• Datore di Lavoro
  • Lavoratore
  • Infortunio sul Lavoro

 

Responsabilità di un datore di lavoro per omicidio colposo in danno di un lavoratore - Condannato in primo grado, propone appello: la Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza 17 giugno 2009, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputato per essere il reato estinto per prescrizione e ha confermato le statuizioni civili pronunziate dal primo giudice a favore della parte civile.

 

La Corte di merito ha in sostanza ritenuto di condividere le argomentazioni del primo giudice e ha quindi confermato, anche ai fini civili, le argomentazioni riguardanti la responsabilità del datore di lavoro.

 

Contro la sentenza d'appello quest'ultimo ha proposto ricorso in Cassazione denunziando la violazione, da parte del giudice di secondo grado, dell'art. 129 c.p.c., comma 2 nonchè la mancanza di motivazione. Secondo il ricorrente la Corte di merito, pur in presenza di una causa di estinzione del reato, avrebbe dovuto pronunziare il proscioglimento dell'imputato nel merito essendo emersa, nel giudizio di primo grado, la prova evidente della sua innocenza. Inoltre avrebbe comunque dovuto accertare, per confermare le statuizioni civili, l'esistenza degli elementi costitutivi del reato; ma ciò non è avvenuto perchè la Corte non ha preso in esame alcuna delle censure proposte con l'appello.

 

In particolare, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe completamente omesso di esaminare il motivo di appello concernente la dedotta inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra l'imputato e la persona offesa tra i quali era invece intercorso un rapporto di lavoro autonomo qualificabile come contratto d'opera.  

 

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso ai fini penali.

 

La Corte afferma che: "è da ritenere che il ricorso sia infondato ai fini penali perchè alcuna delle censure proposte con i motivi di appello, che il giudice di secondo grado ha ritenuto infondate con il richiamo alla sentenza del Tribunale, consente di ritenere evidente la prova dell'innocenza del ricorrente.

Sull'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la vittima e l'imputato la sentenza di primo grado aveva infatti motivato in modo approfondito sulla natura del rapporto (ritenuto subordinato) tra l'imputato e la vittima richiamando le deposizioni testimoniali dal cui contenuto si ricava:

1) la circostanza che P. (che prestava attività lavorativa stagionale presso la comunità montana) non era titolare di alcuna attività d'impresa;

2) che M. lo chiamava spesso per eseguire lavori di vario genere sia presso gli immobili che sui terreni agricoli di sua proprietà;

3) che P. non disponeva di attrezzature per lo svolgimento del lavoro ma solo di alcuni attrezzi elementari.

Da queste caratteristiche il giudicante ha tratto la conclusione che non di locatio operis si trattasse ma di locatio operarum perchè P. metteva a disposizione le sue energie sotto la direzione di M. che di volta in volta lo chiamava e gli indicava le attività da svolgere e ne dirigeva il lavoro essendo addirittura spesso presente.

 

Ha poi evidenziato che la paga era "a giornata" e non in base al risultato e ciò costituiva ulteriore elemento sintomatico dell'esistenza della subordinazione.

 

Ne conseguirebbe che l'imputato aveva l'obbligo di fornire a P., incaricato dei lavori di riparazione e pulizia di una grondaia, i mezzi di protezione (in particolare le cinture di sicurezza) necessari per evitare i rischi di caduta dal tetto dove si trovava ad un'altezza di 13 metri dal suolo.

 

Ed ha anche rilevato come la concorrente condotta imprudente della vittima che si era recato sul tetto senza adottare alcuna precauzione non possa escludere la responsabilità del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza.

 

Non ha peraltro mancato, il giudice di primo grado, di evidenziare che se anche dovesse accedersi alla ricostruzione del rapporto come contratto di lavoro autonomo (contratto d'opera) non per questo verrebbe meno la responsabilità di M. perchè, quale committente dei lavori, aveva l'obbligo di scegliere una persona competente e idonea a svolgere i lavori in altezza e non una persona che, oltre a non avere la capacità professionale richiesta per l'esecuzione del lavoro, era anche priva di ogni attrezzatura e dei mezzi di protezione."

 

"In conclusione: pur dovendosi evidenziare la scorrettezza motivazionale dei giudici di secondo grado deve ribadirsi che i motivi proposti con l'appello di M. non erano idonei a fondare una valutazione di evidenza della prova dell'innocenza."


