• Datore di Lavoro
  • Lavoratore
  • Infortunio sul Lavoro

 

Responsabilità del legale rappresentante di una società di persone per il delitto di lesioni colpose gravi in danno di una lavoratrice in conseguenza di un infortunio sul lavoro.

 

I giudici di merito hanno ritenuto che dovesse essere ritenuto responsabile del reato indicato per non aver preteso che la medesima lavoratrice - addetta ad una macchina formatrice di hamburger - utilizzasse, nel caso di irregolarità nella produzione, una scaletta predisposta che, se aperta, avrebbe provocato l'arresto della macchina. La lavoratrice, il giorno indicato, utilizzava invece un diverso mezzo di accesso e rimaneva con la mano incastrata nella tramoggia che aveva proseguito il suo movimento.
 

I giudici di merito, pur dando atto della condotta inosservante della lavoratrice, hanno fondato la loro decisione in particolare sulla circostanza che la persona offesa aveva, già in passato, utilizzato le improprie modalità descritte e il datore di lavoro aveva tollerato queste trasgressioni.

 

Ricorso in Cassazione - Rigetto.

 

La Corte afferma che "dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito, emerge una sostanziale tolleranza, da parte del datore di lavoro, delle ripetute trasgressioni, ad opera della lavoratrice, delle regole di precauzione a lei impartite per evitare il verificarsi di infortuni.


 
Evidentemente le modalità adottate per eliminare gli inconvenienti consentivano una più agevole e rapida eliminazione degli inconvenienti per cui la lavoratrice - malgrado i ripetuti richiami - si è sentita autorizzata a proseguire nella sua ripetuta violazione degli obblighi di cautela (gravanti anche sui lavoratori) fino all'infausto evento verificatosi.


Orbene sembra effettivamente inesigibile dal datore di lavoro, come si sostiene nel ricorso, un obbligo quale quello ipotizzato dal giudice di primo grado ma non ripreso nella sentenza impugnata (la nomina di "un preposto che esercitasse fattivamente e continuativamente la sorveglianza su tutti i dipendenti di quel reparto") non potendosi richiedere un aggravamento degli obblighi di prevenzione per il solo rifiuto, da parte del lavoratore, di osservarli.


Come deve quindi operare il datore di lavoro che si trovi in una tale situazione di ripetuta inosservanza delle cautele di prevenzione da parte del lavoratore?

Certamente non deve tollerarle ma deve esercitare con il massimo rigore i suoi poteri direttivi e, ove non ritenga di adibire il lavoratore ad altri compiti, ha l'obbligo di esercitare appieno il suo potere disciplinare.
Corretta appare dunque la soluzione dei giudici di merito che hanno ritenuto in colpa il datore di lavoro anche per non aver esercitato questo suo potere limitandosi a generici e inosservati richiami."

 

 

"Per quanto riguarda la condotta del lavoratore va intanto rilevato che, nel campo della sicurezza del lavoro, i principi ricordati consentono di escludere l'esistenza del rapporto di causalità nei casi in cui sia provata l'abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento; questa caratteristica della condotta del lavoratore infortunato è idonea ad interrompere il nesso di condizionamento tra la condotta e l'evento quale causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento in base al già ricordato art. 41 c.p., comma 2.
 

Nel settore della prevenzione degli infortuni sul lavoro deve dunque considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro ed è stato più volte affermato, dalla giurisprudenza di questa medesima sezione, che l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Cass., sez. 4^, 14 dicembre 1999 n. 3580, Bergamasco, rv. 215686; 3 giugno 1999 n. 12115, Grande, rv. 214999; 14 giugno 1996 n. 8676, Ieritano, rv. 206012).
 

Tenendo presenti questi principi è dunque da escludere che abbia queste caratteristiche di abnormità il comportamento, pur imprudente, del lavoratore che non esorbiti completamente dalle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli e mentre vengono utilizzati gli strumenti di lavoro ai quali è addetto. Anche quando la condotta del lavoratore sia stata contraria ad una norma di prevenzione ciò non sarebbe sufficiente a ritenere la sua condotta connotata da abnormità essendo, l'osservanza delle misure di prevenzione, finalizzata anche a prevenire errori e violazioni da parte del lavoratore.
 
