REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARZANO Francesco
Dott. IACOPINO Silvana Giovanna
Dott. D'ISA Claudio
Dott. BIANCHI Luisa
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- rel. Consigliere
- Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
1) B.N. N. IL ***;
avverso la semenza n. 3390/2008 CORTE APPELLO di ROMA, del 23/09/2008;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 11/05/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. BIANCHI Luisa;
Udito il Procuratore Generale in persona del Cons. Dott. VOLPE Giuseppe che ha concluso per la inammissibilità del ricorso;
udito, per la parte civile, l'Avv. Giacomucci Raffaele del foro di Vasto.

Svolgimento del processo e motivi della decisione


Il Tribunale monocratico di Rieti ha ritenuto B.N. responsabile del reato di lesioni colpose commesse con violazione della normativa di prevenzione degli infortuni sul lavoro contestatogli perché, in qualità di amministratore unico della società S. B e L srl., nell'eseguire lavori di installazione di pannelli di cemento, trasportati da un'autogrù da lui condotta, sul solaio di un edificio in costruzione, ometteva di richiedere al dipendente D.R.C. l'osservanza delle disposizioni in materia di uso delle cinture di sicurezza, nonché ometteva di provvedere ad una adeguata informazione sui rischi specifici cui lo stesso era esposto in quella particolare fase lavorativa e ad una idonea formazione in materia di sicurezza in riferimento alla propria mansione, in tal modo cagionando al D.R., che cadeva in un lucernaio, la lussazione della spalla ed altre fratture. Concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, lo ha condannato a due mesi di reclusione e al risarcimento del danno in favore della parte civile cui liquidava una provvisionale di 7500,00 Euro.

La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza, convertendo la pena detentiva in quella pecuniaria corrispondente. La Corte ha premesso che l'infortunio si era verificato allorché il D.R., dipendente della società gestita dal B. ed intento a lavorare sul solaio del quarto piano di un edificio in costruzione, cadeva inavvertitamente in una apertura esistente su detto solaio precipitando per sette metri di altezza fino al solaio del secondo piano e riportando così le lesioni di cui al capo di imputazione;

Il D.R. non era agganciato a funi di trattenuta e l'ambiente di lavoro era di grande pericolosità dal momento che il piano di calpestio recava al suo interno una grossa apertura/lucernaio priva di ripari idonei ad evitare una accidentale caduta nel vuoto; il lavoro si svolgeva sotto la diretta osservanza e vigilanza del B. che era alla guida dell'autogrù dalla quale si dovevano scaricare i pannelli di cemento da posizionare nell'edificio. La Corte osservava che in tale situazione risultavano inconferenti le questioni poste dalla difesa che, facendo leva su alcune discrasie nelle dichiarazioni dello stesso infortunato e di un teste, sollevava dubbi sull'esatto svolgimento dei fatti; in ordine alla questione se il D.R. nell'occasione avesse o meno in dotazione la cintura di sicurezza, era infatti assorbente la circostanza che nella specie il D.R., sotto il diretto controllo del datore di lavoro e in un contesto operativo palesemente "rischioso", espletava la sua attività senza la cintura attaccata alle funi di sicurezza, indipendentemente dal fatto se l'avesse o meno in dotazione; per la questione se il lavoratore fosse stato o meno preventivamente informato sui rischi specifici delle sue mansioni, era assorbente la stessa circostanza di cui sopra; per la questione se nell'occasione il D.R. stesse o meno adoperando una scala appoggiata sull'apertura/lucernaio, era assorbente la circostanza che la elevata pericolosità del sito lavorativo (un'apertura su un vuoto di circa sette metri) imponeva comunque l'uso della cintura di sicurezza o di altri dispositivi anticaduta, a prescindere quindi dal fatto se il lavoratore nell'occasione stesse o meno facendo uso di una scala.

Avverso tale sentenza ha presentato ricorso per cassazione il difensore dell'imputato lamentando la esistenza di violazione di legge e difetto di motivazione sotto il profilo della mancanza di correlazione tra il fatto contestato e quello ritenuto e violazione del diritto di difesa; sia la sentenza di primo grado che quella di appello hanno ritenuto possibile che i fatti si siano svolti diversamente da quanto contestato e cioè che il D.R. sia caduto mentre si trovava su di una scala, operazione durante la quale non era possibile l'uso di cinture di sicurezza, ma non hanno dato importanza alla circostanza omettendo di considerare - sottolinea il ricorrente - che si tratta di due situazioni oggettivamente diverse in relazione all'utilizzo dei dispositivi di sicurezza; con un secondo motivo sostiene che la decisione resa viola il principio dell'art. 533 c.p.p. che consente al giudicante di pronunciare sentenza di condanna solo quando l'imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, il che non è avvenuto nel caso di specie dove il dato probatorio ha evidenziato la possibilità di diverse modalità di verificazione dei fatti.