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORGIGNI Antonio - Presidente

Dott. MARZANO Francesco - Consigliere

Dott. BRUSCO Carlo G. - rel. Consigliere

Dott. MAISANO Giulio - Consigliere

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) M.F. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 451/2008 CORTE APPELLO di CATANZARO, del 17/06/2009;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/05/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GERACI Vincenzo che ha concluso per l'annullamento con rinvio al giudice civile;

Udito, per la parte civile, l'Avv. TARANTOLA Rosario che ha concluso per il rigetto del ricorso.

La Corte:

 

           

FattoDiritto

 

 

1) La Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza 17 giugno 2009 investita dell'appello proposto da M.F. contro la sentenza 23 maggio 2007 del Tribunale di Paola, sez. dist. di Scalea - che l'aveva condannato alla pena di anni uno di reclusione per il delitto di omicidio colposo in danno di P.G. deceduto in (OMISSIS) a seguito di un infortunio sul lavoro - ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputato per essere il reato estinto per prescrizione e ha confermato le statuizioni civili pronunziate dal primo giudice a favore della parte civile.

La Corte di merito ha ritenuto di condividere le argomentazioni del primo giudice e ha quindi confermato, anche ai fini civili, le argomentazioni riguardanti la responsabilità di M..

 

2) Contro la sentenza d'appello ha proposto ricorso M. F. il quale ha dedotto un unico motivo di censura denunziando la violazione, da parte del giudice di secondo grado, dell'art. 129 c.p.c., comma 2 nonchè la mancanza di motivazione.

 

Secondo il ricorrente la Corte di merito, pur in presenza di una causa di estinzione del reato, avrebbe dovuto pronunziare il proscioglimento dell'imputato nel merito essendo emersa, nel giudizio di primo grado, la prova evidente della sua innocenza. Inoltre avrebbe comunque dovuto accertare, per confermare le statuizioni civili, l'esistenza degli elementi costitutivi del reato; ma ciò non è avvenuto perchè la Corte non ha preso in esame alcuna delle censure proposte con l'appello.

Nè potrebbe ritenersi assolto l'obbligo di motivazione con l'integrale richiamo alla sentenza di primo grado perchè, nella sentenza impugnata, manca anche "un nucleo essenziale di argomentazione, da cui possa desumersi che il giudice del secondo grado, dopo aver proceduto all'esame delle censure dell'appellante, ha fatto proprie le considerazioni svolte dal primo giudice".

In particolare, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe completamente omesso di esaminare il motivo di appello concernente la dedotta inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra l'imputato e la persona offesa tra i quali era invece intercorso un rapporto di lavoro autonomo qualificabile come contratto d'opera. Il ricorrente riporta quindi le argomentazioni contenute nei motivi di appello non prese in considerazione dai giudici dell'impugnazione.

 

3) Il ricorso è solo parzialmente fondato e va accolto nei limiti di seguito indicati.

 

All'esame dei motivi di ricorso vanno però premesse alcune considerazioni sui limiti del sindacato di legittimità nel caso di dichiarazione di estinzione del reato pronunziata dalla Corte di cassazione o dal giudice della sentenza impugnata.

In particolare, poichè il giudice d'appello ha dichiarato l'estinzione del reato ed è ancora presente nel processo la parte civile, prima di procedere all'esame specifico dei motivi di ricorso, vanno esaminati i principi che disciplinano il rapporto tra l'accertamento della responsabilità penale e l'obbligo, per il giudice, di immediata applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2 in presenza di una causa estintiva del reato sia o meno ancora in corso l'azione civile nel processo penale.

Com'è noto il presupposto per l'applicazione dell'art. 129 cit. indicato è costituito dall'evidenza della prova dell'innocenza dell'imputato.

In questo caso la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza. I presupposti per l'immediato proscioglimento (l'inesistenza del fatto, l'irrilevanza penale, il non averlo l'imputato commesso) devono però risultare dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.

