Responsabilità di due datore di lavoro per aver adibito a lavori pesanti un dipendente inidoneo determinando l'insorgere di una patologia cervicale e lombosacrale.

 

Ricorso in Cassazione - Inammissibile.

 

La Corte afferma che "il lavoratore era da tempo affetto da patologia che lo rendeva inidoneo a svolgere lavori pesanti; che il giorno dei fatti egli era adibito a scaricare pesanti casse; che durante tali operazioni egli fu colto da improvviso e lancinante dolore; che non vi sono concreti elementi per ritenere simulata tale evenienza che mostra indubbiamente la relazione eziologica di cui si discute; che la tesi difensiva secondo cui il lavoratore avrebbe in precedenza manifestato il proposito di simulare l'affezione in questione oltre a non essere compiutamente dimostrata appare illogica, non potendosi ipotizzare che il proposito fraudolento fosse stato ad altri del tutto imprudentemente manifestato."


 

 

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MOCALI Piero - Presidente -
Dott. CAMPANATO Graziana - Consigliere -
Dott. LICARI Carlo - Consigliere -
Dott. MASSAFRA Umberto - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Mar - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza

 

 

 

sul ricorso proposto da:
1) S.A. N. IL (OMISSIS);
2) P.I.S. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 795/2006 CORTE APPELLO di LECCE, del 11/05/2007;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 02/12/2009 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROCCO MARCO BLAIOTTA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Galasso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

 

 


FattoDiritto

 

1. Il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Tricase, ha affermato la responsabilità degli imputati in epigrafe in ordine al reato di lesioni colpose e li ha altresì condannati al risarcimento del danno nei confronti del lavoratore S.S..

La pronunzia è stata confermata dalla Corte d'appello di Lecce.

L'accusa è di aver adibito a lavori pesanti un dipendente inidoneo, così determinando l'insorgere di patologia cervicale e lombosacrale.

2. Ricorrono per cassazione gli imputati deducendo due motivi.

2.1 Con il primo motivo si lamenta la mancata assunzione di prove decisive: perizia medica ed esame di testi che avrebbero potuto dimostrare l'inesistenza delle lesioni dedotte e comunque l'impossibilità di ricondurle all'attività lavorativa.


2.2 Con il secondo motivo si prospetta carenza di motivazione in ordine alla relazione causale tra la condotta contestata e l'evento, considerato che il lavoratore aveva già in precedenza manifestato l'affezione in questione e conduceva uno stile di vita contrassegnato da attività sportive idonee ad indurre la patologia.

3. I ricorsi sono manifestamente infondati.

La pronunzia evidenzia che il primo giudizio ha consentito di ricostruire con grande dettaglio i fatti; sicchè le nuove prove prospettate sono irrilevanti; e soggiunge che l'integrazione probatoria in appello costituisce contingenza eccezionale, priva di concreta giustificazione nel caso esaminato.

Tale argomentato apprezzamento è immune da censure.

La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello costituisca eventualità di carattere eccezionale, in virtù del principio di presunzione di completezza dell'indagine dibattimentale di primo grado.

Essa può aver luogo a seguito di richiesta di parte o per iniziativa officiosa del giudice. In ambedue i casi, comunque, essa può compiersi solo quando si sia in presenza di una situazione di indecidibilità del caso da parte del giudice.

E' questi, dunque, che dispone l'integrazione per far fronte ad un'insuperabile esigenza conoscitiva, come ad esempio risolvere un dubbio, acquisire un elemento di prova mancante, sottoporre a risolutivo vaglio critico un'ipotesi fattuale.

A fronte di tale configurazione dell'istituto, non può ritenersi l'esistenza di un diritto alla prova delle parti.

Tuttavia, non si può neppure trascurare che il codice prevede espressamente la possibilità che sia la parte a richiedere l'integrazione probatoria.

In tale situazione, come costantemente ritenuto da questa Corte, non può mancare, in caso di rigetto della richiesta, un atto motivato che corrisponda in qualche guisa alla sollecitazione ricevuta.

Tuttavia, tale motivazione risente della particolare situazione appena descritta.

Essa, poichè deve in fin dei conti solo spiegare che non esiste una situazione d'indecidibilità, può essere anche implicita, come ripetutamente ritenuto da questa Corte, desumendosi dalla sua stessa struttura argomentativa che mostra l'esistenza di un quadro probatorio definito, certo e non abbisognevole di approfondimenti indispensabili.

Per tali ragioni questa Corte ha pure ritenuto che il sindacato demandatole in ordine alla correttezza della motivazione dell'ordinanza in questione non può mai essere esercitato sulla concreta rilevanza dell'atto istruttorio da compiere, ma deve esaurirsi nel contenuto esplicativo del provvedimento adottato (S.U. 23 novembre 1995, n. 2110).

A fronte di tali enunciazioni di principio, la pronunzia appare, con tutta evidenza, correttamente motivata.

Essa non solo e non tanto mostra l'inessenzialità di ciascuno dei mezzi di prova indicati, nei termini esposti dallo stesso ricorrente e sopra sintetizzati; ma soprattutto enuncia la sicura possibilità di decidere sulla base delle acquisizioni disponibili.

Tale enunciazione di principio trova poi compimento nella ricostruzione degli accadimenti che sfugge a qualunque censura logica.

2.2. Il secondo motivo sollecita impropriamente la Corte alla riconsiderazione del fatto.

La pronunzia infatti, analizza diffusamente le prove pervenendo a dimostrare che il lavoratore era da tempo affetto da patologia che lo rendeva inidoneo a svolgere lavori pesanti; che il giorno dei fatti egli era adibito a scaricare pesanti casse; che durante tali operazioni egli fu colto da improvviso e lancinante dolore; che non vi sono concreti elementi per ritenere simulata tale evenienza che mostra indubbiamente la relazione eziologica di cui si discute; che la tesi difensiva secondo cui il lavoratore avrebbe in precedenza manifestato il proposito di simulare l'affezione in questione oltre a non essere compiutamente dimostrata appare illogica, non potendosi ipotizzare che il proposito fraudolento fosse stato ad altri del tutto imprudentemente manifestato.

Tale valutazione è immune da vizi logici e non può essere sindacata nella presente sede.
I gravami sono quindi inammissibili.

Segue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro 1.000,00, ciascuno a titolo di sanzione pecuniaria, non emergendo ragioni di esonero.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 (mille) ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2009