REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCALI Piero
Dott. MARZANO Francesco
Dott. FOTI Giacomo
Dott. IZZO Fausto
Dott. PICCIALLI Patrizia

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente: SENTENZA/ORDINANZA sul ricorso proposto da:
1) D.O. N. IL ***;
avverso la sentenza n. 2183/2007 CORTE APPELLO di VENEZIA, del 12/11/2008;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/05/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;
udito il P.G. in persona del Dott. CEDRANGOLO Oscar che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
udito il difensore avv. Benigni Arturo in delega dell'avv. *** che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

FATTO E DIRITTO

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Venezia confermava in punto di responsabilità quella di primo grado, con la quale D.O. era stato ritenuto responsabile del reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica e dalla durata della malattia nonché dalla perdita della capacità di deambulazione e gravissime limitazioni alla mobilità degli arti superiori in danno del lavoratore F.P..
Trattavasi di un infortunio sul lavoro occorso in data *** contestato al D., nella qualità di titolare della impresa individuale omonima, alla quale erano stati appaltati i lavori edili di modifica interna ed esterna dell'Hotel *** (la contestazione originaria e la pronuncia di responsabilità ha riguardato anche il committente dei lavori, G.L., non ricorrente).

Dal capo di imputazione e dalla sentenza impugnata emerge, in vero, che: il giorno dell'infortunio, F.P., che svolgeva le mansioni di manovale alle dipendenze del D., si recò presso il cantiere di *** ove il datore di lavoro stava ristrutturando un fabbricato ad uso alberghiero su incarico del G., salì sull'impalcatura adiacente ad uno dei lati dell'immobile e precipitò a terra, riportando delle gravissime lesioni, con conseguente perdita della capacità di deambulare e gravissime limitazioni agli arti superiori.

Al D. era stata attribuita la titolarità della posizione di garanzia, nella qualità, di appaltatore dei lavori in considerazione della palese violazione di quanto previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, articoli 16 e segg. e della omessa predisposizione del piano operativo di sicurezza Decreto Legislativo 14 agosto 1996, n. 494, ex articolo 2, lettera f) ter.

Propone ricorso per Cassazione, tramite difensore, il prevenuto, articolando quattro motivi.

Con il primo motivo deduce la carenza e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento al giudizio di responsabilità. Si sostiene in particolare:
- l'omessa motivazione sul motivo di appello afferente l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli imputati nella immediatezza del fatto;
- l'illogicità della motivazione nel punto in cui disattende la tesi difensiva secondo la quale le carenza riscontrate dall'Ispettorato del Lavoro nella impalcatura erano dovute al fatto che l'impalcatura non era stata ancora installata, senza tener conto della esistenza di una metodologia costruttiva diversa da quella ipotizzata dal tecnico della prevenzione, sentito in qualità di teste;
- l'illogicità della motivazione anche nella parte in cui il giudicante afferma la irrilevanza della presenza di un cancello chiuso sul luogo del sinistro, in proprietà diversa da quella del committente, trascurando il dato del comportamento abnorme del lavoratore che, in stato di alterazione alcolica superava il cancello chiuso eseguendo lavori all'esterno dell'immobile, contrariamente a quanto assegnatogli;
- analogo vizio della motivazione è riscontrato laddove, pur essendo incontestato lo stato di alterazione del F. determinato dall'assunzione di bevande alcoliche, il giudicante aveva affermato che tale comportamento non poteva essere considerato alla stregua di un comportamento abnorme ed imprevedibile e che, anzi, era profilabile un ulteriore profilo di colpa a carico del D., che aveva dimostrato di non vigilare sul lavoratore.

Con il secondo motivo, strettamente connesso, si duole della manifesta illogicità della motivazione laddove il giudicante aveva escluso che il conclamato stato di alterazione fosse idoneo a configurare l'interruzione del nesso causale ex articolo 41 c.p.p., comma 2, in forza del quale la causa sopravvenuta del tutto eccezionale era stata causa esclusiva dell'evento.

