REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORGIGNI Antonio
Dott. MARZANO Francesco
Dott. FOTI Giacomo
Dott. BIANCHI Luisa
Dott. MARINELLI Felicetta

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- rel. Consigliere
- Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
1) R.M. N. IL***;
2) M.P. N. IL ***;
3) A.F. N. IL ***;
avverso la sentenza n. 631/2008 CORTE APPELLO di MILANO, del 09/05/2008;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/03/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dr. LUISA BIANCHI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Cons. Di Popolo Angelo che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
uditi i dif. avv.ti GOBBI Fabrizio del foro di Milano difensore del R.M., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso, avv. Fariselli Roberto del foro di Ravenna difensore di M.P. e A.F., che conclude per l'accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data ***, nel cantiere edile di ***, ove era in corso la costruzione di un immobile destinato ad ospitare il centro commerciale ***, si verificava un infortunio. B.I., dipendente della società I.M.B., mentre stava trasportando una pesante lamiera che doveva servire a completare la intelaiature del tetto, metteva il piede dentro un'apertura presente nel pavimento, coperta da un pannello di polistirene che cedeva, e cadeva nel vuoto, decedendo per i traumi subiti.

Committente dei lavori era la C.L., che ne aveva appaltato l'esecuzione alla C.M.C. (C.M.C.) di ***.
Quest'ultima aveva subappaltato ad altre imprese la realizzazione di alcune parti della rilevante opera.
Più specificamente, aveva stipulato con la G.E.D. (G.E.D.) s.r.l. un contratto di fornitura e posa in opera della struttura metallica del fabbricato, includente la progettazione della stessa.
La G.E.D. aveva, a sua volta, affidato alla T.E.M.A. (T.E.M.A.) s.r.l. l'esecuzione dei lavori di montaggio di carpenteria metallica, lamiere e pannelli Deck.
La T.E.M.A aveva commissionato alla I.M.B. di B.G., i lavori di montaggio delle coperture del fabbricato.

La C.L., e per essa il R., aveva provveduto alla predisposizione del piano di sicurezza e coordinamento (P.S.C); la CM. aveva redatto il proprio piano operativo di sicurezza (P.O.S) ed altrettanto avevano fatto le imprese subappaltatrici, G.E.D. e T.E.M.A.
Veniva esercitata l'azione penale e disposto il rinvio a giudizio di R.M. nella qualità di coordinatore per la progettazione ed esecuzione dei lavori per conto della committente C.L., M.M. Presidente della CM., M.P. responsabile per la sicurezza nominato dalla CM. e direttore tecnico di cantiere, A.F. capocantiere nominato dalla CM., Z.C., caposquadra della CM. (deceduto nel corso del giudizio) e B.G., della IM., datore di lavoro dell'infortunato.

Il Tribunale di Milano riconosceva la responsabilità di tutti gli imputati, salvo che per il caposquadra Z.C., (deceduto prima del rinvio a giudizio) e M.M., assolto per non aver commesso il fatto.
Concesse a tutti gli imputati l'attenuante del risarcimento del danno e a R., A. e M. anche le attenuanti generiche, ritenuta per tutti l'equivalenza delle circostanze, condannava alla pena di mesi sei di reclusione R., mesi otto M. e B., un anno A..
La Corte di appello confermava la sentenza.

I lavori del cantiere erano iniziati il *** e avrebbero dovuto terminare il ***; al momento dell'infortunio erano in corso i lavori di completamento della struttura metallica portante di copertura del fabbricato e di tamponamento delle aperture laterali; in particolare la IM. stava completando la copertura dell'angolo sud e a tale lavoro erano addetti come caposquadra Z.C., nonché suo fratello S. e il B..
Secondo il Tribunale, cui poi si richiamava la Corte di appello, l'incidente si era verificato a causa di una apertura non debitamente protetta esistente nel solaio del primo piano, dove il B. si trovava a lavorare; vi era stata solo appoggiata sopra una lastra di polistirene che aveva ceduto sotto il peso dell'operaio; secondo quanto riferito dal teste Z.S. (che nell'occasione si trovava con il compagno di lavoro) B. stava trasportando sotto braccio una pesante lamiera che doveva servire per la copertura del tetto per portarla fino alla piattaforma di sollevamento, quando, appunto, metteva il piede dentro una apertura esistente nel pavimento e cadeva di sotto, impattando contro l'impalcatura che proteggeva l'imboccatura di un camino sottostante, che cedeva sotto l'urto di modo che il B. finiva dentro il condotto di aerazione, probabilmente capovolgendosi a testa in giù a causa dell'urto con l'impalcato, percorrendo per intero tale condotto prima di prima di schiantarsi a terra dopo un volo di circa 14 metri.