Deve quindi ritenersi corretto l'argomentare dei giudici di merito i quali, attenendosi ai principi ricordati, hanno escluso l'abnormità della condotta della lavoratrice vittima dell'incidente. Non solo infatti ci si trova in presenza di una condotta prevedibile ma addirittura prevista in considerazione delle ripetute violazioni di cui la lavoratrice si era resa responsabile."


 

 
 
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORGIGNI Antonio - Presidente

Dott. MARZANO Francesco - Consigliere

Dott. BRUSCO Carlo G. - rel. Consigliere

Dott. FOTI Giacomo - Consigliere

Dott. MARINELLI Felicetta - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: 1) T.W.L. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 1355/2006 CORTE APPELLO di VENEZIA, del 01/12/2006;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 09/12/2009 la relazione fatta dal Consigliere Dott. CARLO GIUSEPPE BRUSCO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Ciampoli Luigi che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
 

La Corte:


 
 
 
FattoDiritto 


 

1) T.W.L. ha proposto ricorso avverso la sentenza 1 dicembre 2006 della Corte d'Appello di Venezia che ha parzialmente riformato (riducendo a mesi uno e giorni dieci di reclusione la pena determinata in mesi due e giorni venti dal primo giudice) la sentenza emessa nei suoi confronti, all'esito del giudizio abbreviato, dal Tribunale di Padova, sez. dist. di Cittadella, che l'aveva ritenuto responsabile del delitto di lesioni colpose gravi in danno di G.C.; lesioni subite in conseguenza di un infortunio sul lavoro verificatosi il (OMISSIS).
 

I giudici di merito hanno ritenuto accertato che l'imputato, legale rappresentante della società di persone presso la quale prestava la sua attività la persona offesa, dovesse essere ritenuto responsabile del reato indicato per non aver preteso che la medesima lavoratrice - addetta ad una macchina formatrice di hamburger - utilizzasse, nel caso di irregolarità nella produzione, una scaletta predisposta che, se aperta, avrebbe provocato l'arresto della macchina. La lavoratrice, il giorno indicato, utilizzava invece un diverso mezzo di accesso e rimaneva con la mano incastrata nella tramoggia che aveva proseguito il suo movimento.
 
 

I giudici di merito, pur dando atto della condotta inosservante della lavoratrice, hanno fondato la loro decisione in particolare sulla circostanza che la persona offesa aveva, già in passato, utilizzato le improprie modalità descritte e il datore di lavoro aveva tollerato queste trasgressioni.
 
 

2) A fondamento del ricorso si deduce, con il primo motivo, il "difetto assoluto dell'elemento soggettivo della colpa". La macchina che ha dato luogo all'infortunio era conforme alle regole di prevenzione e i lavoratori erano stati adeguatamente formati sulle modalità di utilizzazione. Non poteva dunque essere ritenuto esistente l'elemento soggettivo richiesto
avendo, l'imputato, adempiuto agli obblighi di prevenzione su di lui incombenti.
 
Con il secondo motivo si deduce poi che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe escluso che la condotta della lavoratrice avesse caratteristiche di abnormità tali da ritenere interrotto il rapporto di causalità tra le condotta dell'imputato e l'evento.
 
Con il terzo motivo si censura infine la sentenza impugnata in relazione alla determinazione della pena fissata in misura prossima al massimo edittale.
 
 

3) Il ricorso è infondato e deve conseguentemente essere rigettato.
 

Quanto al primo motivo di ricorso va rilevato che, dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito, emerge una sostanziale tolleranza, da parte del datore di lavoro, delle ripetute trasgressioni, ad opera della lavoratrice, delle regole di precauzione a lei impartite per evitare il verificarsi di infortuni.
 