In presenza di una causa estintiva del reato non è quindi più applicabile la regola probatoria, prevista dall'art. 530 c.p.p., comma 2, da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga "positivamente" dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova dell'innocenza dell'imputato (cfr. Cass., sez. 5, 2 dicembre 1997 n. 1460, Fratucello; sez. 1, 30 giugno 1993 n. 8859, Mussone). E' stato affermato che, in questi casi, il giudice procede, più che ad un "apprezzamento", ad una "constatazione" (Cass., sez. 6, 25 marzo 1999 n. 3945, Di Finto; 25 novembre 1998 n. 12320, Maccan). Da ciò consegue altresì che non è consentito al giudice di applicare l'art. 129 c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti al processo anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi all'assoluzione dell'imputato per avere, il quadro probatorio, caratteristiche di ambivalenza probatoria.

Questi principi sono stati di recente ribaditi dalle sezioni unite di questa Corte con sentenza (28 maggio 2009 n. 35490, Tettamanti, rv.244273-4-5) alle cui condivisibili argomentazioni si rinvia.

Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull'obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all'annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l'estinzione del reato (cfr. la citata sentenza Maccan della 5^ sezione ed inoltre sez. 1, 7 luglio 1994 n. 10822, Boiani). In caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si troverebbe nella medesima situazione che gli impone l'obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato.

Questi principi rimangono fermi, per quanto attiene alla responsabilità penale dell'imputato, anche nei casi in cui sia stata proposta l'azione civile nel processo penale; peraltro, nel giudizio di primo grado, il giudice non può dichiarare estinto il reato e pronunziarsi sull'azione civile (cfr. Cass., sez. 4, 1 ottobre 1993 n. 10471).

Al contrario, nel giudizio d'impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d'appello) ed essendo ancora pendente l'azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell'art. 578 c.p.p., è tenuto, quando accerti l'estinzione del reato per amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione sia o meno intervenuta sentenza di condanna in primo grado come hanno chiarito le sezioni unite di questa Corte (sentenza 11 luglio 2006 n. 25083, Negri, rv. 233918) che, andando di contrario avviso rispetto al precedente orientamento, hanno confermato questo principio.

In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell'impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d'appello nel caso in cui l'estinzione del reato sia stata da lui pronunziata o debba essere emessa dalla Corte di cassazione).

 

In conclusione va affermato che costituisce principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilità penale dell'imputato; anche se l'estinzione del reato non gli consente di pronunziare o di confermare la condanna penale.

 

4) E' però necessario, a questo punto, esaminare uno dei problemi posti dalla citata sentenza Tettamanti delle sezioni unite.

 

Questa sentenza ha infatti affermato che il principio richiamato sulla prevalenza della causa di estinzione del reato nel caso di dedotto vizio di motivazione trova un temperamento in due ipotesi. La prima riguarda il caso di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2 e impugnazione del pubblico ministero: in questo caso, secondo le sezioni unite, se il giudice di appello ritiene infondato nel merito l'appello del pubblico ministero deve confermare la sentenza di assoluzione.

Il secondo caso attiene invece più specificamente all'ipotesi dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale: il giudice di appello è tenuto, anche nel caso in cui il reato sia estinto per amnistia o prescrizione, ad esaminare l'esistenza dei presupposti per la condanna penale quando sia ancora presente nel processo la parte civile; in tale caso ove pervenga, all'esito di questo esame, a ritenere l'insufficienza o la contraddittorietà del compendio probatorio deve pronunziare sentenza di assoluzione nel merito.

Secondo le sezioni unite questa deroga ai principi in precedenza enunciati si fonda sulla considerazione "che alcun ostacolo procedurale, nè le esigenze di economia processuale (che, come più volte detto, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all'art. 129 c.p.p., comma 2), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l'applicazione della regola probatoria di cui all'art. 530 c.p.p., comma 2".

E' da rilevare che la deroga, come hanno precisato le sezioni unite (e come confermato dalla sentenza 20 novembre 2009 n. Pelli e altri), riguarda esclusivamente il giudice di appello non essendo attribuita, al giudice di legittimità, una funzione di rivalutazione del compendio probatorio.

 

5) Nel presente giudizio di legittimità andrà dunque anzitutto verificato se possa ritenersi che la sentenza impugnata, con il rinvio per relationem a quella di primo grado, sia sufficientemente motivata sulla penale responsabilità dell'imputato. La sentenza della Corte di merito si caratterizza infatti per essere costituita da una mero rinvio a quella di primo grado senza alcun esame specifico dei motivi di appello.