Responsabile di predisporre idonei presidi di protezione delle cd. asole, cioè le aperture presenti in più punti del cantiere e necessarie per consentire il passaggio dei condotti di aerazione, era la CM. e per essa A.F., capocantiere, cui il POS della CM. attribuiva il compito di realizzare idonee opere provvisionali e di vigilare perché non venissero rimosse le protezioni; A. peraltro aveva ammesso tale responsabilità affermando di averla debitamente adempiuta con la realizzazione di reti termosaldate fissate da "murali" (pezzi di legno che tenevano aderente la rete a terra) che evidentemente, secondo A. , erano stati rimossi.
In realtà si accertava che le reti termosaldate non erano stabilmente ancorate al suolo così come richiesto dalla normativa vigente (Decreto del Presidente della Repubblica n. 164 del 1956, articolo 68, comma 1) e dallo stesso POS della CM. (punto 3.2); secondo tali disposizioni la copertura di aperture nei solai doveva essere saldamente fissata in modo da rimanere sempre nella stessa posizione ed offrire resistenza non inferiore a quella del piano di calpestio; quelle esistenti invece, osservava il Tribunale, non costituivano protezione inamovibile, come richiesto per poter essere ritenuta sicura e idonea. Anche la protezione dell'apertura dei condotti di aerazione del piano sottostante era insufficiente, dal momento che il fragile parapetto esistente ne costituiva riparo meramente apparente e inidoneo ad offrire resistenza al corpo del B.; sarebbe stata piuttosto necessaria la copertura dei camini. Nel cantiere erano presenti più imprese, elemento di indubbia moltiplicazione del rischio, e il dovere di adottare le misure generali di tutela di tutti i lavoratori, anche non suoi dipendenti, era a carico della CM..
A., che peraltro aveva come si è detto, ammesso i suoi compiti, era dunque responsabile per non aver realizzato un sistema sicuro di protezione e per non aver vigilato debitamente, ciò che gli avrebbe consentito di rilevare prima dell'infortunio che la rete dell'asola in questione era fuori posto; per le stesse ragioni era responsabile M., direttore tecnico del cantiere da cui A. prendeva ordini, massimo responsabile del cantiere per la CM. anche sotto il profilo della sicurezza; suo era infatti il compito di attuare le misure necessarie alla prevenzione degli infortuni in relazione alla natura e all'entità dei rischi presenti nell'ambiente di lavoro e di vigilare al rispetto dei piani di sicurezza. Rientrava nei suoi compiti sovrintendere alla predisposizione di misure di carattere generale, quali erano quelle in esame, realizzate dalla stessa CM., essendo incontroverso e documentato dalle foto in atti che il sistema di copertura era identico per tutte le asole presenti nei pavimenti del manufatto, e che si trattava di un aspetto di evidente rilevanza ai fini della sicurezza del cantiere; pacifico era che fosse a conoscenza della situazione esistente per la sua abituale frequentazione del cantiere. Anche R. era responsabile, stante la posizione di garanzia che gli competeva nella qualità di coordinatore per la sicurezza e redattore del Piano di sicurezza e Coordinamento (PSC), figura centrale nella disciplina dettata dal Decreto Legislativo n. 494 del 1996 con specifici compiti (articolo 5) di controllo e vigilanza durante l'esecuzione dei lavori; egli era presente sul cantiere e pertanto avrebbe dovuto accorgersi che il sistema realizzato non era regolare e pretendere la messa in regola, laddove invece lo aveva tollerato. Avverso la sentenza della Corte di appello hanno presentato ricorso per cassazione i difensori di R., M. ed A..