Evidentemente le modalità adottate per eliminare gli inconvenienti consentivano una più agevole e rapida eliminazione degli inconvenienti per cui la lavoratrice - malgrado i ripetuti richiami - si è sentita autorizzata a proseguire nella sua ripetuta violazione degli obblighi di cautela (gravanti anche sui lavoratori) fino all'infausto evento verificatosi.
Orbene sembra effettivamente inesigibile dal datore di lavoro, come si sostiene nel ricorso, un obbligo quale quello ipotizzato dal giudice di primo grado ma non ripreso nella sentenza impugnata (la nomina di "un preposto che esercitasse fattivamente e continuativamente la sorveglianza su tutti i dipendenti di quel reparto") non potendosi richiedere un aggravamento degli obblighi di prevenzione per il solo rifiuto, da parte del lavoratore, di osservarli.
Come deve quindi operare il datore di lavoro che si trovi in una tale situazione di ripetuta inosservanza delle cautele di prevenzione da parte del lavoratore? Certamente non deve tollerarle ma deve esercitare con il massimo rigore i suoi poteri direttivi e, ove non ritenga di adibire il lavoratore ad altri compiti, ha l'obbligo di esercitare appieno il suo potere disciplinare.
Corretta appare dunque la soluzione dei giudici di merito che hanno ritenuto in colpa il datore di lavoro anche per non aver esercitato questo suo potere limitandosi a generici e inosservati richiami.
 

 

4) Il ricorrente ha poi censurato la sentenza impugnata per aver escluso l'esistenza di una causa sopravvenuta da sola idonea a determinare l'evento e quindi ad escludere il rapporto di causalità (art. 41 c.p., comma 2).


Queste censure ripropongono uno dei temi di maggior complessità del diritto penale relativo all'interpretazione dell'art. 41 c.p., comma 2 secondo cui "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento".
Si tratta di una norma di fondamentale importanza all'interno dell'assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità e lo scopo della norma, secondo l'opinione maggiormente seguita, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nell'art. 41, comma 1 in esame che si ritiene abbia accolto il principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause ("condicio sine qua non").

Anzi, secondo taluni autori questa norma escluderebbe che il codice abbia voluto accogliere integralmente la teoria condizionalistica essendo, il concetto di causa sopravvenuta, estraneo a questa teoria così come è da ritenere estraneo alla teoria della causalità adeguata.
E' stato affermato in dottrina che se il secondo comma in esame venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile perchè, in questi casi, all'esclusione si perverrebbe con la mera applicazione del principio condizionalistico previsto dall'art. 41, comma 1.
Deve pertanto trattarsi, secondo questo orientamento, di un processo non completamente avulso dall'antecedente, di una concausa che deve essere, appunto, "sufficiente" a determinare l'evento. Ma questa sufficienza non può essere intesa come avulsa dal precedente percorso causale perchè, altrimenti, torneremmo al caso del processo causale del tutto autonomo per il quale il problema è risolto dall'art. 41, comma 1.
Su questa affermazione di principio deve ritenersi raggiunto un sufficiente consenso in quanto gli orientamenti (peraltro, a quanto risulta, quasi esclusivamente dottrinali) che sostenevano la tesi della completa autonomia dei processi causali non sembrano essere state più riproposte negli ultimi decenni.
 
In base alla ricostruzione che va sotto il nome della teoria della causalità "umana" si parte dalla premessa che, oltre alle forze che l'uomo è in grado di dominare ve ne sono altre - che parimenti influiscono sul verificarsi dell'evento - che invece si sottraggono alla sua signoria. Può dunque essere oggettivamente attribuito all'agente quanto è da lui dominabile ma non ciò che fuoriesce da questa possibilità di controllo.
 
Quali sono gli elementi esterni controllabili? Innanzitutto quelli dotati da carattere di normalità, cioè quelli che si verificano con regolarità qualora venga posta in essere l'azione. Ma non solo queste conseguenze si sottraggono al dominio dell'uomo ma altresì quelle che si caratterizzano per essere non probabili o non frequenti perchè comunque possono essere prevedute dall'uomo.
 
Che cosa sfugge invece al dominio dell'uomo? Ciò che sfugge a questo dominio - secondo l'illustre Autore che ha formulato la teoria - "è il fatto che ha una probabilità minima, insignificante di verificarsi: il fatto che si verifica soltanto in casi rarissimi nei giudizi sulla causalità umana si considerano propri del soggetto tutti i fattori esterni che concorrono con la sua azione, esclusi quelli che hanno una probabilità minima, trascurabile di verificarsi; in altri termini esclusi i fattori che presentano un carattere di eccezionalità".
 