Deve dunque essere preliminarmente esaminato il problema della ammissibilità della motivazione per relationem ad altro atto o provvedimento del procedimento o del processo.

Su questo problema si sono pronunziate le sezioni unite di questa Corte (sentenza 21 settembre 2000 n. 17, Primavera, rv. 216664) che, pur con riferimento al problema specifico della motivazione dei decreti in materia di intercettazioni telefoniche o ambientali, hanno affermato i seguenti principi di carattere generale che consentono di ritenere legittima la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale in presenza dei seguenti presupposti: il riferimento deve essere fatto ad un legittimo atto del procedimento la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria al provvedimento di destinazione; deve risultare che il decidente abbia preso cognizione del contenuto delle ragioni del provvedimento di riferimento ritenendole coerenti alla sua decisione; l'atto di riferimento sia conosciuto dall'interessato o almeno a lui estensibile.

La successiva giurisprudenza di legittimità ha in linea di massima condiviso questi principi con approfondimenti che riguardano le specifiche ipotesi che si verificano nelle singole fattispecie.

In particolare si è precisato che il mero rinvio agli atti del procedimento è consentito quanto gli atti abbiano un contenuto essenzialmente descrittivo o ricostruttivo e non quando si riferisca a documenti complessi e contenenti aspetti valutativi (Cass., sez. 3, 4 marzo 2010 n. 12464, C. e altri, rv. 246465); che il rinvio possa essere anche implicito (v. Cass., sez. 2, 16 gennaio 2008 n. 9153, De Mauro, rv. 239589) ma debba riferirsi ad atti del medesimo procedimento (Cass., sez. 3, 25 maggio 2001 n. 33648, Cataruzza, rv. 219988).

 

Non del tutto uniforme è l'orientamento (peraltro spesso condizionato anche dalla specificità dei casi esaminati) nel caso di sentenze d'appello che operino un mero rinvio a quelle di primo grado. Un orientamento più rigoroso ritiene che sussista il vizio di motivazione nel caso in cui la motivazione del primo giudice sia richiamata in termini apodittici o meramente ripetitivi (v. Cass., sez. 6, 12 giugno 2008 n. 35346, Bonarrigo, rv. 241199; 20 aprile 2005 n. 6221, Aglieri, rv. 233082) o addirittura il giudice di appello abbia letteralmente ricopiato la sentenza di primo grado (è il caso esaminato da Cass., sez. 4, 20 gennaio 2004 n. 16886, Rinero, rv. 227942). In materia cautelare personale le sezioni unite (v. sentenza 26 novembre 2003 n. 919, Gatto, rv. 226488) hanno ribadito che il tribunale per il riesame non può limitarsi ad un generale e generico rinvio al provvedimento cautelare dovendosi ritenere che la motivazione per relationem possa al più svolgere una funzione integrativa perchè diversamente si perverrebbe ad una sostanziale vanificazione del mezzo d'impugnazione.

Si è affermato invece che è consentita la motivazione per relationem nel caso in cui le censure formulate con l'appello non contengano elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi dal primo giudice (Cass., sez. 4, 17 settembre 2008 n. 38824, Raso, rv. 241062; sez. 6, 14 giugno 2004 n. 31080, Cerrone, rv. 229299; sez. 5, 15 febbraio 2000 n. 3751, Re, rv. 215722).

 

6) Come è evidente nel caso in esame non sono in discussione il primo e il terzo elemento indicati dalla sentenza Primavera delle ss. uu. (riferimento ad un legittimo atto del procedimento la cui motivazione risulti congrua; conoscibilità dell'atto da parte dell'interessato) mentre va esaminato se la sentenza impugnata abbia rispettato il secondo criterio e precisamente se possa ritenersi che abbia preso cognizione del contenuto della sentenza impugnata e dei motivi di appello e ne abbia tenuto conto nella sua decisione.