Con un primo motivo R. lamenta - in generale - l'apparenza della motivazione fornita dalla Corte di Milano che non ha tenuto conto dei rilievi formulati con l'impugnazione e non ha fornito effettiva risposta, limitandosi alla mera riproduzione e trascrizione di passi della motivazione di primo grado; con ulteriori motivi il ricorrente specifica la doglianza con riferimento alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese da Z.S., alla mancata considerazione della attività diligente che era stata svolta dal ricorrente nel cantiere, documentata anche da fotografie, alla interpretazione del ruolo del coordinatore per l'esecuzione che non deve essere inteso quasi come una responsabilità oggettiva; con il quinto e sesto motivo deduce l'assenza di motivazione in ordine al giudizio di comparazione delle circostanze e in ordine alla richiesta di conversione della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria.

I ricorsi di M. ed A. sviluppano un identico motivo.
Si precisa preliminarmente, in fatto, che B. era dipendente della IM. e non della CM. e che nella fase lavorativa in cui è avvenuto l'incidente la CM. non stava effettuando alcuna lavorazione nel piano dove lo stesso è avvenuto.
Si richiama poi il contenuto del Decreto Legislativo n. 494 del 1996 in base al quale ciascuna delle imprese esecutrici presenti nel cantiere è responsabile della sicurezza dei propri dipendenti e deve redigere un proprio piano operativo di sicurezza (POS) in relazione alle lavorazioni che è chiamata a svolgere, piano del quale unicamente deve curare l'esecuzione, mentre non esiste alcun obbligo in capo al datore di lavoro di un'impresa esecutrice, sia essa l'appaltatore principale o meno, di curare l'attuazione del piano di sicurezza e coordinamento generale (PSC, di competenza della committente o di soggetto, il cocordinatore, da essa nominato) o di un piano operativo che non sia il suo si fa presente che per superare tale dato normativo, da cui derivava l'assenza di responsabilità dei ricorrenti, i giudici di merito hanno attribuito alla CM. , in considerazione del fatto che essa era l'impresa principale presente nel cantiere, il ruolo sostanziale di "committente" rispetto alle imprese subappaltatrici e dunque la responsabilità di vigilare sul rispetto del PSC. Si è in tal modo trascurato che ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera b del predetto Decreto, committente è solamente "il soggetto per conto del quale l'intera opera viene realizzata", e cioè nella specie la C.L. a cui esclusivamente facevano capo quelle responsabilità in tema di coordinamento previste dall'articolo 6.

Dall'assenza del ruolo di committente in capo alla CM. ne deriva, secondo il ricorrenti, che essi non avevano l'obbligo di dare attuazione alle prescrizioni del PSC della committenza ma solo a quelle del proprio POS; è vero che quest'ultimo prevedeva e disciplinava il pericolo di caduta dall'alto, ma è altrettanto vero che A. e M. avrebbero dovuto curarne il rispetto solamente nei luoghi in cui la CM. avesse dovuto attendere, con proprie maestranze, a lavorazioni che comportassero tale rischio e nel momento in cui tali lavorazioni avessero dovuto essere eseguite, viceversa in quel momento la CM. non stava eseguendo alcuna lavorazione mentre stava lavorando la IM. che avrebbe dunque dovuto preoccuparsi di attuare le disposizioni del proprio POS nella parte in cui prevedeva il rischio di caduta dall'alto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso di R. risulta infondato per quanto riguarda i primi quattro motivi che attengono ad asseriti vizi della motivazione sulla responsabilità del medesimo, mentre è fondato sugli ultimi due.

A tale ultimo riguardo rileva infatti il Collegio che la sentenza non fornisce spiegazione alcuna delle ragioni per le quali ha ritenuto di confermare il giudizio di primo grado anche per quanto riguarda la comparazione delle attenuanti e la determinazione della pena detentiva. Con l'appello il giudice era stato sollecitato a valutare le concesse attenuanti generiche e del risarcimento del danno prevalenti sulla aggravante speciale e a sostegno di tale richiesta si era chiesto di considerare il profilo soggettivo della condotta di vita e della serietà professionale dell'imputato, nonché il comportamento processuale collaborativi; era stato altresì richiesta la conversione della pena detentiva irrogata nella misura di sei mesi (o in quella eventualmente minore) nella corrispondete pena pecuniaria ai sensi della Legge n. 689 del 1981, articolo 53 e sgg. e successive modificazioni. La sentenza impugnata è rimasta completamente silente al riguardo, fin anche nella parte espositiva dove i motivi non risultano riportati.
Si configura dunque la mancanza assoluta di motivazione con la conseguenza che la sentenza deve, su tali punti essere annullata con rinvio per nuovo esame alla Corte di appello di Milano.

