezione civile nelle emergenze ma non si pone in contrasto con le norme di legge come erroneamente affermato dalla sentenza impugnata.

4. In particolare: il piano di protezione civile del comune di ***.


Il ricorrente ricorda che stralci della direttiva Barberi erano stati inviati, nel 1996, dal prefetto di Salerno a tutti i sindaci della provincia invitandoli ad approvare il piano di protezione civile.
Il Comune di ***, peraltro, aveva già approvato l'anno precedente (il 12 luglio 1995) il piano di protezione civile che costituisce un aggiornamento di un precedente piano approvato nel 1988.
Il ricorrente, a fondamento della prevedibilità dell'evento, sottolinea come il piano preveda espressamente, come rischio di "livello massimo", proprio le "valanghe derivanti dal convogliamento a valle di fango e detriti trascinate da acque non irreggimentate.
Frane a ridosso del centro storico per fratturazione di massi calcarei".
Nel ricorso si descrivono poi i compiti (descritti nel piano) di informazione al prefetto e alla popolazione, di approntamento dei primi interventi di soccorso, di predisposizione dei mezzi di allarme e comunicati da diramare ecc. nonché l'obbligo di convocare e insediare il comitato locale di protezione civile.
Nell'ambito di questi compiti, secondo il ricorrente, è ricompreso quello di disporre l'evacuazione delle persone che si trovino nelle zone a rischio; evacuazione che, nel caso in esame, si rivelava necessaria per le persone che abitavano a ridosso degli alvei naturali e che si sarebbero certamente salvate se fosse stata disposta la loro evacuazione perfettamente praticabile.

5. Censure in dettaglio.


Esaminando le considerazioni del primo giudice il ricorrente rileva una contraddizione tra l'aver attribuito al sindaco una "generale posizione di garanzia nei confronti della collettività nel caso di disastri naturali o calamità" ed aver escluso che rientri nei suoi compiti l'ordine di evacuazione sminuendo altresì la valenza normativa della direttiva Barberi e del piano locale di protezione civile; ma la sentenza si smentirebbe successivamente quando afferma che costituisce ipotesi di colpa specifica la mancata immediata convocazione e l'omesso insediamento del comitato locale di protezione civile.
Il ricorrente, dopo aver ricordato che la Corte di merito ha riconosciuto la natura non imprevedibile delle colate, afferma che la sentenza di secondo grado, dopo aver affermato la "natura progressiva con gravità crescente" del fenomeno, ha escluso che al livello c) residuassero compiti di intervento per il sindaco ma non ha tenuto conto che B., neppure quando gli eventi erano ancora a livello a) e b) ha fatto alcunché.
Erroneo sarebbe poi aver ritenuto che, quando l'emergenza riguarda l'intero territorio provinciale, l'opera dei sindaci (che non possono emettere ordinanze extra ordinem) debba essere coordinata dai prefetti. Il fenomeno in esame ha infatti riguardato solo una minima parte del territorio provinciale e il sindaco aveva i mezzi per allertare la popolazione con i mezzi a sua disposizione come hanno fatto i sindaci degli altri comuni interessati al fenomeno.
Le frane infatti avrebbero avuto un andamento prevedibile che ha interessato le zone prospicienti gli alvei naturali. Il sindaco aveva quindi tutti i poteri di intervento prima che l'evento raggiungesse la fascia c) ma nulla ha fatto neppure quando il fenomeno era rimasto nelle fasce a) e b).
Contraddittoria sarebbe poi la sentenza impugnata che, dopo aver riconosciuto (andando di diverso avviso rispetto a quella di primo grado) il carattere cogente della direttiva Barberi e del piano di protezione civile comunale, conferma il carattere residuale delle competenze del sindaco.
Ma il punto di maggior dissenso rispetto alle affermazioni della Corte territoriale è quello in cui la sentenza afferma che alle ore 18,10 il fenomeno aveva assunto dimensioni tali da rendere operante la piena e diretta competenza del prefetto ma illogicamente afferma che non vi erano le ragioni di urgenza per attivare la competenza residuale del sindaco laddove ogni elemento acquisito dimostrava che l'urgenza era assoluta e che la prefettura non avrebbe operato alcun intervento in tempi brevi.
Non di urgenza si trattava, secondo il ricorrente, ma di "assoluta urgenza" e il sindaco, a fronte di questa situazione di gravissima emergenza, si è limitato a "blande telefonate ed un tardivo fax" (il cui contenuto è peraltro smentito dal successivo messaggio televisivo) invece di disporre allertamento ed evacuazione della popolazione a rischio ritenendosi "incredibilmente" cessata l'urgenza perché il sindaco aveva trasmesso il fax.
Il ricorrente sottolinea poi la contraddittorietà della sentenza impugnata laddove per un verso riconosce compiti, sia pur residuali, al sindaco in caso di urgenza e poi esclude che il sindaco possa intervenire "quando la Prefettura era stata attivata e messa in condizione di dispiegare i propri mezzi" perché ciò significherebbe attribuire al sindaco "un ruolo non già residuale in materia ma del tutto concorrente ed anzi surrogatorio".
Nel ricorso si ritiene del tutto incomprensibile non solo la sminuizione dei poteri di intervento del sindaco ma, in particolare, l'affermazione che l'urgenza era cessata al momento in cui il sindaco aveva avvisato la prefettura tanto da ritenere irrilevanti gli appelli televisivi. E si ribadisce la conclusione che quelle del sindaco e del prefetto sono competenze concorrenti e la prima, in caso di urgenza, ha natura "surrogatoria" di quella del prefetto nell'ambito comunale.

6. Le censure riguardanti l'elemento soggettivo del reato. In particolare la prevedibilità dell'evento.


A questo punto del ricorso si deduce il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 43 nella parte in cui la sentenza di secondo grado ritiene "privo di autonomo rilievo" il comportamento tenuto dal B. in occasione degli appelli televisivi rivolti alla popolazione, in quanto l'invito a rimanere nelle abitazioni appare consequenziale alla mancanza dell'obbligo di allertamento e della correlata competenza a disporre l'evacuazione".
Il ricorrente ribadisce l'erroneità di questo passaggio il cui contenuto sarebbe riferibile ad un'ipotesi di causalità omissiva mentre, in questo caso si tratta di una condotta attiva caratterizzata quanto meno dalla colpa generica perché, in quel momento, il sindaco era cosciente della gravità della situazione e ciò facendo ha aggravato la situazione inibendo anche la spontanea evacuazione della popolazione.
"Sconvolgente", secondo il ricorrente, sarebbe poi l'assunto finale contenuto nella sentenza impugnata secondo cui "non si vede perché in mancanza di ogni indicazione contraria da parte del Prefetto, che pure era pacificamente competente in materia, gli odierni imputati avrebbero dovuto trasmettere un messaggio di contenuto diverso".
Nel ricorso si sottolinea poi che la Corte di merito avrebbe travisato il motivo di appello sull'efficienza causale della mancata convocazione del comitato locale per la protezione civile e si precisa che è proprio tale mancata convocazione che ha determinato la colposa tardiva percezione della gravità del pericolo.
Ancora: secondo il ricorrente sarebbe contraddittoria la motivazione della sentenza impugnata laddove per un verso afferma che dopo le ore 18,10 il fenomeno aveva assunto dimensioni che, per estensione ed intensità, rendevano operante la piena e diretta competenza del prefetto mentre, in altra parte della sentenza, si afferma che le comunicazioni del sindaco, fino al fax delle 20,47, non sono censurabili perché imprudentemente rassicuranti. Del resto la sentenza, su questo punto, si contraddice in diverse parti perché da un lato si afferma che alle 18,45 era evidente che l'emergenza non poteva essere affrontata con i mezzi a disposizione del comune mentre in altra parte si afferma che solo alle 20,30 risultava evidente che si trattava di una catastrofe di tipo c).
Si evidenzia ancora, nei motivi di ricorso, come il sindaco non abbia provveduto neppure a coordinare l'utilizzo dei mezzi e delle persone (varie decine) a sua disposizione tanto che il sindaco osservò personalmente i Carabinieri che operavano autonomamente (arbitrariamente si chiede il ricorrente!) un'opera di evacuazione.
Del resto o prima delle 20,47 ci si trovava in presenza di una catastrofe - e allora le notizia fornite da B. alla prefettura erano state colposamente tranquillizzanti - ovvero la situazione era già tragica e il sindaco avrebbe dovuto fornire notizie appropriate.
Quanto alla prevedibilità dell'evento si afferma nel ricorso che il contenuto del fax delle ore 20,47 dimostra che il sindaco, a quell'ora, aveva perfettamente percepito la gravità della situazione e la possibilità di ulteriore aggravamento della medesima e, ciò non ostante, ha invitato le persone residenti nelle zone a rischio a rimanere nelle loro abitazioni.
Insomma i giudici d'appello hanno ritenuto che fosse imprevedibile un'evoluzione del fenomeno che il sindaco stesso aveva previsto. Nel fax si prevede infatti l'evento più grave poi verificatosi perché si avverte il prefetto che la colata si sta spostando verso le zone più intensamente abitate.

7. La mancata evacuazione di ***.


Quanto alla mancata evacuazione del plesso ospedaliero denominato *** il ricorrente lamenta che la Corte territoriale si sia limitata a ritenere incerta la situazione probatoria in merito al problema se la richiesta di evacuazione dei plessi ospedalieri formulata da C. e p. riguardasse anche questa struttura senza esercitare i poteri istruttori di cui disponeva per chiarire questo aspetto.
E il ricorrente sottolinea che a qualunque plesso questa richiesta si riferisse "doveva allertare il Sindaco ed indurlo, finalmente, ad assolvere ai compiti impostigli dalla normativa vigente".
L'episodio costituito dal rifiuto dell'evacuazione dei plessi ospedalieri (per qualunque di essi fosse stata richiesta) dimostra comunque che il sindaco rivestiva la posizione di garanzia;
diversamente egli avrebbe dovuto trasmettere la richiesta al prefetto per chiedere l'adozione dei provvedimenti necessari.

8. Conclusioni.


Ritiene conclusivamente il ricorrente che il sindaco sia venuto meno ai seguenti obblighi su di lui incombenti:
di riunire immediatamente il comitato locale di protezione civile;
- di creare immediati contatti del comitato con le sale operative delle forze presenti (polizia, carabinieri, guardia di finanza, forestale, volontari della protezione civile, impiegati del comune ecc.);
- di coordinare gli interventi delle varie forze avvertendo tempestivamente la prefettura dell'emergenza in atto;
- di disporre l'evacuazione degli edifici siti a ridosso degli alvei naturali dandone notizia al prefetto;
- di allertare le popolazioni delle zone a rischio avvertendole del rischio di rimanere nelle proprie abitazioni.
Se fossero stati adottati questi provvedimenti, secondo il ricorrente, sarebbe stato possibile salvare le vite della quasi totalità delle persone decedute come è avvenuto negli altri comuni a nulla rilevando che si trattasse di comuni più piccoli posto che l'emergenza ha interessato una parte del Comune di *** più piccola del territorio degli altri comuni e avendo a disposizione mezzi umani notevolmente superiori a quelli degli altri comuni (nei quali non erano presenti guardia di finanza, polizia e forestale).
Si chiede conseguentemente l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

Sezione seconda: i ricorsi delle parti civili.

1. Il ricorso della parte civile C.C..


Nelle premesse di questo ricorso si precisa che il ricorso viene proposto esclusivamente nei confronti del solo B.G. all'epoca sindaco del Comune di ***.
Con il primo motivo si deduce la violazione della L. n. 225 del 1992 nonché degli artt. 113, 40 e 589 cod. pen.. Dopo aver premesso le descrizioni che la legge fornisce delle attività di previsione e prevenzione il ricorso prosegue ricordando che la L. n. 225 del 1992, art. 15, comma 3 attribuisce al sindaco la qualità di "autorità comunale di protezione civile".
Con la conseguenza che al sindaco competono tutte le attività di protezione civile comprese quelle di previsione e prevenzione come è confermato dalla circostanza che la stessa norma precisa che, al verificarsi dell'emergenza nel territorio comunale, il sindaco assume la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite e, se l'evento non può essere fronteggiato con i mezzi a disposizione del comune, il sindaco medesimo chiede al prefetto l'intervento di altre forze e strutture.
Da questa disciplina può ricavarsi la conseguenza che se il sindaco chiede l'intervento di altre forze e strutture vuoi dire che sta già operando con quelle a sua disposizione; se il prefetto adotta i provvedimenti di sua competenza vuoi dire che si tratta di competenza concorrente e non escludente; gli interventi del prefetto integrano quelli del sindaco (si ricava dall'uso del verbo "coordinare").
Ne consegue, secondo la parte civile ricorrente, che mentre l'intervento del sindaco è sempre obbligato quello del prefetto è eventuale e ricollegato al verificarsi degli eventi previsti dall'art. 2, lett. b) e c) allorché gli interventi del prefetto devono coordinarsi con quelli del sindaco.
In alcuna norma è prevista dunque una competenza "residuale" del sindaco mentre l'assetto normativo dimostra che si tratta di competenze concorrenti e sotto questo profilo è erronea la tesi esposta nella sentenza impugnata.
Una conferma della tesi secondo cui il sindaco è il primo destinatario degli obblighi di previsione e prevenzione è la previsione che quando non è possibile fronteggiare l'emergenza con i mezzi a disposizione del comune il sindaco chiede l'intervento di altre forze e strutture al prefetto che interviene solo a seguito della sua richiesta.
La Corte di merito ha dunque erroneamente interpretato la legge non avendo considerato che il sindaco è il primo destinatario degli obblighi previsti dalla L. n. 225 del 1992. Non si tratta dunque di una competenza residuale e neppure può affermarsi che le norme di livello regolamentare - che hanno attribuito determinati poteri e obblighi al sindaco - deroghino alle norme di legge delle quali costituiscono anzi esplicazione in perfetta sintonia con le norme di rango superiore.
Proseguendo nella sua disamina il ricorso evidenzia l'erroneità dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, che il sindaco non ha avuto percezione della realtà dei fatti; il quesito al quale la sentenza avrebbe dovuto rispondere è se il sindaco "abbia attivato tutti i suoi poteri per cercare di capire la effettiva dimensione del fenomeno in corso" dando attuazione alle norme regolamentari (insediamento del comitato locale, delega per l'ispezione delle zone a rischio, accertamento se vi erano già persone colpite dai fenomeni alluvionali, monitoraggio del territorio). Il sindaco avrebbe dovuto utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per avere un quadro il più preciso possibile della situazione e non affidarsi alla propria percezione personale.
Ne consegue, secondo la parte civile ricorrente, che la sentenza impugnata non solo ha erroneamente valutato il quadro normativo ma ha anche omesso di prendere in considerazione la mancata attuazione delle disposizioni regolamentari da parte dell'imputato erroneamente giustificando la sua inerzia colposa per la mancata percezione di un fenomeno la cui gravità era presente fin dalle prime ore del pomeriggio.
Con il secondo motivo di ricorso la parte civile C. deduce la violazione degli artt. 40 e 589 cod. pen., nonché la manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione, in relazione alla omessa evacuazione delle persone residenti nelle zone a rischio.
La sentenza impugnata ha affermato che, con valutazione ex ante, la scelta di evacuare gli edifici siti nelle zone a rischio era "assolutamente opinabile"; ma la sentenza, secondo la ricorrente, da atto che il sindaco non aveva percepito la gravità del fenomeno per cui non poteva aver effettuato alcuna valutazione preventiva.
Si censura poi la sentenza impugnata per aver effettuato il giudizio controfattuale inserendo un elemento diverso da quello verificatosi.
La sentenza infatti afferma che se le persone (di cui fosse stata ipoteticamente disposta l'evacuazione) si fossero trovate in strada alle ore 22 sarebbero state travolte dalla colata; ma la colata devastante è sopraggiunta alle ore 23,50 ed è quindi con riferimento a quest'ora che compiuto il giudizio controfattuale.
Se fosse stato correttamente effettuato il giudizio controfattuale (si sarebbero salvate le persone se fosse stata disposta tempestivamente l'evacuazione?) la risposta non poteva che essere positiva; la risposta affermativa è infatti confermata da quanto avvenuto negli altri comuni colpiti dalle colate che, si ribadisce nel ricorso, sono stati interessati da un fenomeno analogo in presenza di caratteristiche ambientali non diverse.

2. I ricorsi delle parti civili 1) C.T., S.A., D'A.L., C.S., C.G. e M.R.; 2) I.C.; 3) DE F.R. e E.F..


Anche queste parti civili hanno proposto tre distinti ricorsi contro il solo B.G..
Le argomentazioni contenute in questi ricorsi sono sostanzialmente analoghe, con qualche modifica formale, a quelle contenute nel ricorso della parte civile C.C..

3. Il ricorso delle parti civili A.I., A.I., A.M., A.S., C.M., C.D., C.R., C.S., C.F., C.G., D.G., D.M., M.C., P.G., P.N., S.A., S.S. e S.V..


Con il ricorso proposto dalle parti civili indicate si deducono anzitutto, con i primi due motivi trattati unitariamente, il vizio di inosservanza ed erronea applicazione dei provvedimenti normativi che disciplinano la protezione civile nonché della "direttiva Barberi" e del piano di protezione civile comunale in riferimento all'art. 40 c.p., comma 2, artt. 43 e 45 cod. pen. e all'art. 97 Cost., comma 2, nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui tratta degli obblighi e poteri del sindaco nella gestione dell'emergenza.
Premesso che il sindaco è autorità locale di protezione civile - e che dunque sul medesimo grava una posizione di garanzia nel caso di disastri o calamità naturali - risulta evidente, secondo le parti civili ricorrenti, che B. non abbia adempiuto a tutti gli obblighi che su di lui incombevano quale garante posto che, anche nella fase in cui l'evento è divenuto di tipo c), il sindaco non ha adempiuto agli obblighi che su lui gravavano per la situazione di assoluta urgenza che si era creata.
Con il terzo motivo di ricorso le parti civili indicate deducono invece l'inosservanza e l'erronea applicazione dell'art. 43 c.p., comma 1 con riferimento alla prevedibilità dell'evento in relazione alle condotte caratterizzate da colpa generica.
Secondo i ricorrenti erroneamente i giudici di merito avrebbero valutato la prevedibilità con riferimento alle ulteriori frane (che, al più, possono essere considerate concause) e non all'evento morte delle persone; evento ampiamente prevedibile posto che tutte le vittime (tranne una) - di cui le parti civili ricorrenti sono prossimi congiunti - sono decedute dopo le ore 20,47.
Con il quarto motivo si deduce infine la violazione dell'art. 592 cod. proc. pen. perché erroneamente la Corte d'Appello di Salerno avrebbe condannato le parti civili ricorrenti al pagamento delle spese in favore di C.F. nei cui confronti non erano stati proposti specifici motivi di appello.

Sezione terza: le memorie delle parti.


1. La memoria del responsabile civile Comune di ***.


Il Comune di ***, responsabile civile, ha depositato memoria con la quale ha chiesto che venga dichiarata l'inammissibilità del ricorso del Procuratore generale o, in subordine, che il medesimo venga rigettato.
Dopo un'ampia premessa dedicata all'illustrazione delle competenze in materia di protezione civile dei soggetti ai quali, a livello centrale e locale, sono attribuite funzioni in questa materia nella memoria ci si sofferma in particolare sulle attribuzioni del prefetto cui competono i compiti più rilevanti in tema di direzione e coordinamento dei soggetti che devono intervenire nell'emergenza.
Nella memoria vengono successivamente illustrate le competenze delle regioni e delle province e si passa poi ad esaminare la posizione del sindaco quale autorità comunale di protezione civile affermandosi che, alla luce dei principi enunciati dalla L. n. 225 del 1992, alla data del *** l'attività di prevenzione non era specificamente attribuita al sindaco perché il medesimo difetta di competenza in materia di previsione che è invece attribuita al prefetto.
Gli interventi che il sindaco può essere chiamato a realizzare sono solo quelli adottabili sulla base degli strumenti e delle risorse di cui è ordinariamente dotata l'amministrazione comunale. È dunque lecito dubitare che, quando l'evento sia riconducibile a quelli previsti dalla L. n. 225 del 1992, art. 2, lett. b) e c), tra di essi possa farsi rientrare anche un'organica evacuazione. Quando il sindaco non può affrontare con le risorse a sua disposizione il disastro naturale ha il solo obbligo di coinvolgere direttamente il prefetto.
Inoltre solo con l'entrata in vigore della L. 3 agosto 1999, n. 665, art. 12 sono state trasferite al sindaco le competenze del prefetto in materia di informazioni alla popolazione sulle situazioni di pericolo per calamità naturali. Compito che il precedente art. 36 del regolamento del 1981 attribuiva al prefetto; del resto questa disciplina si colloca in un sistema di allertamento nel quale un ruolo centrale era attribuito al prefetto al quale dovevano essere comunicate tutte le informazioni relative alle calamità verificatesi e al quale sono attribuiti tutti i compiti di informazione da rivolgere agli organi centrali.
Alla data in cui si è verificato l'evento di *** alcun compito di programmazione e pianificazione era attribuito al sindaco. Quanto all'obbligo di segnalazione previsto dall'art. 36 del regolamento i compiti del sindaco sono residuali "in caso di urgenza".
Il sindaco ha l'unico compito di dirigere e coordinare i servizi di soccorso e assistenza alla popolazione nel caso di calamità che possano essere fronteggiate con i mezzi ordinari a disposizione del comune. Non è dunque in discussione che il sindaco abbia l'obbligo di segnalare immediatamente l'evento calamitoso al prefetto e di fornire le informazioni necessarie per la gestione dell'emergenza;
prefetto che, a sua volta, deve fornire ai sindaci tutte le notizie e indicazioni utili per affrontare il disastro naturale.
Infine nella memoria si sottolinea che l'invito a lasciare le proprie abitazioni avrebbe avuto un senso se i comportamenti da adottare fossero stati già conosciuti dai cittadini. Ne consegue che non è censurabile che il sindaco abbia fornito notizie rassicuranti nei messaggi televisivi anche perché in quel momento, dopo il fax delle ore 20,47, la competenza si era già spostata nelle mani, quasi esclusive, della prefettura di Salerno cui incombeva l'obbligo di segnalazione previsto dal ricordato art. 36 del regolamento.
Del resto la scelta di disporre l'evacuazione avrebbe potuto provocare un numero di vittime più elevato e comunque si trattava di una iniziativa inattuabile in concreto per le ragioni indicate nelle sentenze di merito.
In conclusione, secondo l'esponente, la sentenza impugnata ha correttamente individuato nel prefetto il titolare di una posizione di garanzia nel caso di calamità e catastrofi interessanti aree più vaste di quelle comunali nelle quali il sindaco non è il primo destinatario di obblighi di prevenzione e soccorso. Il comune di *** deve dunque essere ritenuto estraneo alla responsabilità civile per i danni cagionati alle parti civili.