Questo scrutinio non può che avvenire con l'esame obiettivo degli atti e l'unico criterio che consente di pervenire ad un risultato ragionevole è quello che si fonda sull'esame comparativo tra sentenza di primo grado e motivi di appello. Ciò richiede che il giudice di legittimità valuti se l'impugnazione era astrattamente idonea a far conseguire all'appellante un risultato diverso ai fini penali e a quelli civili rispetto alla mera dichiarazione di estinzione del reato. Più specificamente occorrerà valutare se i motivi di appello si limitassero a contestare le argomentazioni del primo giudice senza apportare elementi decisivi avendo, la sentenza di primo grado, fornito adeguata e motivata risposta sui temi proposti con l'appello; ovvero se l'atto di appello aveva affrontato temi (ovviamente decisivi ai fini della responsabilità) ai quali alcuna risposta avevano dato i primi giudici.

Nel primo caso la condivisione, da parte del giudice dell'appello, può ritenersi esaustiva dell'obbligo di motivazione perchè i motivi di appello non hanno in realtà apportato alcun elemento nuovo che non sia stato già esaminato dal primo giudice e dunque la condivisione di quello d'appello - pur scorretta per essere, il giudice, venuto meno ad un obbligo su di lui incombente - può ritenersi sufficiente per ritenere motivata la decisione.

Ma alla medesima conclusione non può pervenirsi nei casi in cui l'appellante abbia prospettato elementi nuovi, o diversi da quelli presi in considerazione dal primo giudice, e questi elementi siano astrattamente idonei a fondare una diversa decisione e il giudice di appello li abbia ignorati. In questo caso non può ritenersi adempiuto l'obbligo della motivazione perchè quella del primo giudice, cui quello d'appello ha rinviato, non ha esaminato i temi proposti con l'appello e dunque non può esservi rinvio ad una decisione che non ha esaminato l'oggetto della contestazione.

Naturalmente - in considerazione della diversità dei criteri di valutazione che il giudice deve utilizzare, nel caso di reato dichiarato estinto ai fini penali, a seconda che venga in considerazione la responsabilità penale o quella civile - questo sindacato avrà natura diversa: se il giudice deve verificare soltanto l'esistenza della responsabilità penale è sufficiente che i motivi di appello non fossero idonei a fondare una richiesta di proscioglimento nel merito per l'evidenza dell'innocenza dell'imputato. Se invece sono in discussione anche le statuizioni civili il sindacato va esteso all'esistenza di tutti gli aspetti della responsabilità penale.

 

7) Alla luce dei principi indicati è dunque da ritenere che il ricorso sia infondato ai fini penali perchè alcuna delle censure proposte con i motivi di appello, che il giudice di secondo grado ha ritenuto infondate con il richiamo alla sentenza del Tribunale, consente di ritenere evidente la prova dell'innocenza del ricorrente.

Sull'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la vittima e l'imputato la sentenza di primo grado aveva infatti motivato in modo approfondito sulla natura del rapporto (ritenuto subordinato) tra l'imputato e la vittima richiamando le deposizioni testimoniali dal cui contenuto si ricava:

1) la circostanza che P. (che prestava attività lavorativa stagionale presso la comunità montana) non era titolare di alcuna attività d'impresa;

2) che M. lo chiamava spesso per eseguire lavori di vario genere sia presso gli immobili che sui terreni agricoli di sua proprietà;

3) che P. non disponeva di attrezzature per lo svolgimento del lavoro ma solo di alcuni attrezzi elementari.

Da queste caratteristiche il giudicante ha tratto la conclusione che non di locatio operis si trattasse ma di locatio operarum perchè P. metteva a disposizione le sue energie sotto la direzione di M. che di volta in volta lo chiamava e gli indicava le attività da svolgere e ne dirigeva il lavoro essendo addirittura spesso presente.

Ha poi evidenziato che la paga era "a giornata" e non in base al risultato e ciò costituiva ulteriore elemento sintomatico dell'esistenza della subordinazione.

Ne conseguirebbe che l'imputato aveva l'obbligo di fornire a P., incaricato dei lavori di riparazione e pulizia di una grondaia, i mezzi di protezione (in particolare le cinture di sicurezza) necessari per evitare i rischi di caduta dal tetto dove si trovava ad un'altezza di 13 metri dal suolo.

Ed ha anche rilevato come la concorrente condotta imprudente della vittima che si era recato sul tetto senza adottare alcuna precauzione non possa escludere la responsabilità del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza.

