• Datore di Lavoro
  • Lavoratore
  • Macchina ed Attrezzatura di Lavoro

 

Responsabilità di un datore di lavoro e del direttore lavori per lesioni colpose in danno di un lavoratore irregolare: i giudici di merito hanno accertato che la persona offesa, mentre scendeva da un sottotetto utilizzando una botola, era caduta al suolo da una altezza di sei metri per lo spostamento della scala che stava utilizzando. L'addebito di colpa riguarda l'utilizzazione di una scala inidonea, priva di dispositivi di sicurezza e non agganciata a parti fisse dell'edificio.

 

Ricorre in Cassazione il solo direttore dei lavori deducendo un vizio di motivazione - Rigetto.

 

La Corte afferma che "Non è in discussione, in questo processo, che le misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro non siano state osservate e che la caduta del lavoratore sia stata cagionata dall'inosservanza di queste misure.

 

Ciò che il ricorrente contesta è che egli fosse titolare di una posizione di garanzia di protezione nei confronti del lavoratore infortunato.


La censura è infondata avendo, i giudici di merito, accertato che B. aveva una posizione di supremazia nei confronti degli altri lavoratori ai quali impartiva con continuità ordini e direttivi.

 

Questa conclusione è stata, nella sentenza impugnata, non affermata apoditticamente ma con il riferimento alle prove assunte nel giudizio ed in particolare alle dichiarazioni della persona offesa e dello stesso figlio del ricorrente.

 

Esente da alcuna illogicità e adeguatamente motivata deve dunque ritenersi la conclusione della Corte di merito secondo cui il ricorrente ricopriva, quanto meno di fatto, la posizione di direttore dei lavori o comunque gli era attribuita una posizione di garanzia derivante dalla posizione di sovraordinazione nei confronti dei lavoratori riferita anche alla sicurezza del lavoro."


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARZANO Francesco - Presidente

Dott. BRUSCO Carlo G. - rel. Consigliere

Dott. MAISANO Giulio - Consigliere

Dott. MASSAFRA Umberto - Consigliere

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere

ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da: 1) B.G., N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 2628/2008 CORTE APPELLO di BRESCIA, del 20/11/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/10/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. CARLO GIUSEPPE BRUSCO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Gialanella Antonio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito, per la parte civile, l'Avv. Fuselli Alessandro, in sost., dell'avv. Gioia Giuliano, che ha concluso per rigetto del ricorso.

 

La Corte:

 

 

FattoDiritto

 

 

1) La Corte d'Appello di Brescia, con sentenza 20 novembre 2009 - giudicando sugli appelli proposti da R.B. e B. G. contro la sentenza 7 dicembre 2007 del Tribunale di Brescia, sez. dist. di Salò, che li aveva condannati alla pena ritenuta di giustizia per il reato di lesioni colpose in danno di B.L. commesso in (OMISSIS) a seguito di un infortunio sul lavoro - ha dichiarato estinto per prescrizione il reato contestato agli imputati e ha confermato le statuizioni civili adottate dal primo giudice.

I giudici di merito hanno accertato che la persona offesa (che prestava attività lavorativa irregolare alle dipendenze di R.), mentre scendeva da un sottotetto utilizzando una botola, era caduto al suolo da una altezza di sei metri per lo spostamento della scala che stava utilizzando. L'addebito di colpa riguarda l'utilizzazione di una scala inidonea, priva di dispositivi di sicurezza e non agganciata a parti fisse dell'edificio.

R. è stato ritenuto responsabile dell'infortunio nella sua qualità di datore di lavoro e B. quale direttore dei lavori.

 

2) Contro la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso il solo B.G. il quale ha dedotto un'unica censura con la quale si deduce il vizio di motivazione con riferimento alla mancata risposta al motivo di appello concernente la dedotta violazione dell'art. 522 c.p.p..

Il ricorrente censura poi l'equiparazione, compiuta dalla Corte di merito, delle funzioni svolte dal ricorrente con quelle del direttore dei lavori, in mancanza dell'assunzione formale di una posizione di garanzia, non potendosi questa funzione desumersi dalla sola circostanza che occasionalmente siano state dal ricorrente impartite direttive al lavoratore infortunato.

 

La Corte di merito non avrebbe inoltre risposto a numerose altre censure proposte con i motivi di appello.

 

3) Poiché il giudice d'appello ha dichiarato l'estinzione del reato ed è ancora presente nel processo la parte civile vanno premessi, all'esame specifico dei motivi di ricorso, alcuni cenni sui principi che disciplinano il rapporto tra l'accertamento della responsabilità penale e l'obbligo, per il giudice, di immediata applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2 in presenza di una causa estintiva del reato sia o meno ancora in corso l'azione civile nel processo penale.

Com'è noto il presupposto per l'applicazione dell'art. 129 c.p.p., indicato è costituito dall'evidenza della prova dell'innocenza dell'imputato. In questo caso la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza.

I presupposti per l'immediato proscioglimento (l'inesistenza del fatto, l'irrilevanza penale, il non averlo l'imputato commesso) devono però risultare dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.

In presenza di una causa estintiva del reato non è quindi più applicabile la regola probatoria, prevista dall'art. 530 c.p.p., comma 2, da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga "positivamente" dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova dell'innocenza dell'imputato (cfr. Cass., sez. 5, 2 dicembre 1997 n. 1460, Fratucello; sez. 1, 30 giugno 1993 n. 8859, Mussone).

E' stato affermato che, in questi casi, il giudice procede, più che ad un "apprezzamento", ad una "constatazione" (Cass., sez. 6, 25 marzo 1999 n. 3945, Di Pinto; 25 novembre 1998 n. 12320, Maccan).

Da ciò consegue altresì che non è consentito al giudice di applicare l'art. 129 c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti al processo anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi all'assoluzione dell'imputato per avere, il quadro probatorio, caratteristiche di ambivalenza probatoria.

Questi principi sono stati di recente ribaditi dalle sezioni unite di questa Corte con sentenza (28 maggio 2009 n. 35490, Tettamanti, rv. 244273-4-5) alle cui condivisibili argomentazioni si rinvia.

Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull'obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all'annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l'estinzione del reato (cfr. la citata sentenza Maccan della 5, sezione ed inoltre sez. 1, 7 luglio 1994 n. 10822, Boiani).

In caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si troverebbe nella medesima situazione che gli impone l'obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato.

Ma questi principi sono applicabili, per quanto attiene alla responsabilità penale dell'imputato, nei casi in cui sia stata proposta l'azione civile nel processo penale, solo nel giudizio di primo grado all'esito del quale non può il giudice dichiarare estinto il reato e pronunziarsi sull'azione civile
(cfr. Cass., sez. 4, 1 ottobre 1993 n. 10471).

Nel giudizio d'impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d'appello) ed essendo ancora pendente l'azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell'art. 578 c.p.p., è tenuto, quando accerti l'estinzione del reato per amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione (penale).

In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell'impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d'appello nel caso in cui l'estinzione del reato sia stata da lui pronunziata o debba essere emessa dalla Corte di Cassazione).

In conclusione va affermato che costituisce principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilità penale dell'imputato; anche se l'estinzione del reato non gli consente di pronunziare condanna penale.
Va però ancora ricordato che la sentenza delle sezioni unite Tettamanti, in precedenza ricordata, ha affermato che il principio richiamato sulla prevalenza della causa di estinzione del reato nel caso di dedotto vizio di motivazione trova un temperamento in due ipotesi.

La prima riguarda il caso di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2 e impugnazione del pubblico ministero: in questo caso, secondo le sezioni unite, se il giudice di appello ritiene infondato nel merito l'appello del pubblico ministero deve confermare la sentenza di assoluzione.
Il secondo caso attiene invece più specificamente all'ipotesi dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale: il giudice di appello è tenuto, anche nel caso in cui il reato sia estinto per amnistia o prescrizione, ad esaminare l'esistenza dei presupposti per la condanna penale quando sia ancora presente nel processo la parte civile; in tale caso ove pervenga, all'esito di questo esame, a ritenere l'insufficienza o la contraddittorietà del compendio probatorio deve pronunziare sentenza di assoluzione nel merito.
Secondo le sezioni unite questa deroga ai principi in precedenza enunciati si fonda sulla considerazione "che alcun ostacolo procedurale, nè le esigenze di economia processuale (che, come più volte detto, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all'art. 129 c.p.p., comma 2), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l'applicazione della regola probatoria di cui all'art. 530 c.p.p., comma 2".
E' da rilevare che la deroga, come hanno precisato le sezioni unite, riguarda esclusivamente il giudizio di appello non essendo attribuita, al giudice di legittimità, una funzione di rivalutazione del compendio probatorio.


4) Alla luce dei principi esposti nel presente giudizio di legittimità andrà dunque verificato se la sentenza impugnata abbia adeguatamente e logicamente motivato sulla penale responsabilità dell'imputato.

Questa verifica non può che risolversi positivamente essendo infondate e ai limiti dell'ammissibilità le censure proposte con il ricorso.


Non è in discussione, in questo processo, che le misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro non siano state osservate e che la caduta del lavoratore sia stata cagionata dall'inosservanza di queste misure.

Ciò che il ricorrente contesta è che egli fosse titolare di una posizione di garanzia di protezione nei confronti del lavoratore infortunato.
La censura è infondata avendo, i giudici di merito, accertato che B. aveva una posizione di supremazia nei confronti degli altri lavoratori ai quali impartiva con continuità ordini e direttivi. Questa conclusione è stata, nella sentenza impugnata, non affermata apoditticamente ma con il riferimento alle prove assunte nel giudizio ed in particolare alle dichiarazioni della persona offesa e dello stesso figlio del ricorrente.
Esente da alcuna illogicità e adeguatamente motivata deve dunque ritenersi la conclusione della Corte di merito secondo cui il ricorrente ricopriva, quanto meno di fatto, la posizione di direttore dei lavori o comunque gli era attribuita una posizione di garanzia derivante dalla posizione di sovraordinazione nei confronti dei lavoratori riferita anche alla sicurezza del lavoro.

 


5) Le altre censure proposte nell'ultima parte del ricorso sono invece inammissibili per genericità (violazione dell'art. 522 c.p.p.; attendibilità della persona offesa; la circostanza che B. per la prima volta prestasse la sua opera in cantiere) o mancanza di decisività (la natura del contratto d'appalto).

Per le considerazioni svolte deve concludersi che la sentenza impugnata abbia adeguatamente motivato sull'esistenza della penale responsabilità dell'imputato e che dunque debbano essere confermate le statuizioni civili. A maggior ragione è da escludere che ci si trovi in presenza della prova dell'innocenza dell'imputato che consentirebbe di pervenire al proscioglimento nel merito ai fini penali.

 

6) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore della parte civile nella misura indicata in dispositivo.

 

 

P.Q.M.

 

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione in favore della costituita parte civile delle spese di questo giudizio che liquida in Euro 2.374,87 oltre accessori come per legge.