Categoria: Cassazione penale
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Responsabilità del legale rappresentante della ditta edile T. ponteggi che, per colpa, non osservando le norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro indicate nel capo di imputazione, cagionava la morte di F.M., dipendente della ditta sopra indicata; in particolare il lavoratore si trovava nel cantiere edile presso l'istituto tecnico industriale statale "*** per effettuare l'allestimento dei ponteggi in corrispondenza della facciata dell'edificio e procedeva ad issare i piani di calpestio in metallo facendo uso di una carrucola e di una fune con gancio per farli giungere fino alla sommità del ponteggio dove altri colleghi li sganciavano e li montavano.

 

Dopo aver agganciato un piano di calpestio, il collega di lavoro Fa.Fa. lo issava verso la sommità del ponteggio, ma durante la salita, giunto quasi a destinazione, verosimilmente a causa di urto con la struttura del ponteggio, il piano di calpestio si sganciava e cadendo da un'altezza di circa 12-13 metri colpiva F. alla testa, che si trovava in corrispondenza della perpendicolare, il quale riportava lesioni gravissime, che ne determinavano il decesso.

 

Condannato in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Inammissibile.

 

La IV sezione della Cassazione afferma che la Corte di Appello, con riferimento all'esistenza del nesso causale tra la condotta posta in essere dall'imputato T. D. e l'infortunio sul lavoro che ha causato il decesso di F.M., "valuta attentamente le emergenze istruttorie che portano ad escludere che il gravissimo incidente debba ascriversi ad una tragica fatalità o comunque ad una gravissima imprudenza da addebitarsi al lavoratore.

 

Rileva quindi, che, come risulta dalle dichiarazioni del teste S. e dai rilievi fotografici, il gancio della fune era infilato ad una semplice sporgenza della tavola, che però non era costituita da un anello chiuso che potesse impedirne la fuoriuscita. Il punto di aggancio aveva invece un'apertura che, a causa dell'oscillazione del carico, non ha impedito al gancio della fune di uscire fuori, determinando la caduta del pesante carico, che ha colpito il F., causandone il decesso.

 

La sentenza impugnata evidenzia correttamente sul punto che la responsabilità dell'imputato con riferimento all'accaduto era chiara, sia se si fosse ritenuto che la tavola nella fase terminale di sollevamento avesse urtato il ponteggio, sia che vi fosse stato un eccessivo "tirotto" a fine corsa della fune verso la carrucola del collega che operava dal basso con la collaborazione della vittima, in quanto tali eventi non erano imprevedibili, ma dovevano essere considerati e prevenuti dal T., perchè idonei a provocare il pericolosissimo sganciamento del pesante carico, non assicurato in modo idoneo.

 

Ritiene poi la Corte territoriale con logica e congrua motivazione che non poteva certo esimere da responsabilità il datore di lavoro che utilizzava un così rischioso sistema di carico la semplice prescrizione orale data ai lavoratori di non sostare nelle zone di carico, in quanto, in tale contesto, non poteva certo ritenersi che la presenza dei lavoratori in tali zone potesse considerarsi un evento eccezionale, tale da interrompere il nesso di causalità."


 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORGIGNI Antonio - Presidente
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere
Dott. MAISANO Giulio - Consigliere
Dott. MARINELLI Felicetta - rel. Consigliere
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
1) T.D., N. IL ***;
avverso la sentenza n. 1514/2007 CORTE APPELLO di BOLOGNA, del 13/11/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 08/10/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. FELICETTA MARINELLI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Cedrangolo Oscar, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
Udito il difensore avv. Orlando Guido del Foro di Roma che chiede l'accoglimento del ricorso.




Fatto

 

 

T.D. è stato tratto a giudizio davanti al Tribunale di Ravenna per rispondere del reato di cui all'art. 589 c.p., comma 2 perchè, quale legale rappresentante della ditta edile T. ponteggi, per colpa, non osservando le norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro indicate nel capo di imputazione, cagionava la morte di F.M., dipendente della ditta sopra indicata; in particolare il lavoratore si trovava nel cantiere edile presso l'istituto tecnico industriale statale "*** per effettuare l'allestimento dei ponteggi in corrispondenza della facciata dell'edificio e procedeva ad issare i piani di calpestio in metallo facendo uso di una carrucola e di una fune con gancio per farli giungere fino alla sommità del ponteggio dove altri colleghi li sganciavano e li montavano.