2. La memoria dell'imputato B.G..


Il difensore dell'imputato B.G. ha depositato memoria con la quale contesta il fondamento del ricorso proposto dal Procuratore generale.
Nella memoria si sottolinea l'estrema semplificazione dei fatti contenuta nel ricorso e si precisa che nel giudizio era emerso che il fenomeno verificatosi a *** era "assolutamente nuovo e del tutto sconosciuto non solo nel Comune di ***, ma addirittura in Italia! "Il fenomeno delle colate rapide" era infatti noto solo in Giappone e negli Stati Uniti ma assolutamente sconosciuto nel nostro paese.
Ebbene: fino a che il fenomeno non ha assunto le caratteristiche devastanti derivate dall'aumento della velocità della colata il sindaco B. ha adempiuto a tutti i suoi obblighi anche facendo sgomberare le abitazioni site in luoghi prossimi alle singole piccole frane.
In questa situazione non poteva valere la regola prudenziale per cui - in caso di frane, alluvioni e fenomeni analoghi - va disposta l'evacuazione delle zone interessate anche perché, se il sindaco si fosse attenuto a questa regola, gran parte degli abitanti avrebbe trovato la morte perché investita dalla colata.
Con più specifico riferimento ai motivi di ricorso si evidenzia poi nella memoria come in realtà il ricorrente non sia riuscito ad individuare alcuna norma di legge che sarebbe stata violata dall'imputato.
Quanto al dedotto vizio di motivazione si evidenzia invece nella memoria che per un verso il ricorrente assume la corrispondenza al vero della ricostruzione da parte dei giudici di merito - secondo i quali il fenomeno ha avuto natura progressiva con gravità crescente - mentre, per altro verso, si rifiuta di accettare la conclusione della Corte di merito secondo cui, se fosse stata disposta l'evacuazione, le persone sarebbero state investite dalla colata mentre si trovavano per strada.
Ne conseguirebbe, per l'esponente, l'inammissibilità del ricorso perché i motivi proposti riguardano esclusivamente la ricostruzione del fatto e perché i vizi dedotti non risultano dalla motivazione.
Quanto alle censure proposte con riferimento alla cd. direttiva Barberi si sottolinea nella memoria come non corrisponda al vero che, nella sentenza impugnata, si sia sostenuto che la direttiva fosse contra legem essendosi limitata ad affermare che non poteva derogare alle norme di legge. Del resto la Corte d'Appello di Salerno si sarebbe limitata ad applicare i principi stabiliti dalla Corte di cassazione nella sentenza 33577/2001 che ha stabilito esattamente i criteri di ripartizione delle competenze tra prefetto e sindaco ai quali, ovviamente, la direttiva Barberi non poteva derogare.
In ogni caso, si evidenzia che nella L. n. 225 del 1992 non è prevista alcuna delega per l'emanazione della direttiva.
Sul problema dei poteri residuali del sindaco in tema di protezione civile nella memoria si ribadisce che, finché il fenomeno è rimasto nei limiti di sua competenza, il sindaco ha adempiuto compiutamente agli obblighi imposti dalla legge mentre successivamente, alle ore 18,10, la competenza era ormai divenuta dal prefetto cui incombeva adottare gli eventuali provvedimenti di allertamento ed evacuazione.
In merito alle condotte attive contestate si ribadisce che, una volta escluso che incombesse sul sindaco l'obbligo di disporre l'evacuazione, le altre condotte non potevano avere un'autonoma valenza giuridica.
Infine, sul tema della prevedibilità dell'evento, si precisa che l'evento concretamente verificatosi non era prevedibile e che la valutazione del ricorrente è compiuta ex post e non ex ante come deve essere la valutazione sull'elemento soggettivo del reato;
valutazione che neppure può essere fondata esclusivamente sull'esistenza della posizione di garanzia essendo pur sempre necessario l'accertamento della colpa nella specie inesistente.
Dunque, se anche si ritenesse B. titolare di una tal posizione, non per questo potrebbe essergli soggettivamente attribuito l'evento verificatosi in concreto.
In conclusione si ribadisce nella memoria che il ricorso è diretto ad ottenere dal giudice di legittimità una diversa ricostruzione dei fatti e se ne chiede il rigetto.

PARTE 3^ - LE CAUSE DELL'EVENTO. CAUSALITÁ OMISSIVA E POSIZIONE DI GARANZIA.


Sezione prima: causalità omissiva e posizione di garanzia. In generale.


1. Premessa.


Nel presente processo non è (e non è mai stata) in discussione la causa materiale degli eventi verificatisi sicuramente riconducibili alle colate di fango scese dal monte *** in quel tragico ***. Colate di fango che, secondo quanto riferito dal primo giudice (v. p. 95 e ss. della sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore), possono verificarsi in presenza di tre condizioni: elevate precipitazioni, forti pendenze dei versanti montuosi e composizione geologica dei terreni costituiti da materiali di natura vulcanica quali ceneri e pomici.
Le colate di fango a loro volta provocarono il crollo di alcuni edifici, da cui derivò la morte degli occupanti, e altresì la morte di alcune persone investite dalle colate mentre si trovavano in luoghi invasi dal fango.
Neppure è in discussione se una condotta diversa da parte dell'imputato B. (si vedrà che per l'imputato C. i temi ancora proposti non riguardano la sua responsabilità) avrebbe evitato il verificarsi degli eventi. È certo che l'evacuazione tempestiva delle zone a rischio avrebbe evitato la più parte delle morti ma è in discussione se incombessero sul sindaco questi obblighi, se la loro adozione si rendesse necessaria e in quale momento, se la condotta del sindaco sia stata caratterizzata dalla violazione di regole cautelari, se l'osservanza delle regole cautelari (comportamento alternativo lecito) avrebbe consentito di salvare la vita delle persone decedute - o almeno di una parte di esse - e, infine, se una diversa condotta fosse da lui esigibile.
Si tratta di temi che riguardano sia la causalità che l'elemento soggettivo e che dovranno dunque essere distintamente esaminati con un'analisi complessiva dei motivi contenuti in tutti i ricorsi che, in relazione ad ogni specifico problema, risultano essere stati proposti.
In particolare il tema dell'efficacia impeditiva del cd. comportamento alternativo lecito potrà essere esaminato solo dopo che sarà stato verificato se effettivamente incombessero sul sindaco B. quegli obblighi impeditivi negati dai giudici di merito - e che invece tutti i ricorrenti ritengono esistenti - e se, nella gestione dell'emergenza, l'imputato si sia reso responsabile della violazione di regole cautelari la cui osservanza avrebbe invece evitato almeno alcune delle conseguenze del fenomeno disastroso verificatosi.
Iniziando questo esame dal tema della causalità va preliminarmente osservato che la più parte degli addebiti rivolti all'imputato B.G., all'epoca dei fatti sindaco del Comune di ***, ha natura omissiva e ciò rende necessario verificare se incombessero sul sindaco, in base alla normativa all'epoca vigente, obblighi di prevenzione in materia di protezione civile e, in caso di risposta positiva, quale fosse l'ambito di estensione di tale posizione.
Questo esame richiede però che preliminarmente vengano trattati alcuni temi riguardanti la causalità omissiva la cui soluzione è necessaria per affrontare le questioni che si sono poste nel presente processo. L'interpretazione delle norme in tema di protezione civile richiede infatti che si inquadrino gli istituti che vengono in considerazione nelle categorie giuridiche di riferimento al fine di verificare la correttezza delle soluzioni adottate dal giudice di appello e l'eventuale fondatezza dei motivi di ricorso.

2. Natura della causalità omissiva.


Com' è noto i reati omissivi possono essere "propri" - nei quali il reato si consuma con la mera omissione della condotta dovuta (reati di mera condotta) - e "impropri" nei quali all'omissione consegue un evento di danno di tipo naturalistico. Nei reati omissivi impropri (come quelli di omicidio colposo dei quali ci stiamo occupando) il problema della causalità si pone in termini particolari perché, in questo caso, il decorso degli avvenimenti non è, nella realtà fenomenica, influenzato dall'azione (che non esiste) di un soggetto; e, dalla circostanza che l'agente non ha posto in essere alcuna azione, non può che conseguire che la causalità omissiva non possa che avere origine normativa nel senso che deve esistere un obbligo di agire aliunde previsto che consente di ricollegare un evento dannoso ad una condotta passiva del soggetto.
Proprio per queste caratteristiche parte della dottrina qualifica come "equivalente tipico della causalità" o di "equivalente normativo del rapporto causale" il sistema della causalità omissiva che si configura come una costruzione giuridica (art. 40 c.p., comma 2 che non a caso usa la locuzione "equivale", secondo l'equazione: non impedire equivale a cagionare) che consente di ricostruire l'imputazione oggettiva come violazione di un obbligo di agire, di impedire il verificarsi dell'evento (in violazione del cd. obbligo di garanzia).
È dunque indiscusso che la causalità omissiva abbia natura normativa, e non naturalistica (il nulla non produce nulla). A conferma della natura esclusivamente normativa di questi reati va rilevato che il meccanismo che consente di sanzionare penalmente le condotte omissive normalmente previste nella forma commissiva (per es. art. 575 cod. pen.: chiunque cagiona la morte di un uomo) è quello previsto dall'art. 40 c.p., comma 2 che, in presenza dei presupposti che vedremo, consente di sanzionare anche l'omissione che cagioni quegli eventi.
Tra i reati ai quali è applicabile il capoverso dell'art. 40 assumono un particolare rilievo le fattispecie di reato cd. causalmente orientate nelle quali la norma indica l'evento ma non il meccanismo di produzione del medesimo (esempi tipici sono i reati di lesioni e omicidio sia nella forma dolosa che colposa).
La maggior complessità dei problemi in tema di causalità nei reati omissivi impropri non è ricollegata tanto alla necessità, in questo tipo di reati, di individuare (secondo i criteri ai quali si accennerà più avanti) se l'evento sia conseguenza dell'omissione accertata (problema comune ai reati commissivi), né dalla ricostruzione in via meramente ipotetica dell'efficacia del trattamento omesso (anche questo è problema comune alla causalità attiva perché, anche in questi casi, il giudice deve ricostruire, in via di ipotesi, l'effetto dell'eliminazione della condotta commissiva) ma dalla necessità ulteriore di individuare la condotta positiva che, se posta in essere, avrebbe evitato il prodursi dell'evento (si è detto che, nella causalità omissiva, il procedimento logico è doppiamente ipotetico).
È infatti ovvio che se il giudizio controfattuale ha come esito l'affermazione che l'evento era destinato a prodursi ugualmente (in base al procedimento che viene qualificato di eliminazione mentale che più propriamente, nella causalità omissiva, dovrebbe essere chiamato di "aggiunta" mentale), anche nel caso in cui l'agente avesse attivato tutti gli interventi richiestigli, le conseguenze dell'omissione non potrebbero essere a lui addebitate.
La causalità omissiva, proprio per essere giustificata in base ad una ricostruzione logica e non in base ad una concatenazione di fatti materiali esistenti nella realtà ed empiricamente verificabili, costituisce una causalità costruita su ipotesi e non su certezze. Si tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un giudizio controfattuale ("contro i fatti": se l'intervento omesso fosse stato adottato si sarebbe evitato il prodursi dell'evento?) al quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a differenza della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece, nella causalità commissiva è in talune ipotesi (non sempre però: si pensi alla responsabilità medica) verificabile. In questo caso, si è detto, il rapporto si istituisce tra un'entità reale (l'evento verificatosi) e un'entità immaginata (la condotta omessa) mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali.
E la giurisprudenza ha ancora precisato che - proprio perché nei reati omissivi si è in presenza di un "nulla" - "la condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l'evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto" (v. Cass., sez. 4^, 2 aprile 2007 n. 21597, Pecchioli, non massimata).


3. Causalità omissiva e causalità commissiva.


In astratto la distinzione tra causalità commissiva e causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un divieto;
nella seconda è un comando ad essere violato.
Spesso (in particolare nella responsabilità professionale medica ma anche in altri settori della responsabilità) viene ritenuta omissiva una condotta che non lo è anche se le conseguenze pratiche non sono di grande rilevanza. Questa confusione è anche ricollegata alla circostanza che coloro che pongono in essere la condotta sono in genere gravati di una posizione di garanzia; ed inoltre sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui riferire l'evento dannoso è esclusivamente attiva (il chirurgo ha inavvertitamente tagliato un vaso durante l'intervento) o passiva (il medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente).
Nella stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile l'accertamento della natura della causalità. È peraltro opportuno accogliere l'invito di quegli autori che invitano a non confondere tra il reato omissivo e le componenti omissive della colpa: i casi del medico che adotta una terapia errata (e quindi omette di somministrare quella corretta) o che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di continuare a curarlo in ambito ospedaliero) non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva.
Si è detto, da parte di un Autore, che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia "non hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto di cagionare (o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza". Il medesimo Autore (criticando l'orientamento giurisprudenziale che riteneva omissiva la condotta del datore di lavoro che non aveva impedito che i lavoratori dipendenti fossero sottoposti ad inalazione di fibre di amianto) precisa infatti efficacemente che "l'omissione di cui all'art. 40 cpv. c.p., infatti, non è un'omissione di cautele, ma - più radicalmente e specificamente - un omesso impedimento......".
Sembra peraltro ragionevole l'invito a non sopravvalutare la distinzione "dal momento che è ormai pacificamente riconosciuto che i due tipi di comportamento sono in realtà strettamente connessi e per così dire l'uno speculare all'altro, dato che nel violare le regole di comune prudenza il soggetto non è evidentemente inerte ma tiene un comportamento diverso da quello dovuto...............e la distinzione attiene soltanto alla necessità, in caso di comportamento omissivo, di fare ricorso per verificare la sussistenza del nesso di causalità, ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico...............è dunque evidente che il comportamento omissivo non può essere inteso in senso assoluto, nel senso cioè di ritenersi sussistente solo nel caso di assoluta mancanza di azione da parte del soggetto, ma è comprensivo anche dei casi in cui il soggetto pone in essere un comportamento diverso da quello dovuto".
É invece opportuno sottolineare che i criteri indicati per distinguere tra causalità commissiva e omissiva hanno subito nel tempo un perfezionamento e si è più di recente affermato nell'ambito della responsabilità medica - fermo restando che è da ritenere causalità omissiva quella del medico che omette di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo e commissiva quella del medico che erra nella terapia provocando un evento dannoso - che ha natura commissiva la condotta del medico che ha introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi; è invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente (evidente è il riferimento di questa impostazione alla teoria del rischio cui si fa riferimento nella teoria dell'imputazione obiettiva dell'evento).
Non si tratta di un riferimento alla non condivisibile (e ormai ampiamente superata) teoria dell'aumento del rischio ma di una ricostruzione che tiene conto della introduzione di un fattore causale che ha certamente cagionato, o contribuito a cagionare, l'evento. Questo orientamento è seguito da alcune decisioni della Corte di cassazione (v. la già citata Cass., sez. 4^, 2 aprile 2007 n. 21597, Pecchioli).
Si è ancora condivisibilmente precisato che l'elemento di rischio commissivo introdotto dall'agente nella serie causale deve aver avuto effettiva efficacia causale nel decorso eziologico non essendo sufficiente - per trasformare la causalità omissiva in commissiva - l'introduzione di un fattore eziologicamente irrilevante (si fa l'esempio del medico che non ricoveri il paziente, disconoscendo la grave patologia da cui è affetto, e gli somministri un blando analgesico: ciò non trasforma la causalità omissiva in causalità commissiva).
Questi criteri sono agevolmente trasponibili al caso in esame: al sindaco di *** è infatti addebitato (ad eccezione dei fatti commissivi di seguito indicati) di non aver contrastato adeguatamente fattori di rischio già presenti nella situazione calamitosa esistente o di non averla contrastata con i provvedimenti adeguati richiesti (allertamento della popolazione, evacuazione dei siti a rischio, tempestività nella segnalazione alla prefettura delle caratteristiche della calamità) mentre non sembra possa discutersi della natura attiva della condotta relativa alla trasmissione di notizie imprudentemente rassicuranti e in relazione alla quale l'addebito concerno l'introduzione di un fattore di rischio che, in tesi di accusa, ha avuto efficienza causale sul verificarsi degli eventi.

4. La posizione di garanzia. La teoria formale e quella sostanziale.


Nel linguaggio giuridico si è affermata una nozione della posizione di garanzia più ampia di quella tradizionale nel senso che, sia nei provvedimenti giurisdizionali che nei commenti di dottrina, vengono spesso individuate le posizioni di garanzia senza che ve ne sia la necessità perché, trattandosi di fatti commissivi, è superfluo individuare chi fossero i garanti essendo sufficiente individuare chi, con la sua azione, ha cagionato o contribuito a cagionare l'evento indipendentemente dalla circostanza che egli fosse gravato di obblighi di protezione o controllo (se una persona con funzioni sovraordinate chiede al dipendente di compiere un'operazione pericolosa che si risolve in un evento dannoso ne risponde anche se non era gravato di una posizione di garanzia).
L'obbligo di garanzia in senso proprio si fonda invece sul disposto del capoverso dell'art. 40 cod. pen., secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo; deve dunque esistere un obbligo giuridico di impedire l'evento. Solo nella causalità omissiva è dunque rilevante accertare l'esistenza della posizione di garanzia; ciò che significa individuare chi aveva l'obbligo di agire per impedire il verificarsi dell'evento e non l'ha fatto.
L'obbligo di garanzia in senso proprio è stato definito come "l'obbligo giuridico, che grava su specifiche categorie predeterminate di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri giuridici, di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l'incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli".
Il fondamento di questa disposizione è da ricercare nei principi solidaristici che impongono (anche in base alle norme contenute negli artt. 2 e 32 Cost. e art. 41 Cost., comma 2) una tutela rafforzata e privilegiata di determinati beni - non essendo i titolari di essi in grado di proteggerli adeguatamente - con l'attribuzione, a determinati soggetti, della qualità di "garanti" della salvaguardia dell'integrità di questi beni ritenuti di primaria importanza per la persona.
Sull'origine e sull'ambito di applicazione della posizione di garanzia v'è contrasto tra le teorie che ritengono che gli obblighi del terzo possano derivare soltanto da una fonte formale (e infatti si parla di teoria "formale" della posizione di garanzia) e le teorie che fanno riferimento piuttosto a criteri sostanzialistici (ma esistono anche teorie cd. "miste").
La prima teoria, che sembra accolta dal cpv. dell'art. 40 (che parla infatti di obbligo "giuridico"), individua, quali fonti dell'obbligo in questione, la legge (ma è dubbio se fonte dell'obbligo di garanzia possa essere la norma incriminatrice penale) e il contratto che può essere sia tipico che atipico (e su queste fonti sostanzialmente non esistono divergenze significative salvo una diversità di valutazione sui casi di contratti nulli o annullabili e nel caso del contratto cui non partecipi il titolare del bene protetto) nonché la precedente condotta illecita o pericolosa, la negotiorum gestio e la consuetudine (e su queste fonti invece le opinioni sono divergenti anche perché, più in generale, la soluzione del problema della fonte è strettamente connessa al rispetto del principio di determinatezza della fattispecie).
Naturalmente, anche se venga accolta la teoria sostanzialistica, il rispetto dei principi di tassatività e determinatezza richiede che la cerchia dei titolari dell'obbligo di garanzia sia individuata soggettivamente e che gli obblighi siano oggettivamente determinati con esclusione quindi di doveri esclusivamente morali. E naturalmente i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito il garante purché gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare (anche giudizialmente) gli interventi necessari per evitare che l'evento dannoso venga cagionato (per es. i poteri dei sindaci delle società su cui peraltro esiste dissenso in dottrina).
La dottrina presenta anche posizioni più articolate che superano le visioni formali e sostanziali in precedenza richiamate. Si è infatti affermato che l'obbligo di garanzia va ricostruito in base ai principi fondamentali del diritto penale ed in particolare ai principi: 1) di legalità-riserva di legge con la conseguenza che andrebbero esclusi gli obblighi morali o derivanti da situazioni fattuali di garanzia (per es. la convivenza more uxorio); 2) di legalità-tassatività che richiede la specificità dell'obbligo non essendo sufficiente il richiamo ai principi costituzionali di solidarietà ecc; 3) di solidarietà che richiede la specificità dei soggetti beneficiari dell'altrui obbligo di garanzia; 4) di libertà che richiede la specificità dei soggetti sui quali incombe l'obbligo di garanzia (di qui la conseguenza che il reato omissivo per mancato impedimento è un reato proprio); 5) di personalità della responsabilità penale che richiede sia l'esistenza di poteri impeditivi che la preesistenza del potere-dovere impeditivi rispetto alla creazione della situazione di pericolo.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte riaffermato che la posizione di garanzia può avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non scritta e che addirittura possa trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l'evento (cfr. Cass., sez. 4^, 22 ottobre 2008 n. 45698, Fonnesu, rv. 241759-60, con riferimento al caso dell'ospite di un albergo annegato nel corso di un bagno in piscina in orario in cui non era garantita l'assistenza; 12 ottobre 2000 n. 12781, Avallone, rv. 217904; 1 ottobre 1993 n. 11356, Cocco, rv. 197354; 21 maggio 1998 n. 8217, Fornari, rv. 212144; 20 aprile 1983 n. 9176, Bruno, rv. 160997).
Si è affermato, nell'ambito della responsabilità medica, che va esclusa l'esistenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento "in capo al medico che sia stato soltanto occasionalmente richiesto di un parere, nel quadro di una relazione di amicizia, convivialità, familiarità o convivenza, ma al di fuori di uno specifico conferimento di incarico professionale".
In particolare la giurisprudenza di legittimità ha spesso integrato i criteri sostanziali e formali e, oltre a ritenere ovviamente consentito il sorgere di una posizione di garanzia in base al contratto - si veda, con riferimento al contratto di appalto, Cass., sez. 4^, 15 novembre 2007 n. 6267, che ha precisato che l'operatività dell'obbligo di garanzia, in base al principio di personalità della responsabilità penale, sorge però soltanto "con la concreta assunzione da parte del garante dei poteri-doveri impeditivi non solo giuridici, ma anche fattuali dell'evento dannoso o pericoloso" - ha altresì ritenuto sufficiente a fondare l'esistenza di una posizione di garanzia anche l'assunzione volontaria ed unilaterale di compiti di tutela al di fuori di un preesistente obbligo giuridico con la presa in carico del bene accrescendone la possibilità di salvezza.
Si sono fatti gli esempi dei vicini di casa che si prendono cura di un bambino in assenza dei genitori o dei volontari del pronto soccorso che soccorrono un ferito in stato di incoscienza (si veda, su questi o analoghi temi, Cass., sez. 4^, 22 maggio 2007 n. 25527, Conzatti, rv. 236852).
L'assunzione della posizione di garanzia in base ad un'assunzione di fatto di poteri inerenti obblighi di tutela è adesso normativamente prevista, in tema di sicurezza sul lavoro, nel caso di chi, pur sprovvisto di formale investitura, "esercita in concreto i poteri giuridici riferiti" al datore di lavoro, al dirigente e al preposto (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 299).
In ogni caso è necessario che il garante - sia "volontario" sia contrattualmente tenuto - prenda effettivamente in carico il bene protetto mentre è consentito, in linea di massima (con l'esclusione delle posizioni di garanzia ricollegate all'esercizio di determinate pubbliche funzioni), il trasferimento totale o parziale dell'obbligo di garanzia mediante delega a persona idonea (i genitori possono delegare la custodia dei figli minori ad una baby sitter; l'animale pericoloso può essere affidato in custodia a terzi idonei ecc.).
Naturalmente l'esistenza di una posizione di garanzia non si pone in contraddizione con una causazione attiva dell'evento da parte del garante; in particolare con il mancato esercizio dei poteri impeditivi che questi è obbligato ad esercitare (il medico che somministra erroneamente un medicinale al quale il paziente a lui affidato è allergico - causalità attiva - è tenuto ai necessari interventi per escludere o ridurre le conseguenze della somministrazione).
Anzi gli esempi che vengono usualmente fatti per sostenere l'esistenza di una posizione di garanzia fondata sul precedente agire illecito o nello svolgimento di una precedente attività pericolosa sono spesso privi di rilievo concreto perché, anche se si escludesse l'assunzione di una posizione di garanzia da parte dell'agente non per questo egli andrebbe esente da responsabilità ma muterebbe la natura della causalità da omissiva a commissiva (nell'esempio fatto il medico risponderebbe per aver somministrato un farmaco con modalità negligenti; ma può farsi l'esempio di chi scava una buca in una strada aperta al traffico: se non assume la posizione di garanzia per aver omesso di proteggerla adeguatamente risponde comunque dell'evento dannoso cagionato per aver aperto la buca in un luogo pericoloso).
E se può apparire discutibile parlare di "mutamento" della natura della causalità è comunque condivisibile l'opinione secondo cui in questi casi trattasi di causalità attiva per cui neppure si pone il problema dell'esistenza della posizione di garanzia in capo alla persona che, con la sua condotta inosservante, ha cagionato l'evento dannoso anche ammesso che non fosse suo obbligo rimuovere successivamente la situazione di pericolo.