Con il terzo motivo si duole della manifesta illogicità della motivazione in relazione alla prova assunta nel corso del dibattimento di primo grado da cui emergeva che non era stato il D. a fornire le prime informazioni ai soccorritori bensì il coimputato G., che reggeva ed accudiva l'infortunato. La censura è rivolta a quella parte della motivazione in cui la Corte di merito sottolinea che l'intervento del D., immediatamente successivo al sinistro, concretizzatosi nello spostamento dell'infortunato da sotto l'impalcatura, aveva reso più difficile la ricostruzione del sinistro, rischiando di aggravare le condizioni del dipendente, senza tenere conto della giustificazione resa dallo stesso imputato, secondo la quale la decisione di trasportare il dipendente sino al marciapiede era stata motivata dal tentativo di facilitare i soccorsi.

Con il quarto motivo si duole della manifesta contraddittorietà della motivazione che, pur riconoscendo il concorso di colpa del lavoratore, non indica quanto avrebbe inciso questo comportamento nella determinazione dell'evento e non riduce le pene irrogate né concede le circostanze attenuanti generiche.

Il ricorso è infondato.

La sentenza impugnata non presenta vuoti motivazionali né è caratterizzata dalle asserite illogicità e violazioni di legge.
La Corte di appello ha tenuto conto degli elementi acquisiti e ha affermato che la dinamica dell'infortunio dovesse essere ricostruita nei termini indicati dal giudice di primo grado. I giudici di merito, con motivazione logica e coerente, hanno escluso che l'iniziativa di salire sul ponteggio sia stata assunta estemporaneamente ed imprevedibilmente dal lavoratore, che vi era salito per prendere gli attrezzi alla fine della giornata lavorativa ed hanno ritenuto tale versione dei fatti fornita dal medesimo operaio del tutto compatibile con le mansioni affidategli, tra le quali vi era proprio quella della raccolta degli strumenti al termine del lavoro.

Siffatte conclusioni sono state fondate, oltre che sulla valorizzazione delle testimonianze rese dalla persona offesa, riscontrate dalle fotografie in atti, attestanti la macchia di sangue sotto l'impalcatura, anche sulle dichiarazioni rilasciate dallo stesso imputato, che nell'illustrare le funzioni svolte dal F., ha citato proprio quella della raccolta degli strumenti di lavoro. Il ricorrente ripropone anche in questa sede una ricostruzione del fatto (evidenziando anche la presenza sul luogo dell'incidente di un cancello chiuso, che avallerebbe la tesi della iniziativa autonoma del lavoratore, che avrebbe addirittura scavalcato il cancello per salire sul ponteggio) non risultante dal testo della sentenza e come tale preclusa alla cognizione del giudice di legittimità, risolvendosi in una censura sulla valutazione delle emergenze fattuali della vicenda come ricostruite dal giudice di merito, pur in presenza di una motivazione logicamente argomentata.

Analoghe considerazioni valgono in merito alla doglianza concernente l'addebito formulato nei confronti del D., laddove si sostiene la non configurabilità della violazione della normativa in tema di sicurezza dei ponteggi, giacché le carenze riscontrate in tema di sicurezza erano dovute al fatto che l'impalcatura era in corso di costruzione e la Corte di merito non avrebbe tenuto conto della esistenza di una metodologia costruttiva diversa da quella indicata dal tecnico di prevenzione, secondo il quale la buona tecnica di costruzione prevede, per garantire la sicurezza di chi procede alla costruzione del ponteggio, la collocazione di tutti i presidi a mano a mano che si perfezionano i singoli piani della impalcatura.

Ciò che rileva ai fini dell'affermazione della responsabilità del D. è che, a prescindere dalla asserite tecniche diverse di costruzione dei ponteggi, le impalcature, come evidenziato nella sentenza impugnata, mancavano di tavole fermapiede (ossia dei presidi che devono essere presenti in ciascun piano di calpestio per evitare lo scivolamento), di traversi e di correnti (i tubi di metallo che fungono da ringhiera su tre lati di ciascuna asse) e che, pertanto, l'imputato ha violato proprio le norme cautelari (Decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, articoli 16 e segg.) previste per impedire il verificarsi dell'infortunio.

È di decisivo rilievo, in proposito, il disposto dell'articolo 2087 c.c., in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 c.p., comma 2.