Quanto agli altri motivi di ricorso, ritiene il Collegio che il tenore delle due sentenze di merito consenta di affermare che il giudice di appello ha fornito sufficiente e corretta motivazione della conferma della responsabilità. Tale Corte infatti, dopo avere puntualmente riferito il contenuto delle censure svolte dalla difesa del R. (gli argomenti sono gli stessi che vengono illustrati con il presente ricorso e di cui si lamenta la mancata considerazione, e sono orientati a sottolineare l'esistenza di elementi di prova che non sarebbero stati considerati e che avrebbero dimostrato che R. aveva controllato rigorosamente il cantiere constatando, nel sopraluogo del ***, che l'asola dove si è svolto l'incidente era in regola e ben protetta, di modo che se ne doveva desumere che vi era stata una modifica dello stato dei luoghi di poco precedente l'incidente, di cui il ricorrente, che non poteva certo essere presente tutti i giorni in cantiere, non è stato in grado di accorgersi) ha espressamente e in primo luogo dichiarato di volersi richiamare per intero alla motivazione fornita dal giudice di primo grado.
Ha poi svolto puntuali osservazioni sui predetti motivi, rilevando in primo luogo che la testimonianza A. non era l'unica prova disponibile, che i sopraluoghi svolti e gli accertamenti effettuati al momento dell'incidente dimostravano l'esistenza di una situazione di irregolarità sia per l'asola dove si è verificato l'incidente (per la presenza solo di una copertura in polistirene e per la mancata protezione dei camini sottostanti), sia per altre analoghe coperture, che il verbale del sopraluogo svolto il *** dal R. non dimostrava con certezza l'esistenza di idonee protezioni, che nessuna prova vi era che a rimuovere la rete termosaldata fossero stati gli operai di altra ditta o lo stesso infortunato, dando risposta censure mosse. Che nel fare ciò la Corte si sia richiamata osservazioni svolte in primo grado non costituisce motivo di nullità poiché il complessivo tenore della motivazione consente di ritenere che la Corte medesima si sia fatta carico delle censure svolte ed abbia formulato un proprio giudizio di infondatezza sulla base degli elementi già presenti e utilizzati nel provvedimento di primo grado, ritenendoli coerenti alla propria decisione e interamente condivisi. Sono stati dunque rispettati i limiti entro i quali la giurisprudenza di questa Corte consente la motivazione "per relationem" (S. U. 21.6.2000 n. 17 rv. 216664; sez. 4 20.1.2004 n. 16886 rv. 227942).

Da ultimo, risulta corretta la valutazione del comportamento del R. come colpevole in quanto posto in essere in violazione della specifica posizione di garanzia che gli imponeva di verificare in concreto l'attuazione di quanto previsto nei piani di sicurezza (PSC e POS) e il continuo rispetto delle prescrizioni anche, e può dirsi specialmente, in relazione alla evoluzione dei lavori, essendo assai sovente proprio questo il momento più pericoloso della vita di un cantiere edile, da un lato, per il subentrare di un certo affidamento sulle prassi seguite e, dall'altro, normalmente, per l'ingresso nel cantiere di nuovi soggetti non a conoscenza di tutto quanto già in precedenza fatto fino a quel momento.

Il ricorso di M. e A. non merita accoglimento non potendosi condividere la ricostruzione effettuata per sostenerne l'assenza di responsabilità.

I ricorrenti pongono infatti l'attenzione esclusivamente sul Decreto Legislativo n. 494 del 1996, che disciplina le prescrizioni di sicurezza da seguire nei cantieri temporanei e mobili, per ribadire, come peraltro è pacifico, che figura centrale di tale provvedimento è il committente, cui viene attribuito il fondamentale compito di curare il coordinamento tra le diverse imprese che operano nel cantiere.