5. Il profilo funzionale della posizione di garanzia. Gli obblighi di protezione e quelli di controllo.


V'è ancora da osservare che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione: gli obblighi di protezione e quelli di controllo.
A) La prima categoria concerne la posizione di garanzia cd. di protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l'integrità: tipici gli obblighi che gravano sui genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni della vita e dell'incolumità personale ma anche di altri beni (per es., per i genitori, l'integrità sessuale dei minori).
Come è evidente l'ambito elettivo di questi obblighi è quello familiare ma l'obbligo di protezione può derivare anche dall'assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale (per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza).
B) La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia cd. di controllo che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda tutti i casi di esercizio di attività pericolose - che trova il fondamento normativo nell'art. 2050 cod. civ. - il dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale ecc. Il più delle volte questi obblighi di controllo sono ricollegati all'esistenza di un "potere di organizzazione o di disposizione relativo a cose o situazioni potenzialmente pericolose", come nel caso indicato del datore di lavoro o come nel caso degli appartenenti ad amministrazioni pubbliche cui sono attribuiti compiti di prevenzione e soccorso in relazione ad eventi riguardanti la pubblica incolumità o ancora, secondo un orientamento dottrinali, quelli che, in relazione ad un rapporto di educazione, istruzione, cura o custodia, mirano ad evitare che soggetti incapaci di autogovernarsi procurino eventi dannosi.
È dunque evidente che, nel nostro caso, gli ipotizzati poteri del sindaco rientrano in una posizione di garanzia definibile "di controllo" (per l'omessa neutralizzazione delle fonti di pericolo che minacciavano i beni protetti).

5. L'obbligo di garanzia e i poteri impeditivi dell'evento.


Si tratta di un problema particolarmente complesso perché, secondo un orientamento dottrinale non potrebbe essere considerata posizione di garanzia quella nella quale esiste soltanto un obbligo di attivarsi o un obbligo di sorveglianza senza che questi obblighi siano accompagnati da poteri impeditivi di natura tale da consentire all'agente di evitare il verificarsi dell'evento.
In merito a questo orientamento può osservarsi che la tesi in esame nasce dalla giusta esigenza che il garante sia in grado di influenzare il corso degli eventi e risponde alla necessità, riguardante il profilo soggettivo, che la condotta richiesta sia da lui esigibile. Se il garante non può comunque influenzare questo decorso è ovvio che l'evento non può essere a lui addebitato oggettivamente (la madre risponde di non aver nutrito l'infante non di aver omesso di salvarlo dall'annegamento se non sapeva nuotare).
Per converso è da sottolineare che la disponibilità di poteri impeditivi non vale, da sola, a fondare l'obbligo di garanzia che deve preesistere alla condotta: il bagnino che vede un bagnante in difficoltà deve intervenire perché obbligato dalle funzioni che svolge; il campione di nuoto presente, dotato di ben superiori poteri impeditivi, non ha invece questo obbligo. Non è dunque sufficiente la disponibilità di poteri impeditivi per fondare la responsabilità per omissione.
Non sembra invece condivisibile l'affermazione che il garante, perché risponda dell'evento, debba essere dotato di tutti i poteri impeditivi dell'evento essendo richiesto all'agente che ponga in essere solo quelli da lui esigibili. Per tornare all'esempio della madre il cui figlioletto sta annegando: la madre non è tenuta a soccorrerlo se non sa nuotare ma ciò non la esime certo dal chiamare i soccorsi; e così il medico che, nel corso di una terapia o di un intervento chirurgico, si rende conto di non essere in grado di affrontare un problema imprevedibile non va esente da responsabilità se non chiede l'intervento di chi questo problema è in grado di affrontare.
Insomma la posizione di garanzia richiede l'esistenza dei poteri impeditivi che peraltro possono anche concretizzarsi in obblighi diversi (per es. di natura sollecitatoria), e di minore efficacia, rispetto a quelli direttamente e specificamente diretti ad impedire il verificarsi dell'evento. Del resto nella gran parte dei casi i garanti non dispongono sempre e in ogni situazione di tutti i poteri impeditivi che invece di volta in volta si modulano sulle situazioni concrete: è ovvio che i poteri impeditivi dei genitori del minore, per esempio, variano di contenuto a seconda che essi siano presenti in una situazione di pericolo che può riguardare il minore o che il bambino sia affidato ad un familiare, alla scuola ecc..
Saranno proprio le situazioni concrete a determinare l'ambito dei poteri impeditivi esigibili da parte del garante e questi poteri impeditivi possono essere limitati ad un mero obbligo di attivarsi (per es. l'agente di polizia che viene a conoscenza che si sta commettendo un reato, ma non ha la possibilità di intervenire personalmente, dovrà segnalare appena possibile la situazione a chi è in grado di intervenire). Insomma all'obbligo giuridico di impedire l'evento deve accompagnarsi l'esistenza di poteri fattuali che consentano all'agente di porre in essere, almeno in parte, meccanismi idonei ad evitare il verificarsi dell'evento.
In conclusione: l'agente non può rispondere del verificarsi dell'evento se, pur titolare di una posizione di garanzia, non dispone della possibilità di influenzare il corso degli eventi. Per converso chi ha questa possibilità non risponde se non ha un obbligo giuridico di intervenire per operare la modifica del decorso degli avvenimenti.
Nel nostro caso si verifica un'ipotesi di questo genere: il sindaco non disponeva di tutti i poteri impeditivi dell'evento (tanto che gli si addebita di non averli richiesti tempestivamente a chi ne disponeva di più rilevanti); purtuttavia, in tesi di accusa, neppure ha esercitato (o li ha esercitati inadeguatamente) quelli di cui disponeva.

Sezione seconda: il quadro normativo sulle posizioni di garanzia nella protezione civile. In particolare sindaco e prefetto.


1. Le posizioni di garanzia nella protezione civile. In generale.


Poste le premesse che precedono occorre fare alcune considerazioni di carattere generale che riguardano l'individuazione delle posizioni di garanzia nella protezione civile.
Come si vedrà più ampiamente in seguito - quando si esaminerà il tema della ripartizione delle competenze tra i vari organi ai quali sono attribuiti poteri ed obblighi di intervento nel caso di eventi calamitosi (in particolare prefetto e sindaco) - va fin da ora rilevato che, nella materia della protezione civile, esiste un ostacolo in più, rispetto ad altri settori della responsabilità, nell'individuazione del garante perché questa individuazione dipende frequentemente dalla natura dell'evento e l'evento non sempre, almeno nella fase iniziale, è chiaramente definibile ed è soggetto ad evoluzioni rilevanti.
Gli esempi di questa non chiara definibilità sono sotto gli occhi di tutti: se si verifica un'alluvione in un tratto del percorso di un fiume fino a quando lo straripamento delle acque si limita al territorio comunale l'unico garante è il sindaco; se lo straripamento inizia ad interessare anche altri comuni o altre province si allarga la sfera dei garanti. La stessa evoluzione può verificarsi nel caso di terremoti, eruzioni vulcaniche, frane di versanti montuosi ecc..
Non solo: anche se l'evento ha estensione tale da non travalicare l'ambito del territorio comunale (L. n. 225 del 1992, art. 15, comma 4) può avvenire che non possa essere fronteggiato con i mezzi a disposizione del comune e quindi deve essere chiesto l'intervento di altre forze e strutture al prefetto che diviene dunque anch'egli garante per lo specifico evento disastroso verificatosi.
Della natura complessa ed elastica di questo sistema va dunque tenuto conto nella ricostruzione delle posizioni di garanzia rilevanti ai fini che interessano.

2. Il quadro normativo sulla protezione civile. La L. n. 996 del 1970 e il regolamento di esecuzione del 1981.


La prima disciplina organica dei temi riguardanti la protezione civile è stata introdotta dalla L. 8 dicembre 1970, n. 996 ("Norme sul soccorso e l'assistenza alle popolazioni colpite da calamità - Protezione civile") che ha fornito (art. 1) una definizione di calamità naturale o catastrofe intesa come "l'insorgere di situazioni che comportino grave danno o pericolo di grave danno alla incolumità delle persone e ai beni e che per la loro natura o estensione debbano essere fronteggiate con interventi tecnici straordinari".
In base alle disposizioni contenute in questa legge viene individuato nel ministro dell'interno l'organo cui è demandata l'intera organizzazione della protezione civile sia per quanto riguarda il potere di emettere le direttive generali sia per quanto attiene alla direzione e al coordinamento di tutte le attività da svolgere. Per lo svolgimento dei compiti in tema di protezione civile il ministro dell'interno si avvale del comitato interministeriale della protezione civile (art. 3).
Nello svolgimento di queste attività sono coinvolte anche le amministrazioni degli enti pubblici territoriali (art. 2, comma 2).
Nel caso di "evento non particolarmente grave" provvedono "gli organi locali elettivi e gli organi ordinari di protezione civile" (art. 5, comma 1). Al di fuori di questa ipotesi il presidente del consiglio dei ministri nomina un commissario che assume la direzione dei servizi di soccorso e il coordinamento dei servizi avvalendosi "della collaborazione degli organi regionali e degli enti locali interessati" (art. 5, comma 4).
Come è agevole verificare la costruzione del sistema di protezione civile prevista dalla legge in esame è fortemente accentrata in capo al ministro dell'interno e la partecipazione degli enti locali e degli organi dell'amministrazione statale decentrata non è espressamente disciplinata quanto alle attribuzione dei singoli organi ed enti.
L'art. 21 della medesima legge prevedeva che entro un anno dall'entrata in vigore fossero emanati regolamenti per la sua esecuzione.
Il regolamento di esecuzione è stato emanato oltre dieci anni dopo con l'approvazione del D.P.R. 6 febbraio 1981, n. 66 il cui art. 14 ha individuato nel prefetto l'"organo ordinario di protezione civile" e gli ha attribuito i compiti analiticamente elencati in questa norma ed in particolare quello (n. 2) di dirigere "nell'ambito della provincia, i servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite" e di coordinare "le attività svolte da tutte le amministrazioni pubbliche, dagli enti e dai privati".
L'art. 16 del regolamento ha invece individuato nel sindaco, quale ufficiale del Governo, l'"organo locale di protezione civile" e ha previsto (comma 2) che "il sindaco provvede, con tutti i mezzi a disposizione, agli interventi immediati, dandone subito notizia al prefetto".
Di particolare rilievo è l'art. 36 del regolamento, in tema di avvertimenti alla popolazione, che prevede che "allorché occorra informare le popolazioni di situazioni di pericolo o comunque connesse con esigenze di protezione civile, vi provvede il prefetto, che si avvale dei mezzi tecnici da individuarsi nei piani provinciali di protezione civile, e, in caso di urgenza, il sindaco".

3. La L. 24 febbraio 1992, n. 225 ("Istituzione del servizio nazionale della protezione civile").


É con l'entrata in vigore di questa legge che il tema della protezione civile - oltre ad essere espressamente estesa anche agli eventi connessi con l'attività dell'uomo non previsti dalla legge del 1970 (anche se da ritenersi implicitamente ricompresi) - inizia ad essere regolato da una disciplina organica anche per quanto riguarda la tipologia degli eventi presi in considerazione, i compiti della protezione civile e la ripartizione delle competenze che era sostanzialmente estranea alla precedente disciplina.
Proprio in tema di ripartizione delle competenze inizia a delinearsi un processo (che la normativa degli anni successivi accentuerà) che fa venir meno il "modello centralizzato per una organizzazione diffusa a carattere policentrico" (così Corte cost., 28 marzo 2006 n. 129 che richiama analoghi concetti espressi nel precedente della medesima Corte 30 ottobre 2003 n. 327).
É inoltre da rilevare che con la L. del 1992 inizia a delinearsi un concetto più ampio di protezione civile che ricomprende anche le attività di previsione e prevenzione delle varie ipotesi di rischio; la previsione e la prevenzione erano temi sostanzialmente estranei alla l. n. 996 del 1970 anche se iniziavano a trovare una limitata disciplina nel regolamento del 1981 (il cui art. 1 finalmente precisa che la protezione civile concerne anche "la prevenzione degli eventi calamitosi mediante l'individuazione e lo studio delle loro cause").
Con l'entrata in vigore della L. del 1992, la protezione civile inizia a configurarsi come organizzazione autonoma con organi propri.
Con questa legge viene istituito il Servizio nazionale della protezione civile (art. 1) e vengono distinte tre tipologie di eventi (art. 2, lett. a, b e c) - che saranno più avanti esaminate in dettaglio - e che, in via di prima sintesi, si riferiscono, quanto agli eventi di cui all'art. 2, lett. a), a quelli che, se limitati all'ambito comunale e fronteggiabili con i mezzi a disposizione del comune, non richiedono l'intervento di altri organi. Per gli eventi di cui alle lett. b) e c) previsti dall'art. 2 v'è invece, come si vedrà, una sovrapposizione di attribuzioni e compiti tra prefetto e sindaco.
L'art. 14 della legge - che disciplina le attribuzioni del prefetto - prevede infatti, tra l'altro (comma 2, lett. b), che al verificarsi di uno di questi eventi il prefetto "assume la direzione unitaria dei servizi di emergenza da attivare a livello provinciale, coordinandoli con gli interventi dei sindaci dei comuni interessati" e (lett. c) "adotta tutti i provvedimenti necessari ad assicurare i primi soccorsi".
L'art. 15 disciplina (oltre alle competenze del comune) le attribuzioni del sindaco al quale attribuisce la qualità di "autorità comunale di protezione civile" che, al verificarsi dell'emergenza nell'ambito del territorio comunale, "assume la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite e provvede agli interventi necessari dandone immediata comunicazione al prefetto e al Presidente della Giunta regionale." (comma 3).
L'art. 15, al comma 4 prevede poi che "quando la calamità naturale o l'evento non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune, il sindaco chiede l'intervento di altre forze e strutture al prefetto, che adotta i provvedimenti di competenza, coordinando i propri interventi con quelli dell'autorità comunale di protezione civile".
É da rilevare che l'art. 21 della legge prevede l'abrogazione di "tutte le norme non compatibili con le disposizioni della presente legge" e quindi lascia aperto il problema della sopravvivenza di alcune disposizioni della L. n. 996 del 1970 e, soprattutto, di quelle del regolamento del 1981 non essendo stato emanato alcun regolamento di esecuzione della L. n. 225 del 1992 (che peraltro neppure prevede - salvo quello previsto dall'art. 20 che riguarda la disciplina delle ispezioni - l'emanazione di regolamenti di esecuzione).
É dunque da ritenere che, all'epoca dell'evento di cui ci stiamo occupando, fossero ancora in vigore i già ricordati artt. 14 e 16 del regolamento del 1981 sulle attribuzioni di sindaco e prefetto posto che tale (sintetica) disciplina non contrasta con le più analitiche norme della L. n. 225 del 1992. 4. I provvedimenti normativi successivi.
É da rilevare che il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (che, essendo stato pubblicato sulla gazzetta ufficiale il 21 aprile 1998, è entrato in vigore il 6 maggio 1998, cioè il giorno successivo a quello in cui si è verificato l'evento calamitoso in esame), emanato in base alla delega contenuta nella L. 15 marzo 1997, n. 59, ha disciplinato anche il trasferimento delle funzioni in tema di protezione civile che sono state in gran parte attribuite alle regioni e agli enti locali.
L'art. 107 descrive le funzioni mantenute allo Stato mentre l'art. 108 descrive quelle attribuite a regioni, province e comuni. La lett. a) descrive le competenze delle regioni, la lett. b) quelle delle province e la lett. c) indica le funzioni conferite ai comuni - peraltro in gran parte già attribuite al sindaco in base alla normativa ricordata - ma con un significativo ampliamento delle funzioni riguardanti la previsione e la prevenzione.
Successivamente agli eventi ricordati è entrata in vigore altra legge (3 agosto 1999, n. 265) il cui art. 12 ha trasferito al sindaco le competenze del prefetto "in materia di informazione della popolazione su situazioni di pericolo per calamità naturali" previste dall'art. 36 in precedenza riportato.
È solo da rilevare (questo problema non riguarda peraltro i fatti oggetto del presente processo) che dopo le innovazioni ricordate, si è creata una situazione di incertezza per quanto riguarda la competenza del prefetto in ordine agli eventi cd. intermedi (quelli previsti dalla L. n. 225 del 1992, art. 2, lett. b)).


5. La cd. direttiva Barberi.


Si tratta di un atto amministrativo emesso nel dicembre 1996 (nell'atto non viene indicato il giorno dell'emissione) che risulta provenire dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento della protezione civile, ed è firmato dal prof. B.F., all'epoca sottosegretario di Stato per il coordinamento della protezione civile. L'oggetto dell'atto viene indicato come "direttiva per l'attività preparatoria e le procedure d'intervento in caso di emergenza per protezione civile".
L'efficacia normativa della direttiva verrà esaminata più avanti.
Per il momento è sufficiente accennare che la direttiva parrebbe emessa in base al disposto della L. 24 febbraio 1992, n. 225, art. 4, comma 1 che attribuisce al dipartimento della protezione civile il compito di predisporre "i programmi nazionali di previsione e prevenzione in relazione alle varie ipotesi di rischio, i programmi nazionali di soccorso ed i piani per l'attuazione delle conseguenti misure di emergenza".
É peraltro da rilevare che l'art. 4 indicato, al comma 2, prevede che questi programmi siano adottati con decreto del presidente del consiglio dei ministri, previa deliberazione del consiglio dei ministri, ma dal testo dell'atto non risulta che, nel caso di specie, questa procedura sia stata seguita per cui si deve ritenere corretta la tesi dei giudici di merito che hanno affermato che l'atto non potesse derogare alle norme contenute nella normativa primaria anche se, al di fuori di questa ipotesi, non può essere disconosciuta la sua efficacia cogente di atto amministrativo di carattere generale.
La direttiva contiene, nella prima parte, un'articolata descrizione dei compiti del sindaco che viene qualificato come "l'autorità responsabile, in emergenza, della gestione dei soccorsi sul territorio di propria giurisdizione, in raccordo col Prefetto, e pertanto ha il diritto/dovere di coordinare l'impiego di tutte le forze intervenute".
Fatta questa premessa il documento prosegue con l'indicazione:
- delle attività preparatorie (informazione ai cittadini sulle aree a rischio e sui provvedimenti ed i comportamenti da adottare in caso di emergenza; costituzione di una struttura di protezione civile; individuazione delle aree per esigenze di protezione civile e punti strategici per afflusso e deflusso di persone ed evacuazione; organizzazione di sistema di comando e controllo quale sala operativa ecc; individuazione dei provvedimenti fondamentali da attivare in caso di emergenza; aggiornamento piano di protezione civile; periodiche esercitazioni);
- delle attività di emergenza (collegamento con la prefettura; attivazione della sala operativa del comune; attivazione della struttura comunale di protezione civile e richiesta al prefetto dell'intervento delle forze dell'ordine e dei vigili del fuoco; sistematica rilevazione della situazione; dislocazione del personale dipendente dal comune e dei volontari);
- delle attività per il superamento dell'emergenza (accertamento dei danni e loro comunicazione al prefetto o alla regione per l'istruttoria ai fini della richiesta dello stato di calamità).
La direttiva prosegue poi con la descrizione dei compiti del prefetto che "ha il compito della redazione dei piani d'emergenza relativi a tutto il territorio della provincia ed è responsabile dell'attuazione dei conseguenti interventi".
Anche per il prefetto vengono indicate:
- le attività preparatorie (richiesta agli organi competenti degli scenari di pericolosità; favorire e coordinare le attività di protezione civile; diramare ai comuni lo scenario dei rischi; censire le aree idonee per le esigenze di protezione civile; censire le strutture di protezione civili esistenti nel territorio; organizzare un sistema di comando e controllo per il coordinamento dei soccorsi; organizzazione del volontariato; esercitazioni);
- le attività in emergenza (avvertire la sala operativa del ministero dell'interno; attivare il centro coordinamento soccorsi; attivare vigili del fuoco, forze dell'ordine, volontari, radioamatori; richiedere la dichiarazione dello stato di emergenza; disporre la costituzione di centri operativi misti presso i comuni interessati; richiedere la consulenza degli esperti; delimitare l'area interessata dall'emergenza; attivare la sala stampa);
- le attività per il superamento dell'emergenza (accertamento dei danni).

Sezione terza: ripartizione delle competenze tra prefetto e sindaco nella gestione dell'emergenza.


1. Premessa.


La ripartizione delle competenze tra prefetto e sindaco costituisce lo snodo essenziale del tema proposto con i vari ricorsi e dalla cui soluzione dipende la verifica della loro fondatezza.
Prima ancora di esaminare se le condotte del sindaco siano state caratterizzate dalla violazione di regole cautelari - e se queste violazioni abbiano contribuito a cagionare gli eventi (in particolare le morti di 137 persone dal momento che in questo processo è stato contestato esclusivamente l'omicidio colposo plurimo) - è necessario esaminare se sia corretta la ricostruzione che i giudici di merito hanno fornito della ripartizione delle competenze in materia di protezione civile.
Solo successivamente sarà possibile valutare la correttezza e la logicità della motivazione della sentenza impugnata in merito alla risposta fornita al quesito se il sindaco abbia adempiuto agli obblighi su di lui incombenti e se gli interventi disposti siano stati conformi alle regole cautelari applicabili all'evento disastroso verificatosi il 5 maggio 1998.
Ai fini della ricostruzione del quadro normativo è però necessario precisare preliminarmente che la L. n. 225 del 1992, art. 2, proprio ai fini di predeterminare le competenze, prevede, come si è già accennato in precedenza, una triplice tipologia di eventi ai fini della protezione civile:
a) eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili dai singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria;
b) eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo che per loro natura ed estensione comportano l'intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria;
c) calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari.
È stato affermato - a conferma della già segnalata difficoltà aggiuntiva che si presenta nell'individuazione delle posizioni di garanzia in questa materia - che il sistema di ripartizione delle competenze è un sistema "a geometria variabile" e che, in questo sistema, "la catena di comando e controllo che dovrà assumere la gestione dell'emergenza sarà determinabile solo una volta compiuta la qualificazione dell'evento che si è manifestato o che si sta per manifestare".