Del tutto destituita di fondamento è la doglianza afferente l'asserita valorizzazione da parte del giudice di appello, attraverso il riferimento alla testimonianza del tecnico della prevenzione, alle dichiarazioni rese dagli imputati a quest'ultimo nella immediatezza del fatto e, pertanto, inutilizzabili.

A prescindere dall'assoluta genericità della censura, non vi è nessun elemento da cui desumere che la deposizione dell'Ispettore del Lavoro era fondata sulle dichiarazioni auto incriminanti rese dal D. nella immediatezza del fatto, con la conseguente inapplicabilità del divieto previsto dall'articolo 62 c.p.p. e articolo 220 disp. att. c.p.p..

Sono infondate anche le censure che riguardano l'eccezionalità e imprevedibilità della condotta del lavoratore, dirette ad affermare l'interruzione del rapporto di causalità tra la condotta colposa e l'evento essendosi, tra questi due elementi, inserito un fattore (lo stato di alterazione del lavoratore derivante dall'abuso di sostanze alcoliche) idoneo ad essere qualificato come causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento.

Nel campo della sicurezza del lavoro, è nota la giurisprudenza della Cassazione su due profili di interesse: quello dell'individuazione dei profili di colpa del datore di lavoro, anche in relazione all'obbligo di vigilanza sul comportamento dal lavoratore, e quello dell'eventuale rilevanza della colpa del lavoratore per escludere l'addebito di responsabilità a carico del datore di lavoro.

Sotto il primo profilo, è principio non controverso quello secondo cui il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'articolo 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 c.p., comma 2, (di recente, tra le tante, Sezione 4, 13 marzo 2008, Bonomo).

Sotto l'altro profilo, è parimenti univoca la giurisprudenza della Corte di legittimità in tema di rilevanza della colpa del lavoratore ai fini e per gli effetti di escludere o no l'addebito di responsabilità a carico del datore di lavoro.

Vale il principio in forza del quale, di norma, la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell'infortunio.

Ciò in quanto al datore di lavoro è imposto (anche) di esigere il rispetto delle regole di cautela da parte del lavoratore: cosicché il datore di lavoro è "garante" anche della correttezza dell'agire del lavoratore.

Per l'effetto, la colpa del datore di lavoro non è esclusa da quella del lavoratore e l'evento dannoso è imputato al datore di lavoro, in forza della posizione di garanzia di cui ex lege è onerato, sulla base del principio dell'equivalenza delle cause vigente nel sistema penale (articolo 41 c.p., comma 1).

Per mitigare gli effetti del richiamato principio, vale peraltro il concorrente principio dell'interruzione del nesso causale, esplicitato normativamente dall'articolo 41 c.p., comma 2, in forza del quale, facendosi eccezione proprio al concorrente principio dell'equivalenza delle cause, quella sopravvenuta del tutto eccezionale ed imprevedibile, in alcun modo legata a quelle che l'hanno preceduta, finisce con l'assurgere a causa esclusiva di verificazione dell'evento.

In tal caso, anche la condotta colposa del datore di lavoro che possa essere ritenuta antecedente remoto dell'evento dannoso, essendo intervenuto un comportamento assolutamente eccezionale ed imprevedibile del lavoratore, finisce con l'essere neutralizzata e privata di qualsivoglia rilevanza efficiente rispetto alla verificazione di un evento, che, per l'effetto, è addebitabile materialmente e giuridicamente al lavoratore.

Per interrompere il nesso causale occorre, comunque, un comportamento del lavoratore che sia "anomalo" ed "imprevedibile" e, come tale, "inevitabile"; cioè un comportamento che ragionevolmente non può farsi rientrare nell'obbligo di garanzia posto a carico del datore di lavoro (cfr., tra le altre, Sezione 4, 4 luglio 2003, Valduga; nonché, Sezione 4, 12 febbraio 2008, Trivisonno e Sez. 4, 21 ottobre 2008, Petrillo).

Si deve trattare, in altri termini, di un comportamento del lavoratore definibile come "abnorme", che, quindi, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro.

L'ipotesi tipica è quella del lavoratore che violi "con consapevolezza" le cautele impostegli, ponendo in essere in tal modo una situazione di pericolo che il datore di lavoro non può prevedere e certamente non può evitare.

