REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCALI Piero
Dott. IACOPINO Silvana Giovanna
Dott. MASSAFRA Umberto
Dott. MARINELLI Felicetta
Dott. PICCIALLI Patrizia

- Presidente
- Consigliere
- rel. Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
1) B.D. N. IL ***;
2) N.E. N. IL ***;
avverso la sentenza n. 2567/2007 CORTE APPELLO di MILANO, del 15/01/2008;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/04/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. UMBERTO MASSAFRA;
udito il P.G. in persona del Dott. STABILE Carmine che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 10.1.2007 il Tribunale di Como condannava B.D. e N.E., previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, ciascuno alla pena, condizionalmente sospesa e con il beneficio della non menzione, di mesi 10 di reclusione nonché al risarcimento dei danni i favore delle parti civili costituite, da liquidarsi io separata sede, ritenuto il concorso della vittima nella misura dei 2/3 d'efficienza causale, giudicandoli colpevoli del reato di omicidio colposo in danno di F.U.N. ai sensi dell'art. 113 c.p., art. 589 c.p., commi 1 e 2, in relazione al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 27.

In particolare, si ascriveva agli imputati, in qualità di soci accomandatali della S.a.s. B.N.C., e, in tale veste, gestori dell'attività di rimessaggio delle imbarcazioni e delle annesse operazioni di assistenza, effettuate presso il cantiere nautico sito in ***, di aver cagionato al F. lesioni personali da cui derivava la morte per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia, e, segnatamente, non aver provvisto di normale parapetto o di mezzi di difesa equivalenti, su tutti i lati verso il vuoto, il balcone antistante la rimessa delle imbarcazioni posto all'altezza di circa 3 metri dalla sottostante banchina. In particolare detto balcone era protetto da vasi di arbusti, non idonei contro l'eventuale caduta di persone, cosicché il F., transitando sul citato balcone, perdeva l'equilibrio e cadeva sulla sottostante banchina da una altezza di 3 metri, procurandosi lesioni che ne cagionavano la morte per trauma cranico; con l'aggravante di aver commesso il fatto con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Fatti del ***.

Il giudice di primo grado, nell'affermare la penale responsabilità degli imputati in quanto obbligati a garantire la sicurezza dell'ambiente di lavoro, evidenziava, in particolare, che il F., come emergeva dalle deposizioni assunte, non era né cliente né dipendente del cantiere nautico, ma vi accedeva con frequenza sistematica, col consenso di B.D. e C.A., per accudire ad una sua imbarcazione depositata all'aperto nell'ambito del complesso cantieristico, con ampia libertà di movimento e di utilizzazione di attrezzature e servizi della struttura; che quel giorno il F. si trovava presso il cantiere per accudire alla sua imbarcazione; che era pacifico che il terrazzo da cui il F. precipitò appartenesse al complesso immobiliare locato S.a.s. B.N.C.; che, come risultava dalle fotografie in atti, il terrazzo in questione era antistante ad un portone scorrevole che immetteva nel capannone ove si svolgeva l'attività aziendale, portone identico ad altro distante pochi metri, e, proprio la contiguità tra il terrazzo e il capannone in cui venivano ricoverate le imbarcazioni e in cui si svolgevano le attività di manutenzione, e la presenza di attrezzature la sera dell'incidente, deponevano per la destinazione dell'area in esame a luogo di lavoro nell'ambito del cantiere nautico, benché utilizzato anche per intrattenimenti conviviali; che doveva reputarsi luogo di lavoro non solo quello ove materialmente si svolge la tipica attività oggetto di impresa, ma anche quello ove si compiono tutte le attività commesse e qualsiasi posto ove il lavoratore possa accedere, anche a prescindere dalle singole incombenze affidategli; che, per giurisprudenza consolidata, le misure volte a garantire la sicurezza del lavoro devono essere osservate anche per assicurare quella di persone estranee che possono trovarsi nella posizione di pericolo e che comunque la penale responsabilità sussisteva anche a prescindere dalla violazione delle norme antinfortunistiche.

Tale sentenza veniva, quanto alla colpevolezza degl'imputati, confermata dalla Corte di Appello di Milano con sentenza in data 15.2.2008 che riduceva solo il concorso colposo della parte lesa nella misura del 50%.