Trascurano però di considerare che tale regolamentazione non è certamente esaustiva della complessiva disciplina che regola la sicurezza sul lavoro, dal momento che il decreto legislativo in questione si inserisce nel complessivo ambito della disciplina dettata in tale materia, quale normativa speciale dettata per meglio proteggere uno specifico ambiente di lavoro, quello del cantiere temporaneo e mobile appunto, che, a causa delle sue particolari caratteristiche (collegate alla mancanza di un punto di riferimento imprenditoriale stabile dal momento che ogni cantiere costituisce una realtà a sé, con proprie esigenze e affidata a un soggetto che ben può essere ogni volta diverso) e della correlativa particolare pericolosità del lavoro che in esso si svolge, necessita di norme particolari ed apposite che però non escludono certamente, ed anzi presuppongono, essendo di essa integrative, la contemporanea applicazione della normativa generale.

Ciò è tanto vero che il Decreto Legislativo n. 494 del 96, articolo 1, comma 2, stabilisce espressamente che, nello specifico settore da esso regolato, quello dei cantieri temporanei e mobili, e fatte salve le specifiche disposizioni da esso dettate, trovano applicazione le disposizioni di cui al Decreto Legislativo n. 626; e l'articolo 8 del medesimo Decreto Legislativo richiama i datori di lavoro presenti nei cantiere all'osservanza delle misure generali di tutela di cui al Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 3 norma quest'ultima, è bene sottolinearlo, espressamente menzionata nei formulati capi di imputazione; ed impone loro - alla lettera g. - di curare, ciascuno per la parte di competenza, "la cooperazione tra datori di lavoro e lavoratori autonomi".

È dunque evidente il richiamo al Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 7 al comma 2, che già aveva stabilito l'obbligo di cooperazione tra i datori di lavoro di più imprese appaltatrici (e tra gli stessi e lavoratori autonomi) presenti in un cantiere.

Tanto precisato con riferimento all'esatto inquadramento giuridico della fattispecie, risultano perfettamente coerenti con l'impianto normativo derivante dai due Decreti in considerazione, Decreto Legislativo n. 494 del 1996 e Decreto Legislativo n. 696 del 1994 e all'obbligo di cooperazione tra imprese appaltatrici, le affermazioni contenute nella sentenza di primo grado - e contestate con il presente ricorso - secondo cui "il cantiere aveva ... una struttura complessa, la cui organizzazione rientrava nei compiti dell'impresa principale (CM.), tenuta ad adottare le misure generali di tutela di tutti i lavoratori, anche non suoi dipendenti ..." e "la responsabilità dell'impresa principale (CM.), che riveste il ruolo di committente rispetto alle imprese subappaltatrici, essendo connessa alla realizzazione dell'opera complessiva, permane ancorché essa non operi più nell'area in cui la situazione di rischio si colloca". In sostanza quello che i giudici di entrambi i gradi del procedimento hanno correttamente affermato è che la CM., e per essa A. in quanto capocantiere e M. in quanto massimo responsabile della sicurezza di cui si era accertata la presenza sul cantiere, quale principale società appaltatrice dei lavori per la realizzazione del centro commerciale ed appaltante essa stessa di specifiche opere, era tenuta alla vigilanza dell'intero cantiere tanto più che, come ha sottolineato in particolare la sentenza di primo grado (pag. 10) , si trattava di misure di carattere generale, essendo "incontroverso, anche perché documentato dalle foto in atti, che il sistema di copertura era lo stesso per tutte le asole presenti nei pavimenti del manufatto" e che (pag. 9) lo stesso suo capocantiere A. aveva dichiarato "di aver fatto realizzare egli stesso, nel marzo aprile 2001 le protezioni delle asole ... e di non averle più modificate".

In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla omessa valutazione del giudizio di bilanciamento tra le circostanze e dell'applicazione della sostituzione della pena nei confronti di R.M.; nel resto il ricorso di R. va rigettato e parimenti vanno rigettati quelli di M. ed A. con condanna di questi ultimi al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla omessa valutazione del giudizio di bilanciamento tra le circostanze e dell'applicabilità della sostituzione della pena nei confronti di R.M.; rigetta nel resto il ricorso di R. nonché quello di M. ed A. e condanna questi ultimi al pagamento delle spese processuali.