Non riscontrandosi la sussistenza di alcun presupposto per una declaratoria più favorevole all'imputato ex art. 129 c.p.p., comma 2, anche in considerazione della natura dei motivi formulati che verranno esaminati con riferimento agli aspetti civili, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, dato che il reato di cui è causa (art. 590 c.p., comma 3), commesso il ***, è estinto per prescrizione, essendosi compiuto in data 30.4.2009 il previsto termine di anni sette e mesi sei ex art. 157 c.p., n. 4, e art. 160 c.p. nel testo vigente prima delle modifiche intervenute con L. n. 251 del 2005.

Devono tuttavia prendersi in esame i motivi dedotti dalla difesa dell'imputato ai fini di confermare il giudizio di responsabilità civile dell'imputato medesimo, secondo quanto dispone l'art. 578 c.p.p., non potendosi far derivare automaticamente dalla mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato la conferma della sua responsabilità civile. È infatti giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte quella secondo la quale il giudice di appello o la Corte di Cassazione, nel dichiarare estinto per amnistia o prescrizione il reato per il quale in primo grado è intervenuta condanna, sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti civili e per tale decisione devono esaminare e valutare i motivi della impugnazione proposta dall'imputato, valutando criticamente la decisione adotta dal primo giudice; dalla ritenuta mancanza di prova della innocenza degli imputati non può automaticamente farsi derivare la conferma della condanna al risarcimento dei danni (da ultimo sez. 6, 25.11.2009 n. 3284 rv. 245876, massime precedenti conformi: N. 6742 del 1999 Rv. 213803, N. 16067 del 2001 Rv. 219510, N. 21102 del 2004 Rv. 229023, N. 31464 del 2004 Rv. 229385, N. 40197 del 2007 Rv. 237863).

I motivi, esaminati congiuntamente attesa la loro stretta connessione logico-giuridica, sono infondati. Ed invero circa la eccepita violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, è sufficiente ricordare che è principio pacifico, ripetutamente espresso da questa Corte (16.5.96 n. 4968, Sonetti; 10.7.2001 n. 35820, Barbieri; 31.7.1997 n. 7704, PM in proc. Crosara ed altro) quello che nei procedimenti per reati colposi, quando nel capo di imputazione siano stati contestati - come nella specie - elementi generici e specifici di colpa, non sussiste violazione del principio di correlazione tra sentenza ed accusa contestata nel caso in cui il giudice abbia ritenuto la responsabilità per una ipotesi di colpa diversa da quella contestata; è infatti consentito al giudice specificare l'addebito di colpa generica con riferimento a specifici profili di responsabilità emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al diritto di difesa, il cui esercizio deve essere rapportato ai fatti oggetto del procedimento sui quali si è svolto, come nella specie è avvenuto, il contraddittorio tra le parti. Nel caso in esame il capo di imputazione era espresso in termini ampi e comprendeva l'espresso riferimento alla imprudenza, imperizia e negligenza. Ma ciò che più conta è che l'ampliamento del tema di indagine circa le modalità di svolgimento dell'incidente si è avuto fin dal dibattimento di primo grado, su sollecitazione dello stesso indagato che ha richiamato i giudici alla considerazione delle iniziali dichiarazioni dell'infortunato secondo cui era caduto da una scala (versione peraltro contrastata da quella resa dai colleghi di lavoro). In tale situazione, l'indagato ha dunque avuto piena possibilità di difendersi in ordine ai fatti di causa da lui pienamente conosciuti e dai giudici correttamente e congruamente valutati secondo la motivazione di cui sopra si è riferito.

In conclusione, deve essere annullata senza rinvio ai fini penali la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.

Il ricorso deve essere rigettato ai fini civili con condanna del ricorrente al rimborso in favore della costituita parte civile, che è intervenuta all'udienza davanti questa Corte, delle spese di questo giudizio che liquida in Euro 2200,00 oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

La Corte:
- Annulla senza rinvio la sentenza impugnata ai fini penali perché estinto il reato per prescrizione. Rigetta il ricorso ai fini civili e condanna il ricorrente al rimborso in favore della costituita parte civile delle spese di questo giudizio che liquida in Euro 2200,00 oltre accessori come per legge.