3. I SOPRALLUOGHI DELLA COMMISSIONE! GLI INFORTUNI ED IL SISTEMA DI PREVENZIONE SUL TERRITORIO

Come già accennato, anche durante il suo secondo anno di attività, la Commissione ha svolto numerosi sopralluoghi in Italia, dei quali si darà ora conto.


3.1. Sopralluogo a Venezia (18-19 ottobre 2009)
Il 18 e 19 ottobre 2009, la Commissione ha effettuato una missione a Venezia, mediante l’invio di una delegazione formata dal presidente Tofani e dai senatori Donaggio e Maraventano, allo scopo di acquisire informazioni generali sulla problematica infortunistica in quella provincia.
Dai dati INAIL disponibili al momento del sopralluogo risulta che gli infortuni sul lavoro in provincia di Venezia hanno avuto negli ultimi anni un andamento decrescente pressoché costante, calando del 17 per cento fra il 2004 e il 2008. Inoltre, tra il 1° gennaio e il 31 agosto 2008, gli infortuni occorsi in tutte le gestioni (agricoltura, industria e dipendenti dello Stato) sono stati 11.623. Invece, nello stesso periodo del 2009 gli infortuni sono stati 9.892, con un calo del 14,9 per cento. Sebbene non vi fossero ancora dati definitivi, anche i casi mortali apparivano sostanzialmente in diminuzione.
La tendenza alla riduzione degli infortuni è abbastanza consolidata, anche se, come segnalato sia dagli enti istituzionali che dalle organizzazioni sindacali, il problema continua a sussistere, specie in settori come quello edile, che assorbe da solo circa il 10 per cento degli incidenti. Altro aspetto preoccupante è quello dei lavoratori immigrati, che presentano livelli di incidentalità in media più elevati dei lavoratori italiani e che sono piuttosto numerosi nella provincia. I controlli delle forze dell’ordine e degli organi ispettivi hanno inoltre rilevato una diffusa presenza del lavoro irregolare e sommerso, di cui una quota importante si concentra appunto nel settore edile e tra i lavoratori stranieri (in particolare tra quelli di etnia cinese).
Le realtà più complesse e sensibili dal punto di vista della sicurezza sul lavoro sono però certamente il porto di Venezia e l’area industriale di Porto Marghera. Per quanto riguarda quest'ultima, il sindaco di Venezia ha evidenziato come si tratti di un caso esemplare di un'area industriale integrata dove non ci sono impianti separati o ben definiti nella loro localizzazione, ma tutto fa sistema: quasi un'unica fabbrica, attualmente in grave crisi. Il venir meno dell’attività può comportare altresì il venir meno delle normali operazioni di manutenzione, con un aumento notevole dei rischi sia per i lavoratori che per la popolazione che risiede nelle vicinanze.
La pluralità di imprese e di soggetti che operano all'interno di Marghera, però, rende assai arduo coordinare le attività di vigilanza e di prevenzione da parte del Comune, anche per i limitati poteri di intervento che la legge gli riconosce in tale ambito e per la difficoltà di ricevere informazioni tempestive, anche a causa della reticenza di talune imprese a comunicare eventuali problemi. Il sindaco ha quindi posto l’esigenza di prevedere norme ad hoc per la gestione dei sistemi industriali integrati nelle fasi di crisi o di transizione e per obbligare le imprese a fornire al Comune tutte le informazioni necessarie. Tale quadro è stato confermato dai sindacati, anch'essi molto preoccupati: d'altra parte, anche i rappresentanti delle aziende si sono mostrati sensibili al problema, manifestando la loro disponibilità ad incontrare le istituzioni locali e le altre parti sociali per trovare una soluzione.
Un'altra realtà complessa e integrata è certamente quella del porto di Venezia, teatro in passato di numerosi incidenti sul lavoro, anche gravi (nel 2008 ve sono stati 7 in itinere e 33 nell'area portuale, di cui due mortali). I rischi sono purtroppo elevati, a causa dei molti e vari soggetti che operano nel porto, spesso chiamati ad interagire tra loro in situazioni disagevoli, come nelle operazioni di carico e scarico a bordo o sotto bordo delle navi. Nel porto di Venezia operano infatti dai 15.000 ai 19.000 lavoratori, divisi tra 26 imprese portuali, 24 società di servizi e oltre 100 ditte che svolgono altre attività del «ciclo nave».
Le competenze e gli strumenti tradizionali si sono rivelati talvolta inefficaci nel gestire questa situazione: per tale motivo, nel 2008 è stato costituito il comitato di sicurezza e di igiene sul lavoro e il servizio operativo integrato (SOI), di cui fanno parte la Capitaneria, l’Autorità portuale, lo SPISAL, l’Ispettorato del lavoro e i Vigili del fuoco. Il servizio raccoglie segnalazioni e denunce, discute tutte le questioni relative alla sicurezza del lavoro e stabilisce i necessari interventi in un'ottica di forte sinergia e coordinamento.
Per i controlli a bordo delle navi, la Capitaneria è molto attiva (circa 200 ispezioni all'anno) e, fortunatamente, pochi incidenti sono avvenuti negli ultimi anni, anche se resta il problema delle navi straniere, che non hanno sempre gli stessi standard di sicurezza di quelle italiane. Purtroppo, se esse hanno già effettuato le prescritte verifiche (il cosiddetto Port State Control) in un altro porto in Italia o all'estero (anche se magari in modo meno accurato), non possono essere di nuovo ispezionate se non per gravi e comprovati motivi.
Relativamente alle attività portuali, punto qualificante del SOI è il controllo dell’accesso al porto sia del singolo lavoratore, per il quale sono stabiliti dei tempi per l’accesso all'area e per lo svolgimento delle mansioni, sia delle imprese, che devono avere una certificazione su tre livelli (qualità, ambiente, sicurezza). Ciò accresce la vigilanza e la capacità d'intervento nei confronti degli operatori, che in caso di inadempienza non potrebbero lavorare nel porto. Per rafforzare questa capacità, inoltre, è stata segnalata l’opportunità di conferire anche all'Autorità portuale il potere di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie a fronte di una determinata infrazione, in aggiunta al potere della sospensione dell’attività ritenuta pericolosa e come ulteriore disincentivo nei confronti delle imprese inadempienti.
Il coordinamento del SOI è stato ben recepito dagli operatori e ha permesso di avviare una serie di importanti iniziative di prevenzione, specialmente sul fronte della formazione/informazione ai lavoratori, per i quali è stato istituito un apposito libretto delle professionalità, ai sensi del decreto legislativo n. 81 del 2008, che certifica sia le competenze tecniche del lavoratore che la sua formazione in tema di sicurezza.
