REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Francesco AMIRANTE;

Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

 

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo del 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria nel procedimento vertente tra la Pizzeria P., ditta individuale di C. D., e il Ministero del lavoro e della previdenza sociale con ordinanza del 13 maggio 2009, iscritta al n. 204 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione della Pizzeria P., ditta individuale di C. D., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

udito l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.



Ritenuto in fatto

 

1. — Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria (d’ora in avanti, T.A.R.), con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 97, primo comma, 24 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), «nella parte in cui prevede che “ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241” e, segnatamente, nella parte in cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3 comma 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241».

 

2. — Il rimettente riferisce che, con ricorso notificato il 27 maggio 2008, C. D., titolare di una ditta individuale per la produzione e il recapito di pizze da asporto, ha impugnato un provvedimento con il quale il Servizio ispezione del lavoro della Direzione provinciale del lavoro di Genova, in seguito a una visita ispettiva presso i locali dell’impresa, aveva disposto, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del citato d.lgs., la sospensione dell’attività imprenditoriale, avendo accertato l’impiego di due fattorini addetti al recapito delle pizze da asporto (pari al 66 per cento del totale dei lavoratori presenti sul posto di lavoro), non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria.

Il giudice a quo, dopo aver riassunto i motivi del ricorso (violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in relazione all’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 – recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi» – e all’art. 14 d.lgs. n. 81 del 2008 e connesso eccesso di potere per omessa motivazione; eccesso di potere per omessa motivazione, per contraddittorietà e per manifesta ingiustizia), prosegue osservando che, come esposto dal titolare della ditta, sarebbero stati esibiti agli ispettori del lavoro copie dei contratti di collaborazione autonoma e occasionale conclusi con i due fattorini (circostanza risultante dal verbale di accesso ispettivo). Ad onta di ciò il provvedimento di sospensione, avente conseguenze gravissime sulla vita di una piccola impresa come quella ricorrente, sarebbe stato adottato in totale assenza di motivazione, benché questa fosse necessaria avuto riguardo al carattere discrezionale del provvedimento ed alla volontà manifestata dalle parti in ordine all’inesistenza del vincolo di subordinazione.

Il T.A.R. precisa di avere accolto l’istanza diretta ad ottenere la sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato e di aver poi trattenuto la causa per la decisione. Argomenta sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, sottolineando che l’obbligo generale di motivazione degli atti amministrativi fu introdotto nel vigente ordinamento dall’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990, sicché, mentre prima di detta legge il difetto di motivazione integrava una figura sintomatica di eccesso di potere, oggi configura il vizio di violazione di legge.

La disposizione censurata, statuendo che «ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241», verrebbe a sottrarre i provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale all’obbligo generale di motivazione. Pertanto essa, dovendo trovare applicazione nella fattispecie, impedirebbe al tribunale di conoscere della relativa censura. D’altro canto, il dedotto difetto di motivazione non potrebbe neppure essere valutato sotto il profilo dell’eccesso di potere, perché la norma censurata escluderebbe in modo espresso il relativo obbligo, la cui mancanza, dunque, non potrebbe costituire sintomo del detto vizio.

Inoltre, ad avviso del Collegio, la questione non sarebbe manifestamente infondata. Infatti, l’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi – di cui all’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990 – costituirebbe un principio generale, attuativo sia dei canoni d’imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 97 Cost., sia di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa contro gli atti della stessa pubblica amministrazione, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost. Di più, il suddetto obbligo sarebbe principio del patrimonio costituzionale comune dei Paesi europei, desumibile dall’art. 253 del Trattato sull’Unione europea (oggi art. 296, comma 2, del Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea, ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008, n.130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009), che lo estende addirittura agli atti normativi.

I principi d’imparzialità e di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost., esigerebbero dunque che, quando l’interesse pubblico si fronteggia con un interesse privato, l’amministrazione debba dare conto, attraverso la motivazione, di aver ponderato gli interessi in conflitto. In altri termini, in caso di provvedimenti discrezionali, «la motivazione costituisce lo strumento principe a mezzo del quale effettuare il controllo di legittimità dell’atto, consentendo al giudice il sindacato sull’iter logico seguito dall’autorità amministrativa e sul ricorrere dei presupposti del potere in concreto esercitato».

In questo quadro, l’esclusione degli obblighi di motivazione per i provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale si porrebbe anche in contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost., in quanto limiterebbe la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione.

 

3. — La parte privata si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale, insistendo per la declaratoria di illegittimità della norma censurata.

Essa, nel condividere le argomentazioni del giudice a quo, sottolinea come la motivazione sia canone fondamentale del diritto non soltanto italiano ma anche europeo, consentendo la trasparenza dell’azione amministrativa, la verifica sulla legittimità del provvedimento e l’esercizio di una concreta tutela giurisdizionale.

L’eliminazione del relativo obbligo, dunque, renderebbe non controllabile la detta azione, legittimando l’arbitrio. Al riguardo, è richiamata l’opinione della dottrina che, ben prima della legge n. 241 del 1990, avrebbe individuato negli artt. 24, 97 e 113 Cost. il fondamento di tale obbligo.