Dopo aver agganciato un piano di calpestio, il collega di lavoro Fa.Fa. lo issava verso la sommità del ponteggio, ma durante la salita, giunto quasi a destinazione, verosimilmente a causa di urto con la struttura del ponteggio, il piano di calpestio si sganciava e cadendo da un'altezza di circa 12-13 metri colpiva F. alla testa, che si trovava in corrispondenza della perpendicolare, il quale riportava lesioni gravissime, che ne determinavano il decesso.

Veniva contestata altresì la violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 4 ter, lett. a) in quanto il metodo e l'attrezzatura utilizzati per sollevare, mediante carrucola a mano, i piani di calpestio del ponteggio, non erano idonei ad evitare la caduta del carico, tenendo conto del carico da movimentare, dei punti di presa e del dispositivo di aggancio, del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 186 in quanto, durante il montaggio del ponteggio, le manovre per il sollevamento dei piani di calpestio non erano state disposte in modo da evitare il passaggio di carichi sospesi in corrispondenza dei lavoratori, del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. f) in quanto il datore di lavoro non aveva richiesto l'osservanza delle norme di sicurezza da parte dei lavoratori, in particolare l'utilizzo del DPI (utilizzo di elmetto a protezione del capo - D.P.R. n. 547 del 1955, art. 38), del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 22 in quanto il datore di lavoro non aveva assicurato che ciascun lavoratore ricevesse una formazione adeguata in materia di sicurezza e salute.


Con sentenza dell'1.12.06 il Tribunale di Ravenna in composizione monocratica aveva dichiarato T.D. responsabile del reato di cui sopra e lo aveva condannato alla pena di anni uno di reclusione (pena condonata) oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite.

 

Avverso la decisione del Tribunale di Ravenna ha proposto appello il difensore dell'imputato.

 

La Corte di Appello di Bologna, con la sentenza oggetto del presente ricorso emessa in data 13.11.2009, confermava la sentenza emessa dal giudice di primo grado e condannava l'appellante al pagamento delle spese processuali.

 

Avverso la sentenza della Corte d'appello di Bologna T.D. proponeva ricorso per Cassazione e concludeva chiedendone l'annullamento con o senza rinvio.
All'udienza pubblica dell'8/10/2010 il ricorso era deciso con il compimento degli incombenti imposti dal codice di rito.



 

Diritto

 


T.D. ha censurato la sentenza impugnata per i seguenti motivi:


violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) - vizio di motivazione - errore nella valutazione degli elementi probatori;
violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b): erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 40 c.p..

Secondo il ricorrente le risultanze istruttorie non supportano le conclusioni a cui sono pervenuti i giudici della Corte di appello di Bologna, che hanno ritenuto che il sistema di aggancio delle pedane utilizzato nel cantiere in cui è avvenuto il tragico infortunio non fosse sicuro, che il rispetto delle norme in materia di prevenzione avrebbe dovuto comportare l'adozione di altra modalità di sollevamento delle pedane e che, in conclusione, l'adozione di diversa modalità di sollevamento avrebbe determinato certamente una maggiore sicurezza, che, infine, per evitare che il F. sostasse sotto la zona di carico sarebbe stato necessario predisporre una idonea delimitazione.

Ad avviso del T. peraltro i giudici della Corte territoriale non hanno adeguatamente valutato le osservazioni del consulente tecnico di parte, ing. C., che ha riferito di avere esaminato il gancio e la corda della carrucola, di averne riscontrato la regolarità e di avere altresì accertato nella carrucola l'esistenza di un sistema di sicurezza.

Non sarebbero state adeguatamente valutate neppure le dichiarazioni della teste S. che aveva affermato che il gancio utilizzato era dotato di sicura.

Neppure erano ritenute condivisibili le conclusioni a cui erano pervenuti i giudici di appello con riferimento alla violazione di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 186, atteso che era stato creato un apposito passaggio che permetteva di effettuare le operazioni necessarie al posizionamento del ponteggio senza transitare nella zona in cui veniva effettuato il sollevamento delle pedane. Secondo il ricorrente, pertanto, sulla base delle prove assunte nel corso del processo, non poteva dirsi accertato con il grado di certezza richiesto dall'art. 40 c.p., comma 2, il nesso di causalità tra le contestate omissioni e il decesso del lavoratore F.M..