Occorre poi segnalare l’impegno di molte organizzazioni sindacali e datoriali a favore della sicurezza, ad esempio nel settore edile e dell’artigianato, dove sono state avviate importanti iniziative per la formazione e accordi bilaterali, come quello concluso per il cantiere del MOSE. Proprio il settore edile ha posto però l’esigenza di una più severa selezione delle imprese (attraverso un sistema di «patente a punti»), per escludere dal mercato operatori non qualificati che attuano una concorrenza sleale nei confronti delle imprese sane e aumentano i rischi per la sicurezza.
Durante l’audizione dei rappresentanti della magistratura e delle forze dell’ordine (in particolare della locale polizia scientifica), è emersa l’importanza di un'adeguata attenzione, nelle indagini sugli infortuni, al momento immediatamente successivo all'evento, quando vengono svolti i primi rilievi, al fine di ricostruire quella che è stata chiamata efficacemente la «scena dell’infortunio» in analogia alla «scena del delitto» delle indagini penali. Ciò implica anche la necessità di un diverso approccio culturale da parte di chi effettua gli accertamenti.


3.2. Sopralluogo a Milano (15-16 novembre 2009)
Il 15 e 16 novembre 2009, una delegazione della Commissione composta dal presidente Tofani e dal senatore Roilo si è recata in missione a Milano. Come nel precedente caso di Venezia, la visita mirava ad acquisire informazioni di carattere generale sulla situazione e sui problemi della sicurezza sul lavoro nella provincia di Milano.
Sulla base dei dati disponibili al momento del missione, anche nella provincia di Milano come nel resto della Lombardia si registra un andamento positivo degli infortuni, quindi una diminuzione dei numeri assoluti e della frequenza degli incidenti, sia in generale che nell'edilizia, il settore più problematico. Precisamente, nel 2008 la riduzione del totale degli infortuni rispetto all'anno precedente è stata dello 0,2 per cento nella provincia e del 3,8 per cento a livello regionale. La tendenza sembrava confermata anche nel 2009: per la provincia di Milano, dai dati tendenziali risultava al 31 ottobre un calo nel numero degli infortuni del 3,62 per cento.
Anche gli incidenti mortali risultavano in diminuzione, tanto in Lombardia quanto in provincia di Milano: a livello regionale si è infatti passati dai 214 decessi del 2007 ai 172 del 2008 (-19,6 per cento), leggermente superiore alla flessione registrata in provincia di Milano. Un aspetto da segnalare è l’aumento degli infortuni mortali legati alla circolazione stradale, sia in itinere che in occasione di lavoro. Anche gli infortuni dei lavoratori stranieri sono aumentati tra il 2007 e il 2008, fino al 20 per cento circa del totale; quelli mortali al 23 per cento. I Paesi maggiormente colpiti sono Marocco, Romania e Albania. Circa le malattie professionali, la situazione è in linea con il resto d'Italia: si registra dunque un progressivo aumento delle segnalazioni, soprattutto per le malattie non tabellate.
In provincia di Milano, in tema di prevenzione e controlli legati alla sicurezza sul lavoro, una particolare attenzione si concentra sull'edilizia, che resta il settore più colpito dal fenomeno infortunistico, specie per le cadute dall'alto. Comune, Provincia e Regione hanno da tempo attuato, con il concorso degli organi ispettivi e delle forze dell’ordine, procedure rigorose per la gestione ed il controllo dei grandi appalti di opere pubbliche, che hanno dato buona prova, anche se restano alcuni problemi. Un importante strumento sono i «patti d'integrità» con i quali le aziende appaltatrici si impegnano a rispettare le regole e a sottostare ai successivi controlli, che possono così essere più penetranti ed efficaci. I rappresentanti del Comune hanno evidenziato l’opportunità di estendere tali patti a tutte le aziende, come deterrente. Inoltre, nelle ispezioni dei cantieri edili sono coinvolti anche agenti della polizia municipale appositamente formati, specie nel Comune di Milano. La competenza dei Comuni si limita alla verifica della conformità delle opere alle concessioni edilizie, ma sarebbe utile estenderla anche al controllo degli aspetti della sicurezza sul lavoro.
A livello regionale, fin dal 2008 è stato elaborato un piano specifico per la sicurezza nei luoghi di lavoro a cadenza triennale, la cui applicazione è vigilata da una cabina di regia che riunisce tutti gli enti competenti e che, in tempi recenti, è stata affiancata dal comitato regionale di coordinamento costituito ai sensi dell’articolo 7 del decreto legislativo n. 81 del 2008 e da un comitato provinciale anch'esso molto attivo. In Lombardia c’è da tempo una forte cooperazione tra enti istituzionali, ma i rappresentanti della Regione hanno sottolineato l’opportunità di un coordinamento unico (affidato alla Regione stessa) di tutti gli organismi, anche statali, operanti sul territorio in materia di salute e sicurezza sul lavoro, per rafforzare le sinergie e superare le difficoltà di dialogo che inevitabilmente ancora sussistono, specialmente riguardo alla messa in comune delle banche dati.
L’attività di controllo è comunque raddoppiata nel 2008 rispetto al 2007, in particolare nei cantieri edili, grazie ad un piano straordinario di assunzioni che ha permesso di integrare gli organici degli ispettori del lavoro e delle ASL e ad iniziative come il cosiddetto «sabato dell’edilizia», con i tecnici che fanno gli straordinari visitando i cantieri il sabato mattina. Anche magistratura e forze dell’ordine hanno confermato un livello di attenzione e di controllo molto elevati, con una forte collaborazione fra tutte le istituzioni. Tali aspetti sono stati sottolineati positivamente anche dai rappresentanti delle parti sociali, molto attive nella promozione della sicurezza sul lavoro, soprattutto grazie allo strumento degli enti bilaterali, che in alcuni settori (artigianato, edilizia) hanno una lunga e consolidata tradizione.
In questo quadro, pur positivo, restano però alcune criticità: nel campo degli appalti, esistono alcuni preoccupanti «coni d'ombra» nelle filiere dei subappalti (dove talvolta si riscontrano ribassi d'asta decisamente eccessivi e anomali), per gli appalti pubblici ma ancora di più per quelli privati, non sottoposti alle stesse regole stringenti. Sono molte però le attività che vengono esternalizzate, in varie forme non sempre facili da rilevare (ad es. le cooperative di facchinaggio e trasporto). L’evoluzione dei processi produttivi - particolarmente evidente in territori dinamici come la Lombardia e la provincia di Milano - crea infatti una forte frammentazione delle attività e l’esternalizzazione di un numero crescente di lavorazioni e servizi. In uno stesso luogo operano così, sempre più spesso, lavoratori di imprese diverse, con notevoli rischi di interferenza e accresciute esigenze di coordinamento. Le risorse limitate, soprattutto in termini di organico, degli enti di controllo (insufficienti anche in Lombardia, malgrado le recenti assunzioni) rendono però difficile verificare tutti i cantieri e tutte le aziende.