Per concludere che per l'imputazione oggettiva dell'evento sono necessari due elementi, uno positivo e uno negativo: quello positivo "è che l'uomo con la sua condotta abbia posto in essere un fattore causale del risultato, vale a dire un fattore senza il quale il risultato medesimo nel caso concreto non si sarebbe avverato; il negativo è che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali (rarissimi). Soltanto quando concorrono queste due condizioni l'uomo può considerarsi autore dell'evento".
 
Perchè possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità (o la sua interruzione come altrimenti si dice) si deve dunque trattare, secondo questa ricostruzione, di un percorso causale ricollegato all'azione (od omissione) dell'agente ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.
 
E' noto l'esempio riportato nella relazione ministeriale al codice penale: l'agente ha posto in essere un antecedente dell'evento (ha ferito la persona offesa) ma la morte è stata determinata dall'incendio dell'ospedale nel quale il ferito era stato ricoverato.
 
Il che, appunto, non solo non costituisce il percorso causale tipico (come, per es., il decesso nel caso di gravi ferite riportate a seguito del ferimento) ma realizza una linea di sviluppo della condotta del tutto anomala, oggettivamente imprevedibile in astratto e imprevedibile per l'agente che non può anticipatamente rappresentarla come conseguente alla sua azione od omissione (quest'ultimo versante riguarda l'elemento soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell'elemento oggettivo del reato, si pone in termini analoghi).
 
Va infine rilevato che sia l'Autore che l'ha proposta che tutti coloro che l'hanno condivisa, compresa la giurisprudenza di legittimità e di merito, hanno affermato che la teoria della causalità "umana" è applicabile anche ai reati omissivi impropri.
 

Alla luce della ricostruzione che precede la tesi del ricorrenti non appare condivisibile e le censure proposte nel ricorso su questo punto sono da ritenere infondate.
 
Per quanto riguarda la condotta del lavoratore va intanto rilevato che, nel campo della sicurezza del lavoro, i principi ricordati consentono di escludere l'esistenza del rapporto di causalità nei casi in cui sia provata l'abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento; questa caratteristica della condotta del lavoratore infortunato è idonea ad interrompere il nesso di condizionamento tra la condotta e l'evento quale causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento in base al già ricordato art. 41 c.p., comma 2.
 

Nel settore della prevenzione degli infortuni sul lavoro deve dunque considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro ed è stato più volte affermato, dalla giurisprudenza di questa medesima sezione, che l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Cass., sez. 4^, 14 dicembre 1999 n. 3580, Bergamasco, rv. 215686; 3 giugno 1999 n. 12115, Grande, rv. 214999; 14 giugno 1996 n. 8676, Ieritano, rv. 206012).
 

Tenendo presenti questi principi è dunque da escludere che abbia queste caratteristiche di abnormità il comportamento, pur imprudente, del lavoratore che non esorbiti completamente dalle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli e mentre vengono utilizzati gli strumenti di lavoro ai quali è addetto. Anche quando la condotta del lavoratore sia stata contraria ad una norma di prevenzione ciò non sarebbe sufficiente a ritenere la sua condotta connotata da abnormità essendo, l'osservanza delle misure di prevenzione, finalizzata anche a prevenire errori e violazioni da parte del lavoratore.
 
Deve quindi ritenersi corretto l'argomentare dei giudici di merito i quali, attenendosi ai principi ricordati, hanno escluso l'abnormità della condotta della lavoratrice vittima dell'incidente. Non solo infatti ci si trova in presenza di una condotta prevedibile ma addirittura prevista in considerazione delle ripetute violazioni di cui la lavoratrice si era resa responsabile.
 
 

5) Infondato è anche il terzo motivo di ricorso relativo al trattamento sanzionatorio.
 
La Corte d'Appello ha tenuto conto dell'elevato concorso di colpa della persona offesa; ha ridotto in modo consistente la pena inflitta dal primo giudice; ha peraltro ritenuto di non poter infliggere la sola pena pecuniaria anche per i due precedenti specifici di cui è gravato l'imputato.
 
Come appare evidente trattasi di valutazione congruamente e logicamente motivata che si sottrae dunque al vaglio dì legittimità. 6) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
 

 
 P.Q.M.


 
la Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2009.
 
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2010