Avverso tale sentenza ricorrono per cassazione B.D. e N.E. tramite il comune difensore di fiducia, con il medesimo atto, denunziando la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 17 aprile 1955, n. 547, art. 27 in relazione alla persona del defunto F.L., ai motivi della sua presenza in loco e alla qualificazione del luogo ove l'incidente era avvenuto, sostanzialmente ribadendo, con il richiamo delle deposizioni di taluni testi, la tesi già sostenuta nei gradi di merito secondo cui la normativa antinfortunistica non poteva applicarsi al caso di specie (in cui l'ampia banchina sopraelevata non poteva qualificarsi come posto di lavoro o di passaggio dei lavoratori ed il F. non svolgeva alcuna attività d'interesse o utilità per la B.N. nè aveva il permesso anche implicito dei ricorrenti di accedere alla B.N. ed in particolare al luogo in questione).

Assumono, altresì, che non era a loro carico l'obbligo di munire il terrazzo di parapetti fissi, bensì esso incombeva sul proprietario (C.A.), trattandosi di un intervento di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 1621 c.c. (in tema di affitto di azienda), mentre la società affittuaria aveva diffidato a tal fine il C. di provvedere alla regolarizzazione dell'edificio, ma senza esito.

Deducono, ancora, il difetto di esauriente dimostrazione del nesso causale tra le omissioni delle cautele di sicurezza e la caduta mortale della parte lesa e la mancata considerazione della posizione di socio di capitale della società del sig. N.E., che non si era mai occupato della gestione o della attività di rimessaggio, come da concordi deposizioni dei testi; nonché, in via subordinata, l'erroneo giudizio di sussistenza dell'aggravante e, in via ancor più graduata, l'erroneo giudizio sulla prevalenza (rectius: equivalenza) della contestata aggravante rispetto alle circostanze attenuanti generiche; il difetto ed illogicità della motivazione della riduzione del concorso di colpa del defunto nella causazione del sinistro, assumendo che il F., con il suo comportamento, aveva deliberatamente scelto di porsi in una condizione pericolosa, onde il concorso di colpa doveva ricondursi alla misura di 2/3, quale stimata dal giudice di primo grado; del pari, anche la pena avrebbe dovuto essere rideterminata in rapporto alla corretta graduazione del contributo causale dell'omissione addebitata agl'imputati.

Motivi della decisione

I ricorsi sono infondati e vanno, pertanto, rigettati.

Le censure mosse s'appalesano in parte aspecifiche, costituendo l'espressa riproposizione in questa sede delle medesime censure dedotte in grado di appello e da quel giudice disattese con motivazione ampia e congrua, immune da vizi logici e giuridici) infatti,la mancanza di specificità del motivo dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione.

Per il resto, è evidente l'infondatezza delle doglianze.