Ciò impone allora una maggiore responsabilizzazione della stazione appaltante che dovrebbe esercitare un controllo più ferreo sulle aziende affidatarie, una sorta di autovigilanza. Si tratta di un'esigenza ormai imprescindibile, che si intreccia con quella della qualità delle imprese: da un lato, come sottolineato dalle parti sociali, occorre introdurre forme di certificazione delle imprese, ad esempio nel settore edile, per escludere dal mercato operatori palesemente inadeguati e talvolta scorretti (anche sotto il profilo della tutela della sicurezza dei lavoratori). Dall'altro, gli enti appaltanti dovrebbero selezionare meglio a monte le aziende affidatarie delle commesse. Su questi temi, i direttori dei Servizi PSAL delle ASL e della DPL di Milano hanno elaborato una serie di specifiche proposte, trasmesse successivamente alla Commissione in un'apposita nota, di cui si parlerà diffusamente nel paragrafo 5.1.1.
Altri problemi segnalati alla Commissione durante il sopralluogo riguardano il numero crescente di lavoratori stranieri, per i quali occorrerebbero attività formative ad hoc, nonché una verifica della buona conoscenza della lingua italiana, essenziale per poter ricevere la formazione stessa.


3.3. Sopralluogo a Terni (13-14 dicembre 2009)
Il sopralluogo del 13 e 14 dicembre 2009 a Terni era legato al grave incidente avvenuto il 1° dicembre presso lo stabilimento della ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni (TK-AST), nel corso del quale un operaio ha perso la vita. La delegazione della Commissione era formata dal presidente Tofani e dai senatori Maraventano, Nerozzi e Spadoni Urbani.
La mattina del 1° dicembre un operaio, il signor Diego Bianchina, insieme ad altri due colleghi ha ricevuto l’incarico di effettuare il travaso di acido cloridrico (utilizzato per operazioni di ripulitura del percolato, una sostanza che si forma dai materiali di scarto delle lavorazioni siderurgiche) da un serbatoio fisso della capacità) di circa 14-15 metri cubi, in una serie di taniche più) piccole della capacità) di 1 metro cubo ciascuna. Il travaso avveniva, come di consueto, mediante una pompa elettrica che prelevava l’acido del serbatoio principale e, mediante un sistema di tubi, lo riversava nelle taniche. Il riempimento della prima tanica è avvenuto senza problemi ma, appena si è passati a riempire la seconda tanica, si è sprigionata una nube di gas tossico che ha investito il Bianchina e, in misura più) lieve, uno dei suoi colleghi che gli stava vicino e che, accortosi dell’accaduto, ha cercato inutilmente di soccorrerlo. Fortunatamente il secondo operaio è rimasto solo leggermente intossicato e non ha riportato conseguenze, mentre il povero Bianchina è deceduto quasi subito durante il trasporto in ospedale.
Pur essendo al momento del sopralluogo ancora in corso gli accertamenti, le evidenze raccolte dagli organismi tecnici e in particolare dal Servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPRESAL) della ASL hanno indicato come probabile causa della morte l’intossicazione da idrogeno solforato, una sostanza che inalata blocca il trasporto dell’ossigeno e causa la morte quasi immediata. Tale sostanza si è formata verosimilmente per il contatto tra l’acido cloridrico travasato nella tanica e un residuo di sodio solfidrato rimasto nella tanica stessa e non rilevato in precedenza. Peraltro, era un residuo abbastanza consistente, atteso che la reazione è stata volumetricamente importante: si è creata infatti una piccola nube di idrogeno solforato, tanto che anche il soccorritore ha riportato un danno, seppur lieve.
Dalle informazioni raccolte dalla Commissione, l’operazione di travaso dell’acido cloridrico veniva svolta normalmente in altri reparti dello stabilimento della TK-AST, mentre era la prima volta che si faceva in quel particolare reparto. Inoltre, l’operazione era di solito svolta da una ditta appaltatrice esterna, che utilizzava taniche o contenitori dedicati, ossia riservati solo al trasporto dell’acido cloridrico. Stavolta invece il travaso è stato affidato a personale interno, mentre la ditta esterna si è limitata a prelevare le taniche da un altro reparto, perché in quel momento non ve n'erano disponibili nel reparto dove si trovava il serbatoio dell’acido.
Durante l’operazione di travaso, sembrerebbe che il signor Bianchina fosse regolarmente munito di tutti i dispositivi di protezione individuale previsti per il maneggio di acido cloridrico (che è appunto un acido tossico per contatto), ossia tuta antiacido, guanti, mascherina protettiva. Tuttavia, nel corso delle audizioni è emerso che l’operaio, in servizio da vari anni alla ThyssenKrupp, era però normalmente addetto ad altre mansioni, precisamente al trattamento degli oli esausti derivanti dalle lavorazioni dello stabilimento, mentre non si era mai occupato di acidi. Aveva quindi ricevuto quel tipo d'incarico per la prima volta quella mattina.
Fermo restando l’accertamento definitivo dei fatti e delle eventuali responsabilità da parte della magistratura, dagli elementi acquisiti dalla Commissione, dei quali si è dato brevemente conto, risulta chiaro come l’incidente sia derivato dall'esecuzione di un'operazione non corretta e, normalmente, non prevista dalle procedure interne. Si è trattato, verosimilmente, di una decisione estemporanea, forse dettata dall'urgenza di una particolare lavorazione, che però ha condotto ad una serie di gravi errori: l’utilizzo di taniche recuperate da altri settori o lavorazioni, senza un preventivo controllo dell’assenza di residui pericolosi; l’affidamento del lavoro a personale non specializzato, solitamente dedito ad altre mansioni e probabilmente non al corrente dei rischi legati a quelle operazioni.
Peraltro, occorre dire che nello stabilimento della ThyssenKrupp di Terni, specialmente dopo i tragici fatti di Torino del dicembre 2007, è stato implementato un sistema di verifica molto rigido, grazie ad un protocollo sulla sicurezza firmato il 1° febbraio 2008 alla presenza dei rappresentanti dell’azienda, delle organizzazioni sindacali (compreso quello di sito) e delle principali istituzioni nazionali (compreso il Governo) e locali. Il protocollo ha previsto un sistema di monitoraggio e controlli trimestrali congiunti tra azienda e sindacati, istituendo un nucleo operativo integrato (NOI) coordinato dalla ASL, che riunisce l’azienda, i sindacati e tutti gli enti preposti al controllo, nonché le numerose aziende appaltatrici dello stabilimento (nei periodi di punta, vi operano contemporaneamente oltre 200 ditte).
Le parti sociali hanno confermato, al di la dell’incidente, un'accresciuta attenzione nei riguardi dei temi della sicurezza del lavoro nella provincia di Terni, in un contesto produttivo sensibile dove operano numerose industrie, tra le quali circa 20 multinazionali. Gli infortuni nel periodo 2007-2008 sono diminuiti del 6 per cento a livello regionale (da 18.196 a 17.106) e del 4,4 per cento a livello provinciale (da 3.314 a 3.168), mentre quelli mortali sono scesi del 15,8 per cento (da 19 a 12) nella regione e del 55,6 per cento in provincia (da 9 a 4).
Come indicato dagli enti di controllo e dalle forze dell’ordine, comunque restano ancora problemi legati alla sicurezza del lavoro, specialmente nei settori più rischiosi come quello edile e dell’autotrasporto, nonché una diffusione del lavoro irregolare e sommerso. I sindacati hanno inoltre registrato una certa difficoltà di dialogo con alcuni imprese multinazionali, che hanno dinamiche particolari e per le quali hanno auspicato una legislazione ad hoc e la definizione di protocolli di sicurezza analoghi a quello stipulato per la ThyssenKrupp.
Tuttavia, proprio l’esempio di quest'ultima e la tragica morte di Diego Bianchina dimostrano che i migliori sistemi possono non bastare se non vi è un'effettiva consapevolezza dei rischi da parte di tutti gli operatori ed una costante applicazione delle regole e delle procedure di controllo, poiché disattenzioni od omissioni anche apparentemente banali possono avere conseguenze tragiche.


3.4. Sopralluogo a Genova (17-18 gennaio 2010). I problemi della sicurezza del lavoro nelle attività portuali
Il 17 e il 18 gennaio 2010 una delegazione della Commissione (composta dal presidente Tofani e dai senatori Donaggio, Maraventano e Nerozzi) si è recata in missione a Genova per acquisire elementi conoscitivi in relazione a un grave infortunio sul lavoro verificatosi nel porto il 23 dicembre 2009 (nel quale aveva perso la vita un lavoratore, Gianmarco Desana) e, più in generale, per comprendere meglio i problemi della sicurezza sul lavoro legati alle molteplici attività che si svolgono nei porti, che vedono spesso la compresenza simultanea di numerosi e differenti soggetti.
Per quanto riguarda l’incidente, esso è avvenuto a bordo del traghetto «La Suprema» di proprietà) della compagnia Grandi Navi Veloci (GNV), durante l’ultimazione delle operazioni di carico prima della partenza. Occorre precisare che la nave aveva caricato i passeggeri di un altro traghetto (circa 1.500 persone) che il giorno prima aveva subito un incidente e non era potuto partire, costringendo i passeggeri a trascorrere la notte in città. C'era quindi, verosimilmente, una certa fretta per ultimare le operazioni e far partire la nave. Questa era quasi carica e mancava soltanto un semirimorchio.
Nell'operazione erano coinvolti tre diversi gruppi di addetti: il personale di bordo, che faceva capo alla GNV, nella sua qualità di armatore; il personale del terminal, incaricato tra l’altro di caricare a bordo i rimorchi e i semirimorchi con l’apposito veicolo (ralla) e che dipendeva sempre dalla GNV, che è anche impresa portuale o terminalista; gli operatori portuali chiamati a coadiuvare i terminalisti, dipendenti della Compagnia Unica di Lavorazione Merci Varie (CULMV) «Paride Batini», che è fornitrice di manodopera temporanea.
Quando la ralla ha agganciato l’ultimo semirimorchio, è entrata a retromarcia nella stiva del traghetto, fermandosi in prossimità di un trattore già posteggiato, rizzato e fermato. A questo punto il semirimorchio doveva essere bloccato con i tacchi per le ruote e con un cavalletto. Il rallista si era dunque fermato e stava staccando la ralla dal semirimorchio, evidentemente pensando che tutte queste operazioni fossero state completate. Ma ciò non è avvenuto, non si sa per quale disarmonia nei gesti, nelle parole e nelle dichiarazioni dei protagonisti. Così, mentre stava staccando la ralla, il semirimorchio si è spostato all'indietro e il povero Desana, che era davanti al trattore già posteggiato, è rimasto schiacciato.
Al di là delle specifiche responsabilità, che saranno oggetto di accertamento da parte della magistratura, appare comunque evidente che questa ennesima tragedia è frutto di un insufficiente coordinamento e di un'erronea comunicazione tra i vari addetti impegnati nella specifica operazione. Si tratta, come è stato sottolineato da tutti i soggetti auditi dalla Commissione, di problemi purtroppo ricorrenti nelle attività portuali, a Genova quanto altrove. Nei porti sono infatti presenti ogni giorno migliaia di addetti appartenenti a imprese diverse, marittime e portuali, i quali si trovano a lavorare insieme o comunque negli stessi spazi, con elevati rischi di interferenza ed accresciute esigenze di coordinamento, che però, come appena detto, non si riesce sempre a realizzare nella maniera dovuta.
Per quanto riguarda il porto di Genova, è il più grande d'Italia, per estensione e movimento merci: secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili (2005), gli addetti che lavorano nel porto nelle varie attività sono circa 10.500, di cui oltre 2.500 impegnati nelle operazioni portuali in senso stretto. Queste ultime sono, per le ragioni anzidette, le attività a maggior rischio infortunistico, anche se negli ultimi anni la situazione è migliorata: secondo i dati forniti dalla ASL Genovese 3, competente per l’area portuale, dal 1999 al 2009 l’indice di incidenza (numero di infortuni ogni 100 lavoratori addetti) è passato da 40 a 18. Peraltro, tra i 25 soggetti impegnati nelle operazioni portuali occorre distinguere le 23 imprese portuali dalle 2 compagnie portuali, che forniscono loro la manodopera e che svolgono le mansioni più a rischio: ovviamente, esse hanno anche l’indice più alto, pari al 50 per cento nel 1999, anche se ora per entrambi i tipi di aziende è sceso intorno a 20. Infine, nel periodo 1996-2009, su 30 infortuni mortali avvenuti nel porto, 9 hanno riguardato le operazioni portuali.
Per gestire questa complessa realtà, nel 2007 è stato stipulato un protocollo d'intesa fra tutti gli enti di vigilanza che ha portato alla nascita del sistema operativo integrato (SOI), che ha appunto il compito di pianificare e attuare tutti gli interventi di prevenzione e di tutela in materia di salute e sicurezza sul lavoro nel porto e al quale aderiscono la ASL, la Capitaneria di porto, l’Autorità portuale, l’INAIL, la Direzione provinciale del lavoro e l’INPS. L’adozione del SOI ha avuto un effetto certamente positivo, anche se rimangono molti problemi soprattutto sul fronte della prevenzione nelle operazioni portuali. Competente per tali profili è l’Autorità) portuale, che rilascia anche i permessi ad imprese e lavoratori per accedere al porto e che, in tale fase, può) appunto verificare se gli operatori siano effettivamente qualificati e in regola con le prescrizioni della sicurezza del lavoro. Questo filtro preventivo è molto utile, ma non consente ancora di verificare nel tempo se il singolo lavoratore abbia via via aggiornato la sua qualificazione: la formazione, infatti, per essere veramente efficace (anche sugli aspetti della sicurezza) deve essere continua e non limitata alla fase d'ingresso in un determinato lavoro o impresa.
Per ovviare a tale limite, nel 2009 l’Autorità portuale ha definito un progetto per la realizzazione di una scuola portuale: mettendo a sistema iniziative e realtà già esistenti, si intende soddisfare due esigenze concomitanti: da un lato, quella della formazione tout court, relativamente all'attività portuale nel suo complesso e ai connessi aspetti della sicurezza; dall'altro, quella della certificazione. La scuola dovrebbe infatti provvedere, sulla base della formazione posseduta, alla certificazione delle posizioni o specializzazioni lavorative, corrispondenti a loro volta alle diverse esigenze sotto il profilo dell’organizzazione e della sicurezza.
Una delle questioni più complesse nell'attività di prevenzione degli infortuni nei porti riguarda l’esistenza di prassi e consuetudini diverse tra i vari operatori, non solo fra personale di bordo e personale di terra, ma anche, all'interno di quest'ultimo gruppo, fra terminalisti e portuali. Per quanto concerne il primo aspetto, se ne è già accennato nel paragrafo 2.7 a proposito della soppressione dell’IPSEMA e del contestuale affidamento delle sue funzioni all'INAIL, ai sensi dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge n. 78 del 2010. Finora, la contemporanea presenza di due distinti enti assicurativi per i lavoratori marittimi e per quelli portuali ha creato talvolta sovrapposizioni e incertezze, in quanto esistono situazioni promiscue in cui i due gruppi (che hanno normalmente ruoli diversi) si ritrovano a lavorare insieme nello stesso ambiente (a bordo o a fianco della nave) e a svolgere, di fatto, mansioni affini, soprattutto nella movimentazione delle merci. A parte il diverso inquadramento assicurativo, l’inconveniente principale è quello di una formazione impartita in maniera dissimile anche per quanto concerne gli aspetti della sicurezza.
Tali problemi sono stati ribaditi alla Commissione proprio durante la missione a Genova, evidenziando come vi siano spesso tra operatori di terra e di bordo perfino difficoltà di comprensione, legate non solo alla lingua (si pensi al caso di navi straniere), ma anche al significato delle segnalazioni e dei gesti che, da sempre, nei porti costituiscono elemento essenziale nelle comunicazioni tra gli addetti per il coordinamento delle varie operazioni, ad esempio nelle operazioni di carico e scarico delle merci. La morte del povero signor Desana potrebbe essere dipesa anche da una incomprensione di questo tipo con gli altri operatori presenti in quel momento. Queste disarmonie sono quindi tutt'altro che banali e diventano più preoccupanti se si pensa che, spesso, ogni porto ha le sue consuetudini e i suoi «codici» che non collimano necessariamente con quelli di altri porti in Italia e all'estero.
Occorre allora pensare ad una formazione/informazione il più possibile omogenea dei vari operatori a livello non solo locale ma nazionale. Si tratta di un'esigenza da tempo avvertita: come già accennato, proprio a seguito delle segnalazioni raccolte nella missione di Genova (e in parte in quella di Venezia), la Commissione ha audito su questi temi il presidente dell’IPSEMA Antonio Parlato e quello dell’INAIL Marco Fabio Sartori, rispettivamente il 19 gennaio e il 12 febbraio 2010. Entrambi si sono dichiarati pienamente disponibili a rafforzare la collaborazione già esistente tra i due Istituti, in particolare per quanto riguarda lo svolgimento delle attività di prevenzione e di formazione/informazione ai lavoratori. L’auspicio è che ora, con la riunificazione delle competenze assicurative e prevenzionali in capo all'INAIL sia per i lavoratori marittimi che per quelli portuali, si possa addivenire più facilmente a tale importante risultato.
Tale processo potrebbe inoltre contribuire ad accelerare il previsto adeguamento dell’attuale normativa sulla salute e sicurezza dei lavoratori marittimi e portuali alle novità introdotte nel Testo unico, adeguamento che è stato più volte rinviato proprio a causa della complessità della materia. La vigente normativa di settore è infatti contenuta in tre distinti provvedimenti, il decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 271, per le attività lavorative a bordo delle navi, il decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 272, per quelle in ambito portuale, e il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 298, per il settore delle navi da pesca. In base all'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2008, le disposizioni recate da tali provvedimenti devono essere coordinate con quelle del Testo unico, mediante appositi decreti ministeriali da emanarsi entro un termine stabilito, che le ultime modifiche legislative8 hanno fissato ad aprile 2011. Appare dunque essenziale che, nell'ambito del completamento dell’attuazione del decreto legislativo n. 81, si provveda quanto prima ad emanare anche i decreti ministeriali relativi al settore marittimo e portuale, indispensabili per una efficace attività di prevenzione e di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e attesi ormai con impazienza da tutti gli operatori del comparto.
Un altro problema riguarda i rapporti tra gli addetti appartenenti alle imprese portuali (terminalisti) e quelli appartenenti alle imprese che forniscono la manodopera. La legge 28 gennaio 1994, n. 84, ha introdotto due tipologie di soggetti: le imprese portuali o terminaliste di cui all'articolo 16, autorizzate a svolgere le operazioni portuali («il carico, lo scarico, il trasbordo, il deposito, il movimento in genere delle merci e di ogni altro materiale, svolti nell'ambito portuale») e i servizi ad esse complementari e accessori; le imprese di cui all'articolo 17, che forniscono alle precedenti il lavoro portuale temporaneo per lo svolgimento delle operazioni portuali e dei servizi complementari ed accessori. Ai sensi dell’articolo 18, inoltre, le imprese portuali possono essere o meno concessionarie di aree demaniali o banchine nell'area portuale dove vengono svolte le varie attività.
Questa suddivisione del lavoro portuale prevista dalla legge n. 84 del 1994 ha comportato un enorme sforzo di riorganizzazione e trasformazione dei soggetti operanti nei porti, che ha incontrato numerose difficoltà e resistenze, soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle compagnie portuali. Queste ultime prima della riforma del 1994 fornivano la manodopera portuale sostanzialmente in regime di monopolio, sotto forma di appalti di servizio, mentre ora si sono trasformate in fornitori di manodopera temporanea. Se dal punto di vista pratico delle mansioni svolte ben poco è cambiato, dal punto di vista giuridico ora gli addetti portuali, nelle varie operazioni alle quali partecipano, dipendono temporaneamente dalle imprese che li chiamano e che fungono da datore di lavoro: essi dunque non lavorano più in maniera autonoma, autogestita, ma devono sottostare alle istruzioni del personale dell’impresa portuale, che è anche responsabile per i profili della sicurezza del lavoro.
Questo mutamento si è scontrato inevitabilmente con assetti e modi di lavorare da tempo consolidati, nei quali le compagnie portuali godevano di una larghissima autonomia organizzativa, specialmente nel porto di Genova, dove i lavoratori portuali (i cosiddetti «camalli») hanno alle spalle una lunga tradizione, addirittura secolare, tanto che questo porto è stato l’ultimo ad adeguarsi alla riforma, dopo una complessa vicenda durata ben quindici anni. Attualmente, nel porto operano dunque due compagnie portuali che, avendo vinto un apposito bando di gara, prestano la manodopera temporanea alle imprese terminaliste: la già citata Compagnia Unica Lavorazione Merci Varie «Paride Batini» (CULMV), che è la più grande, con oltre 1.000 addetti, e agisce in tutto il porto, e la Compagnia Portuale «Pietro Chiesa», che ha una trentina di addetti e lavora prevalentemente nel settore delle rinfuse.
Pur essendo la normativa già chiaramente definita, si è ritenuto opportuno accompagnare il passaggio da un sistema all'altro mediante la stipula di un accordo quadro per così dire introduttivo tra le imprese terminaliste e le compagnie portuali. Nel caso della CULMV, che è quella che movimenta quasi tutte le merci del porto, l’accordo andava dal novembre 2009 al gennaio 2010: secondo quanto riferito alla Commissione sia dai rappresentanti delle imprese portuali che da quelli della CULMV, l’accordo ha dato buona prova, ma l’avvio del nuovo regime ha messo in evidenza pure una serie di problemi che hanno ripercussioni anche sul fronte della sicurezza del lavoro e che richiederebbero alcuni correttivi.
Si tratta, ancora una volta, di problemi che attengono al coordinamento fra i diversi lavoratori chiamati a svolgere le operazioni di movimentazione delle merci. I rappresentanti delle imprese terminaliste hanno infatti messo in evidenza la difficoltà che talora i loro preposti possono incontrare nell'esercitare il ruolo di coordinatori e di responsabili che il nuovo regime assegna loro nei confronti degli addetti delle compagnie, in quanto questi ultimi continuano a svolgere gli stessi compiti di sempre, ma sono abituati ad operare in grande autonomia, e inoltre - sempre secondo i rappresentanti dei terminalisti - il fatto di non avere più una responsabilità giuridica diretta riguardo all'organizzazione e alla stessa sicurezza del lavoro, potrebbe indurli a sentirsi eccessivamente sollevati rispetto a certe problematiche.
I rappresentanti delle compagnie portuali, dal canto loro, hanno dichiarato la massima attenzione per gli aspetti della sicurezza e l’intenzione di dare piena attuazione al nuovo regime. Al tempo stesso, hanno però confermato l’esistenza di un problema di coordinamento tra i diversi soggetti che intervengono nelle varie operazioni, anche se i ruoli di ciascuno sono formalmente definiti e tutti agiscono nel rispetto della legge, incluse le prescrizioni in materia di salute e sicurezza del lavoro.
Per ovviare a tale problema, si sta sperimentando la possibilità di affidare di volta in volta il coordinamento delle squadre portuali a un preposto che è sempre un dipendente dell’impresa terminalista, ma che viene individuato in accordo con la compagnia. Un altro rimedio passa attraverso l’introduzione di sistemi di formazione congiunta dei vari operatori, indipendentemente dal ruolo svolto. Soprattutto, però, gran parte dei soggetti auditi hanno sottolineato con forza l’esigenza di individuare un organismo terzo che possa esercitare le funzioni di arbitro e dirimere in via preventiva le controversie che possono insorgere tra gli operatori in relazione alle operazioni da espletare e che comportano rischi per la sicurezza dei lavoratori.
Un caso ricorrente è quello di operazioni di carico e scarico delle merci che debbano avvenire in condizioni meteorologiche avverse e potenzialmente pericolose: ognuno dei soggetti coinvolti (armatore, terminalista, compagnia portuale) è portatore di interessi e priorità diverse e può inoltre avere una diversa valutazione del livello di rischio connesso all'espletamento delle attività. Per evitare che la decisione di procedere o meno ai lavori sia dettata solo dalla convenienza o dal potere contrattuale dei singoli, molti operatori ritengono indispensabile che vi sia appunto un arbitro terzo in grado di valutare obiettivamente la situazione e prendere la determinazione migliore per la tutela dei lavoratori. Per ricoprire tale ruolo è stata indicata alla Commissione d'inchiesta l’Autorità portuale, in quanto ente pubblico indipendente e dotato delle necessarie competenze tecniche.
Tale posizione è stata espressa anche dal Presidente dell’Autorità portuale e dai rappresentanti degli altri enti di controllo ed è, inoltre, un suggerimento che la Commissione aveva già raccolto durante la precedente missione a Venezia. Un'altra proposta è quella di dotare l’Autorità portuale di poteri di sanzione amministrativa diretta, come ulteriore deterrente nei confronti dei soggetti inadempienti: attualmente infatti tale potere spetta solo alle ASL, che hanno tuttavia altri compiti e che non riescono in ogni caso a essere presenti in tutte le zone del porto.
Lo stesso Presidente dell’Autorità portuale ha però tenuto a precisare che la proposta di affidare nuovi poteri all'Autorità non è condivisa da tutti ed è oggetto di un ampio dibattito, anche in sede nazionale. Quel che è stato comunque ribadito alla Commissione è la necessità di una messa a punto del sistema complessivo di gestione dei controlli nelle attività portuali, anche mediante una verifica delle norme vigenti. Esistono in proposito numerosi progetti di riforma all'attenzione del Governo e del Parlamento, sia delle norme di carattere generale di cui alla legge n. 84 del 1994, sia di quelle in materia di salute e sicurezza del lavoro di cui al decreto legislativo n. 272 del 1999. Sarà dunque anche questa la sede per cercare di dare risposte ai problemi che si sono descritti, alcune delle quali appaiono ormai indifferibili.


3.5. Sopralluogo a Torino (28 febbraio-1° marzo 2010)
Il 28 febbraio e il 1° marzo 2010, la Commissione ha effettuato una missione a Torino, mediante l’invio di una delegazione formata dal presidente Tofani e dai senatori Bugnano, Fosson, Maraventano e Roilo, allo scopo di acquisire elementi conoscitivi in ordine alle condizioni ed alle problematiche della sicurezza sul lavoro nel contesto locale, con particolare riguardo al tema delle malattie professionali. Com'è noto, infatti, Torino e l’intera Regione del Piemonte hanno maturato negli anni una dolorosa esperienza nella gestione delle malattie professionali, sia sotto il profilo sanitario che giudiziario, con i tragici casi legati alle vittime dell’amianto.
Per quanto riguarda l’aspetto giudiziario, nel corso degli anni a Torino e provincia sono stati istruiti, celebrati e definiti numerosi processi per infortuni e malattie professionali, che hanno comportato un notevole lavoro e l’adozione di soluzioni organizzative talvolta innovative. In base ai dati forniti dal Presidente del tribunale di Torino, i procedimenti per infortuni e malattie pervenuti a dibattimento sono stati 55 nel 2005, 64 nel 2006, 139 nel 2007, 142 nel 2008, 97 nel 2009; a gennaio 2010 si parlava inoltre di 8 procedimenti più altri 42 non ancora registrati presso il tribunale in quanto ancora pendenti presso la procura della Repubblica che aveva già fissato la data dell’udienza.
Ai procedimenti in fase di dibattimento si devono aggiungere quelli pendenti davanti al GIP e al GUP, molti dei quali si concludono con l’archiviazione (il numero maggiore), con sentenze di proscioglimento ovvero con il ricorso ai riti alternativi (patteggiamento o rito abbreviato). Nel periodo 2007-2010, i giudizi per lesioni colpose definiti con sentenza di condanna o di patteggiamento - cioè un'altra forma di condanna - sono stati il 64,5 per cento (235 su 364), le pronunce di assoluzione o di non luogo a procedere sono state il 35,5 per cento. Per gli omicidi colposi, su 48 procedimenti metà si sono conclusi con condanne e metà con assoluzioni. Pochissime le prescrizioni, intorno al 5 per cento. Per quanto riguarda la durata, la stragrande maggioranza dei processi viene definita con il deposito del provvedimento.
Questi dati testimoniano dunque il grande lavoro svolto dai tribunali della provincia di Torino in materia di infortuni e malattie professionali: si tratta di numeri molto alti rispetto alla media del Paese, ma ancora bassi rispetto al numero di potenziali violazioni della normativa. Uno dei problemi riguarda lo scarso numero di segnalazioni che arrivano all'Autorità giudiziaria, specie per le malattie professionali, anche a causa di un'insufficiente preparazione o sensibilità dei medici competenti o delle stesse vittime. Per ovviare a questa situazione, in Piemonte è stato costituito nel 1997 presso la Procura, per l’esposizione all'amianto, un Osservatorio sui casi di tumori professionali, che raccoglie e mette a sistema tutte le segnalazioni in materia, ricostruendo la storia lavorativa e sanitaria di ciascuna vittima.
Alla data del 23 febbraio 2010 risultavano esaminati 23.697 casi, per 14.088 dei quali è stata accertata l’esposizione ad un fattore cancerogeno nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa. L’Osservatorio si è rivelato uno strumento indispensabile per istruire i procedimenti penali, ma anche per agevolare i risarcimenti a favore delle vittime e dei loro familiari e la prevenzione sanitaria. Ove attivato in tutto il Paese, esso potrebbe agevolare le inchieste giudiziarie e riuscire ad eliminare quel forte divario nel trattamento dei casi di malattie professionali che, a detta degli stessi magistrati auditi, si manifesta purtroppo nelle varie zone d'Italia.
Un altro problema evidenziato dai rappresentanti della magistratura riguarda la complessità dei processi per infortuni e malattie professionali, che influisce sull'organizzazione e sulla durata dei lavori. L’esempio più eclatante è quello dei processi ThyssenKrupp ed Eternit,9 dove la grande mole degli atti, la gravità dei reati contestati (alcuni dei quali «inediti» per vicende di questo tipo) e il forte interesse sociale e mediatico hanno richiesto un grande dispiegamento di mezzi e una poderosa organizzazione logistica, resa possibile dal contributo decisivo degli enti locali: informatizzazione degli atti processuali in tempo reale, ampliamento degli spazi per la celebrazione dei processi, collegamenti con le aule per seguire le udienze, ecc. La vicenda Eternit si è poi caratterizzata per l’enorme numero di parti civili costituite, ben 6.392, che ne rende la gestione quanto mai problematica.
Il Presidente del tribunale di Torino ha sottolineato in particolare il contrasto di fondo tra la richiesta di risarcimento dei danni - il processo civile che si trasferisce in sede penale - e l’esigenza primaria di pronunciare sul reato. Il processo penale infatti non può sopportare che il numero delle parti superi determinate dimensioni, perché diventa difficilmente gestibile dal punto di vista materiale. In processi penali così grandi, a suo avviso, l’azione di danni dovrebbe in qualche modo essere messa tra parentesi oppure si dovrebbero trovare meccanismi per obbligare i danneggiati a nominare una sorta di rappresentante comune, che agisca in modo unitario.
Si tratta, evidentemente, di questioni che richiedono anche una revisione delle norme esistenti, testimoniando la complessità dei processi per malattie professionali. Nel caso dell’amianto, sono stati purtroppo molti i luoghi dove si sono registrate vittime, così che i procedimenti in corso si svolgono in diverse parti del Piemonte. Come è stato ricordato alla Commissione, ad ammalarsi non sono stati solo i lavoratori delle aziende dove l’amianto era estratto, prodotto o utilizzato, ma anche i loro familiari o i residenti nei pressi delle fabbriche (che venivano comunque a contatto con fibre o polveri, ad esempio perché usavano le lastre di scarto per pavimentare il giardino), e tante altre persone che vivevano o lavoravano in ambienti dove l’amianto era presente in varie forme (di solito come isolante).
Le patologie da amianto sono frequenti soprattutto nell'Italia del Nord, in particolare nel Nord-Ovest. Il Piemonte infatti estraeva il 98 per cento dell’amianto impiegato in Italia e ne lavorava circa il 50 per cento nelle proprie industrie: molti siti produttivi erano localizzati proprio in provincia di Torino. Secondo i dati forniti dalle ASL, le malattie professionali da amianto sono passate da 1.215 casi denunciati nel 2004 a 1.149 nel 2009. Tuttavia, il rischio resta molto alto, per l’esposizione diffusa che molte persone hanno avuto (direttamente o indirettamente) nei confronti del materiale e per i lunghi periodi di latenza che queste patologie presentano.10
Già dall'inizio degli anni '90, le ASL piemontesi si sono mosse lungo due filoni: da una parte, hanno collaborato a ricostruire l’esposizione lavorativa di soggetti poi ammalatisi e a individuare l’effettiva correlazione tra la patologia e il lavoro (compito non facile soprattutto nel caso di aziende ormai chiuse), sia ai fini dei procedimenti penali avviati dalla magistratura verso gli eventuali responsabili, sia ai fini del riconoscimento degli indennizzi alle vittime e ai loro familiari da parte dell’INAIL. Dall'altra parte, le ASL hanno svolto un'intensa opera di prevenzione, censendo tutti i siti dove era presente l’amianto e promuovendo la relativa bonifica mediante rimozione, confinamento o incapsulamento. La situazione può dirsi ora abbastanza sotto controllo, anche se restano ancora molti luoghi da bonificare.
Attualmente, queste attività sono gestite in Piemonte tramite il piano regionale amianto, di cui alla nuova legge regionale n. 30 del 2008, che è tra le più avanzate in Italia ed è servita da modello anche per altre Regioni. Il piano coordina le operazioni di bonifica e di smaltimento, fissa le direttive per l’attività delle aziende specializzate, con particolare riguardo alla tutela dei lavoratori addetti (attualmente i soggetti più a rischio per il contatto con l’amianto), e definisce il monitoraggio e la sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti e della popolazione in generale.
Tutti gli enti istituzionali e le stesse parti sociali hanno confermato la validità di questo modello organizzativo, che vede una forte sinergia fra i vari soggetti del territorio. Naturalmente, molto lavoro rimane ancora da fare, sia per la bonifica dei siti che per monitorare l’andamento delle patologie da amianto, purtroppo destinate a perdurare anche nei prossimi anni a causa dei lunghi periodi di latenza.
Sul piano pili generale delle iniziative per il contrasto agli infortuni e alle malattie professionali, i rappresentanti della Regione si sono soffermati sulla rilevanza del comitato regionale di coordinamento recentemente istituito, quale luogo di relazione e di accordo interistituzionale sia rispetto alle attività delle amministrazioni pubbliche che alla funzione di coordinamento per l’attività di ispezione e di controllo di tutti gli enti deputati alla funzione di vigilanza. Tale coordinamento si lega poi a quello effettuato, in altra sede, dalle singole prefetture. In particolare, il comitato ha lavorato per mettere a punto metodi di rilevazione il più possibile omogenei e condivisi da parte dei soggetti deputati alla vigilanza, al fine di tracciare «mappe di rischio» in grado di rappresentare le condizioni delle attività produttive secondo la loro tipologia prevalente e relativamente ai tipi di esposizione, al rischio di infortunio e di malattia professionale.
Tale aspetto si è legato strettamente anche all'obiettivo assegnato dalla legislazione regionale sull'attività di ispezione e di controllo, pari al 5 per cento delle attività produttive presenti sul territorio, per il cui raggiungimento si è attuato un processo di forte sensibilizzazione e coordinamento fra tutti gli uffici e le strutture tecniche competenti. Al riguardo, i rappresentanti della Regione Piemonte hanno richiamato un problema tecnico che incide fortemente sull'attività ispettiva e che, peraltro, la Commissione ha avuto modo di riscontrare anche in altre occasioni, vale a dire il fatto che i metodi di rilevazione e di controllo applicati nei luoghi di lavoro siano spesso molto differenti a seconda delle strutture di vigilanza che li attuano e degli indirizzi regionali, il che spiegherebbe anche le notevoli disparita dell’attività di ispezione dichiarata da Regione a Regione e da ufficio ad ufficio. È stata quindi richiamata l’esigenza di rendere tali prassi il più possibili omogenee, anche mediante l’adozione di schede o modelli di rilevazione comuni nei quali trasferire i dati raccolti dai vari enti ispettivi, anche per una corretta rappresentazione dell’attività effettuata.
Analogamente, sempre all'interno del comitato di coordinamento regionale, sono stati approvati protocolli di collaborazione tra enti differenti, ad esempio con l’INAIL per i controlli nei cantieri edili, per una vigilanza che investa non solo chi ha in capo la responsabilità dell’effettuazione dei lavori, ma tutta la filiera dei soggetti che ricevono affidamenti in subappalto.
Per quanto riguarda il ruolo delle parti sociali, esse hanno richiamato le varie attività svolte sul fronte della formazione/informazione alle imprese e ai lavoratori, chiedendo nel contempo un supporto costante da parte delle istituzioni. Tra gli aspetti positivi, è stato rimarcato il fondamentale ruolo d'impulso degli organismi bilaterali, molto attivi specialmente nei settori artigiano ed edile; viceversa, tra gli aspetti più problematici è stato segnalato il numero insufficiente di controlli sulla sicurezza per la carenza degli organici dei corpi ispettivi, nonché di figure professionali che possano rivestire il ruolo di RSPP (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) e di RLS (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza). Su tale aspetto incide del resto negativamente la forte polverizzazione delle imprese regionali e italiane in generale, per la quale occorrerebbero risposte ad hoc.
Infine, sul tema specifico delle malattie professionali, i rappresentanti delle ASL e delle parti sociali hanno posto l’accento sulla necessità di un più ampio riconoscimento da parte dell’INAIL, considerato che molte patologie sono ancora oggi «non tabellate». Ciò implica anche una più efficace opera di sorveglianza e di prevenzione sanitaria verso i lavoratori, onde evitare per il futuro l’insorgere di nuove malattie o addirittura di nuove epidemie come quella dell’amianto.