Non ha peraltro mancato, il giudice di primo grado, di evidenziare che se anche dovesse accedersi alla ricostruzione del rapporto come contratto di lavoro autonomo (contratto d'opera) non per questo verrebbe meno la responsabilità di M. perchè, quale committente dei lavori, aveva l'obbligo di scegliere una persona competente e idonea a svolgere i lavori in altezza e non una persona che, oltre a non avere la capacità professionale richiesta per l'esecuzione del lavoro, era anche priva di ogni attrezzatura e dei mezzi di protezione.

 

Orbene, è sufficiente esaminare i pur analitici motivi di appello proposti dall'imputato per verificare che alcuno di essi era idoneo a fondare l'affermazione dell'evidenza della prova della sua innocenza.

 

M. infatti ha riproposto in particolare la tesi della natura autonoma del rapporto tra imputato e vittima ma senza in realtà apportare alcun elemento di novità rispetto alle considerazioni del primo giudice adducendo fatti irrilevanti a tal fine (che P. non avesse un orario di lavoro e potesse decidere quando eseguire i lavori richiesti; che il giorno dell'incidente si fosse recato sul luogo per eseguire un sopralluogo e non per eseguire i lavori; che M. non fosse più titolare di un'impresa edile; che P. prestasse la sua attività anche a favore di altre persone) e comunque inidonei a scalfire il ragionamento del primo giudice sull'esistenza della subordinazione.

Quanto alla violazione degli obblighi incombenti sul committente - nel caso in cui fosse stata ritenuta l'esistenza di un contratto d'opera - il ricorrente sottolineava nei motivi di appello che non vi era alcun obbligo di segnalare la scivolosità del tetto posto che ciò non costituiva rischio specifico dell'ambiente di lavoro.

Quanto alla culpa in eligendo l'appellante sottolineava come fossero contraddittorie le affermazioni della sentenza di primo grado che per un verso ha sottolineato come fosse elementare la misura di prevenzione omessa per poi addebitare all'imputato di aver incaricato una persona priva di alcuna competenza tecnica.

Ma, anche sotto questo profilo, è agevole verificare come i motivi di appello non consentissero di pervenire ad una conclusione di palese erroneità della decisione del primo giudice che, in modo non contraddittorio, aveva esplicitato il suo convincimento non esistendo distonia tra l'affermazione di una scelta incongrua della persona cui affidare i lavori e una modalità esecutiva adottata da questa persona che semmai conferma l'incongruità della scelta.

 

In conclusione: pur dovendosi evidenziare la scorrettezza motivazionale dei giudici di secondo grado deve ribadirsi che i motivi proposti con l'appello di M. non erano idonei a fondare una valutazione di evidenza della prova dell'innocenza.

 

8) Diverse sono le conclusioni cui si deve pervenire ai fini civili.

 

Si è visto che a questi fini la valutazione del giudice dell'impugnazione non è limitata all'accertamento richiesto dall'art. 129 c.p.p., comma 2 ma deve estendersi alla verifica dell'esistenza dei presupposti per l'affermazione della responsabilità penale.

Anche se il giudice di primo grado aveva esaurientemente esaminato i problemi poi riproposti con l'appello con questo atto di impugnazione si richiedeva una rivalutazione del compendio probatorio acquisito dal primo giudice ed in particolare di rivalutare le deposizioni testimoniali rese in dibattimento.

Trattasi dei medesimi problemi evidenziati trattando dell'appello ai fini penali ma - mentre per l'impugnazione ai fini penali ci si può limitare a valutare l'astratta idoneità dei motivi ad evidenziare la prova dell'innocenza - questo scrutinio, per le ragioni già indicate, dovrà essere ben più penetrante quando si discuta della responsabilità civile proprio perchè concernente tutti gli elementi necessari per l'affermazione della responsabilità penale.

 

Fondati o infondati che fossero dunque i motivi proposti era obbligo del giudice dell'impugnazione esaminarli perchè ponevano in discussione elementi fondamentali della responsabilità penale (posizione di garanzia dell'imputato, rapporto di causalità tra la sua condotta e l'evento, elemento soggettivo).

 

La conclusione non può che essere l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice civile indicato nell'art. 622 c.p.p..

 

 

P.Q.M.

 

La Corte Suprema di Cassazione, sezione 4^ penale, rigetta il ricorso ai fini penali; annulla la sentenza impugnata ai fini civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello cui rimette anche il regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio.