• Datore di Lavoro
  • Infortunio sul Lavoro
  • Dispositivo di Protezione Individuale

 

Responsabilità dell'amministratore unico di una srl per infortunio di un proprio dipendente: il 27/5/2003, mentre quest'ultimo si trovava all'interno della galleria di una S.S. intento alla posa in opera di due quadri elettrici sul lato sinistro dell'ingresso della galleria ed utilizzava in quota un cestello elevatore sulla verticale della linea di mezzeria di destra, aperta al pubblico, invadendone la corsia per almeno 130 cm, improvvisamente il braccio telescopico che reggeva il cestello collideva con un autoarticolato sopraggiungente alla velocità di 25 Km/h, provocando, a seguito della rotazione e traslazione del cestello, la caduta al suolo dell'operaio da un'altezza di mt. 3,77 e la morte del medesimo in conseguenza delle gravi lesioni patite.

 

Assolto in primo grado, viene condannato in appello.

 

Ricorso in Cassazione - Rigetto.

 

La Corte afferma che:

"Invero, le doglianze in tema di responsabilità si palesano infondate, in quanto si pongono in stridente dissonanza con le corrette e coerenti argomentazioni offerte in motivazione dalla Corte di Appello, la quale non è stata omissiva nell'esame dei motivi attinenti a quel tema, perché le circostanze, di cui l'odierno ricorrente ora lamenta la mancata presa in considerazione, non sono passate sotto silenzio, ma risultano essere state specificamente valutate.

 

La Corte di merito, infatti, si è convinta - e di tale convincimento ha persuasivamente spiegato le ragioni - che il C. dovesse rispondere del reato ascrittogli, in quanto ritenuta presidiata da persuasive considerazioni e da testimonianze attendibili, la versione accusatoria, secondo cui era consolidata, quanto meno da parte dei due operai specializzati, C.V. ed A., la prassi di non utilizzare i dispositivi di protezione individuale ed, in particolare, le cinture di sicurezza in occasione di lavori di breve durata, a prescindere della loro pericolosità.

 

Muovendo da tale premessa, coerente e logica è la conclusione adottata in sentenza dai giudici di appello, quella cioè che il comportamento del datore di lavoro, lassista e, comunque, omissivo sotto il profilo del controllo, imposto dalla normativa antiinfortunistica, dell'utilizzo da parte dei lavoratori di detti dispositivi di protezione in occasione anche del c.d. lavori "brevi", costituisca l'antecedente causale che ha contribuito, in concorso con la condotta imprudente della vittima, a determinare in misura prevalente la produzione dell'evento infortunistico."

 

E ancora è da osservare che "la normativa antiinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa.

 

Sussistendo questa ipotesi, è affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia esimente può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato concausa all'evento, quando questo sia da ricondursi anche e, soprattutto, alla mancanza od insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento."


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCALI Piero - Presidente

Dott. CAMPANATO Graziana - Consigliere

Dott. LICARI Carlo - rel. Consigliere

Dott. MASSAFRA Umberto - Consigliere

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

 

sul ricorso proposto da:

 

1) C.M. N. IL ***;

avverso la sentenza n. 356/2005 CORTE APPELLO di TRENTO, del 05/12/2007;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 02/12/2009 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LICARI CARLO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GALASSO Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore Avv. FOCI Fabio, il quale ha concluso chiedendo l'accoglimento dei motivi di ricorso.

 

 

 

FattoDiritto

 

 

Il 27/5/2003, mentre l'operaio C.V. si trovava all'interno della galleria "***", sita sulla S.S. ***, intento alla posa in opera di due quadri elettrici sul lato sinistro dell'ingresso della galleria ed utilizzava in quota un cestello elevatore sulla verticale della linea di mezzeria di destra, aperta al pubblico, invadendone la corsia per almeno 130 cm, improvvisamente il braccio telescopico che reggeva il cestello collideva con un autoarticolato sopraggiungente alla velocità di 25 Km/h, provocando, a seguito della rotazione e traslazione del cestello, la caduta al suolo dell'operaio da un'altezza di mt. 3,77 e la morte del medesimo in conseguenza delle gravi lesioni patite.

 

Rinviato a giudizio per rispondere del reato di omicidio colposo commesso con violazione di specifiche disposizioni normative antiinfortunistiche, C.M., quale amministratore unico della "S. I. M. s.r.l." e datore di lavoro del lavoratore deceduto, veniva assolto, con sentenza del 28/4/2005, dal G.U.P. del Tribunale di Trento, sul precipuo rilievo che l'operaio, avente in quell'occasione compiti di caposquadra e preposto, aveva autonomamente deciso di non utilizzare la cintura di sicurezza con aggancio al carrello di cui pure disponeva e che, se effettivamente usata, gli avrebbe evitato la caduta al suolo ed il conseguente decesso, derivandone l'impossibilità, per esso datore di lavoro, di controllare siffatte inopinate iniziative imprudenti dei propri dipendenti.

 

In accoglimento dell'impugnazione proposta dal P.M., la Corte di Appello di Trento, con sentenza del 5/12/2007, ritenendo fondata la conclusione, tratta dalla valutazione complessiva dei testi C.A., M. e F., che vi fosse una prassi che avrebbe indotto la vittima e suo fratello ( C. V. ed A.) ad omettere l'uso delle cinture di sicurezza ogni volta che si trattava di eseguire lavori breve durata, perveniva al convincimento che l'imputato, in qualità di datore di lavoro, fosse venuto meno all'obbligo giuridico di effettuare di persona, o per mezzo di soggetto appositamente delegato, il controllo affinché fossero utilizzate le dotazioni di sicurezza individuali da parte dei lavoratori anche in occasione dei "lavori brevi": ne discendeva l'affermazione di colpevolezza dell'imputato in ordine al reato ascrittogli e la sua condanna alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, con determinazione a carico della vittima di un concorso di colpa nel determinismo dell'evento in misura del 30%, stante la riconosciuta condotta imprudente dalla stessa posta in essere al momento del fatto.

 

Avverso tale ultima decisione proponeva ricorso per cassazione, per mezzo del difensore, l'imputato, deducendo, in primo luogo, vizio logico della motivazione, per la ragione che i giudici di secondo grado avrebbero accreditato come reale la prassi che i dispositivi di sicurezza individuali non fossero utilizzati dai lavoratori in occasione dei lavori brevi, mancando di tenere nel debito conto che trattavasi di una tesi patrocinata dal fratello della vittima, interessato a sostenerla per avvantaggiare la sua posizione di parte civile nel procedimento a carico del datore di lavoro.

 

Secondo il ricorrente, quella prassi, limitata ai lavori "brevi", era smentita dagli altri dipendenti sentiti dagli ispettori del lavoro, sicché dovevasi concludere per l'esistenza, tutt'al più, di una condotta irregolare, ma non usuale dei lavoratori, in quanto tale, non coercibile da parte del datore di lavoro o dai suoi principali collaboratori, con l'effetto che la decisione impugnata che illogicamente aveva mutuato la tesi accusatoria, si poneva in contrasto con il principio "dell'oltre ogni ragionevole dubbio".

 

In secondo luogo, il ricorrente deduceva erronea applicazione della legge, laddove i giudici del gravame non avevano tenuto conto che il datore di lavoro deve poter fare affidamento sull'esatto e diligente adempimento da parte dei lavoratori delle regole di lavoro, sicché quando, come nella specie, il lavoratore assuma condotte non diligenti, anzi imprevedibili e inopinabili rispetto alle direttive ricevute, tali condotte, esulando da qualunque prassi di cantiere e non essendo conoscibili dal datore di lavoro, sono idonee ad interrompere il nesso causale tra l'omissione contestata al datore di lavoro ed evento infortunistico intervenuto ai danni del lavoratore.

 

 

Il ricorso non è meritevole di accoglimento.

 

 

Invero, le doglianze in tema di responsabilità si palesano infondate, in quanto si pongono in stridente dissonanza con le corrette e coerenti argomentazioni offerte in motivazione dalla Corte di Appello, la quale non è stata omissiva nell'esame dei motivi attinenti a quel tema, perché le circostanze, di cui l'odierno ricorrente ora lamenta la mancata presa in considerazione, non sono passate sotto silenzio, ma risultano essere state specificamente valutate.