2. Le attribuzioni del prefetto.


In base alla L. n. 225 del 1992, art. 14 il prefetto è l'organo che, nel caso delle emergenze previste dall'art. 2, lett. b) e c), assume la direzione e il coordinamento delle operazioni e "predispone il piano per fronteggiare l'emergenza su tutto il territorio della provincia e ne cura l'attuazione".
È stato osservato che il prefetto in questa materia agisce sotto diverse vesti: quale organo decentrato del ministero dell'interno;
quale componente della protezione civile; quale delegato della presidenza del consiglio dei ministri; quale organo decentrato che assume la direzione unitaria dei servizi di emergenza a livello provinciale. Si rinvengono dunque nelle competenze del prefetto due aspetti: quello di organo periferico dell'amministrazione dello Stato e quello di organo titolare di poteri propri di intervento al verificarsi dell'emergenza.
Si aggiunga - a conferma dei poteri amplissimi di cui dispone il prefetto nell'ambito della provincia al verificarsi degli eventi calamitosi che rientrano nella sua competenza - che al prefetto è attribuito (art. 14, comma 3 in riferimento all'art. 5 comma 2), quale delegato del presidente del consiglio dei ministri, il potere di ordinanza "in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico".
Al verificarsi di uno degli eventi calamitosi indicati il prefetto informa il dipartimento della protezione civile e gli altri organi previsti (art. 14 comma 2 lett. a); "assume la direzione unitaria dei servizi di emergenza da attivare a livello provinciale, coordinandoli con gli interventi dei sindaci dei comuni interessati" (lett. b); "adotta tutti i provvedimenti necessari ad assicurare i primi soccorsi" (lett. c).
Il prefetto è dunque l'organo al quale, su scala provinciale, sono attribuiti i compiti fondamentali in materia di protezione civile al verificarsi dell'emergenza che abbia le caratteristiche previste nei casi già indicati.


2. Le attribuzioni del sindaco.


Essendo in questo processo imputato il sindaco di *** è del tutto ovvio che l'esame, in via generale, delle attribuzioni del sindaco in materia di protezione civile costituisce il tema fondamentale per verificare la fondatezza dei ricorsi proposti contro la sentenza della Corte d'Appello di Salerno.
Un primo rilievo va fatto sulla figura e sulle attribuzioni del sindaco quali delineate dalla L. n. 225, art. 15: il sindaco, con l'entrata in vigore di questa legge, è divenuto "autorità comunale di protezione civile".
Si tratta, all'evidenza, di competenza propria del sindaco quale capo dell'amministrazione comunale e non più di competenza inerente alla sua qualità di ufficiale di governo quale era invece delineata dall'art. 16 del regolamento del 1981. Questo mutamento non è soltanto di natura terminologica perché in precedenza mai erano stati attribuiti al sindaco poteri e obblighi propri nella gestione delle emergenze riguardanti la protezione civile che invece lo riguardavano nella sua qualità di ufficiale di governo.
Dalla lettura delle sentenze di merito emerge come la figura e le attribuzioni del sindaco nella gestione dell'emergenza siano state sensibilmente sminuite una volta che il sindaco abbia adempiuto all'obbligo di avvisare la prefettura della natura degli eventi. In particolare sia il Tribunale che la Corte d'Appello hanno ricostruito i compiti attribuiti al sindaco dalla normativa vigente all'epoca dei fatti in termini "residuali" rispetto alle competenze del prefetto.
È opinione di questa Corte che questa ricostruzione sia in contrasto con la normativa cui si è già fatto cenno e che le competenze vadano ricostruite in termini di competenze "concorrenti" - sia pure in una situazione di sovraordinazione dei poteri del prefetto rispetto a quelli del sindaco - quando la natura degli eventi fuoriesca da quelli previsti dalla L. n. 225 del 1992, art. 2, lett. a).
A questa conclusione è possibile pervenire in base ad una molteplicità di argomentazioni. a) Anzitutto è da rilevare che il dato normativo, dal punto di vista letterale, è significativo nel senso indicato.
Il punto di partenza è costituito dalla L. n. 225, art. 15, comma 3 che attribuisce al sindaco la qualità di "autorità comunale di protezione civile" e precisa che "al verificarsi dell'emergenza nell'ambito del territorio comunale, il sindaco assume la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite e provvede agli interventi necessari dandone immediata comunicazione al prefetto e al Presidente della Giunta regionale".
In base al medesimo art. 15, comma 4 poi è previsto che "quando la calamità naturale o l'evento non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune, il sindaco chiede l'intervento di altre forze e strutture al prefetto, che adotta i provvedimenti di competenza, coordinando i propri interventi con quelli dell'autorità comunale di protezione civile".
In quale punto del testo normativo sia possibile argomentare per individuare solo una responsabilità "residuale" del sindaco non è dato intendere.
Nel caso previsto dal comma 3 (che fa evidente riferimento agli eventi previsti dall'art. 2, lett. a) il sindaco si limita ad informare il prefetto. Se gli eventi non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune il sindaco chiede al prefetto l'intervento di altre forze o strutture ma la norma non prevede certamente che da quel momento egli possa disinteressarsi dei problemi creati dall'emergenza.
Al contrario perché, se il prefetto adotta i provvedimenti di competenza richiesti, egli lo fa "coordinando" i propri interventi con quelli dell'autorità comunale di protezione civile.
L'uso del verbo "coordinare" consente di affermare che entrambi gli organi competenti continuano a avere l'obbligo, ciascuno nell'ambito delle proprie responsabilità e competenze, di provvedere agli interventi necessari. É stato affermato in dottrina che, nel caso di interventi che non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune, incombe sul prefetto "un obbligo di coordinamento con l'autorità comunale la quale, in tal modo, allorché l'evento riguardi l'ambito del territorio comunale, non resta estranea ai relativi provvedimenti".
La permanenza di questi poteri ed obblighi in capo al sindaco non contrasta con l'attribuzione al prefetto di una posizione di garanzia dotata di maggiori poteri (anche straordinari) a lui attribuiti ed estesa all'ambito provinciale. Ciò che si vuoi dire è che, nell'ambito comunale, prefetto e sindaco continuano ad essere titolare di obblighi e poteri anche quando il prefetto sia stato informato dell'emergenza e sia concretamente intervenuto e pur se la posizione del prefetto sia da ritenere comunque sovraordinata rispetto a quella del sindaco.
D'altro canto - lo si è già osservato ma è opportuno ribadirlo perché la considerazione avvalora l'interpretazione proposta - il sindaco in questa materia non è più ufficiale di governo, non agisce più quindi per conto del governo o del prefetto ma in virtù di competenza propria conseguente al processo di decentramento delle competenze in materia di protezione civile; competenza propria che dunque non viene meno sol perché altri organi o enti acquisiscono una competenza a intervenire nelle emergenze derivante dall'evolversi delle medesime.
b) Entrambe le sentenze di merito richiamano l'unico precedente di legittimità che abbia affrontato questi temi - la sentenza di questa sezione 10 luglio 2001 n. 33577, Scialò, rv. 219971 - che esaminò i temi riguardanti la posizione di garanzia del prefetto di Cuneo in relazione al processo instaurato a seguito degli eventi alluvionali verificatisi in Piemonte nel 1994.
In realtà questa sentenza non convalida affatto la tesi di una competenza residuale del sindaco; individua nel prefetto della provincia l'organo cui, in caso di calamità naturali di carattere eccezionale, spetta l'organizzazione e il coordinamento unitario della protezione civile; ricorda i poteri, anche straordinari, attribuiti al prefetto in queste situazioni; individua nel prefetto il titolare di una posizione di garanzia nel caso di calamità naturali e catastrofi interessanti aree più vaste di quelle comunali.
La sentenza non attribuisce peraltro ai sindaci una competenza "residuale" in materia di protezione civile e riconosce che i medesimi sono autorità di protezione civile nell'ambito del territorio comunale.
É vero che la sentenza sembra attribuire ai sindaci un ambito riduttivo di competenze ("ad essi è piuttosto riservata l'opera di soccorso e di assistenza delle popolazioni colpite") ma questa affermazione, dal tenore peraltro dubitativo (come dimostra l'uso dell'avverbio "piuttosto"), va ricollegata alla circostanza che, nel caso esaminato dal giudice di legittimità, il prefetto aveva assunto la direzione delle operazioni e l'emergenza riguardava tutta la provincia (ed anche altre province limitrofe).
Non può dunque affermarsi, come fanno le sentenze di merito nel nostro caso, che al sindaco di *** dovesse essere affidata soltanto l'opera di soccorso e assistenza delle popolazioni colpite perché queste limitazioni non sono previste dalla legge.
É vero che la seconda parte dell'art. 15, comma 3 in esame prevede che, al verificarsi dell'emergenza, il sindaco assuma "la direzione e il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alle popolazioni colpite" ma questa disposizione non fa venir meno le più ampie competenze che derivano al sindaco sia dalla qualità di autorità comunale di protezione civile sia dalla già rilevata circostanza che i suoi interventi devono coordinarsi con quelli del prefetto.
Del resto l'art. 14 del regolamento del 1981 al n. 2 del comma 1 utilizzava, nella descrizione delle attribuzioni del prefetto nell'ambito della provincia, una identica formulazione ma da alcuno la norma è mai stata ritenuta limitativa degli altri poteri del prefetto o interpretata nel senso che l'assistenza e il soccorso fossero le sole attribuzioni del prefetto.
c) Ma v'è un'argomentazione che incrina irrimediabilmente la correttezza della ricostruzione, compiuta dai giudici di merito, sul tema del rapporto tra le competenze del sindaco e quelle del prefetto.
Se anche potesse affermarsi - in base al quadro emergente dalla ricordata normativa - che la competenza del sindaco fosse da ritenere "residuale" rispetto a quella del prefetto questa sovrapposizione delle competenze del prefetto, rispetto a quelle del sindaco, non potrebbe che verificarsi nel momento in cui il prefetto abbia di fatto assunto la direzione delle operazioni anche disponendo l'impiego di altre forze e strutture.
Sembra addirittura ovvio affermare che, finché alcun intervento di questo tipo sia attuato dal prefetto, il sindaco conservi tutti i poteri ed obblighi che la situazione di emergenza gli attribuisce anche se, ovviamente, non sarà da lui esigibile l'impiego di mezzi e strutture di cui non dispone.
Appare davvero singolare il quadro normativo delineato nelle sentenze di merito in base alle quali, nel momento in cui l'evento diviene di competenza di un'autorità superiore quella inferiore può disinteressarsene anche se la prima non è ancora intervenuta e solo perché sarebbe lei la sola autorità competente; e ciò in una materia, quale quella della protezione civile, nella quale gli sconvolgimenti provocati da eventi naturali o da interventi dell'uomo, possono creare devastazioni e vittime derivanti non solo dalle dimensioni del fenomeno catastrofico ma anche dal mero ritardo nell'organizzazione delle misure necessarie per evitarne o contenerne le conseguenze.
Inoltre: si è visto che la ripartizione delle competenze dipende dal tipo di evento in concreto verificatosi ma non esiste un'autorità che decida di quale evento si tratti anche perché, frequentemente, questa qualificazione è possibile solo a posteriori. E allora ha un senso che l'organo locale di protezione civile possa disinteressarsi degli eventi dal momento in cui ritiene che la competenza appartenga ad altro organo anche se quest'ultimo non abbia ancora assunto la direzione degli interventi né abbia ancora posto in essere quelli a lui attribuiti dalla legge? Espressione palese dell'illogicità in cui incorre la sentenza impugnata è la seguente argomentazione in essa contenuta (a p. 36):
"è appena il caso di aggiungere, a testimonianza della piena operatività delle strutture dell'autorità provinciale, che il centro coordinamento soccorsi risulta pacificamente convocato dalla Prefettura di Salerno già alle ore 18.30 del 5.5.2008" (rectius 1998). La Corte confonde infatti la effettiva presa in carico della tutela del bene protetto con un'attività preparatoria che alcun concreto effetto ha avuto nello svolgersi degli eventi contraddicendo anche l'accertamento del primo giudice (che peraltro appare condiviso dalla Corte) che il primo intervento effettivo della prefettura si è avuto dopo le ore 24 con l'invio degli elicotteri.
E certo non può essere richiamato a sostegno della tesi contraria il disposto dell'art. 16 del regolamento (D.P.R. n. 66 del 1981) che, dopo avere, nel comma 1, attribuito al sindaco la qualità, quale ufficiale del Governo, di organo locale di protezione civile, stabilisce, nel comma 2, che "provvede, con tutti i mezzi a disposizione, agli interventi immediati, dandone subito notizia al prefetto".
Sarebbe veramente riduttivo interpretare la locuzione "interventi immediati" limitandone l'ambito ai primi interventi. Il sindaco, nell'ambito dei mezzi a disposizione, provvede agli interventi necessari, fino a che il prefetto non assuma la direzione delle operazioni, e il riferimento all'immediatezza non può che significare che si tratta di interventi indifferibili e non solo dei primi interventi.
Non sarebbe tollerabile - e la normativa non lo prevede - un "vuoto" di competenze nelle fasi che spesso sono le più gravi dell'emergenza.
In dottrina si è efficacemente espresso questo concetto con l'affermazione "che il sindaco, quale primo garante non risulti liberato dagli obblighi impeditivi che su di lui gravano, sino a che, in concreto, non sia intervenuta l'effettiva successione nella catena di comando. Di converso, i soggetti chiamati ad assolvere compiti di gestione nelle emergenze di maggiore gravità assumono la veste di garanti, se del caso in forma concorrente rispetto al sindaco, sin dal momento della intervenuta comunicazione relativa al tipo di evento verificatosi. Solo in tal modo, infatti, si scongiura il verificarsi di inammissibili Vuoti di responsabilità, nell'ambito della complessiva gestione dell'evento calamitoso, da parte delle diverse strutture della protezione civile".
In conclusione, su questo punto, fino a che il prefetto non abbia assunto, anche di fatto, la direzione delle operazioni, il sindaco, nell'ambito del territorio comunale, mantiene tutti i poteri e gli obblighi derivanti dalla qualità di autorità locale di protezione civile. Non è certo sufficiente, per liberare il sindaco dei suoi obblighi, che il prefetto sia in possesso di tutte le informazioni "necessarie e sufficienti per far scattare tutti i predetti meccanismi di prevenzione", come ritiene la sentenza impugnata (a p. 36), se, di fatto, questi meccanismi non siano "scattati".
E ad un'altra conclusione è possibile pervenire: l'evoluzione delle caratteristiche dell'evento può condurre ad escludere che la posizione di garanzia si estenda al prefetto e agli organi governativi superiori. Ma anche nel caso in cui avvenga questa estensione "verticale" la posizione di garanzia del sindaco, o dei sindaci, non viene mai meno anche se l'ambito di estensione di tale posizione si riduce per l'intervento effettivo degli organi sovraordinati.
d) Così ricostruito l'assetto normativo della ripartizione delle competenze tra prefetto e sindaco perde anche di rilievo il problema del rapporto tra disciplina legislativa e regolamentare e atti normativi di livello inferiore.
Ci si riferisce in particolare alla già citata direttiva Barberi alla quale il primo giudice non attribuisce alcun valore normativo - perché si tratterebbe comunque di un atto di normativa secondaria che non potrebbe derogare alle norme legislative o regolamentari - mentre il secondo giudice non la considera proprio limitandosi genericamente ad affermare che "le disposizioni di rango secondario e locale invocate dal PM non possono incidere in ogni caso sul carattere residuale delle competenze del Sindaco".
In particolare, secondo la sentenza impugnata, "tali disposizioni non potevano prevalere sulla legge e sul regolamento di esecuzione............che affidavano con chiarezza al Prefetto l'obbligo di informazione della popolazione e il compito di disporre eventualmente l'evacuazione, introducendo un parallelo e del tutto concorrente obbligo in capo al Sindaco".
In realtà tutti i poteri che la direttiva Barberi attribuisce al sindaco erano già, implicitamente o esplicitamente, attribuiti al sindaco proprio per la sua qualità di organo comunale di protezione civile competente ad adottare tutti gli "interventi immediati" richiesti dall'emergenza e dotato di tutti i poteri di direzione fino all'effettiva assunzione dei suoi poteri da parte del prefetto con il quale, però, anche successivamente, aveva l'obbligo di coordinarsi continuando quindi a svolgerli, sia pure in posizione subordinata ma affatto residuale. e; Come si è già più volte accennato la competenza residuale del sindaco è stata, dai giudici di merito, limitata ai casi di urgenza.
Come si è già visto questo limite contrasta irrimediabilmente con il tenore della L. n. 225, art. 15, comma 4 che parla invece - nei casi in cui l'emergenza non possa essere fronteggiata con i mezzi a disposizione del comune - di coordinamento tra gli interventi del prefetto e del sindaco; ovviamente, è opportuno ripeterlo, con la posizione sovraordinata del prefetto.
L'unica norma che limita ai casi di urgenza una competenza del sindaco è quella prevista dall'art. 36 del regolamento (D.P.R. n. 66 del 1981) che attribuiva al prefetto gli avvertimenti alla popolazione e, solo in caso di urgenza, al sindaco (come si è già detto questa competenza è stata attribuita definitivamente al sindaco dalla L. n. 265 del 1999, art. 12).
Ma se anche fosse corretta la ricostruzione effettuata dai giudici di merito - secondo i quali le competenze del sindaco hanno (avevano all'epoca) carattere di residualità ed erano limitate ai casi di urgenza è da ritenere manifestamente illogico e contraddittorio l'argomentare dei giudici del tribunale e della corte d'appello laddove, con motivazione che smentisce tutti gli accertamenti in fatto riportati in motivazione, esclude che ci si trovasse in una situazione di urgenza.
In una situazione catastrofica quale quella descritta nelle due sentenze e in assenza di interventi da parte della prefettura (peraltro espressamente sollecitati solo alle ore 20,47 del 5 maggio 1998) non appare possibile escludere che ci si trovasse in una situazione di urgenza che giustificava comunque l'esercizio dei poteri residuali (anche a volerli considerare tali) se non altro per la perdurante assenza di interventi disposti dal prefetto.
Espressione di questa manifesta illogicità è, in particolare, la seguente espressione contenuta nella sentenza d'appello (a p. 35): "nella fase successiva alle ore 18.10 il fenomeno aveva assunto dimensioni, per estensione ed intensità, tali da rendere operante la piena e diretta competenza del Prefetto, ma non vi erano le condizioni di urgenza per attivare la residuale competenza del Sindaco, che correttamente si era limitato ad avvisare la Prefettura al fine di consentirle di attivare i propri strumenti per far scattare tutti i meccanismi di prevenzione che la legge riconosce di suo esclusivo compito".
Detto altrimenti: l'evento si manifesta di dimensioni catastrofiche, non è intervenuto nessuno ma non vi è una situazione di urgenza.
La manifesta illogicità si traduce anche in erronea applicazione della legge laddove la sentenza, subito dopo, afferma che "non è possibile riconoscere al sindaco la competenza in via d'urgenza quanto all'allertamento e all'evacuazione della popolazione quando già la prefettura era stata attivata e messa nelle condizioni di dispiegare i propri mezzi nell'ambito di precise competenze di prevenzione attribuitegli in via primaria".
Qui si disconosce anche la competenza in via d'urgenza perché si nega ogni obbligo di intervento purché l'autorità competente in via primaria sia stata avvertita. Verrebbe da chiedersi: ma quand'è che si verifica una situazione di urgenza se è sufficiente la comunicazione per escluderla? Forse solo quando il sindaco non informa la prefettura? É possibile affermare che - in una situazione di gravissimo pericolo per l'incolumità pubblica e in mancanza di interventi dell'autorità ritenuta competente (il prefetto) - l'autorità locale di protezione civile sia spogliata dei suoi compiti solo perché, da un certo momento in poi, altra autorità è legittimata ad intervenire anche se non l'abbia ancora fatto?
f) Ma v'è un ulteriore aspetto del quale è necessario tenere conto.
È indubbio che l'evento verificatosi in *** rientrasse tra gli eventi indicati nella L. n. 225 del 1992, art. 3, lett. b) e c). Ma è altrettanto indubbio che l'evento, pur avendo un'unica origine (le colate provenienti dal ***) abbia interessato quattro comuni singolarmente considerati (uno dei quali peraltro, il Comune di ***, si trova in altra provincia, quella di ***) nel senso che ogni comune è stato investito da singole colate.
Non vi è stata una colata che abbia investito più comuni ed in particolare una colata che abbia investito *** ed altri comuni; le colate di cui ci stiamo occupando hanno investito solo ***.
L'emergenza era di tale gravità che non poteva essere affrontata con i soli mezzi a disposizione del comune ma quello specifico settore di colate ha riguardato solo un comune. Non si è trattato quindi di un fenomeno paragonabile ad un evento alluvionale o ad un terremoto che investono una regione più ampia ma di singoli eventi, pur catastrofici, che hanno riguardato singoli comuni tra i quali peraltro neppure era necessario alcun coordinamento di interventi trattandosi di comuni territorialmente non confinanti e relativamente distanziati tra di loro.
Riesce dunque difficile comprendere come per un fenomeno limitato all'ambito comunale (anche se altri comuni erano interessati da analoghi fenomeni che, pur avendo un'unica origine, erano distinti) l'autorità comunale di protezione civile possa essere ritenuta priva di competenze anche se la gravità del fenomeno richiedeva l'intervento di altre autorità non essendo fronteggiabile con i mezzi a disposizione del comune. Tanto più, è necessario ribadirlo, che l'autorità ritenuta competente non era ancora intervenuta.

Sezione quarta: la causalità attiva e la causa sopravvenuta.


1. Premessa.


Si è già visto che al sindaco B. (e all'assessore C.) sono state addebitate non solo condotte omissive ma altresì una condotta attiva che avrebbe influito sul verificarsi dell'evento.
Si tratta degli avvisi televisivi aventi contenuto tranquillizzante che furono rivolti alla popolazione, nelle ore successive alla comunicazione alla prefettura delle ore 20,47, e con i quali, in buona sostanza, i cittadini venivano invitati a rimanere nelle loro abitazioni. Questi avvisi, in tesi di accusa, avrebbero contribuito a cagionare la morte delle persone che furono invece travolte dal crollo degli edifici nei quali si trovavano.
Così come contestate queste condotte configurano casi di causalità attiva, e non omissiva, e avrebbero avuto come effetto - in virtù del loro contenuto tranquillizzante sulle possibilità di evoluzione del fenomeno - quello di indurre a rimanere nelle loro abitazioni persone poi travolte dal crollo degli edifici all'interno dei quali si trovavano.
La conseguenza, giuridicamente obbligata, è che per queste condotte, come si è già accennato, non si pone il problema dell'esistenza di una posizione di garanzia. Indipendentemente dall'esistenza di un obbligo giuridico di impedire il verificarsi dell'evento se fosse provato che queste condotte hanno avuto un'efficienza causale sul verificarsi di uno o più o più eventi non potrebbe essere escluso l'addebito oggettivo nei confronti di chi le ha poste in essere.