Infatti, la Corte di appello, nel richiamare e condividere, come consentito dalla giurisprudenza della S.C. (cfr. Cass. pen., sez. 4^, 17.9.2008, n. 38824; Sez. 5^, 22.4. 1999, n. 7572, non apparendo il richiamo alla motivazione di primo grado effettuata in termini apodittici), la motivazione della sentenza di primo grado, circa la ricostruzione del fatto e la responsabilità degli imputati, ha ampiamente spiegato, richiamando la medesima conclusione del primo giudice, che le circostanze di fatto adeguatamente valutate (presenza in loco di un'ascia, di barattoli di vernice, di una canna dell'acqua, due bombole di gas), deponevano per l'utilizzazione del "terrazzo" per "attività funzionali e connesse all'attività di rimessaggio e manutenzione svolta dal cantiere nautico, anche solo per deposito di oggetti ed attrezzi", precisando che in quel periodo gli operai stavano smantellando il cantiere stesso.
Sicché, sulla scorta di elementi oggettivi e persino di deposizioni dei testi G., B.L. e G.B. ed al di là dei richiamati ulteriori meri brani di deposizioni testimoniali (onde deve anche ritenersi il mancato rispetto del principio della cd. autosufficienza del ricorso che, secondo l'orientamento consolidato di questa Corte, deve essere recepita ed applicata anche in sede penale, con la conseguenza che, quando si lamenti, la omessa valutazione o il travisamento del contenuto di specifici atti del processo penale, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti medesimi in modo da rendere possibile l'apprezzamento del vizio dedotto: cfr. Cass. pen. Sez. 4^, 26.6.2008 n. 37982 Rv. 241023; Sez. 1^, 22.1.2009, n. 6112 Rv. 24322), la Corte territoriale ha dimostrato a sufficienza che il luogo in questione rientrava nell'ambiente di lavoro che "deve essere reso sicuro in tutti i luoghi nei quali chi è chiamato ad operare possa comunque accedere, per qualsiasi motivo, anche indipendentemente da esigenze strettamente connesse allo svolgimento delle mansioni disimpegnate" (Cass, pen. Sez. 4^, 4.5.1993 n. 6686, Rv. 195484). Inoltre è stato anche adeguatamente chiarito che il defunto F., come evinto da deposizioni di testi, si recava più volte alla settimana sul posto per accudire ad un'imbarcazione depositata all'aperto e che la sua presenza era conosciuta dagli imputati o, almeno tollerata e non impedita dagli stessi, e non era affatto eccezionale. Sicché trovava applicazione l'insegnamento in materia della S.C. secondo cui, "in tema di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale non può ritenersi escluso solo perché il soggetto colpito da tale evento non sia un lavoratore dipendente (o soggetto equiparato) dell'impresa obbligata al rispetto di dette norme, ma ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 cod. pen.. Ne consegue che deve ravvisarsi l'aggravante di cui all'art. 589 c.p., comma 2 e art. 590 c.p., comma 3, nonché il requisito della perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 c.p., u.c., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità, da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi. (Nella specie, la Corte ha ritenuto sussistente l'aggravante di cui al comma terzo dell'art. 590 cod. pen., con conseguente procedibilità d'ufficio del reato ai sensi dell'u.c., stesso art., in relazione ad un infortunio che aveva riguardato uno studente presente in una palestra scolastica per partecipare ad una lezione di educazione motoria)" (Sez. 4^ 10.11.2005 n. 11360, Rv. 233662, Sez. 4^ 1.7.2009, n. 37840, Rv. 245274).

É stata anche fornita adeguata spiegazione delle ragioni per le quali gl'imputati non potevano ritenersi esenti dall'obbligo di munire il terrazzo di adeguati parapetti la cui situazione di pericolo avrebbero dovuto comunque segnalare ed in caso di mancato riscontro impedire l'accesso sul luogo a chiunque.

E'stata altresì compiutamente valutata l'efficienza di un eventuale parapetto in luogo dei fragili vasi ivi posti, per impedire adeguatamente la caduta e quindi l'efficienza causale dell'omessa opera prevenzionale.

La Corte territoriale, oltre a ravvisare la colpa specifica in violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, richiamato art. 27, ha anche sottolineato la violazione delle normali regole di diligenza e prudenza, poiché la situazione del terrazzo, anche se frequentato per motivi solo conviviali, era fonte di pericolo per la mancanza di adeguati parapetti lungo il bordo che affacciava sulla banchina sottostante.

Quanto al N., è stato anche spiegato che, nella sua qualità di socio accomandatario, era titolare, assieme al B., del potere di gestione del cantiere, anche se di fatto non se ne occupava, e quindi della posizione di garanzia conseguente.

É stata fornita, inoltre, adeguata, sebbene sintetica, motivazione in ordine alla sussistenza del nesso di causalità tra le omesse opere provvisionali e l'evento, benché riferito ad una persona colpita da malore, (come nel caso di specie, secondo le indicazione che si traggono dal ricorso), spiegando, altresì, che non era stato possibile accertare le ragioni per le quali il F. avesse perso l'equilibrio (se per un malore o perché scivolato, essendo il terreno bagnato per la giornata di pioggia). Comunque è stata, con congrua motivazione ed insindacabile valutazione in fatto, ritenuta la sua imprudenza nell'avvicinarsi al bordo del terrazzo, sottovalutando il pericolo e, conseguentemente, ridotto al 50% il suo concorso colposo nella produzione dell'evento.

Infine, è del tutto congrua e corretta la motivazione addotta a sostegno dell'impossibilità di una valutazione di prevalenza delle concesse circostanze attenuanti generiche sull'aggravante, con richiamo alla gravità del fatto. Né la riduzione del contributo causale del comportamento della vittima doveva necessariamente incidere sul predetto giudizio di comparazione ovvero sulla quantificazione della pena in ordine alla quale, del resto, non pare che sia stato mosso alcuno specifico motivo d'appello.

Consegue il rigetto dei ricorsi e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.