Altra ipotesi è quella del lavoratore che provochi l'infortunio ponendo in essere, colposamente, un'attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento "esorbitante" rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile (ed evitabile) per il datore di lavoro (come, ad esempio, nel caso che il lavoratore si dedichi ad un'altra macchina o ad un altro lavoro, magari esorbitando nelle competenze attribuite in esclusiva ad altro lavoratore; ovvero nel caso in cui il lavoratore, pur nello svolgimento delle mansioni proprie, abbia assunto un atteggiamento radicalmente lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenze comportamentali) (cfr., tra le tante, da ultimo, Sez. 4, 16 giugno 2009, Lo Bello).

Il caso in esame, contrariamente a quanto sostenuto dal difensore dell'imputato, il quale ha incentrato il ricorso sulla omessa considerazione da parte dei giudici di merito dello stato di alterazione alcolica dello stesso lavoratore, non consente soluzioni liberatorie per il datore di lavoro, proprio alla luce della richiamata interpretazione giurisprudenziale.

La sentenza impugnata ha infatti correttamente individuato, alla stregua delle risultanze istruttorie, non solo le norme cautelari violate da parte del datore di lavoro, ma ha anche escluso lo svolgimento da parte del lavoratore di un'attività stravagante rispetto alle proprie specifiche mansioni, tale cioè da rilevare come causa interruttiva del nesso eziologico.

Sotto il primo profilo, gli addebiti a carico del datore di lavoro sono stato rinvenuti nella omessa adozione di adeguate impalcature o ponteggi idonee ad eliminare i pericoli di caduta di persone o cose, previsti per i lavori ad una altezza superiore ai metri due (Decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, articolo 16) e nella omessa predisposizione del piano operativo di sicurezza Decreto Legislativo 14 agosto 1996, n. 494, ex articolo 2, lettera f) ter).

È stata, pertanto, apprezzata in modo argomentativamente convincente, attraverso la valorizzazione delle dichiarazioni testimoniali dell'Ispettore del Lavoro e della stessa parte offesa, una superficialità comportamentale del datore di lavoro, qualificata dalla omessa verifica dell'applicazione delle misure di protezione messe a disposizione dei lavoratori.

La decisione gravata, confermativa di quella di primo grado, appare, pertanto, corretta, sotto il profilo della individuazione della colpa del datore di lavoro, siccome adottata in piena aderenza a quello che è il ricordato contenuto precettivo dell'articolo 2087 c.c., che, come si è visto, in uno con le disposizioni cautelari specifiche, onera, tra l'altro, il datore di lavoro del dovere di fornire al lavoratore i presidi antinfortunistici e, comunque, di quello di vigilare che questo svolga la propria attività in condizioni di sicurezza, anche utilizzando lo strumentario di sicurezza.
Correlativamente, sotto l'altro profilo, dalla ricostruzione della vicenda operata in sede di merito non emerge un comportamento dell'infortunato tale da consentire di condividere la tesi difensiva volta a prospettare l'interruzione del nesso causale.

Certamente non può essere posto in dubbio che il conclamato stato di alterazione del lavoratore conseguente all'ingestione di alcool abbia apportato un contributo rilevante alla verificazione dell'evento, come del resto riconosciuto dai giudici di merito.

Dimentica il ricorrente, però, che, come si è parimenti accennato in premessa, poiché le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Peraltro, in ogni caso, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.

Tale principio, che non è altro che l'esplicazione in tema di infortuni sul lavoro, del principio dell'equivalenza delle cause accolto dal nostro ordinamento penale (articolo 41 c.p.) - secondo il quale il nesso causale può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non esset e trovi nella condotta precedente solo l'occasione per svilupparsi - è stato correttamente applicato dai giudici di merito laddove hanno escluso che la condotta dell'infortunato avesse integrato alcunché di esorbitante o di imprevedibile, tale da poter rilevare ai fini dell'interruzione del nesso causale, avendo ravvisato nella omessa vigilanza da parte del datore di lavoro sulla concreta applicazione delle misure di sicurezza la premessa imprescindibile per la realizzazione delle condizioni che avevano reso possibile l'evento.

Da questa premesse, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, è il conseguente giudizio di sussistenza del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale incontrovertibile: se il D. o avesse tenuto la condotta appropriata sopra indicata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) l'evento non si sarebbe verificato.

Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato.

Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.