2. La soluzione data dalla sentenza impugnata.


Al problema dell'efficacia causale di questi avvisi si farà riferimento più avanti ma è subito da rilevare come appaia giuridicamente erronea la premessa da cui prende le mosse la Corte di merito che ricollega l'affermata inesistenza di efficacia causale di questi inviti all'inesistenza dell'obbligo di dare il segnale d'allarme e di disporre l'evacuazione da parte del sindaco.
Su questo punto è opportuno riportare integralmente la motivazione della Corte: "Il primo giudice ha, quindi, correttamente affermato che il sindaco non avesse nell'occasione, tenuto conto dello specifico svolgimento della vicenda, un obbligo imposto dalle fonti normative citate di dare il segnale di allarme alla popolazione e di disporre l'evacuazione delle persone residenti nelle zone a rischio.
Quanto esposto rende privo di autonomo rilievo il comportamento tenuto dal B. (e dal C.) in occasione degli appelli televisivi rivolti alla popolazione, in quanto l'invito a rimanere nelle abitazioni appare consequenziale alla mancanza dell'obbligo di allertamento e della correlata competenza a disporre l'evacuazione.
Non si vede perché, in mancanza di ogni indicazione contraria da parte del Prefetto, che pure era pacificamente competente in materia, gli odierni imputati avrebbero dovuto trasmettere un messaggio di contenuto diverso".
Palese è l'erronea applicazione dell'art. 40 c.p., comma 2 perché il ragionamento della Corte di merito confonde i principi che regolano la causalità attiva con quelli riguardanti la causalità omissiva.
L'inesistenza dell'obbligo di allertare la popolazione e di disporre l'evacuazione delle persone che si trovano nelle zone a rischio riguarda la causalità omissiva. Se la persona non è titolare di una posizione di garanzia non è obbligata ad agire e non gli può quindi essere addebitato oggettivamente un evento che, se la condotta fosse stata posta in essere, non si sarebbe verificato (può ripetersi un esempio già fatto: il bagnino risponde della morte del bagnante che annega senza che lui intervenga; non ne risponde il campione di nuoto che assista passivo all'annegamento).
Ma se la causalità è attiva è del tutto irrilevante che l'agente fosse o meno titolare di un obbligo di garanzia. L'unico accertamento che il giudice deve compiere è se la condotta attiva dell'agente abbia contribuito causalmente al verificarsi dell'evento.
I giudici di secondo grado avrebbero dovuto quindi verificare se questi appelli avessero convinto una o più persone a rimanere nelle loro abitazioni - così contribuendo alla loro morte provocata dal crollo degli edifici all'interno dei quali si trovavano - indipendentemente dall'esistenza di una posizione di garanzia del sindaco e dell'assessore.

3. L'applicabilità dell'art. 41 c.p., comma 2.


La sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore aveva, sia pure in termini dubitativi (v. p. 283 ss.), affermato che l'esclusione del nesso eziologico tra la condotta degli imputati e i 137 decessi "potrebbe essere suffragata" anche dal disposto dell'art. 41 c.p., comma 2 con riferimento alle cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento.
Non si nascondeva, il primo giudice, la difficoltà di ritenere causa sopravvenuta un evento "senza dubbio simultaneo, se non addirittura preesistente" ma riteneva superabile questa obiezione per la imprevedibilità del succedersi degli eventi franosi con la possibilità, quindi, di attribuire ad ogni singola colata di fango "la valenza di causa sopravvenuta, eccezionale e non controllabile in grado di provocare da sola i decessi da essa prodotti".
La formulazione di queste argomentazioni in termini dubitativi e con l'uso del condizionale da parte del Tribunale non consentono di verificare se si tratti di un punto deciso nel senso indicato (nel senso cioè che sia stata ravvisata la causa sopravvenuta da sola idonea ad escludere il rapporto di causalità) ovvero se i termini utilizzati e l'uso del condizionale consentano di affermare che si tratta di una mera ipotesi priva di alcuna valenza sulla decisione.
La Corte d'Appello di Salerno non ha preso in considerazione l'argomento per cui potrebbe ritenersi che abbia escluso la possibilità di ritenere l'ipotesi indicata; ma, anche sotto questo profilo, va osservato che la sentenza impugnata ha ritenuto (a p. 47) assorbita "la problematica relativa alla sussistenza del nesso di causalità" per la non "configurabilità in capo al sindaco B. di una posizione di garanzia, per colpa specifica o generica, operante nel caso concreto".
L'incertezza sull'esistenza di una statuizione su questo punto rende quindi necessario - anche ai fini della delimitazione delle questioni devolute al giudice del rinvio - esaminare questo problema (che può ritenersi implicitamente oggetto dei motivi contenuti nei ricorsi nelle parti che riguardano la prevedibilità dell'evento) che ripropone uno dei temi di maggior complessità del diritto penale riguardante l'interpretazione dell'art. 41 c.p., comma 2 secondo cui "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento".
Si tratta di una norma di fondamentale importanza all'interno dell'assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità e lo scopo della norma, secondo l'opinione maggiormente seguita, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nell'art. 41, comma 1 in esame che si ritiene abbia accolto il principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause ("condicio sine qua non"). Anzi, secondo taluni autori, questa norma escluderebbe che il codice abbia voluto accogliere integralmente la teoria condizionalistica essendo, il concetto di causa sopravvenuta, estraneo a questa teoria così come è da ritenere estraneo alla teoria della causalità adeguata.
È stato affermato in dottrina che se il secondo comma in esame venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile perché, in questi casi, all'esclusione si perverrebbe con la mera applicazione del principio condizionalistico previsto dall'art. 41 c.p., comma 1.
Deve pertanto trattarsi, secondo questo condivisibile orientamento, di un processo non completamente avulso dall'antecedente, di una concausa che deve essere, appunto, "sufficiente" a determinare l'evento. Ma questa sufficienza non può essere intesa come avulsa dal precedente percorso causale perché, altrimenti, torneremmo al caso del processo causale del tutto autonomo per il quale il problema è risolto dall'art. 41, comma 1.
Su questa affermazione di principio deve ritenersi raggiunto un sufficiente consenso in quanto gli orientamenti (peraltro, a quanto risulta, quasi esclusivamente dottrinali) che sostenevano la tesi della completa autonomia dei processi causali non sembrano essere state più riproposte negli ultimi decenni.
In base alla ricostruzione che va sotto il nome della teoria della causalità "umana" si parte dalla premessa che, oltre alle forze che l'uomo è in grado di dominare, ve ne sono altre - che parimenti influiscono sul verificarsi dell'evento - che invece si sottraggono alla sua signoria. Può dunque essere oggettivamente attribuito all'agente quanto è da lui dominabile ma non ciò che fuoriesce da questa possibilità di controllo.
Quali sono gli elementi esterni controllabili? Innanzitutto quelli dotati da carattere di normalità, cioè quelli che si verificano con regolarità qualora venga posta in essere l'azione. Ma non solo queste conseguenze si sottraggono al dominio dell'uomo ma altresì quelle che si caratterizzano per essere non probabili o non frequenti perché comunque possono essere prevedute dall'uomo.
Che cosa sfugge invece al dominio dell'uomo? Ciò che sfugge a questo dominio - secondo l'illustre Autore che ha formulato la teoria - "è il fatto che ha una probabilità minima, insignificante di verificarsi: il fatto che si verifica soltanto in casi rarissimi............nei giudizi sulla causalità umana si considerano propri del soggetto tutti i fattori esterni che concorrono con la sua azione, esclusi quelli che hanno una probabilità minima, trascurabile di verificarsi; in altri termini esclusi i fattori che presentano un carattere di eccezionalità".
Per concludere che per l'imputazione oggettiva dell'evento sono necessari due elementi, uno positivo e uno negativo: quello positivo "è che l'uomo con la sua condotta abbia posto in essere un fattore causale del risultato, vale a dire un fattore senza il quale il risultato medesimo nel caso concreto non si sarebbe avverato; il negativo è che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali (rarissimi). Soltanto quando concorrono queste due condizioni l'uomo può considerarsi autore dell'evento".
Perché possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità (o la sua interruzione come altrimenti si dice) si deve dunque trattare, secondo questa ricostruzione, di un percorso causale ricollegato all'azione (od omissione) dell'agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.
È noto l'esempio riportato nella relazione ministeriale al codice penale: l'agente ha posto in essere un antecedente dell'evento (ha ferito la persona offesa) ma la morte è stata determinata dall'incendio dell'ospedale nel quale il ferito era stato ricoverato.
Il che, appunto, non solo non costituisce il percorso causale tipico (come, per es., il decesso nel caso di gravi ferite riportate a seguito dell'aggressione) ma realizza una linea di sviluppo della condotta del tutto anomala, oggettivamente imprevedibile in astratto e imprevedibile per l'agente che non può anticipatamente rappresentarla come conseguente alla sua azione od omissione (quest'ultimo versante riguarda l'elemento soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell'elemento oggettivo del reato, si pone in termini analoghi).
Va infine rilevato che sia l'Autore che l'ha proposta che tutti coloro che l'hanno condivisa - comprese la giurisprudenza di legittimità e quella di merito - hanno affermato che la teoria della causalità "umana" è applicabile anche ai reati omissivi impropri.
Alla luce della ricostruzione che precede la tesi problematicamente formulata dal Tribunale non solo non appare condivisibile ma si evidenzia nella sua totale ed evidente infondatezza.
È infatti la stessa natura di fenomeno evolutivo che si aggrava progressivamente ad escludere il carattere assolutamente anomalo ed eccezionale del fenomeno. Nel nostro caso ci si trova in presenza di un fenomeno non eccezionale nella sua fase iniziale, perché più volte verificatosi in passato, che via via si aggrava manifestando dunque la sua pericolosità sempre maggiore; come è possibile, dunque, affermare la natura assolutamente imprevedibile dei successivi aggravamenti visto che altri se ne sono verificati; e come è possibile, se un aggravamento si verifica, escluderne di successivi e maggiormente devastanti? Il punto sarà approfondito in modo più esaustivo nella parte che riguarda la prevedibilità ai fini dell'accertamento dell'elemento soggettivo ma le considerazioni svolte valgono già da sole, sotto il profilo causale, ad escludere l'ipotesi formulata dal primo giudice perché la causa sopravvenuta non solo non costituisce uno sviluppo del tutto autonomo ed eccezionale della prima condotta inosservante ma rientra nell'ambito delle conseguenze prevedibili di questa condotta addebitabile all'imputato di cui costituisce una possibile, e quindi prevedibile, conseguenza.


PARTE 4^: L'ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO.


Sezione 1^: la violazione delle regole cautelari.


1. Premessa. Funzione delle regole cautelari.


La funzione delle regole cautelari è implicita nella stessa definizione. Si tratta di regole che hanno la funzione di evitare che, nell'esercizio di determinate attività che presentano margini di rischio, si producano effetti dannosi per le persone e per le cose.
Il presupposto perché si formi, nei modi che di seguito verranno indicati, una regola cautelare è dunque che sia astrattamente prevedibile che, dall'esercizio di una determinata attività umana, possa conseguire un effetto dannoso: per un'attività umana per la quale non sia prevedibile un effetto di questo genere (per es. la ricerca scientifica non di laboratorio) a nessuno verrà in mente di dettare regole cautelari per il suo svolgimento.
La prevedibilità delle conseguenze dannose è dunque il presupposto per la formazione della regola cautelare ma il suo contenuto è dettato in particolare da un altro principio, l'evitabilità del medesimo evento. È inutile dettare regole cautelari se queste regole non sono idonee ad evitare gli effetti negativi dell'attività.
Qualora l'organizzazione sociale non intenda vietare lo svolgimento di un'attività utile alla collettività ma pericolosa (in questo caso la regola cautelare può essere costituita soltanto dall'obbligo dell'astensione) dovrà indirizzare la formazione della regola avendo di mira la necessità che la disciplina sia idonea ad evitare il verificarsi dell'evento.
Dunque la prevedibilità dell'evento dannoso rende necessaria la formazione della regola cautelare il cui contenuto è però dettato dalla sua idoneità a prevenire il suo verificarsi. I criteri di formazione delle regole cautelari costituiscono una generalizzazione di quei criteri di prevedibilità ed evitabilità che sono rilevanti anche sotto il profilo soggettivo. La regola cautelare deve, necessariamente, avere carattere "modale", deve cioè indicare con precisione le modalità e i mezzi ritenuti necessari ad evitare il verificarsi dell'evento (ovviamente la regola cautelare che impone l'astensione dall'attività pericolosa non ha carattere modale).
Si è sottolineato in dottrina che, fermi restando i criteri di prevedibilità ed evitabilità, l'individuazione delle regole cautelari, dal punto di vista oggettivo, va fatta con riferimento alla "miglior scienza ed esperienza" come unico idoneo criterio: a individuare i comportamenti fonte di pericolo e le condotte idonee ad evitarle; a potenziare la funzione pedagogica delle regole cautelari; ad evitare di privilegiare i soggetti dotati di conoscenze superiori; a garantire maggiormente esigenze di tassatività; a ridurre il relativismo della condotta.
La violazione delle regole cautelari, che hanno sempre efficacia preventiva e natura strumentale - a differenza delle norme penali che hanno invece natura prescrittiva e funzione repressiva - non è esclusiva del reato colposo; il consenso sull'affermazione che, anche nei diritti dolosi, possa aversi violazione di regole cautelari (per es. nelle attività consentite solo in presenza di determinati presupposti; il medico che esegue un aborto clandestino è comunque tenuto a rispettare le regole dell'arte medica) è sostanzialmente unanime in dottrina.

2. Colpa generica e colpa specifica.


Le regole cautelari si distinguono principalmente per la loro fonte che può essere giuridica o sociale: la trasgressione delle regole della prima specie da origine alla colpa specifica che si realizza per la violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline, cioè per la violazione di norme generali e astratte (leggi e regolamenti) ovvero di disposizioni che non hanno queste caratteristiche di natura normativa (ordini e discipline) ma si fondano sul potere di un soggetto o di un organo, dotati di poteri di supremazia, di imporre regole per l'esercizio di determinate attività.
Se la fonte delle regole non osservate è di origine sociale si parla invece di colpa generica tradizionalmente configurabile nella negligenza (trascuratezza, mancanza di attenzione, disinteresse, mancata considerazione dei segnali di pericolo ecc); nell'imprudenza (avventatezza, scarsa ponderazione, sottovalutazione dei segnali dei pericolo ecc.) e nell'imperizia (l'aver agito senza la conoscenza o senza l'applicazione delle leges artis). Non mancano però, in dottrina, gli inviti a non enfatizzare la distinzione tra le tre forme di colpa generica la cui funzione è solo quella di delimitare dall'esterno ciò che colpa non è. È poi da ricordare che una regola specifica invalida (per es. l'incompetenza di chi l'ha emanata) non vale ad escludere la colpa quando la condotta sia comunque inosservante di una regola cautelare di natura generica.
In linea di massima, ma non è sempre così, le regole cautelari specifiche sono scritte a differenza di quelle generiche che sono il frutto di massime di esperienza non codificate; come è stato efficacemente affermato "le cautele di fonte sociale sono la cristallizzazione dell'esperienza collettiva in regole comportamentali".
Il fondamento delle regole cautelari può essere di natura scientifica oppure soltanto riconducibile all'esperienza. È più frequente (ma non è sempre così) che quelle fondate su leggi scientifiche vengano normativizzate.
L'omogeneità tra le due forme di colpa è oggi generalmente riconosciuta ma non sempre la distinzione è chiara perché vi sono casi in cui la norma giuridica è generica e rimanda a regole sociali: l'esempio tipico è costituito dall'art. 140 C.d.S., comma 1 (che impone di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione). Da ciò, come è stato affermato, "consegue che quanto più è indeterminata la regola, tanto più la colpa specifica scolora in quella generica."
In materia di sicurezza sul lavoro una norma di questo genere è l'art. 2087 cod. civ..
Di recente è stato sottolineata l'esistenza di un processo diretto alla creazione di regole cautelari specifiche che non discendono da una volontà normativa superiore ma "dall'attività regolativa privata" che può essere spontanea (per es. le linee guida nelle attività mediche) o obbligata (per es. la redazione del piano di sicurezza per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o l'adozione di modelli organizzativi e gestionali per l'esenzione dalla responsabilità dell'ente collettivo). Questo processo è visto come realizzazione dell'esigenza di standardizzare il rischio nelle attività pericolose mediante la formulazione di programmi cautelari (cd. protocolli).

3. La natura normativa della colpa.


È noto che le più risalenti teorie fondavano la colpa su elementi psicologici (per es. la volontà negativa o incosciente) e a queste teorie si ispira anche il codice penale vigente dal momento che il titolo dell'art. 43 parla di "elemento psicologico del reato" anche se, per la colpa, la successiva definizione non tiene fede alla rubrica dando rilievo al solo fatto obiettivo della violazione della regola cautelare generica o specifica.
Oggi si è invece passati alla ormai pressoché generale accettazione della natura normativa della colpa nel senso che il fondamento della responsabilità a titolo di colpa è rinvenibile nella contrarietà della condotta a norme di comportamento di cui sono espressione le regole cautelari dirette a prevenire determinati eventi e nell'inosservanza del livello di diligenza oggettivamente dovuta ed esigibile.
Non deve più, dunque, farsi riferimento alla "rimproverabilità" della condotta perché fondata su una volontà inosservante o su una negligenza "inferiore" ma alla condotta obiettivamente tenuta in contrasto con regole che l'organizzazione sociale si è data - quando vengano svolte attività consentite che importino rischio di eventi dannosi - e senza che vengano in considerazione i processi psichici dell'agente (evidente è la differenza con il dolo che richiede invece proprio un'indagine sui processi psicologici, conoscitivi e volitivi, interiori).
Altrettanto superate sono le teorie che individuano il fondamento della colpa sulla mera inosservanza di un dovere di diligenza interiore, sulla mancanza di attenzione, sull'inerzia psichica, sul dovere di concentrazione: è stato infatti obiettato che, anche se attenta e concentrata, la condotta può risultare in concreto ugualmente scorretta e quindi colposa e, per converso, anche la condotta più disattenta può rivelarsi conforme alle regole di diligenza (con l'avvertenza che la diligenza di cui parliamo è quella interna, appunto di natura psicologica e non quella che si estrinseca nell'osservanza delle regole esterne di diligenza).
Si possono dunque condividere le conclusioni cui è pervenuta la dottrina moderna secondo cui la colpa, avendo un fondamento normativo e non psicologico, non esaurisce la sua collocazione teorica nell'ambito della colpevolezza ma attiene direttamente alla tipicità.
Sia che si tratti di colpa generica che di colpa specifica la responsabilità per colpa fa riferimento non ad un indefinito processo psicologico interiore ma ad un sistema normativo esterno, estraneo alla norma incriminatrice, i cui contorni peraltro (soprattutto nella colpa generica) non sono spesso esattamente definiti.


4. Regole cautelari proprie della protezione civile.


È da rilevare che la L. n. 225 del 1992 ha introdotto regole cautelari proprie della protezione civile che, pur potendosi ascrivere a generiche cautele che gli organi istituzionali devono adottare in generale, costituiscono un'applicazione specifica di queste cautele al tema che ci interessa.
Ci si riferisce in particolare all'art. 3 che ha espressamente previsto, tra le attività e compiti della protezione civile, la previsione (individuazione delle cause dei fenomeni calamitosi) e la prevenzione (attività dirette ad evitare o ridurre al minimo la possibilità che si verifichino danni conseguenti agli eventi calamitosi).
La conseguenza di questa disciplina è che le inosservanze di queste norme cautelari (omissione delle attività di previsione e prevenzione) costituiscono violazione di regole cautelari normativamente previste e quindi ipotesi di colpa specifica.
Nel caso in esame la contestazione all'imputato B. non ha riguardato le attività di previsione e prevenzione ma soltanto quelle relative alla gestione dell'emergenza per la quale sono state contestate al sindaco sia ipotesi di colpa generica (in particolare l'omesso allertamento della popolazione e l'omessa evacuazione della popolazione dalle zone a rischio; oltre alle ipotesi già indicate di comportamenti attivi) e di colpa specifica (la violazione della L. n. 225 del 1992, art. 15, commi 3 e 4; del piano di protezione civile del comune di ***; della direttiva Barberi).

5. La motivazione della sentenza di appello sull'elemento soggettivo. La percezione della gravità dell'evento.


La visione riduttiva dell'ambito e dei limiti della posizione di garanzia del sindaco - ritenuta solo residuale - e l'esclusione di una situazione di urgenza che giustificava anche l'utilizzazione delle competenze asseritamente residuali ha ovviamente ristretto l'esame della Corte di merito sull'esistenza della violazione di regole cautelari da parte dell'imputato.
Ma anche nell'esame di questi aspetti la sentenza impugnata adotta criteri ermeneutici non condivisibili. In particolare laddove - esaminando le comunicazioni effettuate da B. alla prefettura prima dell'invio del fax delle ore 20,47 - la sentenza fa riferimento, per ritenere adempiuti gli obblighi di informazione, non a quanto il sindaco avrebbe dovuto conoscere ma a quanto conosceva.
Significativi sono, nell'ottica indicata, alcuni passaggi della sentenza: "il Sindaco ha rappresentato fedelmente lo stato di cose constatato alle ore 17:30 in ***, attenendosi, quindi, alla realtà dei fatti, quale da lui percepita".
E più avanti: "la percezione del B. è rimasta quella riferita al dott. M. fino alle 18:30-18,45, ossia fino al sopralluogo compiuto in viale Margherita e in via Milone in compagnia del Ten. D.; ed è mutata solo in quell'occasione, quando il Sindaco ebbe cognizione dell'esistenza di abitazioni invase o isolate dal fango, e prese conseguentemente coscienza dell'inidoneità dei mezzi a disposizione del Comune a fronteggiare il fenomeno".
I criteri adottati dalla Corte di merito (e dal giudice di primo grado) per accertare se la condotta dell'imputato si sia rifatto a corrette regola prevenzionali richiedono un accenno preliminare ai principi che regolano l'individuazione del modello di agente.