 

La Corte di merito, infatti, si è convinta - e di tale convincimento ha persuasivamente spiegato le ragioni - che il C. dovesse rispondere del reato ascrittogli, in quanto ritenuta presidiata da persuasive considerazioni e da testimonianze attendibili, la versione accusatoria, secondo cui era consolidata, quanto meno da parte dei due operai specializzati, C.V. ed A., la prassi di non utilizzare i dispositivi di protezione individuale ed, in particolare, le cinture di sicurezza in occasione di lavori di breve durata, a prescindere della loro pericolosità. Muovendo da tale premessa, coerente e logica è la conclusione adottata in sentenza dai giudici di appello, quella cioè che il comportamento del datore di lavoro, lassista e, comunque, omissivo sotto il profilo del controllo, imposto dalla normativa antiinfortunistica, dell'utilizzo da parte dei lavoratori di detti dispositivi di protezione in occasione anche del c.d. lavori "brevi", costituisca l'antecedente causale che ha contribuito, in concorso con la condotta imprudente della vittima, a determinare in misura prevalente la produzione dell'evento infortunistico.

 

In riferimento, poi alla censura, che si richiama alla condotta imprudente del lavoratore, vittima dell'incidente, al fine di sostenere l'interruzione del nesso eziologico tra colpa del datore di lavoro ed evento infortunistico, sembra al Collegio che, nel confutarla, sia stata fatta dai giudici di merito corretta applicazione del principio generale secondo cui la colpa altrui non elide la propria.

 

È evidente, infatti, che la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorché chi la invoca versa in re illecita, per non avere negligentemente impedito l'evento lesivo, che è conseguito, nella fattispecie, dall'avere la vittima liberamente operato nel cantiere in condizioni di pericolo, in quanto non era imposto dai dovuti controlli sui lavoratori un modus operandi, rispettoso dell'osservanza delle misure di salvaguardia ed alternativo alla descritta censurata prassi invalsa per i lavori di breve durata: tanto meno è invocabile, se la si pone, come nel caso di specie, alla base del proprio errore di valutazione, assumendo che l'infortunio si è verificato non perché si sia tenuto un comportamento antigiuridico, ma sol perché vi è stato, dalla parte della vittima, un'anomala e inopinata esecuzione delle regole di lavoro.

 

Questo rilievo non scagiona, per il fatto che chi è responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui.

 

In altri termini, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l'evento, imputabile a colpa altrui, quando si è, come nel caso "de quo", nella possibilità in concreto di impedirlo, indipendentemente dalla durata connessa all'esecuzione del lavoro assegnato.

 

È il cosiddetto "doppio aspetto della colpa", secondo cui si risponde sia per colpa diretta, sia per colpa indiretta, una volta che l'incidente dipenderai comportamento dell'agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui.

 

A tali principi la Corte territoriale si è attenuta nel definire il ruolo avuto dall'imputato nella vicenda, ritenendo costui non esente da colpa.

 

È da osservare, infine, che la normativa antiinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa.

 

Sussistendo questa ipotesi, è affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia esimente può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato concausa all'evento, quando questo sia da ricondursi anche e, soprattutto, alla mancanza od insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento.

 

Alla stregua di tale principio, la doglianza difensiva non ha ragion d'essere, non potendosi l'imprudente condotta della vittima considerarsi imprevedibile e tale da interrompere tout court il rapporto di causalità, essendo questo nella specie riconducibile, comunque, all'omissione, da parte del C., della condotta doverosa di attivarsi e controllare che le norme antiinfortunistiche siano assimilate e puntualmente osservate dai lavoratori, anche quelle che riguardano l'utilizzo nell'ordinaria prassi di lavoro dei dispositivi di protezione individuali, ivi comprese le cinture di sicurezza, essendo idonee, quest'ultime, ad impedire il pericolo di cadute al suolo dall'alto.

 

In conclusione, correttamente il comportamento del lavoratore non è stato dai giudici di appello qualificato alla stregua di una causa sopravvenuta, idonea ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta colposa ascritta all'imputato e l'evento letale, posto che essi hanno, con valutazione di merito esente da vizi logici, come tale insindacabile in questa sede, ritenuto di escludere che il comportamento sia stato posto in essere in ambito estraneo alle mansioni affidate all'operaio e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro e, altresì, di escludere che esso, comunque, sia consistito in qualcosa di ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, scelte, pur riconosciute in misura minore imprudenti, del lavoratore nell'esecuzione del lavoro.

 

Al rigetto del ricorso segue, a mente dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

 

P.Q.M.

 

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Udienza pubblica, il 2 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2010