La parte privata ritiene che ai profili sollevati dal T.A.R. andrebbe aggiunta la violazione dell’art. 3 Cost. sotto l’aspetto dell’ingiustificata disparità di trattamento tra tipologie di sanzione. Infatti, l’art. 14 del d.lgs. n. 81 del 2008 costituirebbe un unicum nel vigente ordinamento, nel quale tutte le fattispecie sanzionatorie dovrebbero essere motivate.

Inoltre, andrebbero considerate le gravi conseguenze del provvedimento, caratterizzato da ampi spazi di discrezionalità, tali da impedire ogni difesa, come emergerebbe anche dalle condizioni richieste per ottenerne la revoca. Infine la norma, così come formulata, sarebbe diretta a colpire in primis gli esercizi molto piccoli, in quanto le imprese di medie o grandi dimensioni ben difficilmente potrebbero subire contestazioni tali da riguardare il 20 per cento dell’organico.

 

 

4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

La difesa dello Stato rileva che la normativa censurata, al fine di contrastare il lavoro irregolare e di assicurare il rispetto delle regole di prevenzione nei luoghi di lavoro, disciplina il procedimento per l’adozione della misura cautelare che dispone la sospensione dell’attività imprenditoriale, da porre in essere in presenza di determinati presupposti e di condizioni di effettivo rischio e pericolo, certificati nel verbale redatto dagli ispettori del lavoro, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali e amministrative vigenti.

La procedura sarebbe diretta al rispetto delle esigenze di celerità e di non aggravamento del procedimento, con prevalenza dell’interesse pubblico primario tutelato dall’art. 97 Cost., avuto riguardo alla particolare finalità della disposizione, per la quale si sarebbe reso necessario escludere l’applicabilità della legge n. 241 del 1990 allo scopo di evitare che il provvedimento di sospensione sia adottato soltanto all’esito del procedimento sanzionatorio.

Ad avviso dell’interveniente, peraltro, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, imporrebbe di ritenere che la norma, nella parte in cui esclude l’applicazione della legge n. 241 del 1990, faccia salvo l’obbligo di motivazione del provvedimento di sospensione, perché questo è imposto direttamente dalle norme costituzionali, a garanzia del diritto del privato di agire in giudizio a tutela delle situazioni giuridiche ritenute lese da provvedimenti amministrativi.

Il detto obbligo, infatti, discenderebbe dagli artt. 24, 97 e 113 Cost., mentre la mancanza di motivazione avrebbe configurato una figura sintomatica di eccesso di potere prima ancora che fosse introdotto l’art. 3 della citata legge.

Sotto tale aspetto, la disposizione censurata non violerebbe i principi costituzionali invocati dal rimettente, in quanto «il richiamo ai presupposti di legge accertati nel verbale ispettivo costituisce un momento del procedimento amministrativo su cui si fonda, sotto il profilo sostanziale, la legittimità del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale».

 

 

Considerato in diritto

 

 

1. — Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria (d’ora in avanti, T.A.R.), con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale – in riferimento agli articoli 97, primo comma, 24 e 113 della Costituzione – dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), nella parte in cui prevede che «ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241» e, segnatamente, nella parte in cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3, comma 1, della legge ora citata (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), concernente l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi.

 

2. — Il rimettente è chiamato a pronunciare in un giudizio amministrativo promosso dal titolare di una ditta individuale, avente ad oggetto la produzione e la vendita di pizze da asporto, nei confronti del Ministero del lavoro e della previdenza sociale per l’annullamento di un provvedimento, adottato dalla Direzione provinciale del lavoro di Genova. Con esso è stata disposta la sospensione dell’attività imprenditoriale, essendo risultato l’impiego di due fattorini addetti al recapito delle pizze (pari al 66 per cento del totale dei lavoratori presenti sul posto di lavoro), non emergenti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria. Il giudice a quo ritiene che la norma censurata, in forza della quale il provvedimento di sospensione è stato emesso, sia in contrasto con i parametri costituzionali dianzi indicati, perché l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, di cui all’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990, costituisce un principio generale, che attua i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 97 Cost., nonché la tutela del diritto di difesa contro gli atti della pubblica amministrazione, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost.

 

3. — In via preliminare, si deve rilevare che è impugnato l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, nel testo originario (in Gazzetta Ufficiale del 30 aprile 2008, entrato in vigore il 15 maggio 2008).

Detta disposizione è stata dapprima modificata dall’art. 41, comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e poi sostituita dall’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro).

Peraltro, con l’ordinanza di rimessione la norma è censurata nella parte in cui dispone che «Ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241» e, segnatamente, «nella parte in cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, per contrasto con gli artt. 97, comma 1, 24 e 113 Cost.».