6. L'agente modello. In generale.


La motivazione riportata chiarisce che la sentenza impugnata fa riferimento ad una nozione di "agente modello" che non appare condivisibile.
Premesso che se la regola cautelare impone l'astensione dall'attività pericolosa non si pongono i problemi cui si farà cenno occorre domandarsi quale criterio è necessario adottare per valutare se l'agente, nel caso di colpa generica, si sia attenuto alle richieste regole di diligenza, prudenza e perizia o se, nel caso di colpa specifica, il livello di rispetto della regola cautelare normativamente prevista - soprattutto nei casi in cui esistano diversi livelli di osservanza della regola - si sia mantenuto nei limiti richiesti.
Questo problema in realtà riguarda - come si vedrà più avanti anche i criteri utilizzati per verificare la prevedibilità dell'evento e anche quelli riguardanti l'evitabilità del medesimo; nel senso che anche per quanto riguarda lo scrutinio sulla possibilità che un evento possa verificarsi e sul grado di diligenza usato per evitarlo è necessario individuare criteri di misura oggettivi.
La giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza ecc. esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo verrebbe premiata l'ignoranza di chi non si pone in grado di svolgere adeguatamente un'attività pericolosa) o dall'uomo più esperto (che condurrebbe a convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall'uomo normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si rifanno invece a quello del cd. "agente modello" (homo ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale in grado di svolgere al meglio, anche in base all'esperienza collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili.
Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende un'attività, tanto più se pericolosa, ha l'obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei limiti del possibile nel caso di attività pericolose consentite) i beni dei terzi. Si parla dunque di misura "oggettiva" della colpa diversa dal concetto di misura "soggettiva" della colpa che non rileva nel presente giudizio.
È stato sottolineato che la necessità di individuare un modello standard di agente si rende ancor più necessaria nei casi (per es. l'attività medico chirurgica) nei quali difettano regole cautelari codificate anche se vanno sempre più diffondendosi linee guida e protocolli terapeutici.
L'agente modello, si è detto, va di volta in volta individuato in relazione alle singole attività svolte e "lo standard della diligenza, della perizia e della prudenza dovute......sarà quella del modello di agente che svolga la stessa professione, lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell'agente reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera quest'ultimo".
Il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d'avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto.
Non può infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di eccellenza possono conoscere e attuare ma, d'altro canto, non possono neppure essere convalidati usi scorretti e pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare l'esigenza di non consentire livelli non adeguati di sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte.


7. L'agente modello nel caso in esame.


A questi criteri non si è attenuta la Corte di merito che non si è posta il problema dell'osservanza delle regole cautelari in relazione alla situazione percepibile con l'osservanza delle regole di cautela esigibili nella fattispecie ma in relazione alla situazione concretamente percepita dal sindaco.
La tesi appare erronea perché agente modello è colui che adegua la propria condotta non a quanto di fatto percepisca ma a quanto avrebbe dovuto percepire utilizzando il grado di diligenza richiesto all'agente modello. Il tema confina con quello della prevedibilità ma presenta aspetti peculiari che possono essere brevemente esaminati.
L'agente modello, nella situazione data, non deve limitarsi ad un esame degli elementi che appaiono certi alla sua percezione ma deve anche ipotizzare (ovviamente nei limiti della prevedibilità) l'esistenza di situazioni non direttamente e immediatamente percepibili ma la cui esistenza non possa essere esclusa nella situazione contingente con una condotta di previsione esigibile dall'agente modello.
Insomma il dato di riferimento dell'agente modello - al fine dell'adeguamento della sua condotta all'osservanza delle regole cautelari applicabili nella specie - non è il percepito ma il percepibile con l'osservanza del livello di diligenza richiesto per il medesimo agente.

Sezione 9^: la prevedibilità dell'evento.


1. Premessa.


Nell'approfondire il tema dell'elemento soggettivo la sentenza impugnata affronta poi il problema della prevedibilità dell'evento e precisa che "nel caso di specie occorre verificare la possibilità per il B. di rappresentarsi in concreto, nel succedersi delle fasi dello specifico fenomeno, il reale effetto distruttivo delle colate rapide che stavano sopraggiungendo o almeno i suoi tratti distintivi fondamentali e di conoscere o quantomeno poter riconoscere l'evacuazione come il mezzo necessario ad evitare l'evento".
E, a fondamento del giudizio di imprevedibilità dell'evento, la sentenza indica i seguenti elementi:
- la particolarità del fenomeno delle colate rapide di fango, fenomeno rispetto al quale la comunità scientifica (e conseguentemente la protezione civile) era impreparata anche perché i precedenti avevano avuto natura diversa;
- nessuno in quel tragico giorno ebbe a sollecitare l'evacuazione dei siti a rischio;
- difettava la consapevolezza dell'elemento decisivo costituito dalla velocità della colata; e anche dopo le 20,30 non erano prevedibili gli eventi franosi;
la scelta di far evacuare le persone era "assolutamente opinabile".
La correttezza di queste argomentazioni, al fine di verificare la fondatezza dei motivi contenuti nei vari ricorsi, richiede un accenno ai problemi che si pongono nella verifica dell'esistenza della prevedibilità dell'evento.

2. La prevedibilità dell'evento. In generale.


La prevedibilità dell'evento riguarda l'elemento soggettivo del reato (la colpevolezza) e va accertata con criteri ex ante non potendo essere addebitato all'agente di non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere.
In questa accezione la prevedibilità dell'evento è certamente riferibile all'elemento soggettivo, la colpa, perché attiene al processo cognitivo dell'agente (ma non nel senso meramente psicologico, come si è già precisato) che è tenuto a prendere preventivamente in considerazione le conseguenze della sua condotta.
Naturalmente, da questo angolo visuale, l'agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto delle conseguenze della sua condotta che conosceva - o era tenuto a conoscere - in base alla sua professione e alla sua condizione (eiusdem condicionis et professionis): l'agente modello di cui si è già parlato.
Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo risiede nella necessità di evitare forme di responsabilità oggettiva.
Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato dall'agente, pur con l'adozione delle necessarie cautele, è evidente che il risultato non può essergli addebitato sotto il profilo della colpevolezza. Perché l'agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare (non è cioè sufficiente il versari in re illicita) ma è necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell'evento.
Se dunque quella conseguenza dell'azione non è stata prevista perché non era prevedibile non v'è responsabilità per colpa (non tenutur etiam pro casu). Detto in parole povere: il "senno di poi" non può avere ingresso nella responsabilità penale.
Non bisogna però confondere il giudizio di prevedibilità con quello relativo alla scarsa probabilità che un evento si produca in conseguenza di un determinato fattore causale perché anche eventi rarissimi riconducibili a determinate condotte sono generalmente conosciuti o conoscibili o comunque conosciuti nella cerchia degli esperti e quindi prevedibili. Si pensi al contagio di Hiv - che si verifica in una percentuale minima di rapporti sessuali ma è ormai di comune conoscibilità - o alle reazioni allergiche alle sostanze utilizzate per l'anestesia: in questi e in casi consimili non può certo affermarsi l'imprevedibilità dell'evento malgrado le percentuali di eventi dannosi siano assai limitate.


3. Criteri per verificare l'esistenza della prevedibilità.


Ma qual'è il parametro cui occorre rifarsi per valutare la prevedibilità (o, come taluni si esprimono in dottrina, il dovere di riconoscere) sotto il profilo soggettivo? È evidente che se si adottasse un criterio che fa riferimento all'agente concreto si ricadrebbe negli orientamenti che riferiscono la colpa all'elemento psicologico; e infatti dottrina e giurisprudenza seguono comunemente il criterio della prevedibilità facendo riferimento al criterio, di cui abbiamo già parlato, del cd. "agente modello", l'homo ejusdem professionis et condicionis non diversamente da quanto avviene per l'individuazione dei criteri per accertare il rispetto delle regole cautelari.
Essendo indiscusso che la valutazione relativa alla prevedibilità, sotto il profilo soggettivo, va fatta con criterio ex ante rimane però da decidere quale sia il momento cui occorre fare riferimento per poter pretendere che l'agente riconoscesse i rischi della sua attività e i potenziali sviluppi lesivi. Naturalmente non vanno presi in considerazione i successivi progressi della conoscenza mentre si deve tener conto di eventuali conoscenze superiori dell'agente.
Vi è anche un aspetto particolare sulla prevedibilità che riguarda la sicurezza sul lavoro: dopo il recepimento (a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626) della direttiva Ce 89/391, che impone all'imprenditore di effettuare una valutazione dei rischi - e quindi di prevederli - la colpa dell'imprenditore va ravvisata se un'adeguata valutazione dei rischi avrebbe rivelato la situazione di pericolo.
Questi principi, come si è già accennato, sono stati applicati anche alla protezione civile.
Con l'ingresso delle attività di previsione delle varie ipotesi di rischio nelle attività di protezione civile l'obbligo di prevedere i rischi è entrato a pieno titolo tra i compiti delle pubbliche amministrazioni alle quali sono attribuiti compiti in materia di protezione civile. Ne sono espressione i compiti di previsione attribuiti agli organi centrali della protezione civile previsti dalla L. n. 225 del 1992, artt. 4, 8 e 9 nonché, per quanto riguarda enti locali ed organi decentrati delle amministrazioni centrali, i compiti di previsione attribuiti alle regioni (art. 12, comma 2) e al prefetto (art. 14, comma 1).
Ai comuni questa attività di previsione verrà espressamente attribuita dalla legge dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, art. 108, lett. c), n. 1 ma già la direttiva Barberi aveva previsto, tra le attività preparatorie, compiti di previsione degli eventi disastrosi.
Il giudizio di prevedibilità vale a specificare il contenuto dell'obbligo di diligenza altrimenti astratto. Si è detto che "basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto del dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la conseguenza di poter fornire delle note di concretezza a quell'obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile nella sua astrattezza". Solo se il pericolo del verificarsi di un evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l'agente può essere obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad evitare il prodursi del fatto dannoso.
La dottrina è quindi da tempo sostanzialmente uniforme nel ritenere che il giudizio sulla colpa non possa prescindere da una valutazione sulla prevedibilità che, non essendo riferita all'agente concreto, ha caratteristiche di oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza.

4. L'evoluzione della giurisprudenza sul tema della prevedibilità.


La dottrina è da tempo pervenuta alle conclusioni indicate sul tema della prevedibilità mentre, in giurisprudenza, queste conclusioni sono di più recente acquisizione.
Un risalente orientamento, anche di legittimità, escludeva infatti che la prevedibilità costituisse elemento necessario per configurare la responsabilità per colpa e affermava che nella colpa (in particolare nella colpa specifica) la previsione dell'evento viene già compiuta con la formazione della regola cautelare per cui, nel concreto accertamento della colpa, il giudice deve soltanto accertare la violazione della regola cautelare e non anche la prevedibilità dell'evento (si vedano in questo senso le sentenze Cass., sez. 4^, 15 ottobre 1997 n. 10333, Pretto, rv. 209067; 25 settembre 1990 n. 14434, Severino, rv. 185674; 1 dicembre 1989 n. 1501, Iannuzzi, rv. 183204; 20 gennaio 1986 n. 5288, Ghirardello, rv. 173057; 18 febbraio 1982 n. 5512, Manassero, rv. 154060).
In altre decisioni si precisava invece che il requisito della prevedibilità riguardava i casi di colpa generica ma non era richiesto per la colpa specifica (v. Cass., sez. 4^, 27 febbraio 1987 n. 7130, Brizzi, rv. 176137; 16 ottobre 1984 n. 318, Serione, rv. 167350).
È evidente come questa giurisprudenza, più che errata, fosse elusiva del problema della prevedibilità. È infatti vero che quando viene dettata una regola cautelare si formalizza un giudizio di prevedibilità di un evento dannoso; ma il problema da risolvere è proprio quello di individuare se l'evento in concreto verificatosi fosse ricompreso tra quelli che, nella redazione della regola cautelare, si volevano evitare.
Non può quindi esservi dubbio che, anche per la colpa specifica, si pone il problema di verificare se l'evento verificatosi fosse prevedibile. E anche la giurisprudenza della Corte di cassazione si è adeguata a questi principi (Cons. Cass., sez. 4^, 22 novembre 1996 n. 2147, Marconi, rv. 207573; 28 aprile 1994 n. 11007, Archilei, rv. 200387; 1 luglio 1992 n. 1345, Boano, rv. 193035. Nella giurisprudenza di merito v., tra le altre, Trib. Foggia 10 maggio 2000, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1592).
Va semmai verificato, anche alla luce di orientamento giurisprudenziale di legittimità (v. Cass., sez. 4^, 20 aprile 2005 n. 11351, Stasi e Bucci, rv. 233656-8; 6 luglio 2007 n. 37606, Rinaldi, rv. 237050) se la norma cautelare violata abbia contenuto "rigido" o "elastico", cioè se il comportamento richiesto sia dalla medesima delineato con assoluta precisione ovvero se abbisogni, per poter essere applicata, di un legame più o meno profondo con le circostanze del caso concreto.
Nel primo caso (norma "rigida"), secondo questo orientamento, il giudizio di prevedibilità ed evitabilità è già intrinseco nella norma e l'agente non ha altra alternativa che quella di adeguarvisi.

5. Quale evento può essere ritenuto prevedibile?

Il problema di maggior complessità da risolvere è quello dell'individuazione dei criteri da utilizzare per verificare se un evento causalmente riconducibile alla violazione di una regola cautelare fosse prevedibile: in particolare se la prevedibilità debba riguardare lo specifico evento realizzatosi - ovvero una categoria di eventi riconducibili alla medesima causa - e quale grado di specificità sia richiesto nell'individuazione degli eventi.
La giurisprudenza di legittimità su questo punto è univoca; si è da tempo affermato (da Cass., sez. 4^, sentenza 6 dicembre 1990 n. 4793, Bonetti, rv. 191788-805 relativa al disastro di Stava) che "ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione." Queste conclusioni sono state ribadite dalla successiva giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sez. 4^, 31 ottobre 1991 n. 5919, Rezza, rv. 191809; 30 marzo 2000 n. 5037, Camposano, rv. 219423-8).
L'approfondimento di questo importante aspetto attinente al tema della prevedibilità richiede però il preventivo esame di altri problemi, in parte coincidenti o sovrapponibili, la cui soluzione sarà utile per risolvere i problemi riguardanti la fondatezza o meno delle censure riguardanti l'elemento soggettivo contenute nei ricorsi.


6. Prevedibilità e leggi scientifiche.


Si è visto che, anche per la verifica dell'esistenza della prevedibilità dell'evento, occorre rifarsi al criterio dell'agente modello. Agente modello che dovrà utilizzare (oltre alle regole d'esperienza convalidate dall'uso) le pertinenti leggi scientifiche utili a questo fine, ove esistano. Ma ben diverso è il ruolo delle leggi scientifiche nell'accertamento della colpa e della causalità.
Per l'accertamento della colpa le leggi scientifiche devono essere utilizzate ai fini della prevedibilità di un evento con una valutazione ex ante che rende (o dovrebbe rendere) riconoscibile all'agente il pericolo del verificarsi di un evento dannoso con la conseguenza del sorgere dell'obbligo di astensione o di osservare determinate regole cautelari.
Per l'accertamento della causalità la legge scientifica potrà e dovrà invece essere utilizzata, anche con valutazione ex post (che potrà tener conto anche delle leggi scientifiche formulate dopo la verificazione dell'evento; ciò che è inammissibile ai fini della colpa) diretta a ricostruire l'evento già verificatosi e a confermare, o escludere, l'addebito oggettivo a carico dell'agente.
Si è detto che questa differenziazione tra le regole di accertamento della colpa e della causalità deriva dalla circostanza che la causalità è una legge descrittiva non deontica e quindi rileva come regola di giudizio non di condotta.
Ma mentre l'accertamento della causalità va compiuto in termini di "elevata credibilità razionale" - nel senso che l'ipotesi scientifica deve avere un elevato grado di conferma e le ipotesi alternative debbono essere ragionevolmente escluse (cfr. Cass., sez. un., 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, rv. 222138-9) - nel giudizio predittivo ex ante, ai fini della colpa, la legge scientifica (così come le regole di esperienza) vale a rendere concreto il giudizio di prevedibilità che va ancorato non all'elevata credibilità razionale che l'evento, in presenza di una certa condotta, si verifichi ma alla possibilità (concreta e non ipotetica) che la condotta possa determinare l'evento.
Per esemplificare: se in sede scientifica si discute se un medicinale provochi gravi effetti secondari è in colpa il medico che lo prescriva, in mancanza di necessità, pur esistendo farmaci innocui con uguali effetti terapeutici se il raro evento secondario di cui si discuteva si verifichi in concreto. Se in una fabbrica si accerta empiricamente che gli addetti ad un certo reparto vengono colpiti da una determinata patologia l'obbligo cautelare impone di adottare le cautele necessarie per evitare il ripetersi degli episodi anche prima che ne venga scientificamente accertata la causa.
Il giudizio sulla colpa non va quindi ancorato all'elevata credibilità razionale (in buona sostanza: ad un elevato grado di probabilità) che quell'evento si produca ma alla concreta possibilità che ciò avvenga.
In ogni caso l'efficacia delle leggi scientifiche - non diversamente da quelle fondate su regole d'esperienza - non sarà mai diretta e immediata ma dovrà essere filtrata attraverso la regola cautelare.
Come è stato affermato "il fine di tutela non può essere desunto direttamente dalle leggi scientifiche e di esperienza che pure convalidano l'efficacia preventiva della norma cautelare, dovendosi l'interprete attenere ai termini in cui esse vengono filtrate dalla fonte di produzione della regola. Diversamente opinando, infatti, si finirebbe per vanificare - anche per quanto riguarda gli effetti che ne discendono sul piano della tipicità penale - la specifica funzione delle regole cautelari giuridiche, che è quella di imporre una determinata cautela standardizzata, escludendo al contempo la possibilità di un diverso - e anche più efficace - trattamento del rischio".
Naturalmente come è possibile accertare l'esistenza del rapporto di causalità anche in base a generalizzate regole di esperienza, e in mancanza di leggi scientifiche di conferma, a maggior ragione l'accertamento della prevedibilità dell'evento sotto il profilo soggettivo potrà prescindere dall'esistenza di leggi scientifiche.
Una diversa ricostruzione costituirebbe un'indebita trasposizione delle regole che governano l'accertamento della causalità al tema della colpevolezza. In tema di causalità si tratta di addebitare oggettivamente un evento dannoso alla condotta dell'agente, di accertare quindi se il fatto è "suo" (per es. se quella morte è stata da lui provocata con la sua condotta inosservante); è ovvio che le regole processuali di un paese che si ispira ai principi della democrazia liberale debbano richiedere, sul piano probatorio, quell'elevato grado di probabilità - in cui si esprimono le regole dell'elevato grado di credibilità razionale e dell'oltre il ragionevole dubbio - che possa consentire di addebitare ad un soggetto un evento.
Ma le regole che disciplinano l'elemento soggettivo hanno natura non di verifica a posteriori della riconducibilità di un evento alla condotta di un uomo ma funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele anche se è dubbio che la mancata adozione provochi eventi dannosi.
La trasposizione e l'utilizzazione all'accertamento della colpa dei criteri utilizzati per l'accertamento della causalità comporterebbe, in tema di prevenzione di rischi ed in particolare di quelli alla salute, che sarebbe esigibile l'adozione delle regole cautelari (anche di quelle già previste dalla legge) solo dopo che fosse stato accertato, in termini di elevata credibilità razionale (secondo i criteri indicati nella già citata sentenza Cass., sez. un., 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, in tema di causalità) che alla mancata adozione di regole di cautela consegua un determinato effetto dannoso.
Ma questa operazione ermeneutica avrebbe come ovvio risultato quello di porre nel nulla la natura preventiva delle regole cautelari dirette ad evitare il verificarsi di eventi dannosi anche se scientificamente non certi (purché non solo congetturali) ed anche se non preventivamente e specificamente individuati.
È dunque da ritenere obbligata la conclusione che (a differenza dell'addebito oggettivo per il quale, sotto il profilo della causalità, è necessario accertare che l'evento non si sarebbe verificato con elevato grado di credibilità razionale se fosse stata posta in essere la condotta richiesta) ben inferiore è la soglia che impone l'adozione della regola cautelare.
Come è stato affermato in dottrina "il principio di colpevolezza sembra rispettato nella misura in cui il soggetto, al momento della condotta, possa seriamente rappresentarsi la rischiosità del suo agire o del suo omettere rispetto a determinati eventi, corrispondenti a quelli poi verificatisi, anche laddove sulla pericolosità della condotta non vi sia, ex ante, pieno consenso della comunità scientifica". E il medesimo Autore sottolinea altresì l'importanza dei signa facti quanto alla necessità di adozione di determinate cautele facendo l'esempio dell'aumento delle dermatiti in lavoratori che maneggino determinate sostanze: aumento che genera anzitutto, prima che ne venga accertata scientificamente l'origine, l'obbligo di far utilizzare i guanti protettivi.
A non diverse conclusioni rispetto a quelle derivanti dall'esperienza empirica deve pervenirsi nei casi in cui ci si trovi in presenza dei primi approfondimenti scientifici o di studi epidemiologici ancora incompleti o di esperimenti condotti su animali.
A meno che i primi esiti siano idonei ad escludere l'ipotesi causale - o esistano ragioni plausibili per escludere l'applicabilità all'uomo dell'esperimento condotto su animali - sorge, o persiste, l'obbligo dell'adozione delle cautele necessarie per evitare il prodursi degli eventi dannosi che, di volta in volta, potranno individuarsi nell'adozione di più rigorose cautele (per es. la riduzione dei livelli di esposizione), nell'innovazione degli impianti concretamente ritenuta esigibile o, addirittura, nella sospensione dell'attività quando, per es., non sia individuabile una soglia di dannosità e il rischio sia troppo rilevante.
Né può affermarsi che questa costruzione finisca per confondere il tema della colpa con il principio di precauzione che si differenzia significativamente. Il principio di precauzione è invocato correttamente nei casi (gli esempi sono noti: le onde elettromagnetiche, la telefonia cellulare, gli organismi geneticamente modificati) per i quali si è rimasti a livello del sospetto che, in presenza di certi presupposti, possano verificarsi effetti negativi in particolare sulla salute dell'uomo.
Ben diversi sono i casi di effetti nocivi provocati da sostanze per le quali sono già conosciuti effetti lesivi importanti o per i quali è stata verificata concretamente l'attitudine lesiva anche se non è stato ancora spiegato il meccanismo causale; casi nei quali non ha dunque senso invocare il principio di precauzione.


7. La soluzione della sentenza impugnata.


In buona sostanza il nucleo del ragionamento della Corte d'Appello di Salerno è questo: i fenomeni che si erano verificati negli anni precedenti non avevano mai assunto caratteristiche simili a quelle del fenomeno verificatosi il *** sia per le dimensioni che per la velocità della colata.
Non era dunque prevedibile che potesse verificarsi un fenomeno così distruttivo e devastante come quello in esame e dunque non era esigibile dal sindaco (anche ammesso che rientrasse nei suoi poteri: il che è negato dalla Corte) che egli disponesse l'allertamento e l'evacuazione delle popolazioni che si trovavano nelle zone a rischio.
Del resto, si osserva nella sentenza impugnata, la stessa comunità scientifica ignorava sostanzialmente il fenomeno delle colate rapide e si conoscevano solo due esempi di questi fenomeni mai verificatisi in Italia o in Europa ma solo in altre parti del mondo.
Come è dunque possibile, argomentano i giudici di merito, che il sindaco B. potesse prevedere un'evoluzione così catastrofica del fenomeno? Tanto più - ma si tratta di conferme di natura argomentativa più che dimostrativa - che nessuno aveva sollecitato l'evacuazione e che comunque questa scelta era assolutamente opinabile.
Su quest'ultimo aspetto va ricordato che, effettivamente, nel processo di merito si è discusso a lungo se il direttore sanitario e il vice direttore sanitario ( P. e C.) avessero chiesto lo sgombero del plesso ospedaliero *** poi crollato; sotto questo profilo la risposta negativa dei giudici di merito è adeguatamente e logicamente motivata e dunque lo specifico motivo contenuto nel ricorso del Procuratore generale deve essere ritenuto inammissibile perché diretto a rivalutare una circostanza fattuale sulla quale i giudici di merito hanno argomentato in modo non illogico.
Ma v'è da aggiungere che la circostanza è da ritenere irrilevante in quanto l'eventuale sollecitazione, anche se esistente, non proveniva da persone che avessero una competenza specifica o che evidenziassero circostanze rilevanti al fine di prevedere la tragica evoluzione degli eventi.
Era dunque il titolare della posizione di garanzia - il sindaco appunto - che aveva l'obbligo giuridico di valutare la possibilità di adottare i provvedimenti imposti dalla gravità della situazione utilizzando tutti gli strumenti di conoscenza a sua disposizione indipendentemente dalle opinioni personali delle persone, pur interessate all'evolversi degli avvenimenti, che non esprimevano pareri di natura tecnica o scientifica dei quali dovesse tenersi conto.

8. La correttezza giuridica della soluzione adottata.


Il contenuto delle altre argomentazioni della sentenza impugnata non è invece condivisibile.
Il giudizio di prevedibilità non va infatti compiuto con riferimento a quanto è avvenuto in passato ma a quanto può avvenire in futuro nel senso che involge un giudizio di rappresentabilità di possibili, ulteriori e più gravi eventi dannosi. Se è noto che un territorio ha caratteristiche di elevato rischio sismico non è sufficiente, nella valutazione della prevedibilità di eventi dannosi, riferirsi ai terremoti verificatisi in passato ma occorre fare riferimento alla possibilità che se ne verifichino di più devastanti. Le costruzioni dovranno quindi rispondere a questo più elevato grado di sicurezza.
Un altro esempio può meglio spiegare il senso del ragionamento: se si conosce che un fiume è soggetto a esondazioni la regola cautelare da adottare non è quella di evitare insediamenti abitativi nelle zone storicamente colpite dalle alluvioni - perché è sempre possibile, e quindi prevedibile, che se ne verifichino di più estese - ma quella di escludere questi insediamenti nelle zone che in astratto potrebbero essere colpite da una inondazione di dimensioni maggiori rispetto a quelle storicamente verificatisi (o di costruire argini che possano prevenire il verificarsi di eventi dannosi in relazione alle inondazioni ipotizzabili).
Non va infatti dimenticato che la valutazione sulla prevedibilità ha sempre caratteristiche predittive quindi da adottare con un giudizio a priori - sul quale ciò che è avvenuto in passato costituisce un elemento di conoscenza rilevantissimo e ineliminabile - che non può prescindere dalla valutazione su che cosa può avvenire in futuro a meno che le caratteristiche del fenomeno non siano da sole idonee a fondare un giudizio di esclusione di più gravi conseguenze (per tornare all'esempio dello straripamento del fiume: se il corso del fiume è costeggiato da montagne è evidente che il rischio di una futura alluvione non può che riguardare le aree golenali ed eventuali aree adiacenti pianeggianti non certo le pendici della montagna).
E allora, su questo punto, il giudizio di prevedibilità andava compiuto tenendo certamente conto dell'esperienza del passato ma senza ignorare l'esistenza di una possibilità di evoluzione dei fenomeno e ipotizzando quindi la più distruttiva ipotesi che potesse verificarsi o che il fenomeno disastroso poteva comportare. Non è conforme alla condotta esigibile dall'agente modello il comportamento di chi da per scontata (in mancanza di alcun elemento di conferma) l'ipotesi che un fenomeno ripetitivo si verifichi nelle stesse dimensioni e con le stesse caratteristiche di gravità di quelli già verificatisi negli anni precedenti, tanto più che anche il livello di gravità di questi precedenti fenomeni non era stato identico.
L'agente modello in una situazione quale quella descritta è quello in grado di ipotizzare le conseguenze più gravi di un fenomeno ricorrente; non quello che si adagia su esperienze precedenti senza che esistano elementi di conoscenza che consentano di escludere che i fenomeni possano avere carattere di maggior gravità.
Anzi è proprio la natura ricorrente del fenomeno che impone un obbligo di maggior diligenza nell'affrontare la situazione. Se quel fenomeno non si fosse mai verificato la possibilità di prevederlo era più limitata ma, essendosi già verificato, occorreva valutare se era ipotizzabile quella maggior gravità che lo ha nel nostro caso caratterizzato. Evidente è dunque l'illogicità della sentenza di primo grado che ritiene "ragionevole e giustificabile" il convincimento di trovarsi di fronte un fenomeno simile a quelli precedenti.
Ma, si dice nelle sentenze di merito, anche gli scienziati ignoravano la possibilità che si verificassero quelle colate rapide di fango che hanno costituito la causa delle morti verificatesi nel nostro caso. Come poteva il sindaco B. - anche se svolgeva attività professionale di ingegnere - disporre di quelle conoscenze specialistiche necessarie che neppure gli scienziati esperti di questi temi hanno dimostrato di avere? Ma questa non costituisce una giustificazione ma, al contrario, una conferma dell'addebito soggettivo.
Se di un fenomeno naturale (o anche cagionato dall'uomo) non si conoscono le caratteristiche fondamentali - in particolare le cause, le possibilità di evoluzione, gli effetti possibili - la cautela che occorre usare nell'affrontarlo per eliminarne o ridurne le conseguenze deve essere ancor maggiore proprio perché non si possono escludere, con valutazione ex ante fondata su conoscenze scientifiche affidabili, gli effetti maggiormente distruttivi.

9. La prevedibilità dell'evento nel caso concreto.


Ma la sentenza impugnata non si sottrae alle censure proposte neppure sotto il profilo del denunziato vizio di motivazione per quanto riguarda la prevedibilità dell'evento disastroso in concreto verificatosi.
Senza entrare in valutazioni di merito il cui esame è precluso al giudice di legittimità palesi infatti appaiono la contraddittorietà e la manifesta illogicità della sentenza impugnata (e di quella di primo grado da quest'ultima espressamente richiamata).
Sotto questo profilo va intanto osservato che i giudici di merito, ai fini del giudizio di prevedibilità, alcun conto hanno tenuto (o l'hanno immotivatamente sottovalutato) della circostanza che il piano comunale di protezione civile del 1995 qualifica come "alto" il rischio di frane e valanghe nel comune di *** (p. 102 della sentenza di primo grado).
In secondo luogo va rilevato che entrambe le sentenze hanno spostato ad un orario che, indicativamente, può essere individuato nelle ore 20,00 del *** il momento nel quale palese era divenuto che il fenomeno non avesse più le dimensioni delle colate verificatesi in anni precedenti ma fosse caratterizzato da una potenza devastante ben superiore. Ma questa conclusione si pone in evidente contrasto con quanto le sentenze medesime hanno accertato in fatto tanto da ritenere che, già alle ore 16, esistevano elementi di conoscenza tali da far ritenere un'evoluzione ben più grave del fenomeno in atto.
In base a quanto emerge dalla sentenza di primo grado già in ora di poco successiva alle ore 16 il comandante della stazione dei Carabinieri di *** constatava personalmente (v. p. 21 della sentenza) che una parte dell'abitato (zona ***) era stata invasa dal fango che aveva raggiunto l'altezza di due metri ed operava, insieme ad appartenenti alla Guardia di Finanza, numerosi sgomberi di abitazioni (circa 100 persone furono evacuate) nelle quali il fango era entrato provocando anche lo sfondamento di qualche muro.
Dalla sentenza di primo grado (p. 22) emerge ancora, dalle dichiarazioni di un appartenente alla polizia di Stato, che alle ore 16,15 un'abitazione era stata sommersa da un'ondata di fango alta 4 o 5 metri. Altre fonti parlano di fanghiglia "nell'ordine di metri" accumulata in un portone, di "muraglia di fango alta quasi due metri" in frazione ***.
Alle 17,30 circa 250-300 persone a seguito della colata di via *** trovavano rifugio all'interno del duomo sito in *** (p. 24). In orario corrispondente si verificava uno smottamento in prossimità della via *** cui si aggiunse subito dopo un secondo e più forte crollo della sede stradale (p. 25 e 197) per circa 30-40 metri.
Sempre nel medesimo arco temporale un ispettore della polizia di Stato constatava che nella zona di *** il fango aveva raggiunto un'altezza di un metro e mezzo circa tanto che, insieme ai colleghi, provvedeva a far allontanare dalle abitazioni del luogo alcune persone che vi abitavano (p. 25).
Nelle ore successive - indicativamente tra le ore 18,30 e le ore 20,50 - avvenne che gran parte delle persone che si erano rifugiate nel duomo sito in Episcopio fuggirono a seguito del verificarsi di una frana verificatasi sul lato di un ristorante del luogo e di "un'ulteriore frana molto più forte"; questo "sgombero spontaneo" fu favorito da appartenenti alla polizia di Stato recatisi sul luogo (p. 26). In queste ore (alle ore 19,50 e alle ore 20) si verificano due colate di "terribile portata" e la successiva evoluzione degli eventi è analiticamente descritta dalla sentenza di primo grado (p. 25 ss.).
Nella terza fase, che va dalle ore 20,50 alle ore 23,50, si verificano le tre colate più distruttive - due alle ore 23,45 e una alle ore 23,50 - con interruzione dell'erogazione dell'energia elettrica (avvenuta alle ore 20,18). È a quest'ultima fase che può farsi risalire il crollo di diversi edifici - ed in particolare di un padiglione dell'ospedale *** - che ha provocato il maggior numero di vittime.
È del resto la stessa sentenza del Tribunale (p. 121) a rilevare che il fenomeno, dalle ore 16 in avanti, era "riconducibile al ricorrente schema della lava già registratosi negli anni precedenti, quand'anche con dimensioni maggiori e, dunque, con conseguenze più pregiudizievoli in termini di viabilità e di invasione dei seminterrati e degli atri ad opera dell'acqua, dei detriti e del fango".
E la sentenza impugnata mostra di condividere questa valutazione laddove (a p. 42) afferma che, anche prima delle ore 20,00, "la situazione si presentava ben diversa e cioè come un fenomeno con dimensioni maggiori rispetto allo schema della lava degli anni precedenti, e con conseguenze ancora più pregiudizievoli in termini di viabilità, nonché di isolamento delle case e di invasione delle stesse ad opera del fango, ma senza che fosse contezza di edifici crollati, né tanto meno di persone decedute o ferite".
Insomma i giudici di merito riconoscono che già alle ore 16 e successivamente, ma prima delle ore 20, il fenomeno appariva di maggior gravità e intensità rispetto a quello degli anni precedenti.
Con la conseguenza che l'evoluzione peggiorativa non solo diveniva maggiormente prevedibile ma, addirittura, era in atto. E dunque il giudizio di non prevedibilità dei giudici di merito è manifestamente illogico e contraddittorio perché contrasta irrimediabilmente con quanto dagli stessi giudici accertato.


Sezione terza: comportamento alternativo lecito ed evitabilità dell'evento.


1. Il comportamento alternativo lecito.


Si è già accennato come non sia sufficiente che l'agente abbia violato la regola cautelare, che questa violazione abbia cagionato l'evento e che quel tipo di eventi fosse ricompreso nella previsione della norma cautelare. È necessario che venga individuata anche la condotta ("comportamento alternativo lecito"; ma in dottrina vi è chi preferisce denominarlo "comportamento alternativo diligente") che, se posta in essere, avrebbe evitato il verificarsi dell'evento;
l'evento dunque non solo deve essere prevedibile ma altresì evitabile o prevenibile.
È chiaro che il problema di individuare il comportamento alternativo lecito non si pone quando la regola cautelare imponga di astenersi da una determinata attività: in questo caso il comportamento alternativo lecito è costituito dalla mera omissione della condotta vietata.
Il comportamento alternativo lecito non costituisce una mera condotta osservante delle regole cautelari (contrapposta alla condotta inosservante delle medesime regole) ma una condotta che, se posta in essere, sarebbe stata idonea ad evitare l'evento: se l'automobilista percorre la sua corsia di marcia e si avvede che altro automobilista percorre in senso inverso la sua corsia non è sufficiente che adotti una condotta osservante - per es. fermarsi - ma è necessario che adotti quella che, in quella situazione, gli consente di evitare l'urto tra i due veicoli (per es. invadere l'altra corsia se libera).
Come si è già accennato è dunque l'evitabilità dell'evento, ancor più della sua prevedibilità (che ne costituisce il presupposto), che indirizza la formazione della regola cautelare secondo criteri sociali o giuridici; se esiste il pericolo o il rischio di un evento che può essere immaginato la regola cautelare sarà formulata in relazione a questo rischio ma la sua concreta definizione non potrà che avvenire in base alla concreta possibilità che questa regola, se osservata, sia idonea ad evitare l'evento.
Va segnalato che, secondo un'opinione dottrinale, la verifica se il rispetto della regola cautelare avrebbe di fatto impedito il verificarsi dell'evento "coincide totalmente, nell'ambito della responsabilità omissiva, con quella relativa al nesso causale tra omissione ed evento" mentre l'accertamento avrebbe una sua autonomia nel caso della causalità commissiva.
Ma questa tesi non sembra condivisibile. Sotto il profilo causale il giudice deve accertare se quell'omissione ha avuto efficienza causale nel cagionare l'evento; se questo accertamento ha esito positivo (il medico non è intervenuto per suturare la ferita dell'infortunato) occorre poi verificare se l'agente poteva porre in essere la condotta salvifica. Il primo aspetto riguarda la causalità; il secondo l'elemento soggettivo perché l'intervento omesso poteva non essere esigibile dal medico (per es. perché non disponeva dei mezzi necessari per l'intervento).

2. L'evitabilità dell'evento.


La evitabilità o prevenibilità dell'evento viene comunemente riferita all'elemento soggettivo del reato. Si dice: non può essere ritenuto in colpa chi abbia violato regole di cautela astrattamente idonee ad impedire il verificarsi di un evento se questo evento era comunque destinato a prodursi. Non è dunque sufficiente che l'evento sia stato cagionato da una condotta colposa ma è necessario accertare quale diversa condotta, rispettosa delle regole cautelari, sarebbe stata idonea ad impedire il verificarsi dell'evento.
In realtà l'evitabilità riguarda sia l'elemento oggettivo del reato - l'evento appunto - sia l'aspetto soggettivo di esso.
Sotto il primo profilo (quello oggettivo) deve osservarsi che se, con valutazione ex post, si verifica che l'evento - anche per l'esistenza di caratteristiche del caso non conoscibili in precedenza - non era comunque evitabile, anche se fosse stata posta in essere una condotta esente da colpa, vuoi dire che la condotta colposa non ha avuto efficacia causale (nel senso che difetta la causalità della colpa) perché l'evento era oggettivamente inevitabile e quindi l'esonero da responsabilità si verifica indipendentemente dai processi conoscitivi e volitivi dell'agente e dal loro contenuto (è infatti irrilevante che l'agente conoscesse che l'evento era inevitabile) così come è privo di rilievo che l'inevitabilità dell'evento fosse conoscibile prima o dopo che si è verificato. Trattasi dunque di prevedibilità in concreto.
L'addebito dell'evento sotto il profilo soggettivo va invece compiuto con criteri di accertamento dell'evitabilità ex ante. La prevenibilità che riguarda l'elemento soggettivo è la prevenibilità in astratto: se si accerta, con valutazione ex ante, che il comportamento alternativo lecito richiesto all'agente modello non era astrattamente idoneo ad evitare il verificarsi dell'evento l'agente non è in colpa anche se poi, in concreto, si verifichi questa idoneità.
Queste diverse prospettive di valutazione della prevenibilità erano state già lucidamente individuate in dottrina con l'affermazione che la prevenibilità "serve ad individuare......quali sono i comportamenti che occorre omettere o tenere, perché idonei ad evitare un danno, non ad escludere la colpa ove si provi che un certo evento si sarebbe verificato anche se fossero state osservate le regole di diligenza, prudenza, ecc. L'indagine relativa all'evitabilità, in concreto, dell'evento, attiene all'accertamento del rapporto causale e precede, quindi, il momento soggettivo".
La prevenibilità sotto il profilo soggettivo implica una valutazione che deve essere compiuta ex ante dall'agente che deve condurla secondo il criterio dell'agente modello al fine di avere contezza se la sua condotta sarà idonea ad evitare che l'evento si verifichi.
L'agente potrebbe infatti essere erroneamente convinto che il suo intervento sia inutile e in questo caso verserà in colpa se l'errore è colpevole. Se invece questo convincimento si rivelasse incolpevole verrebbe meno l'obbligo di intervenire con il rispetto delle regole cautelari (per es. il medico del pronto soccorso viene erroneamente informato da altro medico che il paziente, contrariamente al vero, è deceduto e non interviene cagionando la morte effettiva del paziente:
l'evento era evitabile ma non può essere soggettivamente a lui addebitato perché non gli è soggettivamente addebitabile l'evitabilità).
L'agente deve infatti prevedere le conseguenze della sua condotta inosservante ma se, incolpevolmente, non agisce perché ritiene che la sua condotta non avrebbe comunque evitato il verificarsi dell'evento la sua condotta inosservante non potrà essere sanzionata perché nel suo processo cognitivo la falsa rappresentazione sull'evitabilità non è a lui soggettivamente addebitabile.

3. Evento diverso, cagionato da diverso processo causale o realizzato in tempi diversi.


Non bisogna però confondere i casi nei quali l'osservanza della regola cautelare non sarebbe stata comunque idonea ad evitare il verificarsi di "quello" specifico evento (per es. il chirurgo esegue impropriamente un intervento chirurgico che comunque non avrebbe potuto salvare la vita del paziente) dai casi nei quali l'evento finale non era evitabile ma, in concreto, è stato cagionato da una diversa causa (nell'esempio del chirurgo si può fare l'ipotesi in cui l'agente tagli inavvertitamente un vaso provocando la morte del paziente che comunque non era evitabile per la gravità della malattia; si pensi ancora al caso della errata somministrazione di una medicina con esito mortale quando la morte comunque sarebbe conseguita alla somministrazione del farmaco prescritto per la incolpevolmente non conosciuta intolleranza del paziente).
In questo secondo caso - che riguarda l'evitabilità sotto il profilo della causalità - il problema presenta aspetti che devono essere valutati diversamente perché in realtà la morte del paziente è stata provocata in esito ad un processo causale diverso da quello che l'avrebbe comunque provocata (nei reati dolosi un caso equiparabile è quello di chi spara al condannato a morte nel momento in cui il boia sta operando per provocarne la morte).
Un conto è eseguire impropriamente un intervento chirurgico che non avrebbe comunque potuto avere esito favorevole (per es. il chirurgo non riesce ad arrestare un'emorragia conseguente all'intervento); un conto è provocare la morte per una diversa causa (per es. somministrando una dose eccessiva di anestetico).
Insomma anche chi è destinato a morire ha diritto alla tutela della sua vita; potrà andare esente da colpa chi non si attiva sufficientemente o adeguatamente nell'impossibile risultato di salvare la vita del paziente non chi gliela toglie in esito ad una condotta che pone in essere un processo causale diverso.
Naturalmente queste considerazioni non riguardano i casi in cui l'inosservanza delle regole cautelari ha provocato un evento diverso e più grave ovvero un anticipato (in misura non irrilevante) verificarsi dell'evento: in questo caso l'evento è diverso e la sua maggior gravità (o la sua anticipazione) realizza, se colpevole, gli elementi costitutivi del reato.
Questo tema riguarda la causalità ma, per la stretta attinenza al tema che stiamo trattando, deve comunque osservarsi che il rapporto causale, sia nella causalità commissiva che in quella omissiva, va riferito non solo al verificarsi dell'evento prodottosi ma anche in relazione alla natura e ai tempi dell'offesa e dunque deve essere riconosciuto non solo nei casi in cui sia provato che l'intervento doveroso omesso (o quello corretto in luogo di quello compiuto nella causalità commissiva) avrebbe evitato il prodursi dell'evento in concreto verificatosi, o ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia provato che l'evento si sarebbe verificato in tempi significativamente (non minuti od ore) più lontani.

4. Evitabilità e regole cautelari inidonee.


Tornando all'esame del problema dell'evitabilità sotto il profilo soggettivo va osservato che, nei casi nei quali si accerti che l'evento non era prevenibile anche se fossero state osservate le regole cautelari pertinenti, deve comunque procedersi all'accertamento se non esista una diversa regola cautelare la cui inosservanza abbia avuto efficienza causale sul verificarsi dell'evento (per es. nel caso di somministrazione del farmaco l'obbligo di utilizzare idonei metodi diagnostici per accertare preventivamente l'esistenza dell'intolleranza).
Va ancora rilevato che, sotto il profilo soggettivo, è da escludere la colpa se la condotta sicuramente causale sia stata osservante delle regole cautelari ritenute idonee (o addirittura normativamente prescritte) all'epoca della condotta medesima anche se, successivamente, sia stata accertata la loro inidoneità a meno che tale inidoneità non fosse conosciuta o conoscibile al momento della condotta.
Analogamente, quando l'agente abbia optato, in una situazione di emergenza, tra uno dei comportamenti alternativi consentiti - in una situazione nella quale non esistevano elementi conoscitivi per operare la scelta maggiormente idonea, tra le condotte ipotizzabili, ad evitare l'evento - andrà esente da colpa se, successivamente, l'alternativa prescelta si sia rivelata produttiva di danno.
Attiene alla causalità, e non alla colpa - e quindi è sufficiente un semplice accenno - il problema relativo al livello di conferma dell'efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito quando la condotta sia stata sicuramente causale per il quale una corrente dottrinale afferma la sufficienza dell'aumento del rischio o quanto meno la correttezza di un accertamento meramente probabilistico.

6. L'evitabilità degli eventi nel caso in esame. Omessa convocazione del comitato di protezione civile e ritardato allarme alla prefettura di Salerno.


Tornando, dopo queste premesse di carattere generale, al tema dell'evitabilità degli eventi conseguenti alle colate di fango che hanno colpito l'abitato di *** va anzitutto premesso che, per quanto riguarda alcuni degli addebiti - l'omessa convocazione e l'omesso insediamento del comitato locale di protezione civile nonché il mancato tempestivo allarme alla prefettura di Salerno - non appare condivisibile la tesi dei giudici di merito secondo cui la convocazione e l'insediamento del comitato non fossero obbligatori atteso che la stessa istituzione del comitato è da ritenere facoltativa in base alla L. n. 225 del 1992, art. 15, comma 1.
La norma indicata prevede come facoltativa l'istituzione del comitato ma da questa natura del comitato non deriva certo la facoltatività della sua convocazione e del suo insediamento la cui obbligatorietà deriva dalla natura stessa degli eventi che ne giustificano l'istituzione. La legge ha previsto la facoltatività dell'istituzione lasciando ai singoli comuni (che possono avere caratteristiche di rischio diversissime conseguenti alla diversa natura del territorio o degli insediamenti produttivi) la possibilità di valutare l'esistenza del rischio di eventi calamitosi ma sarebbe singolare che, una volta ritenuta l'esistenza del rischio, al suo verificarsi sia lasciato all'arbitrio del sindaco convocare o meno il comitato.
Ciò premesso va però rilevato che la sentenza impugnata anche con il rinvio a quella di primo grado (e dopo aver dato atto che anche il pubblico ministero appellante - che peraltro l'ha negato nei motivi di ricorso - condivideva questa soluzione) è adeguatamente motivata sulla circostanza che non sia stata raggiunta la prova dell'efficienza causale di tali omissioni sul verificarsi degli eventi mortali.
In particolare i giudici di merito non hanno ritenuto provata la causalità della colpa sotto questi due profili rilevando, quanto alla mancata convocazione del comitato, che non è stata raggiunta la prova che la tempestiva convocazione del comitato (individuando come ora tempestiva quella delle ore 17,45 dopo gli smottamenti di via ***) avrebbe consentito quanto meno di limitare il numero delle vittime.
A questa conclusione il primo giudice è pervenuto rilevando come del comitato facessero parte persone prive di alcuna competenza specifica, come la persona verosimilmente più competente (l'ing. S.G. direttore dell'ufficio tecnico) fosse irreperibile, come neppure fossero disponibili i recapiti o i numeri telefonici della maggior parte dei componenti, come altre persone dotate di maggiore esperienza (il vice comandante della polizia municipale che sostituiva il comandante assente; il comandante della locale stazione dei Carabinieri) abbiano di fatto collaborato con il sindaco nella gestione dell'emergenza e quindi abbiano potuto operare con lui esprimendo i propri suggerimenti sulle modalità da seguire per fronteggiare l'evento catastrofico che si stava profilando.
Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda il ritardo nelle comunicazioni fatte alla prefettura di Salerno sulla natura della calamità che si stava profilando. Anche in questo caso la premessa da cui parte il primo giudice non è condivisibile perché - in base al criterio già ritenuto erroneo della percezione effettiva da parte del sindaco del carattere calamitoso degli eventi e non della percepibilità secondo il criterio dell'agente modello - individua nelle ore 18,45-18,50 il momento in cui si rendeva necessaria la comunicazione alla prefettura non essendo ormai, la calamità, fronteggiabile con i mezzi a disposizione del comune.
Ciò non ostante, anche in questo caso, la motivazione sull'insufficienza della prova dell'efficienza causale della mancata o ritardata segnalazione della gravità della situazione appare adeguata. Indipendentemente dalla tempestività della prima comunicazione nella quale si segnalava la gravità della situazione che il primo giudice ha incensurabilmente accertato essere avvenuta dopo le ore 18,45 - il Tribunale ha ritenuto che anche una più tempestiva e adeguata informazione alla prefettura non avrebbe consentito l'adozione di interventi efficaci e atti ad evitare almeno alcune delle morti.
Il primo giudice ha infatti sottolineato come la prefettura di Salerno abbia dimostrato una totale inefficienza e una complessiva disorganizzazione derivanti dall'incapacità di gestire l'emergenza e come i suoi interventi abbiano dimostrato la sostanziale impreparazione dei funzionari addetti.
In particolare il funzionario con cui il sindaco B. si è posto più volte in contatto (il dott. S.) esigeva, a conferma della gravità della situazione, la certezza dell'esistenza di vittime; la prefettura era stata informata anche da altre fonti della drammaticità della situazione (v. p. 279 ss. della sentenza del Tribunale); il noto fax delle ore 20,47 (certamente ricevuto dalla prefettura) neppure risulta essere stato mostrato ai componenti del centro cordinamento soccorsi della prefettura convocato alle ore 18,30; addirittura nei giorni successivi il prefetto ebbe a chiederne copia al comune di ***; è provata l'assenza di alcuna iniziativa della prefettura, anche nelle ore successive alla comunicazione delle ore 20,47, fino a quando, dopo la mezzanotte, furono inviati due elicotteri uno dei quali soltanto abilitato al volo notturno.
Significativa della situazione di sbandamento e di disorientamento nella prefettura è la descrizione dell'attività del centro coordinamento soccorsi descritta dal Tribunale (a p. 144) e la medesima sentenza sottolinea (a p. 143) anche l'incompletezza dei documenti redatti successivamente sull'evolversi degli avvenimenti in esame.
La conclusione dei giudici di merito che non possa ritenersi provato, in termini di elevata credibilità razionale, che - se anche fosse stato tempestivamente convocato e insediato il comitato locale della protezione civile e fosse stato dato tempestivo e anticipato avviso alla prefettura della gravità reale del fenomeno in atto - gli eventi non si sarebbero verificati, o si sarebbero verificati con caratteristiche di minor gravità provocando un numero inferiore di vittime, si sottrae dunque al vaglio di legittimità essendo adeguatamente motivata e non essendo ravvisabile, in questo argomentare, alcun vizio logico o giuridico che possa incrinarne la congruità.

7. L'evitabilità degli eventi. Mancato allertamento della popolazione e mancata evacuazione delle zone a rischio.


Gli altri due addebiti omissivi ascritti all'imputato concernono invece, in particolare, il mancato allertamento della popolazione dei rischi incombenti e la mancata evacuazione delle zone a rischio e, sotto questi profili, i vizi denunziati devono ritenersi esistenti.
La fondatezza dei motivi di ricorso su questi punti si fonda anzitutto - oltre che sul riconoscimento di una piena e non residuale posizione di garanzia del sindaco - sulla già riconosciuta contraddittorietà della sentenza impugnata (e, lo si ripete, della richiamata sentenza di primo grado) laddove disconosce, contraddicendo i dati di fatto enunciati e ritenuti accertati dalle sentenze di merito, che già alle ore 16 il fenomeno aveva assunto caratteristiche che dovevano indurre il serio dubbio che potesse verificarsi un evento catastrofico.
I giudici di merito avrebbero dovuto verificare non solo se erano ragionevolmente prevedibili, nel senso già in precedenza indicato, anche eventi più distruttivi rispetto a quelli storicamente verificatisi e se gli aspetti più gravi manifestatisi intorno alle ore 16 fossero già significativi della possibilità di evoluzione peggiorativa; ma altresì, ove fosse data una risposta positiva a questi quesiti, se fosse possibile evacuare le zone maggiormente a rischio previo allertamento della popolazione ivi residente.
Non è stato infatti chiarito, nella sentenza impugnata, quale fosse il numero effettivo dei residenti nelle zone a rischio anche perché queste zone non risultano, almeno nelle sentenze impugnate, ben individuate.
Trattandosi di fenomeni già verificatisi, sia pure nelle dimensioni ridotte già precisate, un accertamento di cui non si fa cenno nelle sentenze, ma che si rivela indispensabile, è quello di verificare se le colate di fango abbiano seguito i percorsi già seguiti in passato, se abbiano seguito gli andamenti dei corsi d'acqua esistenti o altre forme di incanalamento naturale ovvero se le colate siano scese dalla montagna senza seguire un percorso già definito.
Nel primo caso - soprattutto se si trattava di vie già percorse dalle colate in precedenza verificatesi - era ipotizzabile l'individuazione delle zone a rischio al fine di procedere alla loro evacuazione. Se si trattava di percorsi nuovi o di nuove vie di sfogo della colata allora potrebbe porsi un problema di esigibilità della condotta salvifica in relazione alla ritenuta esistenza di una situazione di rischio che non poteva riguardare l'intero abitato di *** ma solo le zone astrattamente attingibili dalle colate.
Un'indagine di questo genere - che sola avrebbe potuto consentire di verificare se la condotta alternativa lecita era esigibile dall'agente - manca nella sentenza impugnata ed è solo accennata nella sentenza di primo grado nella quale peraltro si rinvengono alcune precisazioni utili allo scopo indicato e che sembrano confermare le critiche sul punto svolte dal Procuratore generale nel ricorso da lui proposto.
A pag. 100 ss. della sentenza di primo grado viene richiamato un fenomeno analogo verificatosi il 6 ottobre 1989 che riguardò il vallone *** con colata di acqua e fango anche se di intensità molto minore.
Un testimone appartenente al corpo forestale dello Stato ha riferito (p. 101) di altro fenomeno analogo verificatosi alcuni anni prima nel vallone *** (p. 101).
Altri testi (p. 102 ss.) riferiscono di un episodio analogo verificatosi nel 1978 che aveva riguardato *** (uno dei punti più colpiti dal fenomeno del 1998) sito a 40 metri dal vallone *** la cui situazione era stata peraltro segnalata - sia pure ai soli fini di sollecitarne la manutenzione (così almeno afferma la sentenza di primo grado a p. 103) - da un esposto di cittadini presentato nel 1995-1996 significativamente intitolato "evitiamo una strage".
Insomma i giudici di merito hanno accertato che, almeno in parte, i percorsi delle colate di fango coincidevano con quelle degli anni precedenti e ciò rendeva necessario verificare la possibilità di evacuazione di queste zone tenendo conto delle caratteristiche di progressiva evoluzione del fenomeno e della disponibilità di mezzi umani, certamente non irrilevanti, posto che a *** erano presenti la guardia di finanza, la polizia di Stato, i Carabinieri, il corpo forestale dello Stato, i vigili del fuoco.
Gli appartenenti a questi corpi (alcuni dei quali hanno perso la vita a seguito dell'evento calamitoso) in modo del tutto spontaneo avevano da soli provveduto all'evacuazione di centinaia di persone. Mentre risulta che numerose persone (v. p. 180 ss. della sentenza di primo grado) ebbero ad abbandonare spontaneamente le loro abitazioni, nelle zone che poi saranno colpite dalle colate, anche dopo le ore 20.
Il giudice di merito avrebbe dovuto dunque verificare, in base ai criteri in precedenza indicati, se già alle ore 16, per l'agente modello di sindaco, si dovesse porre il problema dell'individuazione e dell'evacuazione delle zone a rischio e, in relazione all'asserita inesigibilità di questa condotta, i giudici di merito avrebbero dovuto indicare le ragioni ostative che non possono essere quelle indicate nelle sentenza che fanno riferimento - in contraddizione con quanto accertato sull'evoluzione peggiorativa già riscontrabile alle ore 16 - ad un'esigenza che sorge solo dopo le ore 18,30 o addirittura dopo le ore 20.
Del resto è la stessa sentenza di primo grado che, dopo aver evidenziato le difficoltà che si frapponevano all'evacuazione (per la mancanza di piani di evacuazione, la difficoltosa percorribilità delle strade, la carenza di mezzi, la possibilità dell'insorgere del panico) evidenzia (a p. 191) che la sostanziale inattuabilità dell'evacuazione si verifica dopo le ore 19,50-20,00 non solo per l'aggravarsi della situazione ma anche per il sopraggiungere dell'oscurità e delle sempre più frequenti sospensioni dell'erogazione dell'energia elettrica.

9. Le condotte dei sindaci di ***.


Incongruo è poi il richiamo a quanto avvenuto negli altri paesi colpiti dal fenomeno delle colate che anzi dimostra come - sia pure in paesi dotati di minori mezzi - si sia provveduto allo sgombero dei siti a rischio in tempi ragionevolmente brevi e con disponibilità di mezzi assolutamente carente come risulta dalla sentenza di primo grado (p. 127 ss.):
- a ***, dove il fenomeno si manifesta alle ore 11, con il solo ausilio di un'autovettura munita di megafono alle ore 14 si sollecita lo sgombero della parte alta del paese che si completa alle ore 17,30. Risultato: muoiono solo le persone (10) che si sono rifiutate di abbandonare la zona oltre a una che si stava allontanando;
- a *** il sindaco dispone l'evacuazione (comunicata alla prefettura) della zona sita in prossimità dell'alveo *** evidentemente individuato come percorso della colata. Risultato:
quattro morti a seguito della prima colata, successivamente la morte di una sola persona che imprudentemente era andata a prendere la sua autovettura;
- a *** l'evacuazione della parte alta del paese viene iniziata verso le ore 16 su ordine telefonico del sindaco che neppure si trovava sul luogo. Gli unici quattro morti sono i componenti di una famiglia ritornati in una casa agricola e investiti dalla colata dopo essere scesi in strada per riprendere l'autovettura.
Che si tratti di situazioni diverse da quella di *** è addirittura ovvio ma è manifestamente illogico ritenere che queste diversità possano giustificare l'atteggiamento attendista del sindaco di ***. Le dimensioni del fenomeno che ha colpito ***.
- certamente più rilevanti e distruttive - sono diverse; ma vale ciò a giustificare la condotta passiva tenuta dal sindaco o la circostanza ha valenza neutra o addirittura tale da richiedere una maggiore diligenza nell'agente? Molto diverso è anche il numero delle persone da evacuare che, pur con ben minori mezzi personali a disposizione, sono state 2.550 a ***, 8-900 a *** e circa 1.000 a ***. Per *** si parla, a seconda dei diversi calcoli effettuati, di 7- 8.000 ovvero di 10-12.000 (p. 131 della sentenza di primo grado) ma il dato è riferito agli abitanti delle frazioni di ***; nel secondo calcolo comprensivo anche delle frazioni di ***.
Si tratta dunque di dati diversi ma va comunque rilevato che si è pur sempre trattato, negli altri comuni, dell'evacuazione di migliaia di persone. E non risulta che, in questi comuni, esistessero procedure e moduli organizzativi in precedenza predisposti che consentivano di rendere possibile questa opzione immotivatamente ritenute preclusive, dai giudici di merito, della possibilità di evacuazione.
Difetta invece, come si è già accennato, un accertamento sulle zone ricomprese in queste frazioni che potevano essere effettivamente colpite dalle colate perché site in prossimità dei percorsi storici delle medesime, dei valloni e degli alvei. È del resto la stessa sentenza del Tribunale che evidenzia (a p. 132) l'analogia tra il territorio di *** e quello di *** caratterizzati entrambi dalla circostanza che la frazione di *** e il centro storico di *** si trovavano allo sbocco dei valloni poi percorsi dalle colate.
Dunque prima di affermare, in buona sostanza, che l'evacuazione era impossibile andavano individuate le zone effettivamente a rischio per le ragioni più volte indicate e andava limitato a queste zone il calcolo delle persone da sgomberare tenuto in particolare conto della circostanza che la più parte delle morti (87 secondo il calcolo della sentenza di primo grado: v. p. 20) si sono verificate tra le ore 23,45 e le ore 23,50 del ***.

PARTE 5^ - LA POSIZIONE DELL'ASSESSORE C..


1. Premessa. L'impugnazione ai fini penali.


Il Procuratore della presso il Tribunale di Nocera Inferiore non aveva proposto appello contro l'assoluzione di C.F. pronunziata dalla sentenza di primo grado. Questo sentenza era stata invece appellata dalle parti civili ma la Corte d'appello di Salerno, con la sentenza impugnata, ha confermato la sentenza di primo grado respingendo anche gli appelli delle parti civili.
Il procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Salerno, nell'intestazione del ricorso, indica anche la persona di C. ma poi, nel testo dell'impugnazione, non fa alcun riferimento alla posizione dell'assessore.
Può quindi ritenersi che non sia stato proposto ricorso nei confronti dell'assessore C. il cui nome è indicato soltanto perché la sentenza impugnata riguardava anche la sua posizione; ricorso che peraltro non avrebbe potuto essere proposto non essendo stata, dal pubblico ministero, appellata ai fini penali la sentenza di primo grado che, a tali fini, era dunque divenuta definitiva.

2. Il ricorso delle parti civili.


Si è già accennato nelle premesse che, mentre tutti gli altri ricorsi delle parti civili risultano espressamente proposti nei confronti del solo sindaco B., le parti civili A.I., A.M., A.S., C.M., C.D., C.R., C.S., C.F., C.G., D.G., D.M., M.C., P.G., P.N., S.A., S.S. e S.V. hanno impugnato la sentenza della Corte d'Appello di Salerno anche nei confronti di C.F..
Nei suoi confronti è stata dedotta, con il quarto motivo di ricorso, la violazione dell'art. 592 cod. proc. pen. perché erroneamente la Corte d'Appello di Salerno avrebbe condannato le parti civili ricorrenti al pagamento delle spese in favore di C.F. nei cui confronti non erano stati proposti specifici motivi di appello.
Il motivo di ricorso è manifestamente infondato. Risulta infatti dall'atto di appello proposto contro la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore che l'impugnazione è stata proposta anche contro il punto della sentenza concernente l'assoluzione del coimputato C..
Inequivoco è infatti il tenore dell'atto di appello nell'esplicitare la volontà degli appellanti che il giudice di secondo grado riveda anche le statuizioni nei confronti dell'assessore.
Si premette infatti nell'atto che l'impugnazione "concerne i capi e punti della sentenza.........connessi all'affermazione dell'assenza di penale responsabilità degli imputati ed agli effetti della responsabilità civile". Nel prosieguo dell'appello si fa sempre riferimento ad entrambi gli imputati e solo il quinto e il sesto motivo sembrano riferiti al solo B..
Infine, nelle conclusioni si chiede che la corte d'appello voglia "affermare la responsabilità degli imputati" ai fini penali e "condannare gli stessi............al risarcimento del danno".
Manifesta è dunque l'infondatezza del motivo di ricorso palese essendo la contrarietà al vero del presupposto posto a fondamento dell'impugnazione.

PARTE 6^: CONCLUSIONI.

1. Le conclusioni ai fini penali nei confronti di B.G..
Principi di diritto.


Da quanto esposto in precedenza consegue l'annullamento della sentenza impugnata, nei confronti del solo B.G., con rinvio alla Corte d'Appello di Napoli che dovrà procedere alla rivalutazione del materiale probatorio alla luce dei principi giuridici enunciati e adeguando la motivazione in modo da evitare i vizi in cui la sentenza oggi impugnata è incorsa.
In particolare il giudice di rinvio si atterrà ai seguenti principi di diritto enunciati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 2:
1) Nel sistema delineato dalla L. 24 febbraio 1992, n. 225 (istituzione del servizio nazionale della protezione civile) al sindaco, quale autorità locale di protezione civile e nell'ambito del territorio comunale, compete la gestione dell'emergenza provocata da eventi naturali o connessi con l'attività dell'uomo, di calamità naturali o catastrofi; se questi eventi non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune il sindaco chiede l'intervento di altri mezzi e strutture al prefetto che adotta i provvedimenti di competenza coordinandoli con quelli del sindaco le cui attribuzioni hanno natura concorrente (e non residuale) con quelle del prefetto che ne ha la direzione.
2) Nel caso di eventi calamitosi che non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del comune - e fino a quando il prefetto non abbia concretamente e di fatto assunto la direzione dei servizi di emergenza - il sindaco mantiene integri i suoi poteri e gli obblighi di gestione dell'emergenza ed in particolare quelli di allertamento ed evacuazione delle popolazioni che si trovino nelle zone a rischio indipendentemente dall'esistenza di una situazione di urgenza (la cui esclusione da parte del giudice di merito è stata, nella specie, ritenuta manifestamente illogica).
3) Nella causalità attiva l'evento è oggettivamente addebitabile a chi l'abbia cagionato (o abbia contribuito a cagionarlo) indipendentemente dalla circostanza che l'agente sia titolare di una posizione di garanzia; titolarità che rileva esclusivamente nella causalità omissiva ed è finalizzata ad individuare la persona fisica che aveva l'obbligo giuridico di impedire l'evento.
4) Il giudizio di prevedibilità dell'evento dannoso - necessario perché possa ritenersi integrato l'elemento soggettivo del reato sia nel caso di colpa generica che in quello di colpa specifica - va compiuto, nel caso di eventi naturali o di calamità che si sviluppino progressivamente, tenendo conto della natura e delle dimensioni di eventi analoghi storicamente già verificatisi ma valutando altresì se possa essere esclusa la possibilità che questi eventi possano avere dimensioni e caratteristiche più gravi o addirittura catastrofiche.
5) Il giudizio di prevedibilità dell'evento dannoso va compiuto con l'utilizzazione del criterio dell'agente modello (homo ejusdem professionis et condicionis) quale agente ideale in grado di svolgere al meglio il compito affidatogli; in questo giudizio si deve tener conto non solo di quanto l'agente concreto ha percepito ma altresì di quanto l'agente modello avrebbe dovuto percepire valutando anche le possibilità di aggravamento di un evento dannoso in atto che non possano essere ragionevolmente escluse.
6) La prevedibilità dell'evento dannoso, ai fini dell'accertamento dell'elemento soggettivo del reato, va compiuto utilizzando anche le leggi scientifiche pertinenti, se esistenti; in mancanza di leggi scientifiche che consentano di conoscere preventivamente lo sviluppo di eventi naturali calamitosi l'accertamento della prevedibilità dell'evento va compiuto in relazione alla verifica della concreta possibilità che un evento dannoso possa verificarsi e non secondo criteri di elevata credibilità razionale (che riguardano esclusivamente l'accertamento della causalità) ferma restando la distinzione con il principio di precauzione che prescinde dalla concretezza del rischio.
7) L'addebito soggettivo dell'evento richiede non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione delle regole cautelari idonee a tal fine (cd. comportamento alternativo lecito) non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato.

2. Le conclusioni ai fini civili nei confronti di B.G..


Il giudice di rinvio provvedere anche sull'azione civile proposta nel presente giudizio all'esito della decisione che adotterà.
Il giudice di rinvio provvedere altresì al regolamento delle spese tra l'imputato e le parti civili costituite nel presente giudizio.

3. Le conclusioni nei confronti di C.F..


La verifica dell'inesistenza del ricorso ai fini penali nei confronti dell'assessore C. (ricorso che comunque sarebbe inammissibile perché il pubblico ministero non aveva impugnato la sentenza di assoluzione del Tribunale di Nocera Inferiore) esclude che debba essere adottata alcuna pronunzia ai fini penali nei confronti del predetto.
La manifesta infondatezza del ricorso proposto dalle parti civili A.I. e altri nei confronti di C. comporta l'inammissibilità, nei limiti indicati, di questo ricorso.
Da questa soluzione non consegue la condanna di queste parti civili al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della cassa delle ammende perché, per gli altri motivi proposti, il ricorso ha trovato accoglimento.
C. non ha chiesto la liquidazione delle spese a suo favore e a carico delle parti civili che hanno proposto ricorso nei suoi confronti per cui alcuna pronunzia va adottata sul punto.

P.Q.M.

a Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, dichiara inammissibile il ricorso delle parti civili A.I., A.I., A.M., A.S., C.M., C.D., C.R., C.S., C.F., C.G., D.G., D.M., M.C., P.G., P.N., S.A., S.S. e S.V nei confronti di C.F..
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di B.G. e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Napoli cui rimette anche il regolamento definitivo delle spese tra le parti.


Così deciso in Roma, il 12 marzo 2010.
Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2010