 

I proposti motivi di ricorso sono palesemente infondati, in quanto ripropongono questioni di merito a cui la sentenza impugnata ha dato ampia e convincente risposta e mirano ad una diversa ricostruzione del fatto preclusa al giudice di legittimità.

 

Tanto premesso si osserva che il ricorso proposto per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione seleziona un percorso che si esonera dalla individuazione dei capi o dei punti della decisione cui si riferisce l'impugnazione ed egualmente si esonera dalla indicazione specifica degli elementi di diritto che sorreggono ogni richiesta.

Le censure che investano la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione impongono una analisi del testo censurato al fine di evidenziare la presenza dei vizi denunziati. Viceversa la censura che denunzia la mancanza di motivazione deve far emergere ciò che manca e che esclude il raggiungimento della funzione giustificativa della decisione adottata. Una censura che denunzia mancanza di motivazione deve cioè fornire specifica indicazione delle questioni precedentemente poste, specifica comparazione tra questioni proposte e risposte date, approfondita e specifica misurazione della motivazione impugnata per evidenziare come, nonostante l'apparente esistenza di un compiuto argomentare, si sia viceversa venuta a determinare la totale mancanza di un discorso giustificativo della decisione e deve fornire attenta individuazione dei vuoti specifici che hanno determinato quella mancanza complessiva.

Tutto ciò non è rintracciabile nel ricorso di T.D., poichè manca di qualsiasi considerazione per la motivazione criticata, e lungi dall'individuare specifici vuoti o difetti di risposta che costituirebbero la complessiva mancanza di motivazione, si duole del risultato attinto dalla sentenza impugnata e accumula circostanze che intenderebbero ridisegnare il fatto a ascrittogli in chiave a lui favorevole, al fine di ottenere in tal modo una decisione solamente sostitutiva di quella assunta dal giudice di merito.

Nella sentenza oggetto di ricorso è infatti chiaro il percorso motivazionale che ha indotto quei Giudici a confermare la sentenza di primo grado.

La Corte di Appello infatti, con riferimento all'esistenza del nesso causale tra la condotta posta in essere dall'imputato T. D. e l'infortunio sul lavoro che ha causato il decesso di F.M., valuta attentamente le emergenze istruttorie che portano ad escludere che il gravissimo incidente debba ascriversi ad una tragica fatalità o comunque ad una gravissima imprudenza da addebitarsi al lavoratore.

Rileva quindi, che, come risulta dalle dichiarazioni del teste S. e dai rilievi fotografici, il gancio della fune era infilato ad una semplice sporgenza della tavola, che però non era costituita da un anello chiuso che potesse impedirne la fuoriuscita. Il punto di aggancio aveva invece un'apertura che, a causa dell'oscillazione del carico, non ha impedito al gancio della fune di uscire fuori, determinando la caduta del pesante carico, che ha colpito il F., causandone il decesso.

La sentenza impugnata evidenzia correttamente sul punto che la responsabilità dell'imputato con riferimento all'accaduto era chiara, sia se si fosse ritenuto che la tavola nella fase terminale di sollevamento avesse urtato il ponteggio, sia che vi fosse stato un eccessivo "tirotto" a fine corsa della fune verso la carrucola del collega che operava dal basso con la collaborazione della vittima, in quanto tali eventi non erano imprevedibili, ma dovevano essere considerati e prevenuti dal T., perchè idonei a provocare il pericolosissimo sganciamento del pesante carico, non assicurato in modo idoneo.

Ritiene poi la Corte territoriale con logica e congrua motivazione che non poteva certo esimere da responsabilità il datore di lavoro che utilizzava un così rischioso sistema di carico la semplice prescrizione orale data ai lavoratori di non sostare nelle zone di carico, in quanto, in tale contesto, non poteva certo ritenersi che la presenza dei lavoratori in tali zone potesse considerarsi un evento eccezionale, tale da interrompere il nesso di causalità.

 


Pertanto nè rispetto ai capi nè rispetto ai punti della sentenza impugnata, nè rispetto all'intera tessitura motivazionale che nella sua sintesi è coerente e completa, è stata in alcun modo configurata la protestata assenza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.


Il ricorso proposto non va in conclusione oltre la mera enunciazione del vizio denunciato e dunque esso è inammissibile con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

 


P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa ammende.