In tale dettato la disposizione non ha subito modifiche nelle tre versioni suddette. Pertanto, avuto riguardo alla persistenza del medesimo contenuto precettivo recato in parte qua dalle menzionate disposizioni, la questione deve ritenersi trasferita sulla nuova norma, sostitutiva di quella originaria e identica a questa, addirittura nella stessa formulazione letterale (nei giudizi in via incidentale: sentenze n. 270 e n. 84 del 1996; nei giudizi in via principale: sentenze n. 40 del 2010 e n. 237 del 2009).

 

 

4. — Ancora in via preliminare, si deve osservare che, per giurisprudenza costante di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, non potendo essere considerati, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili dedotti dalle parti, eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo oppure diretti ad ampliare o modificare il contenuto delle stesse ordinanze. Ne deriva che sono inammissibili, e non possono formare oggetto di esame in questa sede, le deduzioni della parte privata dirette ad estendere il thema decidendum, non soltanto attraverso l’invocazione di ulteriori parametri costituzionali, ma anche con la denunzia di altre disposizioni rispetto a quella sospettata d’illegittimità costituzionale dal rimettente (ex plurimis: sentenze n. 50 del 2010, n. 311 e n. 236 del 2009).

 

5. — L’Avvocatura dello Stato ha dedotto l’inammissibilità della questione, ma l’eccezione (peraltro priva di un adeguato apparato argomentativo) non è fondata.

Infatti il T.A.R. ha motivato, sia pure in termini concisi, sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, ed ha aggiunto che il dettato normativo conduce ad escludere in modo espresso l’obbligo di motivazione per il provvedimento impugnato nel giudizio a quo, così rendendo palese, in forma implicita ma chiara, di non poter ricercare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata. Si tratta di valutazioni non implausibili, che consentono di dare ingresso alla questione di legittimità costituzionale.

 

6. — Nel merito, essa è fondata.

 

6.1. — Si deve premettere che l’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (e successive modificazioni) stabilisce che «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria». Il comma 2, poi, esclude la necessità della motivazione per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.

La norma sancisce ed estende il principio, di origine giurisprudenziale, che in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 241 del 1990 aveva già affermato la necessità della motivazione, con particolare riguardo al contenuto degli atti amministrativi discrezionali, nonché al loro grado di lesività rispetto alle situazioni giuridiche dei privati, individuando nella insufficienza o mancanza della motivazione stessa una figura sintomatica di eccesso di potere.

L’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi è diretto a realizzare la conoscibilità, e quindi la trasparenza, dell’azione amministrativa. Esso è radicato negli artt. 97 e 113 Cost., in quanto, da un lato, costituisce corollario dei principi di buon andamento e d’imparzialità dell’amministrazione e, dall’altro, consente al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale.

 

6.2. — In questo quadro, la disposizione censurata non è conforme ai parametri costituzionali sopra indicati.

Infatti essa, escludendo in modo espresso l’applicabilità dell’intera legge n. 241 del 1990 ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale, previsti dall’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, nel testo sostituito dall’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 106 del 2009, rende non applicabile anche a tali provvedimenti l’obbligo di motivazione di cui all’art. 3, comma 1, di detta legge, consentendo così all’organo o ufficio procedente di non indicare «i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria».

Restano, dunque, elusi i principi di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa, pure affermati dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, ai quali va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stesse amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.; sul principio di pubblicità, sentenza n. 104 del 2006, punto 3.2 del Considerato in diritto). E resta altresì vanificata l’esigenza di conoscibilità dell’azione amministrativa, anch’essa intrinseca ai principi di buon andamento e d’imparzialità, esigenza che si realizza proprio attraverso la motivazione, in quanto strumento volto ad esternare le ragioni e il procedimento logico seguiti dall’autorità amministrativa. Il tutto in presenza di provvedimenti non soltanto a carattere discrezionale, ma anche dotati di indubbia lesività per le situazioni giuridiche del soggetto che ne è destinatario.

Né può condividersi l’argomento della difesa dello Stato, secondo cui la previsione normativa sarebbe diretta «al rispetto delle esigenze di celerità e di non aggravamento del procedimento, con prevalenza dell’interesse pubblico primario tutelato dall’art. 97 Cost. in considerazione della particolare finalità della disposizione, per la quale l’esclusione dell’applicabilità della legge n. 241 del 1990 si è resa necessaria per evitare che il provvedimento di sospensione venga adottato solo all’esito del procedimento sanzionatorio».

Invero, la giusta e doverosa finalità di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, nonché di contrastare il fenomeno del lavoro sommerso e irregolare, non è in alcun modo compromessa dall’esigenza che l’amministrazione procedente dia conto, con apposita motivazione, dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno determinato la decisione, con riferimento alle risultanze dell’istruttoria.

Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, come sostituito dall’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 106 del 2009, nella parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata norma non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, esclude l’applicazione ai medesimi provvedimenti dell’art. 3, comma 1, della citata legge n. 241 del 1990.

 

 

P.Q.M

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro), come sostituito dall’articolo 11, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), nella parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata norma non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), esclude l’applicazione ai medesimi provvedimenti dell’articolo 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA