Mobbing – Bossing – Nozione – Strategia aziendale volta a ridurre il personale o eliminare i dipendenti non graditi – Confinamento in specifico reparto – Totale inattività e degrado ambientale – Pericolo di definitiva estromissione dal contesto produttivo aziendale - Configurabilità


“Consona al caso di specie sarebbe quella specifica variante del fenomeno Mobbing conosciuta con Bossing…che ha la forma di una vera e propria strategia aziendale volta a ridurre il personale o eliminare dipendenti “non graditi”: in tal caso sono i quadri o i dirigenti ad agire. A differenza del Mobbing, che non ha sempre un’origine razionale, qui lo scopo è perseguito con lucidità : indurre alle dimissioni il dipendente eludendo così eventuali problemi di origine sindacale e le leggi sul licenziamento e ciò con i mezzi più fantasiosi spesso sottili e disinvolti, purché capaci di procurare intorno all’interessato un’atmosfera di tensione insostenibile mirando alla sua distruzione psicologica, ad esempio affidandogli mansioni dequalificanti”.

Massima a cura della redazione di Olympus

Giurisprudenza correlata: Trib. Taranto, 7 marzo 2002 ; Cass. Pen. 31413/2006



REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DI APPELLO DI LECCE SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO SEZIONE PENALE

composta dai signori:
 
Dr. DINO MARIA SEMERARO Presidente

Dr.ssa CESARINA TRUNFIO Consigliere

Dr. UMBERTO MASSAFRA Consigliere Relatore all'udienza del 12 aprile 2005

con l'intervento del Pubblico Ministero dr.ssa Angela Tomasicchio con l'assistenza del Cancelliere Sig.ra Patrizia Zelatore

ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA DIBATTIMENTALE

nel processo penale a carico di:
 
Ri.C., (omissis) -CONTUMACE -

Ri.E., (omissis) -CONTUMACE -

Ca.L. (omissis) -CONTUMACE -

Ca.A., (omissis) -CONTUMACE -

B.A., (omissis) -CONTUMACE -

Ga.A., (omissis) -CONTUMACE -

Bi.I., (omissis) -CONTUMACE -

Gr.A., (omissis) -CONTUMACE -

Pa.C., (omissis) -CONTUMACE -

Or.E., (omissis) -CONTUMACE -

Ir.G., (omissis) -CONTUMACE -

Mu.G., (omissis) -CONTUMACE -

appellanti: Ri.E., Ca.L., Ca.A., B.A., Ga.A., Bi.I., Gr.A., Pa.C., Or.E., Ir.G., Mu.G.,

PUBBLICO MINISTERO PRESSO IL TRIBUNALE DI TARANTO C/ Ri.E., Ri.C., Ca.L., Gr.A., UNIONE ITALIANA LAVORATORI UIL REGIONE PUGLIA in pers. del segr. reg. PUGLIESE A., UNIONE ITALIANA LAVORATORI UIL PROVINCIALE TARANTO in pers. del segr. prov. F. So. contro la sentenza del TRIBUNALE DI TARANTO GIUDICE MONOCRATICO del 7/12/2001 con la quale - Ri.E. e Ca.L. venivano ritenuti responsabili a) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore P. G., b) in concorso tra loro del reato di violenza privata nei confronti del lavoratore L.B.A., c) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Pe. F.P., Fi.M., Al.C., Mo.G., Ad. G., L.B.A., Ma.F., Ca.A., Ba.V., Va.A., D.G.S., A. C., Le.M., Sp.E., Ch. A., D.P.G., Ca.G., Ca. N., Gi.A., Lo. M., F.C. F., Le. R., Co. G., Gr. L. A., Pe. F., d) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori De. R., Ad. G., Ca. A., Fa. C., Me. G., Da. G., Mo. L., e) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Pr. M., Sa. C., Ve. F., Ma. G., In. A., fj in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Gi. V. e Mo. L., g) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Lo. P., h) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Za. G., i) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Me. G., Da. G., Mo. L., Ci. S., j) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Gi. P. (a) artt. II0-5G-GI0 C.P. b) arti. IID-5G-GI0 C.P. e) arti II0-SI-5G-610 C.P. d) arte II0-SI-5G-610 C.P. e) artt. II0-SI-5G610 C.P. fj artt. 110-81-56-610 C. P. g) arte 110-56-610 C. P. h) arte 110-56-610 C.P. i) arti II0-SI-5G-610 C.P. j) arti. IID-5G-610 C.P. fatti commessi in Taranto, all'interno dello stabilimento LL.V.A. S.p.A. dal dicembre 1997 al novembre 1998) e, con generiche equivalenti alla aggravante contestata al Ri., ritenuta la continuazione, condannati alla pena di anni due e tre mesi di reclusione ciascuno;

- Gr.A., Ga.A., B.A. e Bi.I. venivano ritenuti responsabili c) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Pe. F.P., Fi.M., Al.C., Mo.G., Ad. G., L.B.A., Ma.F., Ca. A., Ba.V., Va.A., D.G.S., A. C., Le.M., Sp.E., Ch. A., D.P.G., Ca.G., Ca. N., Gi.A., Lo. M., F.C. F., Le. R., Co. G., Gr. L. A., Pe. F., d) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori De. R., Ad. G., Ca. A., Fa. C., Me. G., Da. G., Mo. L., e) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Pr. M., Sa. C., Ve. F., Ma. G., In.A., fj in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Gi. V. e Mo. L., e) artt. II0SI-5G.610 C.P. d) arte IID-SI-5G-610 C.P. e) arti. IID-SI-5G-610 C.P. fj artt II0-SI-5G-610 C.P. fatti commessi in Taranto, all'interno dello stabilimento I.L. V.A. S. p.A. dal dicembre 1997 al novembre 1998) e, ritenuta la continuazione condannati alla pena di due anni di reclusione ciascuno;

- Ir.G., Mu.G., Or.E., venivano ritenuti responsabili g) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Lo. P., h) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Za. G., j) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Gi. P. g) arti. II0-5G-610 CP. h) arte 110-56-610 CP j) arti. II0-5G-610 CP. fatti commessi in Taranto, all'interno dello stabilimento I. L.V.A. S.p.A. dal dicembre 1997 al novembre 1998) e t condannati alla pena di nove mesi di reclusione ciascuno;

- Pa.C. veniva ritenuto responsabile i) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Me. G., Da. G., Mo. L., Ci. S., i) arti II0-SI-5G-610 CP. fatti commessi in Taranto, all'interno dello stabilimento I. L. V.A. S. p.A. dal dicembre 1997 al novembre 1998) e, ritenuta la continuazione condannato alla pena di un anno e tre mesi di reclusione;

- Ca.A. veniva ritenuto responsabile a) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore P. G., b) in concorso tra loro del reato di violenza privata nei confronti del lavoratore L.B.A., a) arti. II0-5G-610 CP. b) arti. II0-5G-610 CP. fatti commessi in Taranto, all'interno dello stabilimento I.L. V.A. S. p.A. dal dicembre 1997 al novembre 1998), ritenuta la continuazione condannato alla pena di un anno di reclusione;

Condannati gli imputati predetti al pagamento i solido delle spese processuali.

Condannati Ri.E., Ca.L. e Ca.A. al pagamento in favore di P. G. del risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e delle spese sostenute per l'esercizio dell'azione civile liquidate in lire 7.780.000, di cui lire 7.000.000 per onorario, lire 700.000 per rimborso spese forfettarie e lire 80.000 per spese, oltre accessori di legge.

Condannati i predetti imputati al pagamento in favore di P. G. di una provvisionale pari a lire 20.000.000. Condannati Ri.E., Ca.L. e Gr.A. al pagamento in favore di Sp.E., Le. R., Ba.V., Mo.G., Co. G., Lo. M., Ca.G., Ad. G., Ma.F., A. C., Ch. A., Ca. N., Gi.A. e D.G.S., del risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e delle spese sostenute per l'esercizio dell'azione civile liquidate in lire 7.750.000, di cui lire 7.000.000 per onorario, lire 700.000 per rimborso spese forfettarie e lire 50.000 per spese, oltre accessori di legge e in lire 3.350.000, di cui lire 3.000.000 per onorario, lire 300.000 per spese forfettarie e lire 50.000 per spese, oltre accessori di legge, limitatamente alle parti civili Ad., Ma., A., Ch.:

Condannati i predetti imputati al pagamento in favore di ciascuna delle predette parti civili di una provvisionale pari a lire 20.000.000.

Condannati Ri.E., Ca.L. e Ga.A. al pagamento in favore di De. R. e Da.G. del risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e delle spese sostenute per l'esercizio dell 'azione civile liquidate in lire 3.380. 000,, di cui lire 3.000.000 per onorario, lire 300.000 per rimborso spese forfetarie e lire 50.000 per spese, oltre accessori di legge.

Condannati i predetti imputati al pagamento in favore di De. R. e Da. G. di un provvisionale pari a lire 20.000.000.

Condannati Ri.E., Ca.L. e B.A. al pagamento in favore di Pr. M. e Ma. G. del risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e delle spese sostenute per l'esercizio dell'azione civile liquidate in lire 3.350.000, di cui lire 3.000.000 per onorario, lire 300.000 per rimborso spese forfettarie e lire 50.000 per spese oltre accessori di legge.

Condannati i predetti imputati al pagamento in favore di Pr. M. e Ma. G. di una provvisionale pari a lire 20.000.000.

Condannati Ri.E., Ca.L. e Bi.I. al pagamento in favore di Gi. V. del risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e delle spese sostenute per l'esercizio dell'azione civile liquidate in lire 3.350.000, di cui lire 3.000.000 per onorario, lire 300.000 per rimborso spese forfettarie e lire 50.000 per spese, oltre accessori di legge.

Condannati i predetti imputati al pagamento in favore di Gi. V. di una provvisionale pari a lire 20.000.000.

Condannati Ri.E., Ca.L., Ir.G. al pagamento in favore di Lo. P. del risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e delle spese sostenute per l'esercizio dell'azione civile liquidate in lire 3.350.000, di cui lire 3.000.000 per onorario, lire 300.000 per rimborso spese forfettarie e lire 50.000 per spese, oltre accessori di legge.

Condannati i predetti imputati al pagamento in favore di Lo. P. di una provvisionale pari a lire 20.000.000.

Condannati Ri.E., Ca.L. e Mu.G. al pagamento in favore di Za. G. del risarcimento dei danni, da liquidarsi i separata sede, e delle spese sostenute per l'esercizio dell'azione civile liquidate in lire 7.750.000, di cui lire 7.000.000 per onorario, lire 700.000 per rimborso spese forfettarie e lire 50.000 per spese, oltre accessori di legge.

Condannati i predetti imputati al pagamento in favore di lanette G. di una provvisionale pari a lire 20.000.000. Rigettata ogni altra domanda civile proposta.

Assolti Ri.E., Ca.L. e Ca.A. imputati k) del reato di frode processuale (art. 374 C .P. in Taranto, 4-5-6 novembre 1998) perché il fatto non sussiste.

Assolto Ri.C. imputato a) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore P. G., b) in concorso tra loro del reato di violenza privata nei confronti del lavoratore L.B.A., e) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Pe. F.P., Fi.M., Al.C., Mo.G., Ad. G., L.B.A., Ma.F., Ca. A., Ba.V., Va.A., D.G.S., A. C., Le.M., Sp.E., Ch. A., D.P.G., Ca.G., Ca. N., Gi.A., Lo. M., Fagherazzi Colo ' F.,

Le. R., Co. G., Gr. L. A., Pe. F., d) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori De. R., Ad. G., Ca. A., Fa. C., Me. G., Da. G., Mo. L., e) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Pr. M., Sa. C., Ve. F., Ma. G., In.A., f) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Gi. V. e Mo. L., g) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Lo. P., h) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Za. G., i) in concorso tra loro del reato continuato di tentata violenza privata nei confronti dei lavoratori Me. G., Da. G., Mo. L., Ci. S., j) in concorso tra loro del reato di tentata violenza privata nei confronti del lavoratore Gi. P. ( a) artt. 110-56-610 C. P. b) arti 110-56-610 CP. e) arti. 110-81-56.610 CP. d) arti 110-S1-56-610 C. P. e) arti. 11081-56-610 C. P. fjartt. 110-81-56-610 CP. g) artt. 110-56-610 C .P. h) artt. 110-56-610 C. P. i) artt. 110-81-56-610 C .P. j) arti. 110-56-610 C. P. fatti commessi in Taranto, all'interno dello stabilimento I.L. V.A. S.p.A. dal dicembre 1997 al novembre 1998) k) del reato di frode processuale (art. 374 CP. inTaranto, 4-5-6 novembre 1998) per non aver commesso il fatto.

Ordinata la sospensione condizionale della pena nei confronti di Ca.A., B.A., Ga.A., Bi.I., Gr.A., Pa.C., Or.E., Indio G. e Mu.G. alle condizioni di legge; con l'intervento del Pubblico Ministero dr.ssa Angela Tomasicchio; con l'intervento delle parti civili:

UNIONE ITALIANA DEL LAVORO (UIL), nella persona di Pu A. (omissis) presente il difensore -

UNIONE ITALIANA DEL LAVORO (UIL), nella persona di So. F. (omissis) presente il difensore -

SP. E., (omissis) - presente il difensore - LE. R., (omissis) - presente il difensore - BA. V., (omissis) - presente il difensore - ZA. G., (omissis) - presente il difensore - MO. G., (omissis) - presente il difensore - CO. G., (omissis) - presente il difensore - LO. M., (omissis) - presente il difensore - CA.G., (omissis) - presente il difensore - AD. G., (omissis) - presente il difensore - PR.M., (omissis) - presente il difensore - De. R., (omissis) - presente il difensore - MA.F., (omissis) - presente il difensore - LO. P., (omissis) - presente il difensore - A.C., (omissis) - presente il difensore - CH.I A., (omissis) - presente il difensore - FA. C., (omissis) - presente il difensore - GI.V., (omissis) - presente il difensore - CA.N., (omissis) - presente il difensore - PA. G., (omissis) - presente il difensore - GI. A., (omissis) - presente il difensore - D.G.S., (omissis) - presente il difensore - MA. G., (omissis) - presente il difensore - Da. G., (omissis) - presente il difensore - con l'assistenza del Cancelliere Sig.ra Patrizia Zelatore;

udita la relazione della causa fatta dal Consigliere dr. Umberto Ma.; sulle conclusioni come di seguito formulate:

• all'udienza del 22 settembre 2004:

dal P.G. il quale chiede "la conferma della sentenza di primo grado e, relativamente all'appello proposto dal P.M., ha chiesto la conferma della sentenza di primo grado con l'assoluzione di Ri.C., (per il capo K) (frode processuale di cui all'art. 374 c.p.) e, per gli altri imputati assolti, sempre per il capo K) ha chiesto la condanna a mesi 9 di reclusione, in accoglimento dell'appello del P.M.;in tali termini deve intendersi rettificato l'errore materiale contenuto nel precedente verbale"; (omissis)

• all'udienza del 29 settembre 2004: (omissis)

• all'udienza del 18 gennaio 2005: (omissis)

• all'udienza del 1 marzo 2005: (omissis)

• all'udienza del 12 aprile 2005: (omissis)

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 7.12.2001 il Tribunale di Taranto, in composizione monocratica, affermava la penale responsabilità di Ri.E., Ca.L., Ca.A., B.A., Ga.A., Bi.I., Gr.A., Pa.C., Or.E., Ir.G. e Mu.G. in ordine al delitto di tentata violenza privata in danno di numerosi dipendenti dell' ILVA di Taranto, condannando, previa unificazione dei plurimi reati ascritti a taluni di essi con il vincolo della continuazione e con la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante (rectius: recidiva) al solo Ri., rispettivamente, alle pene di: anni due e mesi tre di reclusione ciascuno, Ri.E. e Ca.L.; anni due di reclusione ciascuno, Gr.A., Ga.A., B.A. e Bi.I.; mesi nove di reclusione ciascuno, Ir.G., Mu.G. e Or.E.; anni uno e mesi tre di reclusione, Pa.C.; anni uno di reclusione, Ca.A.; nonché tutti in solido al pagamento delle spese processuali e gl'imputati di ciascun gruppo suddetto, in solido tra loro, al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza in favore delle corrispondenti persone fisiche offese costituitesi parti civili, con assegnazione in favore di ognuna di esse di una provvisionale di lit. 20 milioni, concedendo il beneficio della sospensione condizionale dell'esecuzione della pena a Ca., B., Ga., Bi., Gr., Pa., Or., Ir. e Mu..

Con la medesima sentenza venivano assolti Ri.C. da tutti i reati ascrittigli quale responsabile legale dell'ILVA s.p.a. di Taranto per non aver commesso il fatto e Ri.E., Ca.L. e Ca.A. (rectius: Gr.A.) dal reato di cui all'art. 374 c.p. (capo k, commesso in Taranto 4/5/6 novembre 1998) perché il fatto non sussiste nonché rigettata ogni altra domanda civile proposta.

In particolare, erano riconosciuti colpevoli:

- Ri.E., Ca.L. e Ca.A., nelle rispettive qualità, il primo di presidente del consiglio di amministrazione dell'ILVA, il secondo di direttore dello stabilimento e responsabile di tutta la gestione del personale e il terzo di responsabile del SIA presso ('ILVA s.p.a., a) del reato di cui agli artt. 110-56-610 c.p. in danno del lavoratore P. G. che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego da quello opposto, a rinunciare a proseguire nella causa di lavoro intentata nei confronti della società; b) del reato di cui agli artt. 110-56-610 c.p. in danno del lavoratore L.B.A., che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego da quello opposto, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio.

- Ri.E., Ca.L. e Gr.A., nelle predette qualità i primi due e di responsabile della gestione della palazzina Laf dello stabilimento dello stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto il terzo: c) del reato di cui agli artt. 81-110-56-610 c.p. in danno dei lavoratori Pe. F.P., Fi.M., Al.C., Mo.G., Ad. G., L.B.A., Ma.F., Ca. A., Baggiani V., Va.A., D.G.S., A. C., Le.M., Sp.E., Ch. A., D.P.G., Ca.G., Ca. N., Gi.A., Lo. M., F.C. F., Le. R., Co. G., Gr. L. A. e Penna F. che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego opposto dalle parti lese, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio.

- Ri.E., Ca.L. e Ga.A., nelle predette qualità i primi due e quale responsabile della gestione del personale dell'area laminazione presso lo stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto, il terzo: d) del reato di cui agli artt. 81-110-56-610 c.p. in danno dei lavoratori in danno dei lavoratori De. R., Ad. G., Ca. A., Fa. C., Me. G., Da. G. e Mo. L. che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego opposto dalle parti lese, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio.

- Ri.E., Ca.L. e B.A., nelle predette qualità i primi due e quale responsabile della gestione del personale dell'area servizi presso lo stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto, il terzo: e) del reato di cui agli artt. 81-110-56-610 c.p., in danno dei lavoratori Pr. M., Sa. C., Ve. F., Ma. G. ed In.A. che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego opposto dalle parti lese, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio.

- Ri.E., Ca.L. e Bi.I., nelle predette qualità i primi due e quale responsabile della gestione del personale dell'area fusione presso lo stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto, il terzo: f) del reato di cui agli artt. 81-110-56-610 c.p. in danno dei lavoratori Gi. V. e Mo. L. che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego opposto dalle parti lese, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio.

- Ri.E., Ca.L. e Ir.G., nelle predette qualità i primi due e quale addetto al rilevamento delle presenze del personale per l'area manutenzione acciaieria dell'ente fusione presso lo stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto, il terzo: g) del reato di cui agli artt. 81-110-56-610 c.p. in danno del lavoratore Lo. P. che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego opposto da quello, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio.

- Ri.E., Ca.L. e Mu.G., nelle predette qualità i primi due e quale addetto all'ufficio personale dell'area manutenzione fusione presso lo stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto, il terzo: h) del reato di cui agli artt. 81-110-56-610 c.p. in danno del lavoratore Za. G., che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego opposto da quello, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio.

- Ri.E., Ca.L. e Pa.C., nelle predette qualità i primi due e quale responsabile gestione del personale addetto all'area laminazione presso lo stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto, il terzo: i) del reato di cui agli artt. 81-110-56-610 c.p. in danno dei lavoratori Me. G., Da. G., Mo. L. e Ci. S. L. che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego opposto dalle parti lese, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio.

- Ri.E., Ca.L. e Or.E., nelle predette qualità i primi due e quale responsabile gestione del personale addetto alla manutenzione degli impianti di produzione della ghisa presso lo stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto, il terzo: j) del reato di cui agli artt. 81-110-56-610 c.p. in danno del lavoratore Gi. P., che tentavano d'indurre mediante minacce, senza riuscirvi per il diniego opposto da quello, ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio (fatti commessi in Taranto, dal dicembre 1997 al novembre 1998).

Secondo la contestazione, tutti i lavoratori suddetti venivano minacciati, in maniera diretta ed indiretta, e quantomeno in forma implicita, che, ove non avesse il P. rinunciato alla prosecuzione della causa di lavoro e tutti gli altri accettato la proposta novazione del rapporto di lavoro con declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio con conseguente mutamento peggiorativo delle mansioni relative, sarebbero stati trasferiti (trasferimento poi attuato) alla "Palazzina Laf", ov'era sicuramente prevedibile l'inevitabile sottoposizione ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo rispetto alle aspirazioni legittime dei dipendenti, al miglioramento e alla tutela delle loro attitudini professionali e consistente nella mancata assegnazione di qualunque tipo di incarico e attività operativa, si da dover trascorrere, peraltro in un ambiente non decoroso e trascurato, le ore prescritte in una situazione di assoluta inerzia, lesiva della dignità del lavoratore stesso, con ciò determinando da un lato il prevedibile ed inevitabile peggioramento delle capacità professionali della parte lesa e, dall'altra, l'avvilimento del loro legittimo diritto ad espletare un'attività lavorativa decorosa e confacente ai principi tipici di un equilibrato rapporto di lavoro, subordinando il ripristino di un normale rapporto all'accettazione della "proposta" di rinuncia alla causa di lavoro per il P. e di novazione per tutti gli altri, lasciando perdurare a tempo indeterminato la negativa situazione descritta a fronte del perdurante diniego opposto dagli interessati.

Sulla scorta delle deposizioni dei tre testi "indifferenti" indicati dal P.M, Monaco, Severini e Galiano, nonché di quelle, lunghe ed articolatissime, rese dalle numerose parti lese e da altri testi, quali la dr.ssa Lieti, responsabile del centro salute mentale presso la Ausl TA/1 che aveva avuto come pazienti alcuni dipendenti della Laf, di due operai dell'Ilva che avevano eseguito i lavori eseguiti all'interno della palazzina nei primi giorni di novembre, e Marossi A., dipendente dell'Ilva. delegato sindacale e collega di lavoro di P. G., si può come di seguito sintetizzarsi il fatto quale ricostruito dal primo Giudice.

II teste Monaco, ispettore del lavoro, dopo aver premesso che all'interno dell'azienda le relazioni industriali non si svolgevano secondo quelli che erano i ruoli istituzionali tipici dell'impresa da un lato e del sindacato dall'altro, che vi era un clima di conflittualità permanente dovuto "probabilmente alle scelte unilaterali degli imprenditori" in tema di ristrutturazione aziendale, che tale situazione era emersa eclatante ed emblematica, fra vari casi, in occasione di uno sciopero indetto in data 13 gennaio 1998, a seguito del quale l'azienda aveva adottato dei provvedimenti disciplinari e addirittura dei licenziamenti nei confronti di lavoratori che avevano partecipato all'astensione dal lavoro, ha riferito in ordine agli accertamenti da lui eseguiti, a seguito di alcune segnalazioni che imponevano una verifica dei livelli di tutela dei diritti dei lavoratori.

Nell'ambito di tale accertamento, era stata visionata la palazzina cosiddetta " Laf " ("laminatoi a freddo", dal nome dell'ultima destinazione utile avuta), e cioè quella palazzina, priva di specifica destinazione al momento, dove venivano inviati quei dipendenti, soprattutto impiegati di settimo e ottavo livello, che non avevano accettato la modifica in senso peggiorativo delle mansioni loro spettanti, proposta dall'azienda nell'ambito di una prospettata (ma mai documentata) riorganizzazione dell'attività produttiva. Nel corso del sopralluogo, aveva constatato che i lavoratori erano sistemati in ambienti angusti, disadorni, privi di suppellettili e arredamento sufficiente, privi di servizi igienici adeguati in relazione al numero delle persone ivi allocate, con le finestre delle stanze nelle quali l'ambiente si sviluppava, partendo da un corridoio centrale, prive di idonei infissi che non bloccavano l'ingresso dell'aria dall'esterno, a volte prive di vetri e maniglie funzionanti, nella quale i dipendenti non disponevano della possibilità di sedersi tutti quanti per carenza di sedie, venivano lasciati tutti il giorno senza fare nulla e disponevano di un telefono al piano terra, abilitato a chiamare e non a ricevere. I lavoratori da destinare e poi effettivamente destinati alla Laf, una settantina dei quali erano stati da lui sentiti e che avevano mostrato un notevole stato di prostrazione, un grosso desiderio di sfogarsi, erano stati individuati per il tramite degli addetti al personale, secondo criteri evanescenti, che, comunque, non aveva avuto la possibilità di verificare.

Riferiva che, nell'ambito di tale clima di conflittualità, il datore di lavoro poneva in essere "degli atteggiamenti, delle iniziative per convincere i lavoratori ad accettare" un mutamento delle loro mansioni, con declassamelo a quelle di operaio e, precisamente, nei confronti di quei "lavoratori che riteneva in esubero, rispetto alle esigenze produttive, venivano usati strani strumenti di persuasione per cui, a mezzo dei preposti, si invitavano i lavoratori a revocare l'iscrizione al sindacato, a non partecipare agli scioperi, prospettando loro il timore di un cambio della "postazione lavorativa", di un allontanamento dal proprio posto di lavoro" (quanto ai "consigli" dell'azienda, in sede di deposizione delle parti lese, sarà sufficiente ricordare le dichiarazioni del teste a discarico Colucci, il quale ha detto che certamente non vietava ai lavoratori di fare sciopero, ma che li informava di quella che era sul punto "la posizione aziendale"; o del teste a discarico Nasole, il quale ha detto che il Ca., dirigente del Sia, aveva tenuto una riunione con tutti i dipendenti per chiarire quale fosse l'orientamento dell'azienda in tema di scioperi, di libertà sindacali, di orari di lavoro, o del teste a discarico Bottiglia, che non ha trovato meglio da dire, nel giustificare la sua rinuncia alla funzione di rappresentante sindacale, ricoperta per 22 anni, se non che la posizione del sindacalista era antitetica rispetto agli "scopi aziendali" e che un dipendente fedele dovrebbe tenere in cura solo tali ultimi, testimoniando, così, una assoluta ignoranza sull'intima essenza della funzione di un sindacato e di un sindacalista e sulla loro stessa ragione di esistere).

In occasione dell'accesso alla palazzina, operato insieme ai pubblici ministeri, aveva poi constatato, rispetto ai suoi primi accessi, che la situazione era cambiata, erano stati sistemati alcuni infissi, erano state tinteggiate le pareti ed erano state aggiunte delle scrivanie.

Quanto ai ruoli degli imputati, da lui tutti identificati, il teste riferiva di averli appresi sia dalle testimonianze delle parti lese, sia dalla lettura dell'organigramma aziendale, specificando che Ri.E. era il presidente del consiglio di amministrazione della Ilva s.p.a. proprietaria dello stabilimento, Ri.C. l'amministratore unico, Ca.L. il direttore dello stabilimento; che l'azienda era divisa in tre aree (servizi, laminazione, fusione) con un ufficio personale autonomo, con a capo un singolo responsabile, individuato per ciascuna area rispettivamente in B.A., Ga.A. e Bi.I.; che Gr.A. era stato individuato come responsabile dei dipendenti posti nella palazzina Laf ed era colui il quale aveva regolari colloqui con tali dipendenti, al fine di verificare l'eventuale sopraggiungere della loro volontà di aderire alla modifica delle condizioni del contratto, con riferimento al declassamento delle mansioni; che Ca.A. era responsabile del servizio del Sia (servizi informativi aziendali).

Da ulteriori accertamenti era emerso che all'ILVA lavoravano circa 1.500/2000 impiegati e circa 8.000 operai; che a fronte degli esuberi dichiarati dall'azienda vi erano state numerose assunzioni di giovani col contratto di formazione e lavoro (circa 1.200, delle quali almeno una settantina non erano stati ammesse perché illegittime per vari motivi), oppure assunzioni a tempo determinato di persone prese dalle liste di mobilità, con annessi vantaggi di natura contributiva, che tuttora erano in corso nuove assunzioni di operai; che in quel periodo non era stata fatta richiesta di ammissione alla Cassa integrazione; che a seguito dell'acquisto dello stabilimento da parte della nuova società e degli impegni presi innanzi al Ministero dell'Industria e alle organizzazioni sindacali, la stessa si era impegnata ad assumere i dipendenti di alcune ditte consociate (Sidermontaggi, Gescom ed Icrot); che alcuni di tali dipendenti, già aventi funzioni impiegatizie, avevano accettato la novazione del rapporto di lavoro con passaggio alla qualifica di operaio, previa sua formalizzazione presso la competente commissione, composta anche da sindacalisti, della Direzione provinciale del lavoro.

II teste Severini, ispettore del lavoro, ribadiva le stesse circostanze riferite dal teste Monaco quanto alla struttura della palazzina Laf (salvo a dire che il telefono poteva solo ricevere e non fare telefonate); riferiva che aveva visto la palazzina la prima volta in occasione dell'ispezione operata con i pubblici ministeri, che aveva eseguito alcuni accertamenti in ordine alla recente, rispetto all'ispezione, esecuzione di alcuni lavori, con acquisizione di alcuni documenti (bolla commessa di lavoro), apprendendo altresì che giorni prima erano stati i lavoratori a sollecitare alcuni lavori di manutenzione; che, nell'ambito delle verifiche in tema di organigramma, aveva appreso che il direttore di stabilimento aveva ampie facoltà gestionali, che si fermavano di fronte alla necessità di decidere investimenti migliorativi.

II teste Galiano, segretario generale della l1ILM di Taranto, riferiva che nel periodo dei fatti oggetto di contestazione i rapporti fra azienda e sindacato erano praticamente inesistenti, in quanto si stava tentando di esautorare totalmente i sindacati, lasciandoli fuori da qualsiasi attività, ivi compresa quella della decisione in ordine all'uso migliore delle risorse; che aveva saputo direttamente dagli interessati la vicenda che li aveva visti trasferiti alla palazzina Laf (da lui mai visitata), per non aver accettato la novazione in peius del contratto di lavoro; che erano stati chiesti invano dei chiarimenti ai responsabili dello stabilimento (B., Ga.); che delle difficoltà esistenti in azienda erano state informate anche alte cariche istituzionali, come la commissione Smuraglia del Senato; che i dipendenti interessati gli avevano manifestato il loro stato d'animo, la loro paura (da intendere nel senso di non essere in grado di frenare l'iniziativa promossa dall'azienda nei loro confronti), la loro "crisi straordinaria", in quanto "affossati" dal punto di vista professionale, non piú utilizzati dopo aver sempre dato il loro contributo all'impresa, mai informati del perché fosse stato loro riservato tale trattamento, con le conseguenze che ne erano derivate di vera e propria "difficoltà psicologica e relazionale che riguardava anche i rapporti familiari", questa "caduta psicologica del proprio essere dal punto di vista della dignità del lavoratore".

Nella prosecuzione della sua deposizione, insisteva molto sul regime conflittuale esistente all'interno dell'azienda nei primi anni dopo l'avvento della proprietà privata; sulla necessità da parte sindacale di ricorrere alle procedure ex art. 28 (sono stati acquisiti due decreti ex art. 28 emessi rispettivamente in data 20 marzo e 22 luglio 1998, dal Pretore di Taranto, con i quali veniva dichiarata I'antisindacalità del datore di lavoro, manifestatasi in occasione dello sciopero del 13.1.1998 - cui già il teste Monaco aveva fatto riferimento -, concretatasi nell'adozione di licenziamenti disciplinari e in sanzioni conservative inflitte a numerosi rappresentanti sindacali); sul fatto che i sindacati venissero tenuti fuori da ogni questione, ivi compresa quella della Laf; sulla diminuzione degli iscritti al sindacato imputabile non tanto a scelte personali quanto a "scelte indotte" nel senso che gli operai venivano invitati a ritirare le iscrizioni al sindacato; sul fatto che la palazzina Laf era diventata un esempio per gli altri, un monito, "una cassa di risonanza straordinaria", una rappresentazione visiva delle conseguenze cui si poteva andare incontro; sul fatto che la forzata assenza dei sindacati dalle scelte decisionali dell'azienda aveva fatto loro perdere credibilità agli occhi dei lavoratori, sul fatto che molti dipendenti avevano accettato la proposta di novazione del cui contenuto, però, non poteva dire nulla in quanto i sindacati non erano stati chiamati a rinegoziare tali rapporti.

Il teste dichiarava che "tutto il nostro peregrinare in tutti questi anni di negatività di rapporto" era stato causato dal fatto che "non c'era la presentazione del piano industriale, non c'era la presentazione dell'assetto organizzativo, non c'era la negoziazione con le Rsu di questa materia".

Inoltre riferiva che, secondo l'accordo fatto al Ministero del Lavoro, l'Ilva s.p.a. avrebbe dovuto assumere direttamente tutti gli impiegati di tre società collegate, la Icrot, Gescom e Sidermontaggi, entro determinate date e mantenere il medesimo livello occupazionale per tre anni; che tali assunzioni non erano avvenute e che per tale motivo erano stati presentati dei ricorsi al giudice del lavoro tutti quanti vinti; che alcuni dei dipendenti di tali società erano poi passati direttamente alla Laf, senza ricoprire mai un posto effettivo all'interno dell Ilva.

A proposito del prospettato, seppure in via informale, processo di ricollocamento dei lavoratori destinati alla palazzina Laf in altri settori negava che lo stesso vi fosse mai stato, specificando che tali lavoratori erano poi finiti insieme ad altri 700 lavoratori nelle liste della cassa integrazione chiesta dall'azienda nel novembre del 1999.

Con riferimento agli accordi firmati fra i sindacati e Ilva nell'ottobre e novembre del 1999 (acquisiti agli atti e nei quali veniva sancita definitivamente la già avvenuta ristrutturazione e veniva dato avvio alla Cassa Integrazione Straordinaria), nei quali si chiarivano gli aspetti relativi alla riorganizzazione aziendale e con i quali era stato superato il tentativo dell'azienda portato avanti sino ad allora "di individualizzare il rapporto, tagliando fuori le organizzazioni sindacali e la tutela dei rapporti di rappresentanza", negava che si fosse mai parlato di 700 esuberi, chiarendo che il problema relativo a questi dipendenti, ivi compresi quelli della Laf, era di riqualificazione e successivo ricollocamento, con la previsione di corsi di riqualificazione professionale e di novazione del contratto, cosa già successa per vari dipendenti con l'ausilio delle organizzazioni sindacali e innanzi all'ufficio provinciale del lavoro.

Dalle deposizioni delle parti lese si evinceva che alcuni dei lavoratori inviati alla palazzina Laf erano già dipendenti dell'Ilva mentre altri erano dipendenti delle tre società Gescom, Icrot e Sidermontaggi, i cui dipendenti, come già detto, avrebbero dovuto essere assunti dall'Ilva, secondo gli accordi presi a livello ministeriale al momento del passaggio della proprietà dalla mano pubblica a quella privata e si videro costretti ad adire il giudice del lavoro per essere effettivamente assunti, che quasi tutti i lavoratori erano impiegati con qualifiche elevate (VII ed VIII livello), che fra essi vi erano anche alcuni laureati (di cui uno, per es., già assegnato all'ufficio legale); che quasi a tutti era stata prospettata la necessità di una nuova collocazione all'interno dell'azienda, essendosi manifestata carenza di qualifiche impiegatizie e la necessità di qualifiche operaie, sicché a tutti era stata fatta la proposta di novazione del contratto, con passaggio dalla qualifica di impiegato di settimo od ottavo livello alla qualifica di operaio di terzo livello, con la promessa di mantenere intatto il livello retributivo e che a seguito del rifiuto opposto a tale proposta erano stati mandati alla palazzina Laf, alle dipendenze del Gr. (solo il caso del P. si differenzia leggermente, in quanto allo stesso, prima della novazione, era stato "richiesto" dal suo preposto Ca., di ritirare le cause in piedi con l’Ilva - ed in questi termini era stata costruita la contestazione in relazione alla sua posizione ).

Il Gr., la cui posizione era effettivamente risultata quella indicata in contestazione, cioè di responsabile della gestione del personale della palazzina Laf, era colui il quale ciclicamente si recava all'interno della palazzina, usufruiva di una stanza della stessa (entrando nel corridoio la prima a destra), ove faceva entrare uno alla volta i singoli dipendenti, con i quali aveva un identico colloquio, a porte chiuse, volto a verificare se gli stessi avessero cambiato idea e fossero disposti ad accettare la novazione. Quasi tutte le parti lese descrivevano tale momento del colloquio col Gr. come un momento drammatico, che metteva loro ansia, nel quale il preposto si comportava da "dittatore", da "guappo", da "superuomo", finendo col ribadire sempre la medesima proposta, priva di qualsiasi riferimento a quella che sarebbe stata la concreta mansione da svolgere, ove avessero accettato, e finendo con l'apparire tale rituale una vera e propria "pagliacciata". Alcuni testi avevano inoltre riferito che, in occasione del colloquio, a seguito del quale erano stati inviati alla palazzina Laf, era stata prospettata loro la condizione di esubero maturata a seguito del processo di riorganizzazione e ristrutturazione cui l'azienda stava procedendo nello stabilimento di Taranto; così come avevano sostanzialmente detto, anche quando in precedenza avevano affermato che il loro posto era stato preso da altro impiegato, che, di fatto, i rispettivi reparti di provenienza avevano visto ridurre il numero degli impiegati, dovendo pertanto interpretarsi la loro precedente affermazione nel senso che il loro posto era stato assorbito da altri colleghi e inglobato nell'attività di questi ultimi. Era emerso, altresì, che il periodo di permanenza alla palazzina Laf era variato da persona a persona andando da un massimo di circa un anno ad un minimo di pochi giorni; che all'interno della Laf non era previsto lo svolgimento di alcuna attività lavorativa, in quanto i lavoratori erano tenuti soltanto a timbrare il cartellino, a rispettare l'orario di lavoro, dovendo trascorrere l'intera giornata senza poter fare nulla, anche per l'assenza, all'interno della palazzina, del benché minimo supporto idoneo a svolgere la benché minima attività lavorativa. 5i apprendeva poi che ai lavoratori era stata data la possibilità, riportata in una lettera (datata 6/7 luglio 1998 quella ricevuta da chi a quella data era già in palazzina Laf, con data successiva, invece, per chi era entrato alla Laf dopo il 7 luglio 1998), acquisita agli atti, e inviata a ciascuno di essi, di rimanere a casa; che, infine, a tutti era stata poi data un'altra lettera (nella quale si leggeva quella che qualificava la Laf come il posto "ove è ubicata la sua postazione di lavoro") con la disposizione precisa di rimanere a casa, a seguito del sequestro della palazzina Laf eseguito dal Pubblico Ministero procedente. In tale ultima occasione, poi, era emerso che vi era stata una vibrata protesta da parte di numerosi inviati alla Laf, ai quali era stato fatto divieto di entrare in stabilimento, tesa a manifestare la loro volontà di entrarvi comunque, ma ai quali detto ingresso era stato impedito.

All'interno della palazzina Laf i rapporti fra i dipendenti (li vedevi come "ebeti", era stato detto) viaggiavano sempre a confine fra la solidarietà e la litigiosità più banale ed esasperata, bastava un niente per provocare inutili litigi fra gli stessi, si era soliti assistere a manifestazioni di evidente disagio psicologico come di chi, arrivata una certa ora del pomeriggio, urlava a squarciagola, di chi passeggiava avanti e indietro a contare i mattoni per terra o i buchi nei muri, di chi sbatteva le sedie per terra o tirava calci ai muri, di chi faceva ginnastica, giocava a carte, o dormiva, di chi fissava le tapparelle e le finestre rotte, di chi guardava nel vuoto, di chi camminava avanti ed indietro con la testa in giù senza guardare nessuno in faccia, di chi era pronto a dire a chi arrivava alla Laf che egli si trovava li per sbaglio, che stava per uscire, che gli avevano assicurato che sarebbe rimasto ancora per poco, a testimonianza di un evidente ed incontrollabile disagio, di una voglia di distinguersi, di apparire come estraneo ad una situazione che si era consapevoli fosse di estrema umiliazione. Per non accennare all'episodio dello Sp. che, arrampicatosi sopra una gru sita nei pressi della palazzina Laf, per non chiari motivi e cioè se colto realmente da un istinto suicida oppure più semplicemente dal desiderio di compiere un atto dimostrativo, di sfogo infantile contro l'oppressione che stava vivendo.

Dal punto di vista economico era poi emerso che quasi tutti i dipendenti inviati alla Laf avevano subito una decurtazione dello stipendio, non solo perché era per loro impossibile percepire quelle voci aggiuntive, collegate alla effettiva presenza in stabilimento e all'effettivo esercizio dell'attività lavorativa (straordinari, turni, premi di produttività ecc), ma anche perché, secondo quelle che erano delle classificazioni interne, che consentivano delle maggiorazioni di stipendio per i più efficienti, coloro che avevano il coefficiente C erano stati retrocessi al coefficiente più basso A.

Dalle deposizioni dei testi M. e Se., dalle deposizioni di tutti i lavoratori che erano transitati per la palazzina e dalla cassetta video registrata dagli ispettori del lavoro visionata alla pubblica udienza del 28.11.2000, erano inoltre emerse le condizioni della palazzina Laf: era inequivocabile lo squallore, l'inospitalità e lo stato di sostanziale abbandono del posto; e del resto si apprendeva dalla testimonianza dell'ispettore del lavoro Monaco che le sedie e le scrivanie all'interno della palazzina non erano sufficienti per il numero di dipendenti ivi allocati; che alcune finestre non erano funzionanti; che le prese elettriche non erano a norma; che i servizi igienici erano insufficienti, in relazione al numero delle persone che dovevano utilizzarli; che gli ambienti erano assolutamente disadorni.

E che la asserita idoneità dei locali non fosse in realtà tale, lo riconoscevano implicitamente persino alcuni degli imputati: Gr. per tutti, accertato che, sia in occasione della visita della commissione del Senato e sia in occasione dell'ispezione giudiziale, erano state date disposizioni per integrare il numero delle sedie e delle scrivanie, per tinteggiare le pareti, per sostituire delle luci, per sistemare gli infissi ecc.

Le vicende descritte dalla numerose parti lese erano pressoché identiche, diversificandosi per varianti di natura strettamente soggettiva e per talune situazioni di partenza, concernenti, in via preponderante, la causa iniziale scatenante del "trattamento" loro riservato.

Si può riportare, a mò di esempio, quella della prima e più emblematica delle parti lese esaminate, Mo.G.. Questi, ex dipendente della Sidermontaggi, secondo l'esposizione del primo Giudice, rendeva con chiarezza il modello tipico di svolgimento degli eventi, alcuni meccanismi psicologici instauratisi fra il datore di lavoro e i lavoratori, il crearsi di un determinato disagio psicologico in questi ultimi (la paura di perdere il. posto, l'assenza di motivazioni che potessero giustificare i fatti, la sensazione del non essere riusciti a costruire nulla ecc, la perdita di fiducia in sé stessi, il venir meno della consapevolezza della propria professionalità, il senso di inutilità, la sopraggiunta difficoltà anche nei rapporti familiari). Riferiva che era stato messo in mobilità dalla sua precedente società datrice di lavoro, a seguito di accordi presi innanzi al Ministero del Lavoro che prevedevano la sua riassunzione all'Ilva come impiegato di quarta e non settima categoria al 31.12.1997; che a quella data non era stato riassunto; che era stato riassunto solo in data 11 febbraio 1998, in forza di un'azione legale intrapresa insieme al sindacato, che era stato subito mandato alla Laf, in attesa di una giusta collocazione lavorativa, come gli era stato detto dal Gr., responsabile della palazzina Laf, che non c'era mai stato un colloquio per verificare le sue attitudini professionali, che gli veniva sempre detto che non c'era bisogno di impiegati, che avrebbe dovuto accettare la novazione del contratto e che, non avendolo fatto, era rimasto all'interno della palazzina sino alla fine e cioè sino al momento del sequestro della stessa. Chiariva che all'inizio gli era stato detto che sarebbe rimasto alla palazzina per una decina di giorni, ma che, subito dopo, vedendo trascorrere invano il tempo e vedendo giungere altri dipendenti, anche dell'Ilva, aveva cominciato a capire che non vi era alcuna speranza di uscirne, ricevendo conferma di tale sua impressione quando aveva avuto un colloquio con il Gr., il quale gli aveva ribadito che o accettava di fare operaio, o per lui non c'era sbocco ulteriore. Aveva cominciato così a temere per la sua posizione professionale, lui che aveva fatto l'assistente tecnico ai montaggi per 24 anni di lavoro su tutti i tipi di impianti, che era conosciuto come lavoratore di grande esperienza, aveva chiesto almeno, in caso di accettazione della proposta di novazione, mansioni adeguate alla sua professionalità, ma gli era stato detto che vi era posto solo alle pulizie civili ed industriali. Non aveva nemmeno chiesto quale sarebbe stato il suo nuovo eventuale stipendio, che presumeva sarebbe stato lo stesso come stipendio base, pur prevedendo che, col tempo, avrebbe perso le maggiorazioni collegate ai premi di produttività, in quanto ciò che gli interessava era soprattutto la sua vita lavorativa, ciò che temeva era il tornare indietro di quasi trenta anni. Specificava che, nel corso della sua permanenza alla Laf, era stato sempre il Gr. a presentarsi, a chiamare ciascuno dei dipendenti da soli, a parte, e a riproporre la novazione, tranne una volta, quando erano entrati in quattro, e avevano ricevuto la proposta di mobilità lunga sino alla pensione, da valutare "con attenzione", in quanto loro avevano oramai "una certa età" e "non avevano più sviluppi" (provocandogli queste parole uno stato di malessere sfociato poi in tre giorni di malattia). Quanto alle modalità e ai contenuti del colloquio, il Gr. diceva che non c'era posto come impiegati e che nella ristrutturazione aziendale l'unica alternativa era quella di accettare la novazione del con tratto.

Gli era stato anche detto della possibilità di rimanere a casa ma, paradossalmente, quella proposta, aveva rappresentato per lui il colpo di grazia, aveva segnato l'inizio dei suoi problemi psicologici, non riuscendo ad accettare l'idea che lui, considerato ottimo dipendente, dalle capacità lavorative specifiche, doveva sentirsi dire che era un vagabondo, che non sapeva fare nulla. Il suo stato di sofferenza era acuito dal fatto che alla Laf non si faceva niente dalla mattina alla sera, si stava seduti dietro una scrivania a leggere il giornale, si passeggiava e basta, si timbrava regolarmente il cartellino (una volta era stato pure richiamato per aver timbrato pochi minuti dopo l'orario stabilito), negli uffici non c'era niente, un lungo corridoio usato per passeggiare, con stanze l'una di fronte all'altra. In una occasione, nella quale era sceso per salutare un suo vecchio collega, che stava lavorando ad un impianto sito nei pressi della palazzina Laf, era stato informato dagli altri colleghi che non ci si poteva allontanare, essendoci ordini tassativi in tal senso, come aveva verificato in seguito, quando aveva notato la presenza di alcune autovetture che esercitavano una sorta di sorveglianza.

In relazione allo stato nel quale si trovavano gli altri destinati alla Laf, ricordava di aver assistito ad episodi di crisi di nervi sempre più numerosi, di persone che pian piano diventavano diffidenti, si isolavano, non capiva come mai gente di un certo livello arrivava a litigare per niente, visto che oggetto del litigio erano sempre sciocchezze. Ma il pensiero che lo tormentava e lo ossessionava era quello di chiedersi il perché, dopo tanti anni di sacrifici, lui si trovava in quel posto, era il rendersi conto che stava perdendo il posto di lavoro, cosa poi effettivamente accaduta. Infatti aveva finito col beneficiare della legge sull'amianto, con l'andare in pensione prima, ma pagando il prezzo di una pensione modesta rispetto agli sforzi che aveva fatto nella sua vita lavorativa e rispetto a quella che sarebbe stata, ove avesse continuato a lavorare, aveva finito col fare il pensionato a 52 anni. Quanto alle conseguenze sulla sua persona di tali eventi, ribadiva di aver avuto problemi di salute, specificando di essere andato da un neurologo e di essersi fatto visitare, di aver appreso di essere in uno stato di crisi depressiva, di aver seguito una cura farmacologica per due o tre mesi, riferendo che la cosa che più gli aveva fatto male era stato l'atteggiamento di suo figlio, che non aveva più rispetto nei suoi confronti (respingendo i suoi inviti a studiare con la frase "vedi che fine hai fatto, non serve a niente lo studio... "), era stato l'essere diventato intrattabile, dopo aver passato una vita senza mai litigare in famiglia, dicendo che aveva cominciato a riprendersi solo piano piano, dopo la pensione, dopo aver abbandonato e accantonato i pensieri direttamente collegati alla vicenda che aveva subito.

Specificava che alla Sidermontaggi, grossa società che gestiva tutte le commesse di rifacimento degli impianti all'interno dell'Ilva, aveva svolto la mansione di assistente tecnico, coordinando una squadra dai 20 ai 50 operai, nell'ambito di lavori di rifacimento e demolizione di impianti; che, dopo l'assorbimento della Sidermontaggi nell'Ilva, tale tipo di lavori veniva eseguito ancora, che secondo gli accordi presi a livello ministeriale, avrebbero dovuto assumerlo come impiegato di quarto livello, previo corso di riqualificazione, che non aveva mai svolto tale attività, che nessuno aveva mai esaminato la sua professionalità, che l'unica cosa che gli era stata chiesta era quella di procedere alla novazione, che prima ancora di essere assorbito all’ILVA gli era stata proposta l'attività di operaio alle pulizie civili ed industriali (cioè tenere in ordine le aiuole, gli spogliatoi, oppure sugli impianti direttamente), in quanto, come poi ripetuto più volte, l'azienda non aveva bisogno di impiegati. Riferiva che era stato dirigente comunale del PCI, consigliere comunale dal 1980 al 1983 a Mesagne, che attualmente era un semplice iscritto che non conosceva le persone dell'Ilva che gli avevano avanzato le varie proposte di novazione tranne Gr., che al momento dell'assunzione aveva ricevuto la lettera di assunzione, nella quale si leggeva che veniva assunto quale addetto all'archivio, in ossequio agli accordi sindacali, ma che di fatto, in attesa di collocazione, era stato inviato alla Laf, presso la quale aveva avuto occasione di avere vari contatti col Gr., circa 5/6, aventi sempre come oggetto quello relativo alla proposta di novazione. Aveva parlato, in sede di sit, dei dipendenti della Laf, come di persone "punite", perché aveva capito che alcuni di essi, fra cui, per es., un laureato in economia e commercio, erano stati inviati alla Laf per aver commesso degli errori o per l'appartenenza al sindacato; non capiva, però, che cosa avesse fatto lui, che aveva semplicemente chiesto il rispetto degli accordi presi a livello ministeriale, e al quale si parlava soltanto di cassa integrazione, di mobilità, di assenza di prospettive.

Riferiva, inoltre, che era stato assunto con un livello retributivo identico a quello che aveva prima, rimasto lo stesso anche alla palazzina Laf, ad eccezione di alcuni premi strettamente connessi all'attività concreta di lavoro, che avrebbe conservato lo stesso livello, anche in caso di novazione del contratto, che nel luglio del 1998 aveva ricevuto una lettera dall'Ilva nella quale gli si prospettava la possibilità di rimanere a casa, continuando a percepire lo stipendio, che attualmente non prestava alcuna attività lavorativa, che aveva avuto delle proposte di lavoro fuori provincia e di non averle accettate per motivi familiari. Dieci dei dodici imputati, ad eccezione cioè di Ri.E. e Ri.C., rendevano spontanee dichiarazioni: una parte di esse, di tenore sostanzialmente identico, aveva come oggetto la valutazione della situazione dell'ILVA al momento dell'acquisizione da parte del gruppo Ri. e quella, opposta, che era diventata nei primi anni di gestione dello stabilimento, mentre un'altra parte aveva avuto lo scopo di illustrare i rapporti tra i singoli imputati e le parti lese.

Tra l'altro, il Gr. riferiva che la palazzina Laf era stato un luogo individuato dai responsabili del personale "per far sostare provvisoriamente in attesa di una collocazione il personale in esubero, tutto qui" e in relazione alle vicende specifiche delle singole parti offese, con le quali ciascuno degl'imputati aveva avuto a che fare, dopo aver riferito delle circostanze che avevano portato alla dichiarazione di esubero e ai tentativi eseguiti alla ricerca di un loro ricollocamento, gl'imputati negavano di aver mai avuto colloqui dal tono minaccioso ed intimidatorio essendo stati al contrario improntati alla massima correttezza e comprensione oltre che alla completa spiegazione di quanto stava accadendo.

Le deposizioni dei non pochi testi addotti dagl'imputati valevano a ribadire, da un lato, che gli esuberi ai quali era stata trovata una sistemazione provvisoria logistica nella palazzina Laf, senza alcun intento minaccioso e coercitivo rispetto alla novazione -mera propostaerano emersi nel corso di una ristrutturazione e riorganizzazione aziendale, sviluppatasi con forza dal passaggio in mano privata dell'ILVA; dall'altro, che l'individuazione di detti esuberi era avvenuta secondo criteri che tenevano conto della professionalità dei dipendenti e delle finalità dell'azienda, senza alcuna funzione di indiretta sanzione disciplinare o di eliminazione di dipendenti invisi all'azienda.

Il primo Giudice ricordava quindi, sulla scorta di quanto emerso dalla varia documentazione acquisita agli atti e dalle stesse memorie degli imputati, che lo stabilimento di Taranto dell’Ilva s.p.a. era diventato di proprietà privata nel maggio del 1995; che secondo precisi accordi presi a livello ministeriale al momento del passaggio di proprietà, la nuova proprietà si era impegnata a mantenere un certo livello occupazionale, impegnandosi altresì ad assorbire il personale delle tre società collegate predette; che i rapporti con i lavoratori e con i sindacati si erano rivelati subito difficili, tanto da giungere ad una vera e propria rottura delle relazioni sindacali, provocando un massiccio ricorso all'autorità giudiziaria del lavoro (numerose erano state le procedure avviate, e risolte con esiti di varia natura, ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori); che non tutti gli impegni presi dalla nuova proprietà erano stati mantenuti (come si evinceva per es. dal la necessità dei dipendenti delle tre consociate di adire il giudice del lavoro per costringere l’Ilva ad assumerli, nel rispetto degli impegni presi); che la situazione di conflittualità esasperata aveva spinto i sindacati ad interessare direttamente le istituzioni, al fine di evidenziare la situazione che si era venuta a creare all'interno dello stabilimento, non solo con riferimento al caso della palazzina Laf; che, infatti, vi era stata una ispezione da parte della commissione lavoro del Senato della Repubblica, conclusasi con una pesante denuncia della situazione lavorativa all'interno dell' Ilva e con una 'forte condanna politica e morale" per il comportamento dell'azienda a proposito della creazione della palazzina Laf, ove veniva lesa la libertà e la dignità dei lavoratori, secondo una logica ed una pratica "da tempo respinta dalla cultura e dalla moderna civiltà del lavoro" (brani testualmente ripresi dalla relazione conclusiva dei lavori della commissione). Nello schema di documento conclusivo dell'indagine conoscitiva portata avanti dalla Commissione, si era parlato del "conflitto plateale, anomalo, abnorme" fra sindacato e proprietà fra i quali le relazioni sindacali "praticamente non esistono", si era evidenziato l'uso "disinvolto se non distorto delle proprie prerogative" da parte del gruppo Ri., la seria difficoltà del sindacato nel far valere le proprie ragioni, l'eccessivo ricorso "ai superiori interessi aziendali" per giustificare ogni comportamento, magari anche lo spostamento di 50/60 persone alle pulizie civili, si era giudicato inaccettabile che la logica legittima del riordino aziendale fosse sconfinata "nell'esercizio arbitrario del potere e nella compressione dei diritti dei lavoratori", indirizzatasi anche nell'esercitare pressioni, affinché circa duecento impiegati accettassero "volontariamente" la qualifica di operaio. E proprio quale strumento di persuasione emblematico, quale "esempio plateale di una situazione assolutamente inaccettabile perché lesiva dei diritti e della dignità dei lavoratori", veniva portato quello della palazzina Laf, ove erano "ospitati" quegli impiegati che non si erano "piegati alle pretese aziendali", condannati "alla più assoluta inattività", condividendosi sul punto la valutazione operata già dalla Direzione provinciale del lavoro di Taranto, secondo la quale ci si trovava di fronte ad una minaccia di dequalificare il lavoratore, mettendo a rischio la sua salute psico-fisica e mortificando la sua dignità di uomo.

Conveniva con la tesi, sostenuta da alcuni difensori di parte civile, circa l'atteggiamento di sostanziale inadempienza dell'Ilva s.p.a. rispetto agli impegni presi innanzi al Ministro del Lavoro, in sede di acquisizione dello stabilimento, sino ad allora di proprietà pubblica, e sottoscritti dal gruppo Ri., con una evidente, e confessata in dibattimento, riserva mentale, che lasciava trasparire le reali intenzioni del nuovo gruppo dirigente ed il suo davvero scarso senso della legalità, concetto pur sbandierato dalla difesa degli imputati, ma non certo in maniera coerente, ed apprezzava come pienamente attendibili tutti i testi d'accusa e provati i fatti, non smentiti dai testi a discarico o dagl'imputati (che avevano insistito su un'interpretazione dei fatti del tutto estranea al diritto penale) escludendo altresì, per la molteplicità dei riscontri ed univocità degli elementi emersi a sostegno dell'accusa, qualsiasi intento calunniatorio delle parti offese.

Inoltre si analizzava il presupposto fondamentale dell'imputazione e cioè la natura del rapporto di lavoro subordinato quale delineato dalla nostra Carta Costituzionale e le disposizioni normative più significative nel caso in questione ed in particolare l'art. 2103 c.c, in relazione all'immodificabilità delle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto e con il supporto della comune interpretazione circa la presenza e protezione sindacale in casi consimili. Ciò al fine di verificare anzitutto la serietà dei presupposti prospettati dal datore di lavoro e poi l'effettiva sussistenza della volontà del lavoratore di accettare mansioni inferiori, nonché l'art. 4, co. 11° della L. 223/1991 che ha previsto la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni diverse, ed anche peggiorative, solo in presenza di accordi sindacali presi nel corso di procedure regolate dalla legge medesima concernenti la previsione del riassorbimento di lavoratori ritenuti in esubero.

Concludeva che la condotta tenuta dal datore di lavoro nell'assegnare le parti lese alla palazzina Laf, senza far svolgere alcuna attività lavorativa, non poteva ritenersi in linea con i principi del nostro ordinamento che, nell'ottica della cd. costituzionalizzazione del diritto del lavoro, tutela i valori della libertà, dignità e sicurezza umana del prestatore di lavoro e che nel caso in esame, il tentativo di procedere al declassamento professionale degl'inviati alla palazzina Laf, era sfociato nel campo dell'illiceità penale, provocando ingiusto danno ai lavoratori.

Riscontrava, oltre all'illegittimità della condotta e alla sua finalizzazione alla creazione di un danno ingiusto, il carattere, quanto meno, minaccioso della condotta, che anzi si potevano ravvisare gli estremi della "vis compulsiva” che ricorre allorché la persona offesa viene spinta ad un determinato comportamento, sotto la pressione di un male attuale (l'effettivo invio alla palazzina Laf) producendo nel soggetto passivo quel perturbamento psichico che lo spinga a temere quell'azione (la novazione del contratto) che altrimenti non avrebbe temuto. In ogni caso la condotta degl'imputati valeva ad integrare dapprima gli estremi della mera minaccia e poi quelli della coazione relativa idonea a configurare quella lesione alla libertà di autodeterminazione delle vittime del reato.

Veniva individuata la minaccia penalmente rilevante non tanto nell'invio provvisorio alla palazzina Laf, in quanto questa andava vista in sé e per sé ma come strumento di un più ampio progetto di chiarissimo significato: o ci si piegava alle unilaterali volontà dell'azienda, non verificate e non verificabili al momento dei fatti da altri che non fossero i vertici aziendali, con l'esclusione voluta dei sindacati e pertanto si accettava di fare l'operaio; oppure si restava fuori da ogni possibilità di lavoro, con conseguente espulsione traumatica dal mondo lavorativo.

Quindi la minaccia consisteva nella prospettazione ai lavoratori predestinati (non preavvertiti dell'esistenza di una ristrutturazione aziendale) di un vicolo cieco nel quale si era ormai finiti e dal quale si poteva uscire solo sottoponendosi alla volontà aziendale (male ingiusto).

Pertanto il reato si era configurato già al momento del primo colloquio avuto con gl'imputati ovvero, comunque, con l'invio alla palazzina Laf: per non dire dell'angosciante colloquio poi avuto da ciascuna delle parti lese con il Gr. che regolarmente si presentava presso la palazzina per verificare se ciascuno dei relegati avesse accettato la proposta di novazione, a seguito del quale le vittime avevano la definitiva certezza di quanto accaduto e perdevano ogni speranza di ritornare in fabbrica nelle mansioni di impiegato.

L'imputazione come contestata era dunque sufficientemente precisa, con o senza l'esplicita indicazione dell'art. 81 c.p., sotto il profilo della continuazione interna, comunque implicita nella formulazione, e la condotta di ciascun imputato si era inserita come protagonista nel quadro intimidatorio costituito dalla palazzina Laf, avendo rappresentato la prima e determinante minaccia di espulsione dal contesto lavorativo.

Veniva ravvisata, altresì, l'illegittimità del fatto ovvero del comportamento degli imputati, nel senso di non permesso dall'ordinamento, cioè vietato.

E ciò in quanto, in presenza di quella necessità di procedere alla ristrutturazione aziendale e della creazione di esuberi di personale prospettata da tutti gl'imputati, si era deciso in maniera arbitraria ed illegittima di aggirare, anzi di pretermettere, le apposite norme regolanti le ipotesi di ristrutturazione aziendale (cassa integrazione, mobilità, licenziamenti collettivi, etc), poste a garanzia dei lavoratori, procedendo unilateralmente a senso unico, senza confronto sindacale, senza controllo degli organismi pubblici, e riuscendo persino ad evitare il controllo giurisdizionale, che sempre sovrintende al regolare svolgimento delle procedure previste a tal fine.

Quanto al movente della linea comportamentale assunta dall'azienda lo si rinveniva, attraverso gli atti del processo, nello scopo prefissosi dalla medesima di procedere alla ristrutturazione al più presto possibile e al di fuori di qualsiasi procedura formale sia all'allungamento dei tempi sia alla presenza di controlli esterni che si volevano evitare ad ogni costo: in questa logica s'inseriva perfettamente la palazzina Laf, ove gl'impiegati in esubero venivano messi a tacere. Ma questa non era stata ideata allo scopo di spezzare la resistenza di impiegati scomodi per l'azienda, bensì rappresentò un'immorale soluzione poi rivelatasi solo apparente, ad uno dei tanti problemi che la condotta prescelta aveva portato con sé: fu il mezzo per indurre in maniera apparentemente indolore gl'impiegati recalcitranti ad accettare la novazione del rapporto di lavoro.

Si rilevava l'uniformità nelle posizioni dei prescelti: tutti avevano la stessa qualifica, alta, e la stessa età (circa 50 anni) e quindi in posizione di estrema debolezza nei confronti del datore di lavoro, poiché maggiormente era vissuto il dramma dell'autostima, con l'ulteriore caratteristica di esser quasi tutti unici portatori di reddito nel nucleo familiare e tutti avevano avuto nella loro vita lavorativa recente qualcosa che aveva rappresentato un fastidio, sia pur banale, per l'azienda e per il loro superiore diretto e che ne aveva minato il giudizio di efficienza.

La palazzina Laf era divenuta nel tempo il segno forte ed incombente della "voce" del datore di lavoro, della forza da lui raggiunta, il segno inequivocabile del destino che spettava a chi si rifiutasse di sottostare ai voleri dell'azienda e testimonianza del cambiamento del "vento". Un vero spauracchio, non giustificato dalle allegazioni difensive secondo cui, una volta venuto meno fisicamente il posto di lavoro, essa rappresentava l'unica soluzione possibile: infatti, dato che comunque veniva erogato lo stipendio, non era spiegabile la mancata utilizzazione della prestazione professionale di quelle poche decine di unità lavorative.

Si ravvisavano gli estremi del tentativo del reato di violenza privata, dal momento che la consumazione di esso si verifica nel momento stesso in cui il soggetto passivo ha compiuto l'azione richiesta dall'autore sotto l'effetto dei mezzi coercitivi e ritenendosi la condotta tenuta dagli imputati, sulla base di quanto illustrato, assolutamente idonea ed adeguata alla commissione del delitto, essendo capace di contribuire alla sua commissione: del resto in parecchi casi la strategia aziendale aveva funzionato ed alcuni dipendenti avevano accettato la novazione del rapporto di lavoro (ad es. Pe. e Al.).

Si ravvisava la ricorrenza dell'elemento psicologico, cioè della consapevolezza degl'imputati di quanto stavano facendo e delle conseguenze che derivavano dalla loro condotta, trattandosi dei massimi vertici aziendali, di persone che avevano cioè in mano le sorti dello stabilimento e dei suoi dipendenti, come, del resto, emergeva dalle stesse dichiarazioni spontanee rese dalle quali si evinceva che la ristrutturazione dello stabilimento, com'era naturale, era partita dall'alto e non dal basso.

I certificati medici per depressione che aveva colpito parecchi inviati alla palazzina Laf, che avevano preso ad assentarsi, valevano quale prova della detta consapevolezza.

E. Ri. aveva ammesso tale piena conoscenza di quanto stesse accadendo nello stabilimento nel corso delle sue prime ed uniche dichiarazioni dinanzi al P.M.: "la destinazione degl'impiegati che ritenevo in esubero venne assunta personalmente da me e venne comunicata all'ufficio personale" nonché nella memoria sottoscritta dal medesimo e nella lettera inviata alla commissione senatoriale nella quale si comunicava che si era deciso di consentire ai dipendenti di rimanere a casa.

Quanto al Ca., direttore dello stabilimento tarantino, il suo nome era stato fatto dal coimputato Bi. il quale aveva riferito che I' input di procedere alla ristrutturazione era stato dato proprio dal Ca.. E il Bi., assieme agli altri coimputati, aveva chiarito che le decisioni erano state prese dai vertici aziendali con il concorso dei responsabili del personale delle tre aree dello stabilimento e che, quindi avevano deciso della gestione degli esuberi della Laf, della soluzione della novazione, ecc. Ciò comportava che della decisione della ristrutturazione dello stabilimento tarantino non potevano non esserne a conoscenza anche i massimi livelli dirigenziali e, con essi, il Ca. (che non si era affatto dissociato affermando di esserne stato pienamente consapevole), come si evinceva dalle deposizioni dei testi De Biase e Candelli ed in particolare da quella del teste 5chiavone il quale, come altri testi a capo di singoli reparti, aveva riferito che, dopo averne ricevuto incarico, aveva proposto al Ca. il suo piano di riorganizzazione del reparto, ricevendo da questo precise disposizioni sul personale in esubero che doveva esser messo a disposizione dell'ufficio personale.

Del resto il Ca. avrebbe dovuto rispondere ai proprietari dell'Ilva della strana situazione per cui decine d'impiegati venivano tenuti a stipendio senza svolgere alcuna attività lavorativa.

Quanto al Gr., B., Ga. e Bi., il primo, autore materiale di parecchi invii alla palazzina Laf e responsabile di detta struttura, era stato protagonista dei successivi colloqui avuti all'interni della palazzina con i vari dipendenti per riproporre loro la novazione e gli altri tre, rispettivamente responsabile del personale e delle tre aree (servizi, laminazione e fusione) in cui è suddiviso lo stabilimento tarantino, avevano come diretto superiore gerarchico il Ca. e come tali direttamente investiti della gestione degli esuberi, come dai medesimi affermato ed emerso dall'istruttoria dibattimentale.

Quanto agli altri imputati, alti dirigenti dello stabilimento (e quindi ben consapevoli del senso della destinazione alla palazzina), ad eccezione di Ri.C., erano stati esplicitamente indicati dalle parti lese come autori materiali dell'invio dei dipendenti alla palazzina Laf; dal contenuto dei colloqui avuti con le parti lese, quali enucleati dalle deposizioni delle stesse, traspariva poi, con tutta evidenza, la consapevolezza dell'intento semi punitivo rappresentato dall'invio alla palazzina. A tanto si aggiungevano le deposizioni dei testi estranei ai fatti, i certificati medici relativi allo stato di prostrazione dei dipendenti inviati presso la palazzina e il comportamento di taluni imputati che avevano tentato per due volte di "rifare il trucco" alla palazzina di cui ben conoscevano lo stato di degrado.

Per Ri.C., che veniva assolto, non era stato possibile ricavare il ruolo formale ricoperto all'interno dell’ILVA s.p.a. o dello stabilimento tarantino, su cui impostare un argomento logico da cui desumere la sua consapevolezza di quanto fosse stato realizzato e al sua piena partecipazione al piano aziendale. Né appariva sufficiente la generica indicazione del teste Monaco che lo aveva qualificato rappresentante legale della società, che, in ragione delle sue dimensioni, aveva un organigramma amministrativo ben sviluppato e definito, con cariche distinte e relativi incombenti di cui non si aveva contezza. Quanto al reato di frode processuale di cui al capo k), il primo Giudice, pur dando per pacifica l'esecuzione di lavori di manutenzione e il coinvolgimento nelle direttive a tal proposito impartite sia del Gr. che degli altri imputati (Ri.E. e Ca.), ne escludeva la sussistenza ritenendo che le attività d'immutazione dei luoghi poste in essere, rapportate all'accertamento dei fatti nel corso del procedimento penale ed in particolare alla contestata imputazione di tentata violenza privata, fossero inidonee a trarre in inganno l'autorità giudiziaria o a generare il pericolo d'inganno tale da implicare il rischio di una diversa interpretazione del fatto.

Avverso tale sentenza interponevano tempestivo appello tutti gl'imputati condannati tramite i rispettivi difensori di fiducia, nonché il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, in relazione solo all'assoluzione di Ri.E., Ri.C., Ca.L. e Gr.A. (erroneamente indicato in dispositivo come Ca.A.) dal reato di cui al capo k) e la parte civile UIL, in persona dei suoi rappresentanti provinciale e regionale, ai soli effetti civili, con richiesta del risarcimento del danno e di una provvisionale, come invocati in prime cure.

Gl'imputati E. Ri., Ca., Ga., B., Gr., Mu., Ir. e Bi. chiedevano preliminarmente l'annullamento dell'ordinanza del 22.12.1999 ammissiva della costituzione di parte civile delle varie persone offese collegate alle rispettive imputazioni loro contestate, riproponendo le eccezioni già prospettate senza successo in prime cure, concernenti l'inosservanza dei requisiti formali previsti dagli artt. 78,100 e 122 c.p.p..

Nel merito, tutti gli appellanti invocavano, in via principale, l'assoluzione dai reati loro rispettivamente ascritti con ogni formula prescritta dalla legge e l'annullamento delle statuizioni civili in favore delle costituite parti civili nei cui confronti era stato riconosciuto il risarcimento del danno e, in via subordinata, la riduzione della pena con la concessione delle attenuanti generiche (il solo Ri. chiedeva il giudizio di prevalenza) nonché, comunque, la riduzione della pena al minimo edittale con la sostituzione con quella pecuniaria ai sensi della L. 689/81, la riduzione delle statuizioni civili nel numero e nella misura avuto riguardo alle peculiarità dei singoli casi, e la concessione del beneficio della non menzione nonché di quello della sospensione condizionale per coloro ai quali era stato negato.

I motivi a sostegno delle impugnazioni sono comuni, per la quasi totalità, a tutti gl'imputati, differenziandosi solo, da un canto, per le censure preliminari e le richieste, come sopra riportate, e, dall'altro, per quel che concerne la posizione soggettiva ed il ruolo avuto da ciascun appellante.

Circa la pretesa condotta di coartazione, censuravano anzitutto l'affermazione del primo Giudice secondo cui la minaccia ai danni dei lavoratori sarebbe derivata non già dalla privazione forzata delle mansioni lavorative conseguente all'assegnazione alla palazzina Laf, bensì dalla circostanza per cui tale destinazione avrebbe costituito il segno di qualcos'altro e cioè della possibilità di una futura possibile espulsione dal mondo del lavoro.

Infatti assumevano che la soluzione della palazzina Laf fu attuata proprio con la finalità diametralmente opposta di non estromettere dal contesto aziendale gl'impiegati, risultati esuberi nel ponderoso processo di ristrutturazione in atto presso lo stabilimento di Taranto all'epoca dei fatti.

Venivano richiamate a tal proposito, le affermazioni contenute nell' impugnata sentenza che riconosceva la reale ristrutturazione o riorganizzazione aziendale con creazione di esuberi, che riguardarono soprattutto le posizioni impiegatizie con incremento della forza operaia nella misura del 34% e la deposizione del teste Candelli.

Si ribadiva che l'azienda non avrebbe avuto ragione di aprire una procedura di mobilità per un numero così esiguo di lavoratori, bensì vi era la prospettiva di un ricollocamento di tali esuberi.

Erano dunque credibili tutti gl'imputati che avevano unanimemente asserito che la palazzina Laf era una soluzione logistica provvisoria in attesa del reperimento di nuove posizioni lavorative nel rispetto della qualifica, in tanto suffragati dalle deposizioni dei testi a discarico ma anche da quelle delle persone offese: ben 24 lavoratori avevano riferito che era stato loro comunicato il carattere temporaneo di tale destinazione, 9 avevano confermato che fu proprio la permanenza nella palazzina a consentire loro di sperare in tale ricollocamento e 13 avevano ammesso l'effettiva attuazione nel loro interesse di svariati tentativi di ricollocamento; 4 impiegati erano stati effettivamente ricollocati nel rispetto della loro qualifica.

Ai lavoratori destinati alla palazzina Laf fu inoltre prospettata la possibilità di esonero dalla presenza in stabilimento, con mantenimento della retribuzione: tale opzione escludeva in radice il reato contestato che secondo la contestazione cessava con il sequestro della palazzina, tanto che nel caso Pillinini, la lavoratrice, dopo la chiusura della palazzina fu esonerata dall' obbligo della presenza con mantenimento dello stipendio, sicché il P.M. chiese ed ottenne l'archiviazione del caso.

Nonostante detta opzione, tutti i lavoratori autonomamente decisero di continuare a presentarsi in stabilimento nella diffusa convinzione che il collocamento a casa avrebbe costituito una pericolosa estromissione dal contesto lavorativo come, tra gli altri, riferito dal teste D.P.. Ed anzi il sequestro della palazzina con la conseguente dispensa della presenza dei lavoratori in stabilimento, poi loro comunicata, scatenò la loro veemente protesta per alcuni giorni: ciò implicava l'assoluta inidoneità del collocamento nella palazzina a configurare una minaccia. A tal proposito perfino la sentenza impugnata finiva con l'ammettere l'effetto deteriore sui lavoratori della chiusura della palazzina.

L'invito a rimanere a casa con la retribuzione fu dapprima formulata verbalmente e poi formalizzata per iscritto solo a seguito di esplicito suggerimento del Presidente della Commissione parlamentare come riferito dal teste De Biasi.

Non si comprendeva come i lavoratori potessero intravedere nella palazzina Laf "l'anticamera del licenziamento", come supposta in sentenza, dal momento che per esperire un'eventuale procedura di mobilità, l'azienda avrebbe dovuto seguire precisi percorsi amministrativi, rispetto ai quali l'esistenza di tale soluzione gestionale era priva di qualunque incidenza.

Quanto alla pretesa illegittimità del fatto, premesso che non esisteva alcuna procedura di legge che disciplini il processo di ristrutturazione che la sentenza impugnata definiva illegittima in quanto assente la procedura stessa, lamentavano gli appellanti di non aver mai sostenuto che il diritto a tale ristrutturazione valesse quale causa di giustificazione delle rispettive condotte. Piuttosto si era sostenuto che la ristrutturazione aveva costituito uno dei presupposti di fatto -dato storico, al pari di altri sottoposti all'attenzione del giudice- dei quali non si era tenuto conto nella valutazione complessiva della rilevanza penale delle loro condotte con riguardo alla loro idoneità ed univocità, rispetto all'accettazione delle novazioni.

Sicché la decisione impugnata finiva per punire sul versante penale condotte la cui eventuale illegittimità trovava sanzione esclusivamente sul versante civilistico: indice non marginale della funzione di torsione della funzione del diritto penale rappresentato dalla struttura della sentenza.

Si ribadiva che, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, non esiste alcuna procedura di legge che disciplini i processi di ristrutturazione globalmente considerati o che imponga il necessario ricorso a taluni strumenti gestionali (come la C.I.G.S. o la mobilità). Era quindi infondato l'addebito mosso dal Tribunale agl'imputati di aver proceduto ad una ristrutturazione illegittima. Ciò era altresì confermato dagli accordi sindacali siglati nell' ottobre-novembre del 1999 in sede ministeriale e locale che valevano ad affermare che l'azienda attuò la propria ristrutturazione secondo criteri razionali e leciti.

Così per quel che riguarda il preteso movente, erroneamente, alla luce delle suddette considerazioni, il primo Giudice lo aveva individuato nello scopo "di procedere alla ristrutturazione dell'azienda il più presto possibile e al di fuori di qualsiasi procedura formale, vista come difficoltà burocratica".

Si replicava, inoltre, a talune affermazioni della sentenza circa la funzione di sanzione disciplinare non codificata attribuita alla soluzione della palazzina Laf, in quanto gli esuberi impiegatizi vennero individuati nominativamente dai singoli dirigenti degli enti che, escussi quali testi, avevano dichiarato di aver informato le proprie scelte al solo criterio della professionalità, né vi era stato alcun accordo in proposito tra gl'imputati e i capi degli enti. Né la palazzina Laf poteva intendersi quale "voce" del padrone, attese le decine di testimonianze dei testi a discarico e la circostanza che numerose parti lese che avevano dichiarato di non aver avuto conoscenza della palazzina in questione fino al momento dell'assegnazione presso di essa e 5 impiegati in esubero avevano rifiutato il ricollocamento nel rispetto della qualifica di appartenenza in epoca successiva ai primi invii alla detta palazzina Laf.

Quanto al tentativo, si ribadiva che la prospettazione del collocamento nella palazzina Laf degl'impiegati risultati in esubero non era concretamente idonea a costringere gli stessi ad accettare la proposta di novazione, rappresentando solo una soluzione logistica e provvisoria: difettava, cioè, l'elemento dell'idoneità della condotta e cadeva l'integrazione del reato di tentata violenza privata.

Infatti a tutti gl'impiegati in esubero era stato offerto di rimanere a casa con il mantenimento del livello retributivo, opzione alla quale aderì solo una minima parte di essi. Non poteva parlarsi di minaccia allorché il male prospettato al soggetto passivo non fosse presentato come dipendente dalla volontà dell'agente, quindi a maggior ragione non poteva esservi minaccia nel caso in cui il soggetto passivo potesse sottrarsi alla situazione con un semplice atto della propria autodeterminazione e senza alcuna conseguenza per sé negativa rispetto a quella in atto.

E tutte le persone offese avevano espresso il proprio diniego a tale opzione dichiarando in sede dibattimentale, in buona sostanza, che il rimanere a casa rappresentava per loro la peggiore alternativa possibile, costituendo la palazzina Laf, comunque, il proprio luogo di lavoro. Né la speranza di tornare a lavorare, come ritenuto in sentenza era connessa solo all'accettazione della novazione del rapporto, attesa la dimostrata ricerca da parte dell'ufficio personale di un ricollocamento di tutti gl'impiegati in esubero nella medesima categoria impiegatizia.

Inoltre le manifestazioni di protesta inscenate dai lavoratori all'indomani della chiusura della palazzina, confermavano l'assenza di effetto intimidatorio della stessa.

Del resto, la proposta di novazione era assolutamente legittima e costruiva uno strumento del tutto normale ed ordinario per la gestioni delle situazioni in esubero, come previsto nell'accordo sindacale del 1994 e poi in quello del 1999 (v. dep. teste De Biasi ud. 8.5.2001, p. 7 e 42 e teste Galiano ud. 28.3.2000 n. 228). Tutte le novazioni erano state effettuate regolarmente dinanzi all'11.P.L.M.0. e nessun lavoratore era addivenuto alla novazione per evitare l'avviamento alla palazzina Laf o a seguito della permanenza in essa. Anzi, era emerso che 120 impiegati delle aziende consociate avevano accettato la proposta di novazione formulata dal Candelli, senza alcun riferimento alla palazzina Laf, altri impiegati avevano accettato la novazione come operai prospettata dai dirigenti degli uffici di provenienza che non parlarono della palazzina Laf ed altri ancora che, dopo avere rifiutato la novazione durante la permanenza alla palazzina Laf, accettarono la novazione alla fine del 1999, cioè dopo un anno dalla chiusura della palazzina: quindi discendeva l'inidoneità della collocazione presso la detta palazzina ad influire sulle decisioni degl'impiegati in ordine alla proposta di novazione.

Inoltre, sebbene lo strumento della novazione avesse in sé automaticamente l'alternativa necessaria e naturale del licenziamento, tale soluzione fu assolutamente esclusa dall'azienda (dep. De Biasi), al pari del collocamento dei lavoratori fuori dell'azienda; nella medesima ottica, cioè, dei lavoratori ivi collocati.

Quindi la palazzina Laf fu concepita dall'ufficio personale quale soluzione provvisoria, di carattere esclusivamente logistico- in attesa di una soluzione che riuscisse gradita ai sindacati e ai lavoratori d in tal modo percepita anche all'esterno e dai lavoratori interessati. In tal senso deponevano le testimonianze dei testi De Biasi, Nardelli e Candelli e da altri dipendenti diversi dalle persone offese (Colucci, Imperiale, Buffo, Izzo, Tomassini, De Geronimo, Monno, Di Pierri, Ferola, Cascone e persino di taluni lavoratori destinati alla palazzina Laf (Perone, Al., Va., Sp., Ca., Lo., Gi., Da., Ad.): per altro verso la collocazione nella palazzina Laf consenti ai lavoratori ivi destinati sia la possibilità di evitare l'adozione nei loro confronti di decisioni peggiorative in ordine alla loro posizione lavorativa, sia quella di tenere in vita l'aspettativa del ricollocamento nella categoria impiegatizia (come a buona parte degli stessi espressamente comunicato al momento dell'invio alla palazzina e poi rinnovato nel corso della permanenza, come dagli stessi riferito : Mo., L.B. e molti altri).

Quindi l'idoneità intimidatoria della destinazione alla palazzina Laf a far accettare la novazione costituisce assunto logicamente, storicamente e giuridicamente incompatibile con la detta funzione di destinazione provvisoria e priva quindi di attitudine offensiva, tanto più che in quel momento storico vi era la concreta possibilità di ricollocamento nella categoria impiegatizia, poiché, a seguito di esodi volontari (prepensionamento, pensionamento e legge amianto), vi era stata una diminuzione del 28% degli impiegati, con conseguenti concrete possibilità di reimpiego di lavoratori collocati presso la palazzina, come appunto avvenne per circa 70 lavoratori in esubero.

Infine taluni lavoratori dichiarati in esubero nei reparti di appartenenza (Za., Mo., Gi., Fi. e Ca.), avevano rifiutato il ricollocamento in altre posizioni, pur con mantenimento della categoria impiegatizia: quindi o la palazzina Laf non costituiva affatto uno "spauracchio" ovvero era conosciuta come luogo di destinazione logistica e temporanea dei lavoratori in esubero. AI di là delle argomentazioni della sentenza sul punto, di certo ne discendeva ulteriormente rafforzata l'inidoneità della destinazione alla palazzina Laf a far accettare la novazione per un qualifica-mansione inferiore.

Circa il requisito dell'univocità degli atti, la sussistenza di un tentativo punibile vi sarebbe stato qualora fosse stato possibile, senza margine di dubbio, ravvisare nella condotta di collocamento del personale presso la palazzina Laf il fine univoco d'indurre i lavoratori interessati ad accettare la proposta di novazione, tenuto conto, aggiungevano gli appellanti, della complessiva situazione dello stabilimento tarantino e dei fenomeni verificatisi tra il 1997 e il 1998.

Ma a tal riguardo la sentenza non era convincente, in quanto mostrava di non condividere l'assunto accusatorio e lasciava intendere che il vero obiettivo perseguito dagli imputati era piuttosto quello di realizzare una massiccia ristrutturazione dell'intero stabilimento "a qualsiasi costo, purché velocemente e quindi senza confronti, senza intoppi burocratici". E che fine unico perseguito dagli appellanti non fosse l'accettazione della novazione, era emerso dalle emergenze dibattimentali che dimostravano come la destinazione alla palazzina Laf, all'epoca dei fatti, costituisse una soluzione necessaria, temporanea e comunque non diretta ad ottenere novazioni.

Ancora, riprendendo prospettazioni già anticipate, si rappresentava che la ristrutturazione nello stabilimento tarantino fu legittima e legittimamente condotta con individuazione dei lavoratori in esubero da parte dei responsabili degli enti sulla base di criteri oggettivi e non discriminatori (dep. Nardelli), con scelte confermate e riscontrate dagli accordi sindacali del 1999. Quindi in tale contesto la collocazione nella palazzina Laf era praticata quale diretta conseguenza della soppressione dei posti di lavoro precedentemente occupati dagl'impiegati risultati in esubero, scelta logistica dettata da circostanze obiettive. Di conseguenza non poteva ritenersi "univocamente" orientata ad indurre i lavoratori interessati alla novazione dei propri rapporti di lavoro.

Né l'azienda aveva alcun reale interesse alle novazioni, non risparmiando alcunché sul trattamento economico (testi Nardelli e Pe.) ed anzi era previsto un incentivo ad personam e il mantenimento dell'anzianità. Ciò rendeva ancor più incomprensibile l'assunto accusatorio per il quale le condotte degl'imputati avrebbero avuto di mira una soluzione che risultava addirittura penalizzante per l'azienda.

La novazione rappresentava un ripiego in termini gestionali per collocare gli esuberi in mancanza di strumenti per la ristrutturazione consentiti solo a seguito di accordi sindacali e l'obiettivo finale era quello di raggiungere un accordo per la riorganizzazione dello stabilimento quale quello poi raggiunto nel 1999.

Anche l'ininterrotta ricerca da parte dell'Ufficio personale di ricollocamento degl'impiegati in esubero nella medesima categoria impiegatizia (depp. De Biasi, Nardelli, Candelli e Buffo ed altri responsabili di enti o reparti) escludeva che la destinazione in palazzina fosse mezzo di coazione della volontà dei dipendenti univocamente diretto a far loro accettare la proposta di novazione. E di ciò in sostanza dava atto persino la sentenza impugnata laddove affermava che scopo principale e non unico dell'invio alla palazzina era quello di fiaccare la resistenza dei lavoratori si da compiere il quadro della ristrutturazione il più velocemente ed autonomamente possibile chiarendo che "la palazzina Laf non era altro che uno degli strumenti usati dall'azienda, illegittimo, per gestire ('esubero di personale, dalla stessa illegittimamente creato, nel tentativo di trovare in maniera illegittima, un nuovo posto di lavoro a tali esuberi: sicché nulla escludeva che, come accaduto, in pochissimi casi alcuni degli inviati alla palazzina Laf potessero essere riutilizzati nella loro mansione".

Ne risultavano quindi due scopi (vincere la resistenza dei lavoratori per ottenere la novazione e gestione degl'impiegati in esubero) che valevano ad escludere la "direzione non equivoca degli atti".

Si ribadiva, infine, che la provvisorietà della soluzione della palazzina Laf era del tutto incompatibile con la sua pretesa univoca finalità d'indurre i lavoratori ad accettare la novazione, essendo anzi indicativa della costante ricerca di una soluzione ad essa alternativa per gl'impiegati in esubero.

Quindi la fattispecie dell'art. 56 c.p. non sussisteva nel caso di specie, difettandone entrambi i requisiti costitutivi.

Quanto all'elemento psicologico e al ruolo avuto dai singoli appellanti, si deduceva, sotto un profilo generale e metodologico, che non emergeva dalle risultanze istruttorie che la palazzina Laf fosse stata consapevolmente e deliberatamente concepita ed utilizzata quale luogo di destinazione degl'impiegati invisi all'azienda, quale strumento idoneo di minaccia e fosse stata univocamente finalizzata al perseguimento dell'obiettivo delle novazioni.

Infatti gl'impiegati erano stati individuati in base a criteri oggettivi e non discriminatori, risultati in esubero nei rispettivi reparti di provenienza, la palazzina fu descritta dagli addetti al servizio personale come soluzione temporanea in attesa di ricollocamento e con l'opzione di rimanere a casa con mantenimento dello stipendio che, essendo inconciliabile con la volontà di limitare la capacità di autodeterminazione dei lavoratori, escludeva la sussistenza dell'elemento psicologico del reato contestato, né vi era, come già detto, alcun interesse aziendale all'adesione alle novazioni, bensì solo ad evitare l'espulsione dallo stabilimento degl'impiegati in esubero in attesa di una loro ricollocazione.

In particolare, in relazione a Ri.E. e Ca.L., si rilevava che la dimostrazione della loro consapevole partecipazione nel contestato reato dipendeva solo dal ruolo rivestito nella struttura societaria dell'ILVA ed in particolare nel processo di ristrutturazione dello stabilimento di Taranto, con un procedimento logico deduttivo azzardato nel ritenere la loro volontà intimidatoria.

Invero, la circostanza che il Ri. e il Ca. fossero a conoscenza del processo di ristrutturazione non poteva implicare sul piano logico e su quello giuridico che fossero altrettanto consapevoli delle concrete modalità adottate dall'Ufficio personale nella gestione diretta di poche decine d'impiegati risultati in esubero e del resto il Ri. aveva già chiarito nella memoria difensiva del 29.7.99 che se a livello strategico le scelte di politica occupazionale e di riorganizzazione della struttura societaria erano state pacificamente di sua competenza, in quanto Presidente della società ILVA, a livello esecutivo la loro attuazione era demandata ai funzionari dei vari servizi del personale che provvidero ad effettuare la scelta dei lavoratori in esubero, essendosi il Ri. limitato ad impartire direttive circa l'esonero dalla prestazione lavorativa e la novazione del rapporto fermi restando i livelli retributivi, come confermato dai coimputati Ga., B. e Bi. e dalle deposizione dei responsabili dei singoli Enti: la lettera inviata al presidente della Commissione parlamentare confermava la perfetta buona fede dell'appellante circa la regolarità di quanto stava accadendo presso lo stabilimento tarantino ed in particolare dell'operato dell'Ufficio personale nella gestione degli esuberi.

Il Ca., dal canto suo, contribuì solo ad avviare il processo di ristrutturazione dello stabilimento tarantino per la cui fase attuativa era stati delegati i funzionari dell'Ufficio Personale.

In relazione alla posizione soggettiva di Ca.A., Or.E., Ir.G., Pa.C. e Mu.G., si lamentava l'acritica generalizzazione operata dal primo Giudice e l'assenza di qualsiasi descrizione delle singole condotte incriminate che avrebbero contribuito ad integrare la fattispecie del reato contestato, solo in quanto indicati dalle parti lese come autori dell'invio alla palazzina Laf. In ordine all'elemento psicologico si lamentava che fosse stato desunto solo dalla qualità di alti dirigenti dello stabilimento che quindi ben sapevano "il senso della destinazione alla palazzina" e che a nulla valeva, per la sua generica indeterminatezza, il richiamo della sentenza "agli espliciti riferimenti fatti dalle parti lese in ordine al contenuto dei colloqui delle parti lese con tali dirigenti da cui traspare... la consapevolezza dell'intento semi punitivo dell'invio alla palazzina Laf ".

In particolare, il Ca. non era nemmeno dipendente dell'ente personale bensì dirigente del SIA (Sistemi Informativi Aziendali) che, come altri dirigenti, si era limitato ad individuare gli esuberi e metterli a disposizione dell'ufficio Personale ai cui dirigenti soltanto la sentenza impugnata faceva risalire ogni responsabilità.

Il Mu., l'Or., il Pa. e I'Ir., invece, si sarebbero limitati ad eseguire le precise indicazioni provenienti dai dirigenti dell'Ufficio Personale, come riscontrato anche dalla deposizione dalla persona offesa P. Lo. (in relazione all'Ir.), dalle dichiarazioni spontanee del coimputato Bi. e dall'incredibilità della ricostruzione dei fatti della parte lesa Gi. P. (in relazione all'Or.).

Il Mu., poi, rispondeva del reato di tentata violenza pRi.ta ai danni del solo Za. G. che si trovava in una peculiare posizione, descritta dai testi Nardelli e Schiavone e confermata dalla stessa parte lesa, essendosi rifiutato, a differenza del collega Mastrorocco, di occuparsi di programmazione e preparazione lavori, con mantenimento della qualifica impiegatizia e con permanenza nello stesso reparto.

Quanto al Pa., imputato del reato rubricato in danno dei colleghi Mo., Me., Ci. e Da., si ripercorrevano le storie personali di tali parti lese, evidenziando come per costoro valessero in toto le considerazioni svolte in sede di esposizione generale in relazione all'assenza degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa contestata. Altrettanto valeva per Ga.A., in relazione alle parti lese De. e Ad. (che provenivano dalla Sidermontaggi), Cantisano e Mo. (che avevano rifiutato il ricollocamento in posizione impiegatizia), la Fa. (che fu destinata alla Laf dopo esser stata ricollocata per ben due volte come impiegata, risultando ogni volta in esubero) e il Me. (che non aveva dimostrato alcuna pregiudiziale contrarietà alle mansioni operaie, che prestò per oltre un anno, aderendo poi alla novazione nel 1999), laddove per la parte lesa Da., che aveva ammesso di non aver parlato affatto con il Ga., il Tribunale non aveva tenuto in alcun conto la richiesta di assoluzione del P.M., né aveva motivato sul punto.

Gr.A., B.A. e Bi.I. richiamando le rispettive dichiarazioni spontanee rese in sede dibattimentale e confortate dalle testimonianze di decine di testi a discarico che avevano confermato quegli elementi già prospettati nella parte generale del gravame atti ad escludere la configurabilità del reato contestato, lamentavano di pagare, nella prospettiva del Tribunale, il ruolo attivo avuto nel processo di ristrutturazione dello stabilimento tarantino, all'epoca dei fatti.

Il B., in particolare, era stato ritenuto responsabile del reato di tentata violenza privata in danno di Pr. M., Sa. C. (entrambi provenienti dalla Sidermontaggi), Ve. F., Ma. G. e In.A. (che non avevano mostrato alcuna pregiudiziale contrarietà alle mansioni operaie che avevano effettivamente prestato per oltre uno anno i primi due e per qualche mese il terzo).

Il Bi. rispondeva del medesimo reato in danno di Gi. V. e Mo. L., entrambi destinati alla palazzina Laf dopo aver rifiutato il ricollocamento in posizioni impiegatizie (il Gi. addirittura nello stesso ufficio personale diretto dal Bi.): tale circostanza confliggeva, ad avviso dell'appellante, sull'idoneità ed univocità della condotta incriminata ad incidere sulla volontà di autodeterminazione dei lavoratori in relazione all'adesione alle proposte di novazione.

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, rilevava la contraddizione in cui era incorso il primo Giudice, allorché, pur riconoscendo che i lavori di ristrutturazione erano stati preordinati all'ispezione disposta dalla Procura e che non erano stati di poco conto, sulla base delle emergenze probatorie addotte, tesi a migliorare lo stato di assoluta inadeguatezza logistica della palazzina Laf e persino apprezzando I'immutatio loci quale elemento di valutazione in ordine al dolo del reato contestato, era giunto a concludere che comunque quei lavori erano inidonei a cagionare il pericolo d'inganno del giudice, nella fattispecie criminosa in esame.

Sosteneva che I'immutatio loci, nel caso di specie avrebbe potuto scalfire una veritiera ricostruzione dei fatti così come operata dalle parti lese: infatti il Tribunale aveva concordato come la sottoposizione ad un regime umiliante e peggiorativo e in un ambiente non decoroso e trascurato fosse uno degli elementi essenziali realizzati al fine di porre i lavoratori in uno stato di coazione psicologica: quindi la condotta tesa a rendere i locali più decorosi aveva l'idoneità ad ingannare il P.M. nella formulazione dell'imputazione. Veniva richiamata una pronuncia della S.C. del 1998 che escludeva il reato di frode processuale solo in caso d'immutazione dei luoghi talmente grossolana e così agevolmente percepibile a prima vista, da non essere idonea ad indurre in inganno nessuno.

Le parti civili UIL - Regione Puglia e UIL Taranto - Camera del lavoro, lamentavano l'esclusione dal risarcimento del danno e dalla provvisionale richiesta disposta dal primo Giudice nei loro confronti, quantunque la condotta degl'imputati fosse stata diretta a ledere i diritti dei dipendenti in relazione all'attività lavorativa e ai loro diritti sindacali.

E la violazione della tutela sindacale, anzi l'esclusione deliberata dei sindacati, era stata riconosciuta anche in sentenza e infatti il numero degl'iscritti al sindacato nello stabilimento tarantino si era ridotta drasticamente ed in misura di molto superiore all'analoga riduzione avvenuta per altre cause a livello nazionale.

Si sottolineava come l'azione del Sindacato non era stata sempre poco incisiva, avendo il medesimo indotto l'intervento della Commissione lavoro del Senato e come la condotta degl'imputati, protesa al declassamelo mansionale fuori controllo, implicasse necessariamente la lesione dei diritti del sindacato.

Il dibattimento di appello, celebratosi in contumacia di tutti gl'imputati, si snodava per 11 udienze articolatesi tra il 26.2.2004 e quella odierna nel corso delle quali, in esito alla relazione della causa, il rappresentante del Procuratore Generale nonché i difensori delle parti civili e degl'imputati svolgevano le rispettive ragioni rassegnando le conclusioni riportate a verbale e fogli allegati, come in epigrafe trascritte.

Motivi della decisione

Tutti gli appelli, hinc inde proposti, sono parzialmente fondati e meritano, pertanto, accoglimento per quanto di ragione.

Sono state reiterate le eccezioni concernenti la costituzione delle parti civili che si assumono prive dei requisiti formali previsti a pena di inammissibilità dagli artt. 78, 100 e 122 c.p.p. e rigettate dal primo Giudice con ordinanza del 22.12.1999, espressamente impugnata dagli imputati.

Non può, in questa sede, che ribadirsi P infondatezza delle censure formulate al riguardo. Invero, per la maggior parte delle costituzioni di parte civile (A. C., Ch. A., Le. R., Ba.V. e Za. G.) é stata eccepita l'invalidità e/o l'inefficacia delle procure speciali in quanto autenticate dai difensori in violazione delle forme previste dagli artt. 100 e 122 c.p.p. secondo la formulazione delle norme in vigore al momento dell'inizio del processo.

Ma i vizi o carenze delle procure speciali conferite, come rilevato dal primo Giudice con l'ordinanza sopra richiamata, sono stati ampiamente sanati dalla presenza fisica delle parti civili in sede dibattimentale all'udienza in cui si costituirono.

Del resto, non può sottacersi che la novella della L. 16.12.1999 n. 479 (art. 13, co. 1°) non ha fatto altro che chiarire i dubbi interpretativi che si ponevano con il precedente art. 100, co. 1° c.p.p.. Infatti, secondo un'interpretazione maggioritaria, gli atti indicati dalla precedente formulazione dell'art. 100 co.l° c.p.p. erano tassativi: la parte civile poteva stare in giudizio col ministero del difensore solo se munito di procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata' mentre altra, minoritaria 2 , ammetteva che rientrassero tra le scritture private autenticate anche quelle alla cui autenticazione provvedeva il difensore.

La questione é stata superata dalla nuova legge che, pur non intaccando la tassatività degli atti, ha introdotto formalmente un'interpretazione in punto di diritto che trovava spazio anche con la precedente formulazione dell'art. 100 c.p.p., attribuendo anche al difensore il potere di autenticazione della scrittura privata con cui viene conferita la procura speciale.

Per Ma. G., Da. G., Lo. P. é stata eccepita la violazione dell'art. 78 c.p.p. essendo stata omessa nella dichiarazione di costituzione di p. c. l'esatta indicazione dei reati contestati agli imputati in relazione ai quali sono formulate le richieste risarcitone. E la necessità della distinzione dei reati per cui si agiva, si sostiene, era ancor piú evidente in principio del dibattimento, dal momento che per uno dei reati contestati é poi intervenuta assoluzione. In buona sostanza, la difesa ha eccepito la mancata indicazione dell'oggetto della procura stessa ai sensi della lett. d) dell'art. 78 c.p.p.

Ma é da rilevare come nessun atto di costituzione di parte civile sia carente dell'indicazione dell'oggetto: del resto, l'indicazione consiste nella puntuale trasposizione del fatto descritto nel relativo capo d'imputazione di tentata violenza privata e con richiamo delle

1 Cass. pen., sez. un., 19.5.1999, n. 12, Pediconi

2 Cass. pen., sez. N, 7.4.1993, Di Luca e plurime pronunce di merito.

imputazioni rubricate nel procedimento penale individuato tramite il numero del Registro Generale N.R., dei danni che sarebbero scaturiti, dell'esercizio dell'azione civile in questo processo e quindi con riferimento alle imputazioni di questo processo.

Detti elementi sono più che sufficienti a ritenere integrato il requisito della lett. d) dell'art. 78 c.p.p., anche perché l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda a pena d'inammissibilità della costituzione di parte civile é solo funzionale all'individuazione della pretesa da far valere in giudizio e non già necessaria ad enucleare le ragioni atte a determinarne l'accoglimento, sicché non ha alcuna incidenza l'intervenuta assoluzione (che peraltro concerne il reato di cui all'art. 374 c.p., reato contro l'amministrazione della giustizia). Ne consegue che l'impegno argomentativo necessario a giustificare l'esercizio dell'azione civile nel processo penale dipende dalla natura delle imputazioni e dal rapporto tra i fatti lamentati e la pretesa azionata onde, laddove il rapporto é immediato come nel caso di specie in cui é contestata la tentata violenza privata, si deve ritenere sufficiente il mero richiamo alle imputazioni del processo, consentendo abbondantemente l'individuazione della "causa petendi" 3.

Per Gi. V., Ad. G., Pr. M., De. R. e Ma.F. la difesa degli imputati ha eccepito la violazione della lett. b) dell'alt. 78 c.p.p. non essendo stata indicata la residenza o il domicilio degli imputati nella dichiarazione della costituzione di parte civile.

Esattamente ha rilevato il primo Giudice nell'impugnata ordinanza che la mancata indicazione della residenza degli imputati ai fini delle generalità di cui alla lettera b) della norma non pregiudica la loro individuazione.

A parte la connaturata mutevolezza della residenza o del domicilio e quindi la scarsa influenza e attendibilità di tali elementi per la certa identificazione della persona, la norma precisa testualmente che, in alternativa alle generalità dell'imputato, vengano fornite "le altre indicazioni che valgano ad identificarlo", conseguentemente delineando un ben più vasto e non codificatole ventaglio di parametri a tal fine tesi sicché appaiono più che sufficienti tutte quelle specifiche notizie attinenti alla persona stessa degli imputati, quali l'indicazione del nome, cognome, luogo e data di nascita, concretamente idonee ad individuarli in modo compiuto.

E' appena il caso di rilevare, in relazione alla corrispondente segnalazione degli appellanti, che la parte civile A., la quale non risulta aver presentato conclusioni nel presente grado di giudizio, le rassegnò ritualmente in primo grado, sicché il giudicante era tenuto -come ha fatto- ad esprimersi su di esse, in assenza di una revoca esplicita o implicita della costituzione di parte civile, a nulla rilevando l'accordo medio tempore intervenuto con l’Ilva segnalato dalla difesa e versato in atti, che non fa alcun cenno al procedimento penale in questione e che concerne l'assunzione di obblighi inter partes di cui s'ignora la validità ed efficacia al momento della pronuncia della sentenza.

Venendo al merito, giova premettere che la sentenza impugnata, alcuni stralci della quale sono stati sopra integralmente riportati, ha minuziosamente esaminato e ricostruito l'intera vicenda soprattutto attraverso il copioso testimoniale assunto: neppure gli appellanti, in buona sostanza, contestano alcunché in ordine ai fatti ivi riportati ed anzi si sono prevalentemente cimentati nella critica delle argomentazioni e conclusioni motivatorie, traendo dal testo delle medesime e delle deposizioni di taluni testi spunto per negare la ricorrenza degli estremi del contestato reato di violenza privata e riproponendo talune tesi difensive già prospettate in prime cure (v. memoria dep. il 26.11.2001) e in quella sede oggetto di compiute confutazioni (pagg. 115-132 sent.) che qui si devono intendere richiamate.

Corretti, esaurienti e condivisibili sono, altresì, i richiami relativi all'antefatto storico e alla strutturazione giuridica del reato contestato, onde si ritiene di rinviare integralmente ad

3 E' anzi stato precisato che "in tema di costituzione di parte civile, le indicazioni richieste dall'art. 78 c.p.p. a pena di inammissibilità dell'atto devono solo consentire di individuare il soggetto che agisce e la pretesa fatta valere in giudizio: ne consegue che la mancata indicazione della data di nascita dell'imputato o della persona offesa e il semplice richiamo alla norma penale violata come ragione che giustifica la domanda, non determinano inammissibilità dell'atto se non impediscono la chiara individuazione delle parti e la "causa petendi'— (Cass. pen., sez. 1, 12.1.2001, De Vivo).

essi. Non meno utili ed eloquenti sono le sintesi delle deposizioni dei testi e delle dichiarazioni spontanee degl'imputati (pagg. 15-69 sent.).

Deve inoltre convenirsi sulla piena attendibilità e genuinità delle dichiarazioni delle parti lese, esenti da qualsiasi intento calunniatorio peraltro abbondantemente riscontrate da elementi oggettivi inconfutabili, quali le deposizioni di soggetti estranei ai fatti, i certificati medici, attestanti lo stato di prostrazione delle dette parti lese, frutto del regime umiliante al quale erano state sottoposte, una relazione della Commissione senatoriale, che aveva ritenuto inaccettabile la soluzione trovata dall'azienda a quello che era solo un suo problema, il duplice tentativo in un anno di mascherare le reali condizioni estetiche ed ambientali della palazzina.

E' opportuno solo precisare che il reato di violenza privata è di natura istantanea, sicché deve considerarsi consumato nel momento stesso della coartazione (Cass. pen., sez. V, 6.4.1988, Baldini) e cioè nel momento in cui l'altrui volontà sia rimasta, di fatto, costretta a fare, tollerare, omettere qualcosa senza bisogno che l'azione abbia avuto un effetto continuativo: analogamente il tentativo di detto reato deve ritenersi perfezionato nel momento stesso in cui sia stato posto in essere l'atto volto ad incidere sulla libertà di volizione del soggetto passivo qualora lo scopo dell'agente non sia stato conseguito in pendenza dello stesso, essendo irrilevante che gli effetti dell'imposizione si siano più o meno protratti nel tempo.

Inoltre, l'elemento della minaccia nel reato di violenza privata consiste in qualunque azione o comportamento che - tenuto conto delle condizioni in cui la vicenda si svolge - sia idoneo ad eliminare o a ridurre nella vittima la capacità di determinarsi liberamente (Cass. pen., sez. V, 5.11.2001, n. 1732, Pezzarossa).

La singolare vicenda, come già rilevato dal primo Giudice, s'innesta nell'ambito di quel fenomeno già da molti anni addietro manifestatosi ed oggi ancor più sviluppato nei paesi Nord-europei (quali Svezia e Regno Unito), generalmente noto come "mobbing"; il cui termine, coniato dallo psicologo tedesco Prof. Heinz Leymann, deriva dal verbo inglese "to mob" che significa ledere, aggredire, assalire tumultuosamente, e che consiste in una patologia sociale che si origina da uno strisciante processo distruttivo della persona che nasce da comunicazioni e anche da comportamenti ostili che possono essere palesi ed occulti. Esso rappresenta l'insieme di pratiche persecutorie, vessazioni e abusi morali perpetrati sul posto di lavoro ai danni di una vittima designata ed avviene sia tra lavoratori sul posto di lavoro sia da parte di superiori gerarchici. I motivi scatenanti possono essere della più disparata natura quali noia, invidie, gelosie, disorganizzazione lavorative con carenze di regole e relativo carico di stress, e così via.

Più consona al caso in esame però sarebbe quella specifica variante del detto fenomeno conosciuta come bossing, derivato dal sostantivo inglese "boss" cioè capo, padrone, che ha la forma di una vera e propria strategia aziendale volta a ridurre il personale o eliminare dipendenti "non graditi": in tal caso sono i quadri o i dirigenti ad agire. A differenza del mobbing, che non ha sempre un'origine razionale, qui lo scopo è perseguito con lucidità: indurre alle dimissioni il dipendente eludendo così eventuali problemi di origine sindacale e le leggi sul licenziamento e ciò con i mezzi più fantasiosi, spesso sottili e disinvolti, purché capaci di procurare intorno all'interessato un'atmosfera di tensione insostenibile mirando alla sua distruzione psicologica, ad esempio affidandogli mansioni dequalificanti.

Si tratta, comunque, di un mero fenomeno sociale sempre più diffuso ormai anche in Italia, per il quale nulla è previsto in modo specifico dalla nostra legislazione o dalla contrattazione collettiva, anche se progetti di legge giacciono in Parlamento e tentativi di regolamentazione a livello regionale (come nel Lazio) sono stati vanamente avanzati.

Certo è che del fenomeno, persino con recepimento del peculiare termine di origine anglosassone, ha da tempo preso ad occuparsi la giurisprudenza italiana, elaborando una propria figura di "mobbing" con varie pronunce dei giudici di merito, tra cui si annovera, tra le prime, quella del tribunale di Torino (sez. lavoro, 16 novembre 1999 (ud. 6/10/99), n. 5050 - Est. Ciocchetti - Parti: Erriquez e. Ergom Materie Plastiche S.p.A.) ove si afferma che si verifica una situazione di mobbing aziendale "allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l'equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio", alla quale ne sono seguite altre analoghe di altri tribunali, nonché della S.C., come quella della sez. lavoro n. 15749/2002. In questo caso la Corte si é occupata del licenziamento di una dirigente di azienda colpevole di essersi rifiutata di apportare modificazioni ai dati contabili della società che costituivano irregolarità contabili e fiscali e che avrebbero coinvolto la dirigente rendendola complice di una attività illecita. La Corte di Cassazione, nell'affermare l'illegittimità del licenziamento sotto il profilo della mancanza di una giusta causa, accenna al concetto di mobbing consistente in atti e comportamenti (violenza, persecuzione psicologica) posti in essere dal datore di lavoro che mira a danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro, atteggiamenti svolti con carattere sistematico e duraturo ma esclude nel caso di specie il risarcimento del danno morale conseguente ad una responsabilità extracontrattuale ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p. perché nella specie non era emersa alcuna ipotesi integrante reato tipo violenza e minacce.

Ma a contrario deve evincersi che con tale pronuncia la Corte implichi chiaramente la possibilità del travalicamento dei confini strettamente civilistici o giuslavoristici della condotta di mobbing con l'integrazione di ipotesi di reato, come appunto ha riconosciuto in altro specifico caso, allorché ha ravvisato gli estremi delle fattispecie delittuose dei maltrattamenti e della violenza privata (n. 10090 del 12.3.2001).

In termini civilistici, l'incidenza del mobbing sul contratto di lavoro deriva dalla violazione dell'art. 2087 c.c, norma che si assume contrattualizzata indipendentemente da una specifica previsione delle parti e che, imponendo all'imprenditore il dovere contrattuale di adottare nell'esercizio dell'impresa, in funzione della particolarità del lavoro, dell'esperienza e della tecnica le opportune misure per tutelare i lavoratori, determina per il datore di lavoro una responsabilità di risarcire il danno sia al patrimonio professionale (cd. danno da dequalificazione), sia alla personalità morale e alla salute latamente intesa (cosiddetto danno biologico e neurobiologico) subiti dal lavoratore, atteso che l'obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell'art. 2087 c.c. "non é circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, densi (come emerge dall'interpretazione della norma in aderenza ai principi costituzionali e comunitari) implica altresi il dovere di astenersi da comportamenti lesivi dell'integrità psicofisica del lavoratore" (Cass. civ., sez. lav., 17 luglio 1995, n. 7768, Rossi e altro c. Felici).

Ulteriore norma civile di riferimento nella materia in esame é l'art. 2103 c.c. che sancisce il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le quali é stato assunto e stigmatizza i comportamenti illegittimi del datore di lavoro in tema di demansionamento o ingiustificato trasferimento da un'unità produttiva ad altra.

Altra normativa di natura lavoristica che assume un ruolo fondamentale nella vicenda in esame é la L. n. 223 del 1991 che, con l'art. 4; 11° comma, ha previsto -come già evidenziato dal primo Giudice- la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni diverse, ed anche peggiorative, solo in presenza di accordi sindacali presi nel corso di procedure regolate dalla legge medesima concernenti la previsione del riassorbimento di lavoratori ritenuti in esubero.

Infine va rammentato come, secondo la nostra Carta Costituzionale, il lavoro rappresenti il fulcro centrale attorno al quale ruota l'intero dettato della stessa: mentre l'art. 1 esordisce affermando solennemente che la "L'Italia é una Repubblica democratica fondata sul lavoro'; gli artt. 35-40 disciplinano i diritti dei lavoratori impegnando lo Stato alla tutela del lavoro "in tutte le sue forme e da applicazioni" mentre l'art. 41, 2° comma regola i rapporti tra l'iniziativa economica ed la persona/lavoratore, prevedendo che la medesima non possa svolgersi "in contrasto con l'utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Ne consegue che il lavoro, almeno nel nostro Paese, non solo é stato eretto a rango di bene-diritto costituzionalmente garantito, ma assume un ruolo nettamente privilegiato ponendosi quale pilastro portante, essenza stessa dello Stato.

Orbene, la difesa assume che, lungi dal costituire "l'anticamera dell'espulsione dal mondo del lavoro" (come definita dal primo Giudice), "la soluzione della palazzina Laf fu, al contrario, attuata con la finalità diametralmente opposta di non estromettere dal contesto aziendale gl'impiegati, risultati esubeoi nel poderoso processo di ristrutturazione in atto presso lo stabilimento di Taranto e come tale fu percepita anche dai dipendenti direttamente coinvolti nella vicenda".

Tanto sulla scorta delle circostanze come di seguito riepilogate: 1) tutte le persone offese avevano percepito la destinazione alla Laf in termini di provvisorietà e temporaneità; 2) tutti gli impiegati avevano la speranza di essere ricollocati nella loro qualifica di appartenenza; 3) rifiuto della soluzione alternativa di collocamento fuori dello stabilimento a casa con mantenimento della retribuzione; 4) reazione alla chiusura della Laf; 5) tenore delle spiegazioni rese alla commissione parlamentare; 6) tentativi di ricollocamento per alcuni impiegati nella medesima categoria; 6) riuscita di detti tentativi in almeno 4 casi; 7) le deposizioni testimoniali a discarico che avevano confermato la versione degli imputati.

La tesi difensiva pare pretermettere del tutto, travisandole, le pur incontestabili emergenze istruttorie che delineano un quadro decisamente ben diverso.

La fondamentale deposizione del teste De Biasi P. (p. I e segg. verb. sten. ud. 8.5.2001) disvela a chiare lettere le reali decisioni della proprietà e soprattutto le motivazioni delle scelte della proprietà, la cui intenzione era proprio quella di estromettere i destinati alla palazzina Laf dal lavoro e di farlo con gli strumenti propri quale cassa integrazione straordinaria, mobilità ovvero licenziamenti collettivi: ma questi strumenti all'epoca non erano disponibili perché la loro attuazione era condizionata ad uno specifico accordo con i sindacati, accordo che però non era fattibile, onde la novazione era l'unico possibile ripiego in attesa di momenti migliori per un intesa con i sindacati e realizzare l'estromissione del lavoratore. Ed allora, proprio perché non doveva sembrare una immediata provocazione nei confronti dei sindacati, si pensò alla novazione del rapporto di lavoro con lo strumento della LAF ("ricollocazione in cosiddetta posizione da definire ovverossia senza attività lavorativa '; p. 5) che doveva servire a far maturare la decisione imposta dall'impresa di passare alla categoria operaia senza dover poi ricorrere al licenziamento o cassa integrazione che non era possibile senza l'accordo con i sindacati.

La Laf, quindi, aveva quella peculiare valenza e lo stesso De Biasi riconosceva che la proposta di novazione dal punto di vista teorico si pone per definizione quale strumento alternativo al licenziamento altrimenti non avrebbe avuto senso proporre un cambiamento in peggio delle condizioni contrattuali e che se i lavoratori fossero stati mandati a casa sin dal primo momento, tale risoluzione avrebbe rappresentato una provocazione per il sindacato perché l'andare a casa avrebbe comportato l'espulsione dal contesto lavorativo, espulsione che sarebbe stata immediatamente percepita dalle parti in causa come illegittima onde fu escogitata la LAF. Successivamente, con il tempo e l'intervento della stampa, dell'opinione pubblica e della Commissione del senato, ci si accorse che il problema sindacale diventava "un male minore" rispetto "a questo tipo di collocazione" (e cioè ai risvolti penalistici, deve intendersi) e la proprietà, solo a seguito dei rilievi del Presidente della Commissione senatoriale, inviò ai lavoratori relegati nella LAF la famosa lettera con la quale si offriva la possibilità di restare a casa.

Insomma, l'intenzione di fondo era proprio quella di estromettere dal contesto aziendale quegl'impiegati collocati nella palazzina Laf sicché la soluzione della novazione fu escogitata dalla proprietà proponente, a tanto indotta a denti stretti per dissimulare il sottostante e intimo proposito teso esclusivamente alla drastica riduzione del personale impiegatizio con elusione di qualsiasi normativa ad hoc prevista e delle prevedibili reazioni e rimostranze sindacali.

E tale reale intendimento della proprietà fa addirittura capolino in modo manifesto in alcuni casi, come hanno riferito i testi Le., Me., Ca. e Ve., destinatari di un'esplicita alternativa tra licenziamento, novazione e trasferimento alla Laf: ma è chiaro che il licenziamento, o meglio le dimissioni del lavoratore, mentre costituivano la migliore ed inconfessata soluzione del complessivo disegno aziendale, rappresentavano al contempo un'alternativa rafforzante di quella principale Laf-novazione la cui ultima opzione rappresentava pur sempre l'unica strada percorribile dal dipendente per mantenere il posto di lavoro, quantunque declassato.

La declamata temporaneità e provvisorietà del collocamento alla Laf è poi una fandonia anch'essa sconfessata dalle risultanze processuali. Diversi lavoratori furono assegnati alla palazzina per circa 1 anno come Ca. o comunque per diversi mesi come Mo.. Per sorreggere tale assunto della temporaneità, gli atti d'appello citano stralci delle dichiarazioni rese in tal senso dai dipendenti diversi dalle persone offese (Nardelli, Candelli, Colucci, Imperiale, Buffo, Izzo, Tomassini, De Geronimo, Monno, Di Pierri, Ferola e Cascone) nonché di quelle di varie parti lese (Pe., Al., Va., Sp., Ca., Lo., Gi., Da. e Ad.). Ma tali dichiarazioni si sostanziano, per quanto concerne i primi, in una fin troppo concorde qualificazione della palazzina evidentemente sulla scorta di un leit motif propinato dalla proprietà aziendale in piena contraddizione con l'uso "persuasivo" che in realtà ne fu fatto e, per quel che riguarda le parti lese, in mere ed assurde illusioni ("..speravo...") di ricollocazione ("...da impiegato, però...") che, a dispetto dell'evidenza e degli espliciti inviti alla novazione, i soggetti ivi destinati coltivavano, forse rifugiandosi in una sorta di autodifesa psicologica.

Certo é che la diabolica "invenzione" della palazzina Laf servi a liberarsi, a mò di vera e propria "decimazione" (sintomatico a tal proposito é il caso di Penna F., iscritto alla UIL e scelto, a detta del Ca. che glielo riferì, sol perché Marassi, delegato sindacale, era ritenuto intoccabile in quanto tutelato dall'art. 28), di un certo numero d'impiegati, non più giovani e di ragguardevole anzianità di servizio, individuati sulla base di criteri prima facie estemporanei ma, guarda caso, quasi tutti rei di qualche "mancanza" (nel senso di fattore negativo) della più disparata natura nei confronti della dirigenza, di una sorta di peccato originale da espiare.

Infatti, Mo., proveniente dalla Sidermontaggi, aveva intentato causa per essere riassunto; in analoga situazione versava L.B. che, usufruendo di un accordo sindacale era rimasto dal 1991 fuori dell'azienda per laurearsi; al Ca., già invano sollecitato al licenziamento, era stato suggerito di ritirarsi dal sindacato, di non dar fastidio con i permessi per motivi di studio, di rispettare gli orari rigidi e non flessibili, di prendere atto che le cose stavano cambiando; Pe. era un iscritto attivista del partito popolare e gli era stato consigliato di non fare più politica; Va. aveva commesso un errore contabile; Ca. era iscritto al sindacato ed aveva partecipato ad uno sciopero; A. aveva avuto un infortunio sul lavoro; Sp. aveva avuto contrasti con il capoturno per rimostranze sulle condizioni di lavoro all'interno dell'Ilva; Ch. era iscritto al sindacato; D.P. aveva subito un infortunio sul lavoro per cui era stato assente per parecchio tempo sicché al rientro fu mandato direttamente alla Laf senza poter prendere neanche i propri effetti dalla sua scrivania; Ca. faceva straordinari che non dovevano essere fatti perché bisognava attenersi all'orario rigido di lavoro ed aveva sbagliato un'operazione contabile; Lo. aveva avuto una discussione con il superiore Catalano; Fagherazzi aveva avuto rapporti conflittuali con il superiore 5cialoia; Le. era da sempre iscritto al sindacato ed era stato delegato sindacale; Co. era in causa con l’Ilva per una sanzione disciplinare a suo avviso comminatagli ingiustamente; Pr. e Sa. provenivano, come il Mo., dalla Sidermontaggi e furono assunti nell’ILVA solo in virtù dell'accordo ministeriale; Ve., divenuto impiegato nel 1980 a seguito di sentenza del Pretore del lavoro, già iscritto al sindacato era stato convinto a cancellarsi, cosa da lui fatta per evitare delle trattenute sulla busta paga per il premio di risultato; In.aveva avuto un disguido con il Ca. ed era stato assunto come categoria protetta in quanto poliomielitico; Gi., avvocato dell'ufficio legale, non aveva seguito i miti consigli di adattarsi all'orario di lavoro rigido e non flessibile; Mo. aveva avuto conflitti con il superiore Colucci; Lo., ingegnere elettronico, non aveva seguito i consigli sul rigido orario di lavoro; Me. era iscritto al sindacato CISL; Gi. era iscritto al sindacato, aderiva agli scioperi e non aveva accettato l'orario rigido; Fa. aveva litigato con il responsabile del laboratorio Rizzo perché aveva il sospetto che nel laboratorio ci fossero rifiuti speciali; P. aveva una serie di procedimenti penali e civili contro l’Ilva ed il suo dirigente Ca. che aveva rifiutato di assecondare per cogliere in fallo altri colleghi di lavoro; Gr. era reo di aver fatto notare ai suoi superiori che una ditta dalla quale ci si riforniva veniva pagata di più rispetto alla quantità di materiale fornito; Gi.non si era adeguato all'orario rigido e chiedeva permessi per motivi di studio; Fi. era dirigente sindacale; Ca. era rimasto coinvolto per via di un errore contabile non da lui commesso.

Per altro verso, é da rilevare come tutti quegl'impiegati (Mo., Al., Pr., Sa., Ad. ed Ecclesia) provenienti dalla consociata Sidermontaggi, indipendentemente da individuali situazioni di attrito con l'azienda, rappresentavano pur sempre un fardello indesiderato e forzato per l'azienda, essendo intervenuta la loro assunzione esclusivamente per ottemperanza agli accordi a livello ministeriale, accordi che, come ha rilevato il primo Giudice sulla scorta, fra l'altro, della deposizione del teste Candelli, erano stati sottoscritti con la precisa intenzione di non adempiervi.

Quindi, a fronte di quanto hanno detto gli imputati sulla ideazione della palazzina, ideazione innocua, temporanea solo perché non si sapeva dove collocare gli esuberi in attesa della loro decisione sulla novazione, il dato di fatto incontestabile ed inconfutabile é che gran parte degli impiegati prescelti avevano un qualcosa di negativo, che aveva rappresentato un fastidio quantunque di poco conto nei confronti dell'azienda o del loro superiore diretto tale da minare il giudizio di efficienza (peraltro la valutazione dell'efficienza pare fosse ancorata alla precipua circostanza dell'avere cause in corso con IlLVA che comportava l'attribuzione di un comune coefficiente, o meno: v. teste Co., p. 116 ud. 7.7.2000) ovvero, può aggiungersi, da rendersi comunque invisi in una rigida e precostituita ottica dirigenziale ovvero ancora avevano mostrato sintomi (quale anche la semplice adesione ad organizzazioni sindacali) di esorbitare da un paradigma di supina affidabilità ai limiti di una totale e "fantozziana" sottomissione, tanto che, come osservato dall'impugnata sentenza, in quei pochissimi ma enfatizzati casi nei quali alcuni impiegati avevano infine accettato la novazione, con passaggio alla qualifica di operaio, erano poi ridiventati impiegati quando si erano distinti per i loro meriti.

Cosa poi rappresentasse in concreto la palazzina Laf e come venisse percepita dai lavoratori ivi destinati, é stato oggetto di attenta disamina da parte del primo Giudice e non sembra il caso di ripercorrerne in questa sede l'excursus al quale si ritiene di rinviare integralmente.

Giova solo sottolineare che la detta palazzina, con la sua totale assenza di attività lavorativa e la globale fatiscenza, prese ben presto ad assumere una si triste nomea, che sovente bastava solo ventilare la possibilità di trasferimento nella stessa per indurre la chiara percezione di una seria minaccia (vedi, tra le altre, le deposizioni di Ve., p. 6 ud. 10.7.2000; Pr., p. 145 ud. 7.7.2000, che ne aveva sentito parlare come una "specie di lager"; Co., p. 124 ud. 7.7.2000, che ne aveva sentito parlare "perché era diventata una leggenda negativa").

A parte le oggettive ed incontrovertibili condizioni di abbandono, squallore e disdoro in cui versava la palazzina Laf, descritte dai testi Monaco e Severini e dagli altri lavoratori ivi allocati nonché constatate in prime cure con la visione della cassetta videoregistrata, di certo la forzata assenza di qualsiasi attività lavorativa protratta per tutto l'orario di lavoro giocò un ruolo determinante sull'equilibrio psichico di tutti i malcapitati che vi furono destinati, che divennero altresì soggetti quasi intoccabili ed indesiderati dagli altri colleghi di lavoro.

Di decisiva importanza, a tal riguardo, anche al fine della qualificazione dei comportamenti vessatori, é la deposizione di Lieti Maria, responsabile del Centro di salute mentale della ASL Ta 1 che aveva presentato a suo tempo un memoriale all'A.G., intesa quale teste, ha riferito d'aver avuto, nella sua qualità, occasione di conoscere moltissimi dipendenti (tra le odierne parti lese, Ba., A., Ch., D.P., P., Lo., Da., Sp., D.G., Ca., Giove) inviati alla Laf. Dai primi incontri aveva avuto modo di constatare alcuni sintomi come disturbi del sonno, idee autosoppressive, aggressività che le avevano fatto diagnosticare sindromi depressive reattive, diagnosi poi confermate dai suoi colleghi che si erano interessati alla vicenda. Per tutti gli interessati si trattava di sindrome postraumatica da stress gravissimo, rappresentato dal non lavoro, altrettanto pericoloso come il "super lavoro", secondo classificazioni dell'organizzazione mondiale della sanità' e della società americana di psichiatria, malattia dalla quale "non si guarisce" rimanendo alla persona un danno permanente, un danno alle relazioni sociali e familiari, danno irreversibile o recuperabile a seconda che l'esposizione all'evento traumatico abbia superato i sei mesi ovvero sia stata contenuta nell'arco di un mese (pagg. 330 e ss., 341342 verb. ud. 11.7.2000).

Come si evince dalle rispettive deposizioni, un po' tutte le parti lese avevano dovuto ricorrere alle cure neuro-psichiatriche per crisi depressive: così Mo.G. il cui figlio aveva mostrato di non aver piú rispetto nei suoi confronti, tanto da respingere i suoi inviti a studiare; così L.B. che aveva dovuto ricorrere alle cure di uno psicologo che gli aveva prescritto farmaci; così Al.C.; altrettanto Ba. che era stato in cura presso il CIM, al pari di Gi.; così Gi. che era stato in cura dal neurologo, aveva assunto farmaci per via dell'insonnia dell'incapacità di ragionare e dell'estrema tensione nervosa ed era ancora in cura presso un centro d'igiene mentale; così la Va. che aveva avuto crisi isteriche ed in particolare quella del 21-7-98 che l'aveva portata a piangere per giorni; analogamente Ca. era stato colto da collasso da stress avuto il 5-9-98 alla Laf; così D.G. colpito da sindrome depressiva con successive cure presso il CIM di Manduria; A. accusava problemi d'insonnia, nervosismo e aveva avuto rapporti tesi con i figli; Le. aveva dovuto rivolgersi ad un neurologo ed assumere farmaci che gli avevano creato problemi epatici; in particolare Sp., che gridava a squarciagola, emettendo quasi "l'urlo di tarzan", come definito da taluni testi, e giunto al tentativo di suicidio (buttandosi da una gru) per una crisi di nervi; D.P. era stato colto da depressione e funestato da crisi familiare tanto che la figlia era andata via di casa per aiutare la baracca; Ch., caduto in stato depressivo che lo aveva portato a scompenso alimentare, ingrassato di 20 kg., afflitto da nervosismo permanente e rimasto distrutto come persona; Ca., che aveva avuto problemi di salute con necessità di cure specialistiche e che era quasi giunto al divorzio dalla moglie ed aveva perso il rispetto dei figli; Lo. che ha riferito delle difficoltà psicologiche avute all'interno della Laf, dell'acuirsi dei problemi fisici precedenti, dei malori che lo avevano colpito, della sensazione di impazzire che si aveva all'interno della palazzina; Fa. era stato colto da stato depressivo, da insonnia e da tensioni familiari che ne erano derivate; Co. era divenuto nervoso e irascibile con difficoltà di sonno, di umore nero e aveva avuto difficoltà nelle relazioni; Pr. era stato colpito anch'egli da depressione, al pari di Sa. che accusava uno stato depressivo associato ad insonnia; In.aveva molto sofferto alla Laf anche per via del suo handicap ed ha riferito della noia, rabbia e stanchezza psichica che vi era; Za. era stato malissimo, aveva accusato insonnia ed aveva dovuto ricorrere alle cure mediche ed in cura presso il CIM di Ma.; Fa. accusava serie difficoltà di sonno; Ad. era stato in cura da un neurologo con diagnosi di sindrome ansioso depressiva di natura reattiva; così Gr. che aveva dovuto ricorrere a cure farmacologiche.

Se questi furono gli effetti sulla salute dei destinati e se la caratteristica di totale assenza di attività lavorativa ad initio esternata a molti degli stessi, contribuì a diffonderne la triste nomea (v. esame teste Al., p. 225, ud. 4.7.2000), non v'è chi non veda come la sola prospettazione dell'invio alla palazzina Laf rappresentasse ben di più di una mera minaccia: del resto le modalità stesse della sua esplicazione, vero fulmine a ciel sereno per tutti i prescelti, quantunque talora preavvertiti da una sorta di logoramento dei rapporti con la dirigenza, non consentiva alcuna altra interpretazione, trasmodando addirittura in una più o meno sottile forma di violenza con il materiale trasferimento dei designati presso la palazzina (particolarmente incisiva laddove venne attuata in modo repentino e in guisa di vera e propria "deportazione" immediata: emblematico, a tal proposito, é il caso di Gi. P., pagg. 26-27 ud. 11.7.2000).

Corretto appare dunque il richiamo alla "vis compulsiva” o coazione relativa fatto dal Tribunale con riferimento all'effettivo invio presso la palazzina nella quale si perpetuò pesantemente la condotta intimidatoria e si manifestò la finalità della stessa, allorché si tentò sia implicitamente (tramite l'assoluta prolungata inerzia lavorativa in assenza di qualsiasi prospettiva) sia esplicitamente con sistematica e fredda reiterazione della proposta ad opera del Gr., d'indurre i "prescelti" ospiti alla novazione del rapporto di lavoro.

Per non dire di quella metodica modalità di trasporto forzoso dei destinati in un pullman dall'ingresso dello stabilimento alla palazzina e viceversa con scorta e vigilanza alla porta di cui ha parlato il teste Ba. (p. 279 ud. 4.7.2000), trattamento emblematico dell'atteggiamento intimidatorio dell'azienda nei confronti di tali lavoratori e del correlativo assoggettamento.

Se poi alcune parti lese (indicate negli atti di gravame, in relazione alla dedotta inidoneità intimidativa della condotta, in Mo., L.B., Ca., Pe., Al., Ba., Va., A., Le.M., Sp., Ch., Ca., Lo., Le. R., Co., Pr., Sa., Intini, Za., Ad., Giove, Fa. ed Ecclesia) hanno riferito, tra l'altro, che fu loro detto che la destinazione alla Laf era momentanea ed "in attesa di collocazione", ciò non vale certo ad escludere l'idoneità intimidativa della destinazione alla palazzina Laf a far accettare le novazioni e a vanificare l'intera progressione minacciosa della condotta posta in essere, in quanto l'attesa di collocazione comunque implicava la prospettazione dell'inesistenza di qualsiasi definita mansione e quindi la forzata assenza di attività lavorativa.

Inoltre tutti presero piena coscienza del fatto che la loro destinazione non era affatto temporanea (attraverso la prolungata permanenza) e che la stessa poteva essere rimossa solo con l'accettazione della novazione che veniva prospettata vuoi prima dell'invio alla Laf (come per Cardaralo) vuoi successivamente (come per L.B., Ch., Sp., Ma., ecc.) e magari dopo un congruo periodo di "macerazione" a mò di (ulteriore) sanzione disciplinare non codificata, come nel caso della Va..

Quanto a Co., ingegnere elettrotecnico, che fu inviato dal Gr. alla Laf a metà aprile 1998 "per una risistemazione degli organici" e che avrebbe avuto, a suo dire, conoscenza della proposta di novazione con la lettera del luglio 1998, aveva ben percepito sin dall'inizio non solo l'efficacia intimidativa della palazzina della quale aveva sentito già parlare come uno "spauracchio" e una "leggenda negativa", descrivendo lo stato di decadimento psicologico e comportamentale degli occupanti, lui compreso (era di umor nero, più nervoso, irascibile, con maggiori difficoltà nei rapporti interpersonali e difficoltà di sonno) ma anche la fittizietà della prospettata ricollocazione, dal momento che altro impiegato aveva poi svolto la sua funzione.

A questo punto, il significato della prospettata ricollocazione, che il Co. attese invano per ben tre mesi in una struttura in cui tutti gli altri impiegati ivi destinati, secondo un rituale più volte riferito, erano sistematicamente contattati dal Gr. che rinnovava la proposta di novazione con passaggio alla categoria operaia, non poteva essergli ignota.

Sicché quando gli pervenne la lettera del luglio 1998, contenente le note tre alternative (novazione, Laf, rimanere a casa), ebbe sostanzialmente una mera conferma della finalità della sua permanenza presso la palazzina che doveva già essergli intimamente ben chiara (anche se per un ingegnere elettrotecnico era forse arduo riconoscere quale fosse l'ingloriosa fine professionale riservatagli) tanto che, ben guardandosi dall'accettare la novazione (che gli veniva richiesta "senza giri di parole, senza altre spiegazioni... Vuoi la novazione si o no?" p. 129 ud. 7.7.2000) al pari degli altri, rimase nella Laf, sottostando alla minaccia da essa rappresentata, per oltre un mese prima di risolversi ad andare a casa.

Analoghe considerazioni valgono, pertanto, in relazione a quelle parti lese, per lo più coincidenti con quelle suddette, in relazione alle quali si assume (in altra collocazione sistematica, al termine degli atti di gravame) che il collocamento nella palazzina Laf non fu preceduto dalla proposta di novazione.

Sia la proposta sia l'effettivo trasferimento e stazionamento nella palazzina sono dunque condotte idonee ad incidere sulla lesione alla libertà di autodeterminazione delle vittime del reato sicché il complessivo comportamento intimidativo, attesa la contestuale o successiva alternativa della novazione del rapporto lavorativo con il passaggio alla qualifica operaia, esplicitamente o implicitamente prospettata, era costituita dal mettere il lavoratore di fronte a un "aut auC: o accettare la novazione con le conseguenze del caso, la perdita della professionalità e della dignità del proprio lavoro, o l'essere trasferito o permanere presso la Laf a non far nulla.

Quindi deve convenirsi sulla valenza simbolica dell'invio alla Laf che rappresentava minaccia in quanto inteso come allontanamento traumatico dal mondo del lavoro, come percezione del precipitare di una situazione lavorativa sino ad allora normale, possibile anzi probabile (essendo stata in taluni casi espressamente manifestata, come si é detto) anticamera del licenziamento comunque impossibilità di continuare a fare ciò per il quale si era stati assunti; ma soprattutto percepibile come vicolo cieco nel quale si era finiti e dal quale si poteva uscire solo sottoponendosi alla volontà del datore di lavoro accettando la novazione.

E l'entità, l'efficacia ed incisività della minaccia era esaltata dalla circostanza che i destinati avevano un'età che si aggirava sui 50 anni, con notevole anzianità di servizio, con problemi familiari, con figli da mantenere all'università e con l'impossibilità di riconvertirsi professionalmente, per giunta verso il basso, e difficoltà di trovare un diverso lavoro e quindi in una posizione di maggiore debolezza contrattuale.

Del resto se, come già stigmatizzato in prime cure, il lavoro é un diritto costituzionalmente garantito, canale precipuo attraverso il quale si esplica la personalità dell'individuo, la prospettazione dell'inerzia lavorativa rappresenta indubbiamente lesione della personalità del destinatario e quindi minaccia per il medesimo.

Anche la ricollocazione degl'impiegati destinati alla Laf é una panzana sconfessata dalle risultanze processuali.

Sono rientrati nel ciclo produttivo solo quelli che accettarono la novazione. Gli altri non sono stati ricollocati come impiegati, salvo l'esiguo numero di 4 persone che non vale dimostrare l'avvenuta ricollocazione, o la diversa finalità della palazzina.

Quindi non è vero, anzi è provato il contrario, che l'intenzione della proprietà era quella di parcheggiare alla Laf gli esuberi in attesa di trovare una sistemazione come impiegati: una sistemazione impossibile, dal momento che per la categoria impiegatizia era stata preventivata una contrazione del 28% di posti di lavoro. Quella palazzina non era una sistemazione precaria e transitoria bensì uno strumento coercitivo a tempo indeterminato per far meditare o meglio "ammorbidire" il personale al fine d'indurlo a scegliere la novazione, unica via di uscita offerta espressamente per rimanere nel contesto lavorativo.

Nei fatti si trattava di una collocazione sine die ossia lasciavano la Laf solo quando accettavano le condizioni del datore di lavoro: ciò veniva ribadito ciclicamente dal Gr. nei suoi colloqui quando ad uno per uno ricordava agl'impiegati ivi destinati che erano padri di famiglia, di avere una certa età. Ed anzi tale comportamento è estremamente significativo, dal momento che non ve ne sarebbe stato alcun bisogno qualora l'invio fosse stato effettivamente temporaneo fino alla definizione della situazione.












Questo lo si evince da una serie di testimonianze, come quella di Al.C. (pagg. 228-229 ud. 4.7.2000), proveniente dalla Sidermontaggi, che aveva vissuto per intero la palazzina Laf (da febbraio a novembre 1998) avendo inizialmente rifiutato di fare l'operaia, alla domanda della difesa che le chiedeva perché avesse deciso a novembre dell'anno precedente di novare, ha testualmente risposto: "Perché non ho più visto nessuno sbocco". Ma la valenza coartatoria della palazzina Laf non può esser vanificata dall'offerta di rimanere a casa con il mantenimento del livello retributivo: tale alternativa fu, come rilevato dagli atti di gravame, formalizzata dalla lettera nei primi giorni di luglio 1998, in quanto la stessa fu inviata solo dopo l'intervento della Commissione senatoriale (6 e 7 maggio 1998) e come estremo ripiego ai rilievi della stessa: e cioè molti mesi dopo l'istituzione della Laf, sicché non vale assolutamente ad alterare il quadro fattuale antecedente e la conseguente integrazione del reato contestato.

Né vale ad alcun fine la precedente offerta verbale alla quale accenna il De Biasi, dal momento che è evidente come la medesima, ammesso che sia stata compiutamente esplicitata in siffatto contesto di estrema conflittualità ed a seguito di un'elezione del destinatario inconsistentemente o pretestuosamente motivata, era priva di qualsiasi efficacia vincolante per il proponente con possibile futuro addebito d'ingiustificata assenza al lavoratore, e quindi dal sapore vagamente truffaldino ("l'ennesimo trucco dell'azienda" l'ha definita il teste Le., con riferimento, però, alla lettera del 6 luglio).

Né risulta dimostrato che comunque tale ulteriore opzione sia stata offerta contestualmente o antecedentemente all'invio alla palazzina: persino Ve., che fu inviato alla Laf il 1° o 2 novembre 1998 e vi rimase 5-6 giorni prima della chiusura nel novembre 1998, ricevette solo successivamente, nel corso della sua permanenza, presso la sua abitazione la raccomandata (datata 6.11.1998) in cui gli si prospettava l'alternativa di rimanere a casa con retribuzione (p. 18 ud. 10.7.2000); così anche per Ba., che rimase alla palazzina Laf dal 24.11.1997 ("343 giorni", ha ricordato: p. 258 ud. 4.7.2000), fino alla chiusura, sebbene abbia affermato che la possibilità di "andare a casa" gli era stato detta "anche un anno prima' non è affatto Pa. che tale offerta gli fosse stata prospetta verbalmente, e in quali termini, prima o contestualmente all'invio presso la Laf ovvero, come si evince dalle risposte immediatamente successive e dalle precedenti domande, se intendesse riferirsi al "contenuto della lettera" (datata 7.11.1998 di cui parlava la difesa in sede di controesame) e al momento del sequestro della palazzina.

Ma, a ben vedere, in ogni caso, in quel contesto complessivo da vero "coprifuoco", una proposta siffatta e di tale macroscopica incongruenza vuoi verbale vuoi scritta, peraltro in concomitanza con il soggiorno presso la Laf, non poteva esser percepita nel suo tenore testuale ovvero quale graziosa elargizione sine die dell'azienda ma, al limite come scelta, rimessa al condannato, tra una morte lenta con lunga agonia e una fine rapida e senza ulteriori sofferenze, tanto che quando l'azienda comunicò la chiusura della Laf ci furono proteste da parte degli impiegati che volevano comunque andare a lavorare e non rimanere a casa perché proprio questo costituiva chiaramente l'anticamera del licenziamento.

Invero, la reazione dei lavoratori dopo il sequestro della LAF e conseguente chiusura non vale certo a sminuire, con interpretazione a posteriori, come prospettato dagli appellanti, la valenza intimidatoria insita nella palazzina stessa: esalta invece, semmai, quell'esasperata illusione a cui si erano disperatamente aggrappati i suoi ospiti i quali pur sempre vedevano in essa un ultimo simulacro del rapporto lavorativo con la qualifica in atto ricoperta che ritenevano potesse essere definitivamente esautorato con la chiusura materiale della stessa, quantunque per ragioni giudiziarie.

A ben vedere, anzi, l'offerta di rimanere a casa poteva essere intesa come una sorta di ulteriore e rafforzativa minaccia implicita rispetto alla destinazione alla Laf, proveniente dal detentore di una superiore forza al pari del commerciante che venga avvicinato da un noto e pericoloso malvivente che, rappresentando violente rappresaglie, gl'intimi il pagamento della tangente, soggiungendo con artefatta noncuranza "o amici come prima". E non poteva essere diversamente, dal momento che addirittura, come riferisce il Mo., anche alla Laf si timbrava regolarmente il cartellino ed egli stesso era stato richiamato per pochi minuti di ritardo; analoghe circostanze riferiva il Le. (non ci si poteva allontanare, se non per l'ora di pranzo): non poteva dunque presumersi senza conseguenze negative tale ulteriore ed artificiosa chance.

Tra gli altri, il Fagherazzi ha riferito che siffatta eventualità lo "umiliava moltissimo". Il Mo., addirittura, che ciò aveva rappresentato il "colpo di grazia": queste e consimili espressioni non valgono certo a disvelare la percezione dell'ulteriore alternativa offerta come qualcosa d'innocuo e liberatorio rispetto alla forzata destinazione e permanenza presso la palazzina Laf.

La facoltà concessa alle vittime di rimanere a casa, cioè, con quelle premesse ed in quel clima, era solo apparente (per un caso consimile, v. Cass. pen. sez. VI, 12.3.2001, n. 10090) se non persino aggravatrice dell'iniziale e principale soluzione minatoria e solo come tale poteva esser percepita dar destinatari che, conseguentemente, preferirono sottostare, sovente sino a raggiungere i rispettivi e soggettivi limiti fisici e psichici di sopportazione, all'unica concreta possibilità che si vedevano offerta in alternativa al prospettato consensuale demansionamento e cioè a quel' ormai rinsecchito paludamento o mero simulacro del rapporto lavorativo che rappresentava lo stazionamento inerte presso la famigerata palazzina che garantiva, almeno, l'ingresso e la permanenza all'interno dello stabilimento.

Solo il travalicamento della soglia psichica di sopportazione unita talora alla precipitazione in uno stato di salute allarmante indusse qualcuno ad accogliere, a mesi di distanza dalla ricezione delle citate lettere la proposta in questione (quale il Sa., quando però, si era ormai perfezionato, come sopra precisato, il reato contestato, nei suoi confronti al pari di quegli altri dipendenti citati che si risolsero alla medesima scelta: L.B., Corlea, Co., Pr., Ad., Gr. e Gi.).

Nel caso Pillinini, richiamato dalla difesa nei motivi di gravame per supportare la tesi dell'assenza di coartazione alla novazione, si deve solo rilevare che la lavoratrice fu esonerata dall'obbligo della presenza con mantenimento dello stipendio conseguente al suo rifiuto di novazione del rapporto di lavoro da impiegata ad operaia, a prescindere del tutto e solo dopo la chiusura della Laf alla cui vicenda, come si evince dalla richiesta di archiviazione del 7.1.2000 (v. in allegato al verbale d'udienza del 20.2.2001), non fu affatto interessata.

Il secondo elemento costitutivo del reato su cui si incentra il nucleo essenziale dei motivi di appello è l'illegittimità della costrizione della quale si contesta la sussistenza.

Nel delitto punito dall'art 610 c.p. la costrizione mediante violenza o minaccia a fare qualcosa deve essere ingiusta ossia illegittima, non autorizzata da alcuna norma pertanto il reato viene meno se risulta che l'agente aveva il diritto di imporre con violenza o minaccia una determinata condotta. Così l'esercizio del diritto di sciopero comporta la legittimità nell'ambito di quelle azioni sussidiarie che sono ritenute necessarie per la riuscita dell'astensione del lavoro dell'opera di propaganda e di persuasione verso gli incerti ed i dissidenti.

Gli atti di gravame lamentano che la sentenza impugnata abbia travisato la natura della dedotta ristrutturazione dello stabilimento di Taranto assumendola come dedotta scriminante della condotta degl'imputati e non già quale mero dato storico ovvero come circostanza che, unitamente a molte altre, costituisce parte integrante della fattispecie con creta.

Si tratta di una sottile quanto inconsistente argomentazione anch'essa, a sua volta, travisante: giammai risulta che l'impugnata sentenza abbia inteso attribuire efficacia di scriminante all'esistenza del diritto (o necessità) di ristrutturazione dello stabilimento, ma ha dovuto necessariamente assumerla come base di partenza per I'ineludibile indagine relativa all'illegittimità della condotta, accantonando espressamente le dispute dottrinarie ivi citate concernenti la ricorrenza o meno di tale requisito ai fini dell'integrazione del reato contestato (del quale non fa cenno la norma incriminatrice). Che poi, di fatto, nel caso di specie, la dedotta ristrutturazione industriale possa lambire i contorni di una scriminante (quella di cui agli artt. 52 e 54 c.p.), è altra cosa, riguardando l'illegittimità del fatto solo l'obiettività di esso.

Certo è che le inappuntabili argomentazioni svolte riguardo all'illegittimità della condotta coercitiva dal primo Giudice (pp. 94-100 sent.) sono state nuovamente oggetto di censure che non valgono in alcun modo ad inficiarle.

Infatti, queste ultime, in sostanza, si limitano a contestare la sussistenza di "alcun obbligo di legge che imponga, in occasione dei processi di ristrutturazione, il necessario ricorso a detti strumenti gestionali (cassa integrazione, mobilità, ecc...j".

Ma, ancora una volta, la deposizione del teste De Biasi vale a chiarire l'artificio al quale ricorse l'azienda proprio in quanto, come già sopra riportato, "le reali decisioni della proprietà e soprattutto le motivazioni delle scelte della proprietà, la cui intenzione era proprio quella di estromettere i destinati alla palazzina Laf dal lavoro e di farlo con gli strumenti propri quale cassa integrazione straordinaria, licenziamenti collettivi: ma questi strumenti all'epoca non erano disponibili perché la loro attuazione era condizionata ad uno specifico accordo con i sindacati, accordo che però non era fattibile, onde la novazione era l'unico possibile ripiego in attesa di momenti migliori per un'intesa con i sindacati e realizzare l'estromissione del lavoratore".

E, difatti, la L. n. 223 del 1991 non consente equivoci di sorta, prevedendo numerosi e precisi obblighi per il datore di lavoro sia in caso di licenziamenti collettivi (artt. 4, comma 9, 5 e 8, commi 1 e 4) sia in quello di mobilità (artt. 4, comma 3) sia in quello di cassa integrazione guadagni straordinaria (art. 1, commi 7 e 8) che avrebbero comportato per l'azienda il necessario confronto con i sindacati in un momento in cui i rapporti non erano certo idilliaci.

Né può ritenersi che le scelte di politica aziendale (insindacabili ai sensi dell'alt. 41 Cost.) in tema di ristrutturazione e riorganizzazione implichino il totale arbitrio del datore nell'adozione dei mezzi che di volta in volta si appalesino piú adeguati per l'attuazione dei suoi disegni: ad esempio, se, con riferimento ai licenziamenti individuali, la legittimità del recesso è sottoposta al sindacato successivo da parte del giudice, invece "nella materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale, ora regolata dalla I. n. 223 del 1991, il controllo della legittimità del recesso è collegato al regolare svolgimento di una serie di adempimenti formali (o di singole fasi procedurali) che il datore di lavoro deve porre in essere per l'attuazione del programma di riduzione del personale eccedente. L'inosservanza della procedura collettiva incide sullo stesso potere dell'imprenditore di ridurre il personale in modo da causare l'inefficacia dei singoli licenziamenti, sia se operati direttamente dal datore di lavoro sia se stabiliti negli accordi conclusi con le DD.55." (Cass. sez. un. 11.5.2000, n. 302 Soc. 5gi. Carbon e altro).

A fortiori il combinato disposto degli artt. 4 comma 11 L. 223 del 1991 e 2103 c.c. implica chiaramente che la novazione del rapporto di lavoro in deroga al divieto di cui all'art. 2103 c.c. è possibile e legittima unicamente quando sia prevista sulla base di accordi sindacali che nel caso di specie sono intervenuti solo successivamente alla vicenda di cui ci occupiamo e cioè nel dicembre del 1999.

La difesa rileva che proprio questo è il motivo in base al quale si può parlare di legittimità del comportamento: quel comportamento scelto dall'azienda con la soluzione delle novazioni nel 1997 è stato poi ratificato dall'accordo sindacale a dimostrazione della sua legittimità. Ciò non è fondato poiché la scelta aziendale è stata operata in totale assenza della procedura disposta dalla legge ai sensi del combinato disposto delle norme testé citate e la circostanza del successivo intervento dell'accordo vale solo a dimostrare che a Taranto i sindacati hanno dovuto giocoforza prendere atto delle scelte dell'azienda per salvare il salvabile.

La legittimità della condotta cioè, per essere tale, deve essere riscontrata preventivamente sulla base dell'osservanza di una procedura che si é rivelata completamente inesistente ed anzi intenzionalmente elusa con l'ideazione dello strumento rappresentato dalla palazzina Laf, e non può essere surrogata da un riconoscimento postumo che, quantunque nella necessaria veste di "accordo", interviene sostanzialmente come presa d'atto della situazione di fatto che vale solo a regolarizzare i rapporti di lavoro in discussione e non già a scriminare in alcun modo antecedenti condotte illecite già compiutamente integrate. Insomma, l'illegittimità della condotta consegue alla struttura dell'intero sistema vigente, secondo cui, laddove segnatamente in aziende di dimensioni ragguardevoli come I'ILVA si verifichino eventi eccezionali quali un'incisiva ristrutturazione, il datore che intenda risolvere il problema degli esuberi e garantirsi al contempo la legittimità del proprio operato, deve necessariamente ricorrere agli ammortizzatori sociali e alle formali procedure predisposte dalla L. 223/91: qualsiasi diversa risoluzione lo espone non solo al sindacato del giudice del lavoro ma altresì, qualora, come nel caso di specie, vi é stato addirittura il ricorso al singolare escamotage di uno strumento coartatorio ed aberrante rappresentato dalla palazzina Laf, cui va ricondotto lo sconfinamento della condotta nell'ambito dell'illiceità penalmente rilevante, anche a quello del giudice penale.

Gli atti di gravame si dedicano poi alla contestazione del "movente" della condotta delittuosa (che come noto rappresenta solo un indizio di colpevolezza e non già un elemento del reato) ravvisato dalla sentenza impugnata "nello scopo di procedere alla ristrutturazione dell'azienda al più presto possibile e al di fuori di qualsiasi procedura formale..." (p. 101).

Invero, deve ritenersi che più che la celerità della dedotta ristrutturazione, considerati i tempi di permanenza della maggior parte degli ospiti della palazzina, interessava soprattutto, come si evince anche dalla deposizione del teste De Biasi, l'elusione di qualsiasi controllo sindacale o della pubblica Autorità sull'operato, le scelte e le finalità pianificate dell'azienda evidentemente nella sola ottica del profitto aziendale e della sua massimizzazione.

Che poi, al contempo, sia stata colta l'occasione, in sede di scelta dei soggetti destinati alla palazzina, per "preferire" quelli che, come detto, erano incorsi in qualche "peccato originale" della più disparata natura e con caratteristiche peculiari come sopra delineate (non giovani, con notevole anzianità di servizio e con problemi familiari e quindi meno "manovrabili"); a prescindere -a dispetto di quanto proclamato dal Di Biasi (p. 33 ud. 8.5.2001)- dalle rispettive capacità professionali per molti di loro acclarate e riconosciute (come per P. G. e Za., di cui hanno parlato in termini lusinghieri rispettivamente i testi Cascone e 5chiavone), é un dato di fatto (al pari del famoso "dato storico" della ristrutturazione aziendale rappresentato dagli appellanti) che -sebbene non identificabile nella funzione specifica della Laf, che sarebbe stata sproporzionata rispetto all'esclusivo obiettivo di piegare alcuni impiegati maggiormente sindacalizzati- vale comunque ad esaltare la valenza intimidatoria della palazzina, visibile segno dell'incombente ed assoluto volere padronale e del destino riservato a coloro che non si sottoponevano supinamente a canoni di assoluta obbedienza, rinunciando a priori alla tutela sindacale e a qualsiasi diritto o pretesa nei confronti del datore di lavoro.

Il terzo elemento del reato di violenza privata é l'ingiustizia del danno riguardo al quale é inutile soffermarsi, come già rilevato dal primo Giudice, attesa anche l'assenza di censura sul punto, in quanto si coglie agevolmente il danno immediato costituito dal mancato svolgimento dell'attività lavorativa dal quale dipendeva anche una retribuzione più bassa perché anche se la retribuzione base era la stessa, in quel periodo non si percepiva il premio di produzione, in quanto spettante al lavoratore per la partecipazione ai turni. Analogamente contra ius era il danno indiretto rappresentato dal fatto che la novazione prevedeva il declassamento con peggioramento delle aspirazioni professionali ed anche mutamento dello stipendio e questo aspetto é ben spiegato da In.(p. 59 ud. 10.7.2000), allorché riferisce che "passando dall'ottavo livello al quinto livello con i futuri contratti avrei comunque avuto gli aumenti attinenti al quinto livello".

Quindi c'era questo "picco verso il basso" perché da quel momento in poi i lavoratori che sceglievano la novazione del rapporto di lavoro avrebbero avuto degli aumenti di stipendio inferiori a quelli che sarebbero loro spettati se avessero mantenuto la categoria impiegatizia. In termini analoghi si sono espressi Pe. (p. 178 ud. 12.7.2000) il quale ha riferito d'aver percepito 20 milioni di lire in meno dopo la novazione e D.G. il quale ha spiegato come solo nominalmente lo stipendio era uguale (p. 129 ud. 5.7.2000).

Essendo stata normativamente costruita la fattispecie del delitto di violenza privata come reato di evento (di danno), che si consuma, cioè, allorché il soggetto passivo ha compiuto il comportamento coartato dipendente dall'atto di intimidazione (o di violenza) subito, deve convenirsi che è stato correttamente contestato nella forma del tentativo.

A tal riguardo, con specifico riferimento al requisito dell"idoneità egli atti" che, assieme a quello dell'univocità degli stessi, connota la figura del tentativo, gli appellanti ripercorrono con maggior diffusione e dovizia di richiami tutte le argomentazioni già svolte in ordine all'efficacia intimidatoria della palazzina Laf e sopra esaminate ribadendo la sua funzione logistica e provvisoria, la possibilità di dispensa dalla presenza in stabilimento e la legittimità della condotta.

Si devono quindi richiamare tutte le precedenti osservazioni svolte al riguardo anche in anticipazione rispetto all'ordine seguito negli atti di appello.

Giova solo puntualizzare che, attesa la natura istantanea del reato contestato e la tardività delle lettere con cui si prospettava l'alternativa di rimanere a casa con mantenimento del livello retributivo- ma sempre in alternativa all'intimata novazione-, ormai il tentativo si era in precedenza sostanzialmente perfezionato e che le spiegazioni rese dalle varie parti lese citate negli atti gravame in ordine al rifiuto di tale alternativa, manifestano a chiare note la diffidenza verso la stessa, vista ancor più della Laf come vera anticamera del licenziamento, di estromissione dello stabilimento e dal mondo lavorativo, e quindi, ancora una volta, con implicito contenuto intimidatorio che non valeva quindi a porre i destinatari in una situazione di assoluta libertà di autodeterminazione.

Infatti, le lettere in questione furono inviate dopo circa 1 anno dall'istituzione della palazzina, come riferisce uno dei primi malcapitati, Ca. (p. 65 ss. ud. 5.7.2000), il quale a luglio 1997 fu mandato alla palazzina MEM, da solo e a non fare niente, a novembre fu spostato alla palazzina Laf dove incominciarono ad affluire più persone, e a luglio del 1998 pervenne la lettera -inviata dopo l'intervento della Commissione senatoriale- con la quale si offriva la possibilità di stare a casa, ma rimase presso la palazzina fino alla chiusura del 7.11.1998.

E' evidente che i lavoratori preferivano restare nella LAF: essi non volevano essere estromessi dal mondo del lavoro e ciò si sarebbe materialmente concretizzato con il rimanere a casa e non accedendo più allo stabilimento, laddove la stessa proprietà aveva inventato la Laf proprio per a tal fine dai medesimi giustamente paventato. Tenerli in quel girone dantesco, come è stato definito, quel purgatorio in terra in attesa di che migliorassero le relazioni con il sindacato per accordarsi con lo stesso per la cassa integrazione, la mobilità e altri sistemi per togliere di mezzo quegli impiegati che secondo il piano di ristrutturazione, del quale ancor oggi non si è ancora capito quali dovessero essere le reali linee guida (o meglio, s'intuisce solo che era improntato alla massimizzazione della produttività individuale, con concentrazione delle funzioni in un minor numero di dipendenti e quindi con drastica riduzione del personale), era la soluzione immediata ed indolore per gli esuberi.

Insomma il rifiuto della (tardiva) opzione di restare a casa con mantenimento del livello retributivo e la reazione avuta al momento della chiusura della palazzina non valgono, come sostengono gli appellanti, a svuotare di contenuto intimidatorio la palazzina Laf e l'invio presso di essa: la situazione, giova ancora ribadire, deve essere apprezzata in via preventiva. Gli eventi successivi, visti dagl'interessati come possibili aggravamenti della pregressa situazione in cui erano stati costretti, non consentono di trasformare un fattore originariamente negativo in uno positivo con valutazione retrospettiva.

Sarebbe come dire che un soggetto, abituato all'intensa illuminazione sprigionata dalle lampadine elettriche, essendo improvvisamente venuta meno la relativa fonte energetica, si sia adattato al fioco chiarore delle candele ma, successivamente privato anche di tale antico mezzo d'illuminazione si da acconciarsi a distinguere oggetti e luoghi nella penombra, abbia in tale ultima situazione una percezione visiva meno scadente rispetto a quella precedente, secondo il popolare aforisma del "chiodo schiaccia chiodo".

Quindi va confermato che comunque la LAF, già al momento in cui i vari impiegati vi furono inviati, rappresentava una minaccia, un luogo di pressione volto ad indurre i lavoratori ivi destinati a modificare in senso peggiorativo il proprio rapporto di lavoro, poiché implicava lo stazionamento (rappresentato prima dell'invio presso di essa o percepito successivamente) sine die (si richiama quanto in precedenza rilevato in ordine alla fasulla temporaneità) fino all'eventuale accettazione non solo di fatto ma anche formale della proposta novazione, in uno stato di forzata assenza di attività lavorativa e di semi reclusione all'interno di uno stabile per giunta disadorno e per nulla confortevole.

Quanto alla possibilità della prospettata novazione, si ribadiscono ancora le precedenti osservazioni svolte riguardo: 1) alla illegittimità di una novazione attuata al di fuori del disposto degli artt. 4 co. 11° L. 223/91 e 2103 c.c; 2) alla necessità dell'apprezzamento della legittimità o meno della condotta solo in via preventiva e non già alla luce degli accordi del 1999 successivamente intervenuti con le DD.55.

Del tutto irrilevante é il richiamo a quelle novazioni di cui ha parlato il teste Nardelli o di quelle dei 120 lavoratori delle ditte Gescom, Icrot o Sidermontaggi di cui ha riferito il teste Candelli o a quegli altri casi ricondotti alla deposizione del teste Colucci che, proprio perché del tutto svincolate dal transito per la palazzina Laf, non valgono a dimostrare nulla di più del fatto che un certo numero di lavoratori accettò la novazione -proposta senza alcun riferimento alla palazzina Laf- e la formalizzò immediatamente, sicché non si pose per loro alcuna necessità di "persuasione".

Le vicende suddette concernenti in buona parte lavoratori i cui connotati professionali (anzianità di servizio, età, efficienza, produttività) sono del tutto ignoti come del pari ignoto é il contenuto dei colloqui intercorsi tra i medesimi e il Candelli, non possono eliminare dalla realtà fattuale l'aberrante ricorso allo strumento della palazzina Laf, successivamente ideata, per ottenere con la maggior celerità possibile un risultato evidentemente non altrimenti ottenibile, tenuto conto anche delle peculiari posizioni curricolari e caratteristiche dei soggetti prescelti.

Tanto meno sono rilevanti le posizioni di quei lavoratori già inviati alla palazzina Laf che addivennero alle novazioni dopo gli accordi del 1999 (vengono a tal proposito citati Pe., Al., A., Ca., Intini, Mo., Me. e Pe.) e quindi dopo la chiusura della palazzina e quindi dopo che ormai il tentativo di violenza privata si era perfezionato ai loro danni: sicché in quella sede vi si determinarono del tutto liberamente, essendo in precedenza cessata per l'intervento dell'A.G. la condotta coartatatoria, non certo vanificabile o scriminabile dagli eventi successivi (altrimenti si dovrebbe ritenere che il reato di violenza privata nei loro confronti sia stato interamente consumato e non già rimasto allo stadio del tentativo).

A nulla rilevano poi, tanto meno ai fini della natura intimidativa della Laf e dell'invio presso di essa, i peculiari antefatti, ed in particolare il rifiuto di taluni di essi di svolgere altre mansioni con mantenimento della categoria impiegatizia, rappresentati dalla difesa (che ha criticato le confutazioni svolte al riguardo dal primo Giudice a pag. 130 dell'impugnata sentenza) circa la scelta di taluni (indicati, a mò d'esempio, in Za., Mo., Gi., Fi. e Ca.) destinati alla Laf nel corso del 1998, concernendo le proposte loro rispettivamente rivolte (salvo che per il Ca.) una fase antecedente all'invio alla palazzina, quantunque la permanenza nella stessa sia stata contenuta in un lasso temporale limitato: quali che siano state le motivazioni del rifiuto, in ogni caso sfuggono gli elementi in base ai quali (almeno lo Za., il Mo. e il Ca.) avrebbero dovuto intuire che il loro rifiuto avrebbe comportato successivamente l'invio alla Laf che peraltro veniva rappresentato come alternativa alla novazione e quindi, ancora una volta, come strumento di coercizione della libera determinazione dei destinatari. Del resto, il rifiuto opposto era evidentemente del tutto legittimo ed in buona fede, altrimenti avrebbe potuto giustificare un licenziamento la cui possibilità (che nelle dedotte necessità di ristrutturazione, l'azienda si sarebbe di certo affrettata a cogliere senza indugio) però doveva essere inibita dalla corrispondente illegittimità del tramutamento prospettato in violazione dell'art. 2103 c.c. (Za. precisava che il diverso posto offertogli era di qualifica operaia, p. 179 ud. 10.7.2000, in ciò riscontrato dal teste a discarico 5chiavone il quale ha riferito che gli era stato offerto un posto molto diverso da quello ricoperto fino ad allora); Ca. riferiva che il posto offertogli, presso un'altra ditta collegata all'ILVA, era di qualifica inferiore e non dava garanzie di stabilità; Gi., avvocato presso l'ufficio legale, non risulta che abbia rifiutato altri impieghi, ma fu trasferito all'Ufficio personale per la rilevazione delle presenze senza che gli fosse stato specificato se tale collocazione fosse di qualifica impiegatizia, e quindi, dopo esplicite minacce del Bi., inviato alla Laf al termine di un periodo forzato di ferie; della proposta rivolta al Fi. parla solo il teste Padalino de relato da ignoti e nulla si sa circa l'esito della stessa della quale, peraltro, nulla ha riferito l'interessato; Mo., che proveniva da un'attività impiegatizia d'ufficio, aveva avuto difficoltà soggettive nel nuovo posto di capoturno presso il tubificio ERV al quale era stato forzatamente adibito ed aveva rifiutato di ufficializzare il mutamento della qualifica da impiegato ad operaio: p. 109 ud. 10.7.2000).

Ancora di scarsa rilevanza al predetto fine, appaiono essere le posizioni segnalate dagli appellanti in ordine a quei lavoratori (Me., Da., Mo., Ci., Ve., Ma. e Pe.) che rimasero nella palazzina Laf pochi giorni prima del sequestro, dopo aver rifiutato di ratificare con la sottoscrizione delle novazioni il passaggio alle mansioni operaie che già stavano ricoprendo da alcuni mesi. Infatti, da un canto la mancata "ratifica della novazione" non può avere alcuna valenza scriminatoria indicando semplicemente che le mansioni operaie era state svolte solo nel presupposto che non fossero definitive, onde il rifiuto opposto non poteva ritenersi ingiustificato né comunque era legittimo l'invio alla palazzina, quantunque per pochi giorni, finalizzato all'accettazione della detta novazione. Altrettanto infondate sono le censure sollevate in ordine alla pretesa insussistenza del requisito dell'univocità degli atti.

Ancora una volta gli appellanti, dopo aver ribadito ed illustrato la legittimità della ristrutturazione all'epoca in atto presso lo stabilimento tarantino, con individuazione dei dipendenti in esubero sulla scorta di elementi oggettivi e comunque non discriminatori, e gli effetti benefici della stessa sui livelli occupazionali, contestano la valenza intimidatoria della collocazione presso la palazzina Laf, qualificandola come soluzione logistica praticata quale diretta conseguenza della soppressione dei posti di lavoro e negano che l'attività di collocamento di personale in esubero nella detta palazzina fosse sorretta dal fine univoco di indurre i lavoratori interessati ad accettare le proposte di novazione (che comunque all'epoca costituivano "l'unica soluzione gestionale possibile in attesa che il contesto delle relazioni industriali rendesse accessibili gli strumenti ordinariamente previsti nell'ordinamento del lavoro), come -si osserva- lo stesso Tribunale mostrerebbe di ritenere, discostandosi in ciò dall'assunto accusatorio, avendo in più di un'occasione l'impugnata sentenza lasciato intendere che il vero obiettivo perseguito dagl'imputati era piuttosto quello di realizzare una massiccia ristrutturazione dell'intero stabilimento di Taranto "a qualsiasi costo, purché velocemente e, quindi, senza confronti, senza intoppi burocratici".

Analogamente, rilevano gli appellanti, in altro passaggio della sentenza (p. 120-121) si legge, tra l'altro, che 'lo scopo principale dell'invio alla palazzina Laf era quello di fiaccare la resistenza dei lavoratori alfine di far loro accettare la novazione, si da compiere il quadro della ristrutturazione il più velocemente ed autonomamente possibile"; chiarendo che"la palazzina Laf non era altro che uno degli strumenti usati dall'azienda, illegittimo, per gestire l'esubero di personale, dalla stessa illegittimamente creato, nel tentativo di trovare in maniera illegittima, un nuovo posto di lavoro a tali esubeoi: sicché nulla escludeva che, come accaduto, in pochissimi casi alcuni degli inviati alla palazzina Laf potessero essere riutilizzati nella loro mansione". Ne deducono che la "direzione non equivoca degli atti" era così esclusa in radice dall'affermazione stessa dell'esistenza di almeno un duplice scopo avuto di mira dagli imputati, quello di" " fiaccare la resistenza dei lavoratori" al fine di far loro accettare la novazione da un lato (definito in sentenza scopo principale e perciò non unico) e quello di far ricorso ad uno strumento per la gestione degli impiegati in esubero in attesa di un eventuale loro riutilizzo nella categoria di appartenenza.

Gli atti di gravame prospettano a tal riguardo l'effettiva ed ininterrotta ricerca da parte dell'Ufficio del personale di un ricollocamento di tutti gl'impiegati in esubero nella medesima categoria di appartenenza, con ricollocazione di quattro impiegati transitati dalla palazzina Laf, ribadendo la provvisorietà della soluzione della palazzina Laf e la sua conseguente incompatibilità con la pretesa univoca finalità di indurre i lavoratori ad accettare la modifica dei propri rapporti di lavoro.

Orbene, si devono ancora una volta ribadire le osservazioni in precedenza svolte in ordine alla non temporaneità della soluzione della Laf e all'oggettiva posizione dei prescelti che, ad onta di quanto riferiscono in termini programmatici i vari testi dipendenti dell'ILVA colleghi degl'imputati (De Biasi, Nardelli, Colucci, Imperiale, Buffo, Padalino, Cascone ed altri più volte richiamati negli atti di gravame) in relazione all'adozione di criteri oggettivi e comunque non discriminatori per l'individuazione dei dipendenti in esubero, presentavamo pur sempre delle peculiarità comuni di scarsa "manovra bilità" da parte dei vertici aziendali. Analogamente "l'effettiva ed ininterrotta ricerca" da parte dell'Ufficio del personale di un collocamento nella medesima categoria di appartenenza risulta davvero contraddittoria rispetto alle continue e sistematiche sollecitazioni alla novazioni rivolte dal Gr. agli ospiti della palazzina: del resto, il fatto che appena in quattro casi sia stata attuata la detta specifica ricollocazione non vale certo a riscontrare tale argomentazione ma altresì, anche qualora i ricollocati siano stati, come rappresentato, "non meno di settanta", ciò non impedisce di ritenere che altri soggetti abbiano subito, come hanno effettivamente subito, la minaccia rappresentata dalla palazzina Laf.

Quanto, poi, alla pretesa duplicità dello scopo al quale sarebbe stata preordinata la palazzina Laf sulla scorta delle argomentazioni tratte dal testo della motivazione dell'impugnata sentenza, appare evidente la forzatura, ed anzi il travisamento della difesa, fondato prevalentemente sull'uso pleonastico dell'aggettivo "principale" adoperato dal primo Giudice.

E' chiaro, infatti, che si confonde la finalità insita -per sua natura, essenza e contesto nel quale venne realizzata- nella palazzina Laf, cioè quello di fiaccare la resistenza dei lavoratori onde far accettare la novazione che rappresenta l'evento tipico del reato avuto di mira dagli imputati quale si evince sulla scorta di tutte le precedenti osservazioni, con la qualifica, in termini piú generali, della stessa come illegittimo strumento per la gestione degli esuberi, gestione appunto concretatasi con le proposte di novazione nel quadro del globale movente della condotta in precedenza esaminato. Il fatto poi che si accenni alla ricollocazione nella medesima mansione in pochissimi casi, rappresenta -attesa la consecuzione logica della proposizione- una mera eccezione che non vale ad estrapolare un altro e parallelo "scopo" o meglio a vanificare l'unico evento penalmente illecito voluto e perseguito ab initio.

Insomma, anche qualora si volesse intravedere il "fine" di illegittimo strumento per la gestione degli esuberi, questo non sarebbe mai distinto ed autonomo, ma ricomprenderebbe quello specifico del reato contestato.

Né va sottaciuto, per altro verso, che è stato ritenuto possibile nel tentativo il dolo diretto alternativo, nel quale l'agente si rappresenta e vuole, indifferentemente, l'uno o l'altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta e alla sua coscienza e volontà (Cass. pen., sez. I, 24.6.1991, Gagliardi e altro): è chiaro che se ciò vale per due eventi, entrambi penalmente rilevanti (tipico: lesioni o morte), a fortiori tanto deve apprezzarsi qualora uno di essi eventualmente non lo sia.

Quanto all'elemento psicologico del reato, nuovamente si devono qui richiamare e ribadire tutte le controdeduzioni sopra svolte in relazione alle plurime censure che costantemente gli appellanti reiterano nei rispettivi atti di gravame in ordine a tutti gli elementi del reato contestato, e quindi anche per negare la ricorrenza di quello soggettivo, e sintetizzate in premessa (in particolare in ordine all'individuazione dei dipendenti da destinare alla palazzina Laf, alla funzione della stessa con l'opzione dell'esonero della presenza in stabilimento e all'obiettivo delle novazioni).

Pertanto, che la palazzina Laf fosse stata "consapevolmente e deliberatamente" concepita ed utilizzata quale luogo di destinazione degl'impiegati ritenuti in esubero, quale strumento idoneo di minaccia e fosse stata univocamente finalizzata al perseguimento dell'obiettivo delle novazioni è un dato di fatto inconfutabile emergente dalla complessiva condotta sopra esaminata e dall'accertata ricorrenza del reato contestato riconducibile, per la struttura complessa stessa dell'ILVA, non solo al datore di lavoro in quanto effetto della scelta aziendale ma altresì a tutti coloro che, consapevoli della scelta medesima, posero in essere un determinato comportamento dotato di efficienza causale nella produzione dell'evento poi non verificatosi.

Tutta l'operazione, nell'ambito della tanto declamata globale ristrutturazione, come si evince anche dalle deposizioni del teste De Biasi (p. 7 ud. 8.5.2001) -secondo cui la decisione di "ricollocare temporaneamente in attesa di uno sbocco complessivo" del personale in esubero " fu assunta in loco a Taranto dalle strutture del personale le quali erano poi quelle che poi fisicamente dovevano gestire questi processi di ricollocazione' tramite l'utilizzo della palazzina Laf.-, e Candelli (che, fra l'altro, riferendosi al Bi., ne riporta l'intento di ricercare soluzioni per gli esuberi soggiungendo. "e quindi chiaramente la proposta occupazionale non poteva essere altra che quella dell'assunzione nella categoria operaiam p. 25 ud. 5.6.2001), fu assunta collegialmente e non fu certo subita dai responsabili del personale, sicché nessuno degl'imputati che si attivarono nel suo corso poteva esser ignaro sia delle soluzioni operative adottate, sia dell'efficacia intimidativa della palazzina Laf, alla cui istituzione ovvero mantenimento, con le alternative di novazione imposte a nome della "proprietà", concorse deliberatamente in occasione vuoi delle decisioni iniziali, vuoi dei successivi comportamenti attuativi delle stesse.

Per il resto ci si deve anche qui rimenare alle puntuali osservazioni contenute nell'impugnata sentenza al riguardo (pagg. 108-114) che le critiche degli appellanti non valgono a scalfire in alcun modo.

In particolare, la difesa per Ri.E. e Ca. (il primo, massimo esponente della proprietà aziendale -presidente del consiglio di amministrazione dell'ILVA- e l'altro, suprema carica operativa- direttore dello stabilimento tarantino) rileva che la loro conclamata e pacifica conoscenza del processo di ristrutturazione non implicava sul piano logico e giuridico la consapevolezza delle concrete modalità adottate dall'ufficio del personale nella gestione diretta di quegl'impiegati risultati in esubero e della consapevole volontà intimidatoria al fine d'indurre i dipendenti destinati alla palazzina Laf ad accettare le novazioni, essendo stata demandata a quell'ufficio la fase attuativa della ristrutturazione le cui linee strategiche erano state impartite dal Ri., come emergeva dalle deposizioni dei testi De Biasi, Nardelli e Candelli.

Ma per quel che concerne Ri.E., questi era non solo a conoscenza della ristrutturazione, ma anche di tutto il resto, come si evince dalle dichiarazioni da lui rese in sede d'interrogatorio dinanzi al P.M. in data 6.7.1999 allorché riferiva, tra l'altro, che: "la decisione in merito alla destinazione degli impiegati che ritenevo essere in esubero, venne assunta personalmente da me e venne comunicata all'Ufficio Personale" e, inoltre, che "...la possibilità di conversione da impiegati amministrativi a operai non mi appariva umiliante...", nonché dalla memoria da lui personalmente sottoscritta e depositata ancora in sede d'indagine il 29.7.1999 in cui si rappresenta la funzione della palazzina Laf "quale luogo di possibile ed eventuale collocazione per tutti coloro che, dopo aver autonomamente rifiutato le due soluzioni proposte dall'azienda (esonero della prestazione lavorativa con retribuzione e novazione impiegato-operaio, fermi restando i livelli retributivi e di anzianità raggiunti, ndr) insistevano comunque per accedere allo stabilimento, benché le singole postazioni di lavoro da essi un tempo occupate, fossero state tutte fisicamente soppresse"; ed infine lo stesso imputato sottoscriveva la lettera inviata al presidente della commissione senatoriale, dopo la visita allo stabilimento di quest'ultima, nella quale scriveva che, venendo incontro agli appunti sollevati dalla Commissione, si era deciso di dare ai dipendenti la facoltà di rimanere a casa: si trattava, com'è evidente, di una disperata mossa strategica (come tale percepita anche dai destinatali della lettera concepita sulla base di essa, come si è sopra rilevato) adottata proprio per rimediare alle critiche derivate dal sopralluogo della Commissione senatoriale che non vale certo a suffragare la "buona fede" del Ri. che, anzi, in tal modo implicitamente riconosceva la palese situazione d'illiceità riscontrata.

Pertanto, al di là di ogni presunzione logica, pur ammissibile laddove si tratti d'individuare responsabilità penali all'interno di strutture complesse impersonali con riferimento al concorso nel reato di figure esponenziali di tali persone giuridiche, si è qui in cospetto dell'esplicita ammissione non solo della piena conoscenza ma anche del diretto coinvolgimento nella vicenda da parte del massimo vertice societario.

Né comunque assume alcuna rilevanza la sua protestata estraneità all'individuazione dei lavoratori in esubero, in quanto in questa sede non hanno primaria incidenza le concrete modalità con le quali furono individuati gli esuberi (modalità la cui illegittimità è stata evidenziata sulla scorta della circostanza che il criterio indicato della professionalità non è un criterio adeguato e non offre possibilità di controllo): ciò che soprattutto rileva in ordine alla coscienza e volontà del delitto è invece la scelta gestionale della palazzina Laf, di inviare le persone in quel luogo per evitare un contrasto diretto con i sindacati in modo da temporeggiare in attesa del momento propizio in cui si sarebbero potuti riallacciare i rapporti degenerati con i sindacati e poi ricorrere alla cassa integrazione e alla mobilità, altri strumenti per eliminare quelle figure impiegatizie ritenute inutili dalla società.

E' quindi proprio l'ideazione della palazzina, la cui efficacia intimidativa è stata riscontrata e documentata dalle plurime certificazioni mediche relative ai disastrasi effetti psicologici della permanenza presso di essa, e la cui alternativa alla novazione viene sostanzialmente ammessa dallo stesso Ri., che costituisce il salto di qualità da parte della proprietà, il passaggio nell'ambito della illiceità: é conseguente ritenere che il Ri. fosse perfettamente informato di tutte le vicende dello stabilimento tarantino e avesse, nella massima apicalità della sua posizione, autorizzato o comunque avallato sotto ogni aspetto la peculiare e macroscopica operazione connessa all'ideazione della palazzina LAF.

Analoghe considerazioni valgono per Ca., il cui nome é stato fatto dal coimputato Bi. il quale ha detto che ('input di procedere alla ristrutturazione era stato dato dal Ca pog rosso.

Ma l'appellante contesta in particolare che la circostanza richiamata nell'impugnata sentenza, secondo cui "il teste Schiavone, come anche altri testi a capo di singoli reparti dello stabilimento, aveva detto che dopo averne ricevuto l`incarico, aveva proposto al Ca. il suo piano di riorganizzazione del reparto, ricevendo da questo precise disposizioni sul personale in esubero che doveva essere messo a disposizione dell'ufficio personale'; possa implicare la sua consapevolezza e conseguente volontà di partecipare alla concertata attività intimidatoria al fine di costringere i lavoratori destinati da parte dell'ufficio personale alla palazzina Laf ad aderire alla novazione.

Sarebbe però assurdo in radice ritenere che in una struttura complessa quale quella dell'ILVA addirittura il direttore dello stabilimento tarantino, al quale erano immediatamente sottoposti in via gerarchica i responsabili delle tre aree di gestione del personale (Ga., B. e Bi.), non fosse stato tempestivamente informato delle soluzioni adottate per gli esuberi e non avesse a sua volta acconsentito alle stesse attesa la sopra evidenziata collegialità delle scelte aziendali relative alla vicenda che ci occupa. Per non dire che il Ca., nella sua qualità, come già osservato dal primo Giudice, avrebbe dovuto certamente rispondere alla proprietà nel momento in cui nello stabilimento da lui diretto si verificava la strana situazione per la quale decine d'impiegati venivano retribuiti senza far loro svolgere alcuna attività lavorativa.

Dal canto suo il Bi., assieme ad altri coimputati, lascia intendere -fra l'altro, parlando prevalentemente al plurale (abbiamo..., tutti quanti noi...)-, che le decisioni erano state prese dai vertici aziendali, con il concorso dei responsabili del personale delle tre aree dello stabilimento e che, quindi, tutti avevano deciso della gestione degli esuberi, della LAF, della soluzione della novazione, ecc.

Insomma la scelta dei vertici aziendali non é stata subita ma pienamente condivisa dai responsabili delle tre aree del personale che avevano pianificato la ristrutturazione, gli esuberi e la soluzione rappresentata dalla palazzina Laf per indurre alla novazione che fu assunta consapevolmente in violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c, incombente sui responsabili del personale e delle singole aree coinvolte dalla ristrutturazione, in comune con il datore di lavoro, di adottare tutte le misure idonee e necessarie a tutelare l'integrità fisica e morale dei lavoratori.

Quanto al Gr., é fin troppo comprensibile come le sue specifiche censure si limitino a contestare l'oggettiva ricorrenza degli estremi del reato come sopra confutate, attesa la sua totale implicazione sotto ogni profilo nella gestione della palazzina Laf, della quale era dirigente: la sua figura troneggia a tutto campo nella fase esecutiva del disegno criminoso allorché procede direttamente all'invio di diversi impiegati alla palazzina Laf e reitera sistematicamente a quasi tutti gl'impiegati ivi destinati la sollecitazione alla novazione del rapporto di lavoro nella qualifica operaia, così mostrando apertamente di condividere con piena consapevolezza, sotto ogni aspetto, le scelte aziendali delle quali fu solerte e meticoloso realizzatore.

Quanto al B., al Bi. e al Ga., va anzitutto ribadita la loro totale partecipazione sotto il profilo materiale e psicologico nella realizzazione del reato contestato, attesa la diretta riconducibilità ai medesimi, quali dirigenti delle tre aree di gestione del personale, della scelta aziendale e del conseguente uso strumentale della palazzina Laf al fine di ottenere le novazioni da parte dei dipendenti colà inviati.

Per quel che concerne le rispettive parti lese si devono richiamare tutte le specifiche osservazioni già svolte riguardo ad esse in confutazione delle deduzioni difensive. In particolare si rileva:

- in relazione al B., come il Pr. e il Sa., provenienti dalla Sidermontaggi e vittime della riottosità dell'ILVA di adempiere esattamente agli accordi ministeriali che prevedevano la loro riassunzione nella medesima qualifica d'impiegati, abbiano indicato esplicitamente nel B. colui che li aveva per primo contattati (rappresentando l'assenza della condizioni per l'assunzione in qualità d'impiegati al Sa., successivamente avvicinato dal Gr., e manifestando direttamente al Pr. l'alternativa tra novazione del rapporto di lavoro con passaggio alla qualifica operaia e l'invio alla detta palazzina a non far nulla) e come per Ve., Ma. e In.a nulla valesse la rappresentata disponibilità a svolgere mansioni d'operaio in quanto, successivamente rifiutando la proposta del B. di addivenire alla formalizzazione della novazione, mostrarono di aver ritenuto tale loro posizione come meramente transitoria;

- in relazione al Bi., che le posizioni di Mo. e di Gi., già addotte dalla difesa, assieme ad altre nella parte generale degli atti di gravame, sono state esaminate in precedenza;

- in relazione al Ga., che Ad. e De., anch'essi impiegati provenienti dalla Sidermontaggi, lo hanno esplicitamente indicato come colui che aveva loro intimato la consueta e drastica alternativa tra novazione del rapporto di lavoro con passaggio alla qualifica operaia e l'invio alla palazzina, Laf; che le posizioni di Ca. e Mo., già addotte dalla difesa, assieme ad altre (tra cui Gi.) nella parte generale degli atti di gravame, sono state esaminate in precedenza; che per Fa., la quale era stata inviata alla Laf dopo avere rifiutato la proposta del Ga. di addivenire alla novazione in conseguenza di una lite avuta con il responsabile dell'ultimo posto al quale era stata destinata, non possono avere alcuna rilevanza le pregresse diverse collocazioni; che considerazioni analoghe a queste ultime nonché a quelle testé svolte in ordine a Ve., Ma. e In.valgono per la posizione del Me. il quale aveva accettato la novazione solo a seguito degli accordi del 1999 e quindi dopo la chiusura della Laf.

Quanto alla parte lesa Da., é evidente come il teste sia incorso in notevoli confusioni mnemoniche laddove, da un canto, ha inizialmente menzionato -nel corso della deposizione dibattimentale- quale autore iniziale della proposta di novazione, il nome del suo caporeparto, persona della quale non aveva mai fatto prima cenno (p. 205 ud. 10.7.2000) e poi ha riferito di non aver parlato con il Ga., sebbene risulti dalla contestazione del P.M. che il Da. e il Me. furono entrambi, e quindi contestualmente, "chiamati dall'Ufficio del personale nella persona di Pa.C. e Ga." e il Me. abbia, dal canto suo, confermato di aver parlato sia con il Pa. sia con il Ga.. Del resto, in precedenza (pp. 208-209, ibidem), il Da. ha risposto, a specifica domanda del P.M. (se nel corso del colloquio) "Pa. e Ga., fecero riferimento a condizioni di esubero nel suo ufficio?", "Si mi dissero che ero in esubero". Tanto, unito alla predetta posizione apicale rivestita dal Ga. nell'area di gestione del personale (nella quale era inserito anche il Pa.) e alle sue prerogative decisionali, induce a ritenere il pieno coinvolgimento anche del Ga. nella specifica vicenda del Da..

Per quel che concerne il Pa., alto dirigente dell'Ufficio personale e collaboratore del Ga. (come si evince dalle deposizioni del Me. e del Mo.), é innegabile che il suo stesso rango amministrativo lo ponesse in condizioni di essere perfettamente a conoscenza di tutte le recenti scelte aziendali, come peraltro la sua specifica condotta conferma. Inoltre, dal contenuto dei colloqui avuti con tutte le parti lese che lo riguardano (Mo., Me., Ci. e Da.), se da un lato risulta l'esternazione della consueta alternativa tra la formale novazione del rapporto di lavoro con demansionamento alla qualifica operaia e l'invio alla palazzina Laf, dall'altro si deve necessariamente inferire che siffatta prospettazione implicava la piena consapevolezza dell'efficacia intimidativa della palazzina e dell'alternativa sottoposta al lavoratore specie laddove, come nel caso di Ci., questi avesse già sperimentato un analogo trattamento.

Nel richiamare tutte le osservazioni in precedenza svolte a proposito delle censure mosse sulla scorta delle specifiche peculiarità delle vicende delle varie parti lese, si ricorda che il Mo., che proveniva da un'attività impiegatizia d'ufficio, aveva avuto difficoltà soggettive nel nuovo posto di capoturno presso il tubificio ERV al quale era stato forzatamente adibito ed aveva rifiutato di ufficializzare il mutamento della qualifica da impiegato ad operaio e che la novazione intervenne dopo gli accordi del 1999 e quindi dopo la chiusura della palazzina e dopo che ormai il reato di tentata violenza privata si era perfezionato ai loro danni: sicché in quella sede vi si determinarono del tutto liberamente, essendo in precedenza cessata per l'intervento dell'A.G. la condotta coartatatoria. Analogamente per Da. e Me. non ha alcuna rilevanza la precedentemente mostrata disponibilità alle mansioni operaie che effettivamente prestarono: il successivo rifiuto del Da. di formalizzare la novazione dimostra che quella condizione era ritenuta del tutto precaria ("mio malgrado feci l'operaio") e non accettabile in via definitiva e l'adesione alla novazione del Me. solo dopo gli accordi del 1999 non valgono ad escludere l'integrazione del reato in suo danno fino alla chiusura della palazzina allorché cessò l'efficacia intimidativa della stessa. Consimile é anche la vicenda del Ci. che, dopo aver sperimentato in precedenza l'invio ad opera del Gr. ad altra palazzina con alternativa di fare l'operaio e dopo essersi risolto a fare l'operaio nonostante i trent'anni di esperienza, era stato invitato dal Pa. a formalizzare la novazione con la consueta prospettazione della Laf in caso di rifiuto; dopo un'ulteriore spostamento di attività era stato inviato alla detta palazzina: anche qui la mostrata disponibilità alle mansioni operaie, non vanifica in alcun modo la consapevole e deliberata condotta coartatoria posta in essere ai danni del Ci..

Analoghe considerazioni s'impongono in relazione all'Or., al Mu. e all’Ir., tutti funzionari dell'Ufficio personale che, come tali, non potevano non essere perfettamente a conoscenza delle scelte aziendali assunte dai loro superiori gerarchici e che, conseguentemente, allorché contattarono le rispettive parti lese (Gi., Za. e Lo.), erano ben consci del significato e valenza intimidatori della palazzina Laf che dai medesimi imputati veniva deliberatamente prospettata ai malcapitati interlocutori, quale unica alternativa all'attività di operaio, da tutti poi rifiutata, sicché vennero colà immediatamente destinati ed anzi l'Or. provvide personalmente ad accompagnarvi seduta stante il Gi..

In particolare, giova qui ribadire le osservazioni già fatte in precedenza riguardo alla posizione dello Za. il cui rifiuto (peraltro motivato), in epoca antecedente, di altra attività, dal medesimo per giunta ritenuta di mansioni operaie, e le diverse (ed insindacabili) scelte alle quali addivenirono altri suoi colleghi, non valgono a scriminare in alcun modo il successivo comportamento coartatorio dal Mu. assunto nei suoi confronti, allorché venne posto di fronte all'alternativa della novazione del rapporto di lavoro con demansionamento alla qualifica operaia e l'invio alla palazzina Laf (p.159 ud. 10.7.2000). Analogamente il Lo., ingegnere elettrotecnico, venne ricevuto dall'Ir. il quale, "con un tono abbastanza deciso", lo pose dinanzi alla secca, drastica alternativa della novazione con passaggio alla qualifica di operaio ovvero della destinazione alla palazzina Laf ove, a seguito del suo rifiuto, fu poi inviato.

I modi "garbati" (come definiti nell'atto di gravame) dell'imputato non devono confondersi con quell'atteggiamento di distacco amministrativo tipico di chi si accinge ad intimare al proprio interlocutore subalterno un'alternativa di quel genere, stigmatizzato dal quel "tono abbastanza deciso" che caratterizzò sia la proposta iniziale sia il successivo invito di aspettare perché dovevano accompagnarlo alla palazzina (pp. 149-151 ud. 10.7.2000).

Non meno perentorio fu l'Or. con il Gi. al quale disse che, essendo in esubero, non aveva altre possibilità che fare l'operaio e appena il Gi. mostrò di rifiutare gli annunciò la sua destinazione alla palazzina Laf: va da sé che la proposta di novazione con passaggio alla qualifica operaia, in quel contesto e con quelle premesse, era insita nella prospettazione di "fare l'operaio" e che l'alternativa fu comunicata ed appresa dal destinatario, che si vide rifiutare anche un rinvio della decisione, seduta stante anche di fatto con l'immediato accompagnamento alla palazzina (p. 24 e ss. ud. 11.7.2000).

Quanto al Ca., sebbene dirigente del SIA e non inquadrato nell'Ufficio personale, ha mostrato di condividere molto intensamente i disegni aziendali ed in particolare le aspirazioni dell'Ufficio del personale (tentativi di licenziamento del delegato sindacale Marossi e di attribuzione di addebiti a tal Rondinelli per cui chiese l'appoggio del P.) come si evince dalle deposizioni di P. e del teste Marossi A. e dalle sue stesse dichiarazioni autoelogiative in ordine ai risultati conseguiti nell'ente da lui diretto e alla riorganizzazione dello stesso.

Dalle stesse dichiarazioni del Ca. emergono altresì, oltre ai rapporti non sereni con il Marossi predetto, anche la scarsa considerazione nei confronti dei suoi dipendenti P. (dalla cui denuncia ha tratto origine l'intero procedimento), del quale veniva stigmatizzata la propensione all'instaurazione di cause di lavoro e definito come impiegato di basso valore per il suo continuo assentarsi dall'azienda, per la sua incapacità ad imparare, per i rapporti perversi che aveva con gli altri colleghi (dei quali spesso registrava le parole con un registratore nascosto) e L.B. che, poiché aveva preso a trascurare l'impegno lavorativo per sostenere gli ultimi esami per il conseguimento della laurea (in giurisprudenza), era stato costretto a considerare "in esubero".

Tale atteggiamento del Ca. nei confronti delle predette parti lese lumeggia e riscontra abbondantemente l'esplicito invito rivolto al P. di abbandonare le cause intentate contro IILVA e di dimettersi dal sindacato (deposizioni di P. e Marossi) con l'esplicita minaccia, in caso contrario, di essere destinato alla Laf e successivo invio alla detta palazzina nonché la destinazione alla Laf del L.B. (pp. 67 e ss. ud. 4.7.2000) in attuazione di una minaccia precedentemente rivoltagli in tal senso (sol perché gli era stato richiesto un permesso per poter seguire la scuola forense alla sera).

Il ruolo avuto dal Ca. nelle vicende del P. e del L.B. fu, cioè, determinante e non di mero "passacarte" verso l'Ufficio personale, nel senso che non solo si coglie la sua piena consapevolezza dell'efficacia intimidativa della palazzina Laf e del complessivo disegno aziendale ma altresì la sua deliberata partecipazione ad esso, facendosene, anzi, con fattivo contributo causale, primario ed attivo interprete e sfruttandone le peculiarità per liberarsi di due scomodi dipendenti (v. in proposito, la deposizione del teste Marossi, p.267 ud. 11.7.2000: "...non lo faceva per ridurre gli organici, lo faceva per liberarsi delle persone, perché poi le sostituiva... perché lui ha mandato alla palazzina Laf dei miei colleghi di tutti noi da tanto tempo che erano professionalmente preparati...).

Deve conclusivamente confermarsi l'impugnata sentenza in relazione alla ritenuta penale responsabilità di tutti gli odierni imputati appellanti in ordine ai delitti di tentata violenza privata loro rispettivamente ascritti.

Quanto al gravame della Parte Pubblica, relativo all'assoluzione al reato di frode processuale, deve rilevarsene la sostanziale fondatezza.

Non può non convenirsi, infatti, sulla palese contraddizione in cui è incorso il primo Giudice.

Questi ha dato atto -e non poteva diversamente- della circostanza dell'effettuazione dei lavori nella palazzina Laf per migliorare lo stato di assoluta inadeguatezza logistica della

stessa

L'entità dei lavori non fu affatto trascurabile: dalla deposizione dell'Ispettore Monaco si evince che rispetto a quanto da lui notato in precedenza, nel corso dell'ispezione eseguita in data 7.11.1998 dalla Procura (che l'aveva disposta con decreto in data 3.11.1998, notificato ai rappresentanti legali dell'ILVA e al direttore dello stabilimento tarantino il 4.11.1998), era stato dal medesimo rilevata la tinteggiatura delle pareti, la sistemazione degli infissi, l'aggiunta di scrivanie (pur riconoscendo che era cambiato solo formalmente l'aspetto della palazzina, essendo comunque rimasta l'inadeguatezza dei luoghi per il numero delle persone e per la condizione d'impossibilità di muoversi e di fare qualsiasi attività).

Inoltre, a prescindere dalle deposizioni dei testi De Benedittis e Quaranta, operai dell'ILVA addetti alla manutenzione che eseguirono i lavori, che hanno cercato di minimizzare l'entità degli stessi, dalla bolla dei lavori esibita dal P.M. si evince che i lavori disposti consistevano nella sostituzione delle plafoniere, nel montaggio coperchi delle prese elettriche, nel ripristino della rubinetteria e delle finestre e nella sostituzione maniglie e che occorsero ben due giorni (5 e 6.11.1998) di lavoro pieno di due operai: un tempo decisamente notevole per uno stabilimento quale I'ILVA ove la massima efficienza possibile era divenuto l'unico parametro di riferimento.

E' innegabile, quindi, che i lavori furono effettuati per migliorare sensibilmente le condizioni della palazzina che, a parte quanto riferito dall'Ispettore Monaco in relazione allo stato pregresso ("condizioni scadenti... c'erano degli spifferi e delle correnti notevoli perché gl'infissi presentavano delle fessure, alcuni non si chiudevano...mancavano i vetri...vi erano delle prese di corrente che presentavano pericoli"}, sono state coralmente descritte come fatiscenti ed indecorose da gran parte delle parti lese.

Risulta, inoltre, che i lavori erano stati sollecitati dal Gr. in data 4.11.1998 (dep. Fanigliulo, pp. 129-130 ud. 3.7.2001) al capoturno Fanigliulo il quale, a sua volta, incaricò i due operai suddetti, De Benedittis e Quaranta (pp. 129 e 158 ud. 3.7.2001).

A questo punto, però, non si può condividere la conclusione del primo Giudice, secondo il quale tali lavori erano "inidonei a cagionare il pericolo d'inganno del giudice, requisito unanimemente richiesto per ritenere configurato il reato" poiché "una finestra in più o in meno, una maniglia riparata in più o in meno nella palazzina Laf non sembra possano assumere rilevanza decisiva e tale da provocare il rischio di ingannare l'autorità giudiziaria nell'accertamento dei fatti per i quali si stava procedendo" .

Invero, deve invece ritenersi che l'assoluta inidoneità dell'immutazione dei luoghi a generare la frode processuale si verifichi solo quando la condotta é talmente grossolana da rivelare "lctu ocull" l'artificio, si da togliere qualsiasi potenzialità ingannatrice all'immutazione stessa con una valutazione da effettuare "ex ante" o, come si é espressa più recentemente la S.C. con la sentenza citata dal P.M. appellante, "1`immutazione dei luoghi non integra il reato solo quando sia talmente grossolana e cosi agevolmente percepibile a prima vista da non essere idonea a indurre in errore nessuno, non comportando il pericolo implicato dalla norma incriminatrice, pericolo che esiste invece ogni qual volta 1`immutazione sia percepibile soltanto a un esame non superficiale e possa sfuggire a un occhio non particolarmente esperto". (Cass. pen., sez. VI, 6.11.1998, n. 13645, Scialpi)

E nel caso di specie non é nemmeno ipotizzabile siffatta grossolanità, tenuto conto dell'entità non certo minimale dell'intervento manutentivo, atteso che i magistrati del Pubblico ministero, non avendo mai prima visitato la palazzina in questione, ben sarebbero potuti essere tratti in inganno ricavandone un'impressione visiva distorta e più attenuata di quell' "ambiente non decoroso e trascurato" inserito nei capi d'imputazione come uno degli elementi essenziali necessari per porre i lavoratori in uno stato di coazione psicologica, come poi riconosciuto sia nella sentenza impugnata sia in questa sede.

Orbene, indipendentemente dalla notazione secondo cui é comunque irrilevante il momento in cui sarebbe stato impartito dal Gr. l'ordine di esecuzione dei lavori, in quanto il reato di cui all'art. 374, 2° comma c.p., può essere commesso anche anteriormente all'inizio del procedimento penale e quindi anche qualora i lavori fossero stati disposti e decisi prima della notifica di qualsiasi atto giudiziario, non può non constatarsi come i lavori siano stati commissionati dal Gr. al Fanigliulo, lo stesso giorno in cui fu effettuata la notifica del decreto che annunciava l'ispezione per il successivo 7.11.1998.

E' quindi palese che i vertici aziendali e segnatamente Ri.E. e il Ca. (destinatari delle notifiche: in particolare il Caporosso risultava anche domiciliatario del Ri. ed é indubitabile che lo abbia tempestivamente informato, come suo dovere sia sotto il profilo gerarchico interno sia sotto quello processuale), nell'ottica di quella costante concertazione che li vede affiancati in tutte le risoluzioni concernenti la palazzina Laf già oggetto della visita della commissione senatoriale (in occasione della quale furono eseguiti ulteriori lavori di miglioria alla struttura), in un momento storico e procedimentale in cui era ormai nota l'attenzione della magistratura verso la palazzina Laf sicché era fin troppo evidente l'importanza probatoria dell'atto giudiziario in questione, si affrettarono seduta stante ad informare dell'imminente ispezione della Procura il Gr. perché provvedesse tempestivamente ad edulcorare, con gli opportuni e poi disposti interventi di manutenzione, l'aspetto e le condizioni della palazzina.

Si ritiene di limitare l'affermazione di colpevolezza in ordine al detto reato di cui al capo k) solo agli imputati Ri.E., Ca. e Gr., mantenendo ferma la già pronunciata assoluzione di Ri.C. per non aver commesso il fatto, condividendosi le argomentazioni dell'impugnata sentenza in ordine alla posizione di quest'ultimo, del quale non é stato possibile ricavare il ruolo formale ricoperto all'interno dell'ILVA s.p.a. o dello stabilimento di Taranto da cui trarre almeno un argomento logico sul quale fondare la sua consapevolezza di quanto era stato realizzato e la sua piena partecipazione al piano aziendale.

Meritevoli d'accoglimento si ritengono, di converso, le censure degl'imputati appellanti relative al trattamento sanzionatorio.

Invero, pur condividendosi le considerazioni del primo Giudice in ordine alla protrazione nel tempo della condotta criminosa degli imputati incentrata nella creazione dell'odioso ed anacronistico ghetto costituito dalla famigerata palazzina Laf e della gravità del danno arrecato a gran parte dei lavoratori parti-lese che hanno subito rilevante nocumento sia alla salute sia nell'ambito familiare, si deve comunque constatare l'eccessiva entità delle pene inflitte, che si ritiene di rideterminare in radice, alla stregua della rivisitazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p. e segnatamente della compiuta valutazione della globale personalità degl'imputati e tenuto conto della mancata previsione di uno specifico minimo edittale per il delitto di tentata violenza privata nonché della diminuzione della pena prevista dall'art. 56, 2° comma c.p..

Inoltre ritiene la Corte che, in sede della valutazione bilanciata tra la gravità oggettiva del fatto e le rispettive condotte individuali, le attenuanti generiche, in considerazione dell'isolato e modesto precedente penale del Ca. e dello stato di totale incensuratezza di tutti gli altri imputati, diversi dal Ri., debbano essere concesse anche ai medesimi.

Corretto e non suscettibile di modifica alcuna appare, invece, l'apprezzamento con criterio di equivalenza tra le già concesse attenuanti generiche e la contestata recidiva assunto nei riguardi di Ri.E., attesa la sua posizione di netta apicalità nell'ambito dell'amministrazione societaria e alla conseguente predominante valenza delle sue determinazioni nelle scelte aziendali.

Pertanto, in sede di rideterminazione delle pene irrogabili, previa unificazione con il vincolo della continuazione dei reati (ivi compreso, cioè, quello di cui all'art. 374 c.p. sub capo k) rispettivamente ascritti a Ri.E., Ca.L. e Gr.A. ritiene la Corte congrue le seguenti pene:

- anni uno e mesi dieci di reclusione (pena base per il più grave reato di cui all'art. 374 c.p.: anni 1 di reclusione aumentata di mesi 10 di reclusione ai sensi dell'art. 81 cpv. c.p.) per Ri.E.;

- anni uno e mesi sei di reclusione (pena base per il più grave reato di cui all'art. 374 c.p: anni 1 di reclusione, diminuita di mesi 4 per effetto degli artt. 62 bis e 65 n.3 c.p., quindi aumentata di mesi 10 ai sensi dell'art. 81 cpv. c.p.) per Ca.L.;

- anni uno e mesi tre di reclusione (pena base per il più grave reato di cui all'art. 374 c.p: anni 1 di reclusione, diminuita di mesi 4 per effetto degli artt. 62 bis e 65 n.3 c.p., quindi aumentata di mesi 7 ai sensi dell'art. 81 cpv. c.p.) per Gr.A.;

- anni uno di reclusione (pena base: anni 1 di reclusione, diminuita di mesi 4 per effetto degli artt. 62 bis e 65 n.3 c.p., quindi aumentata di mesi 4 ai sensi dell'art. 81 cpv. c.p.) ciascuno, per B.A., Ga.A. e Bi.I.;

- mesi sei di reclusione (pena base: mesi 6 di reclusione, diminuita di mesi 2 per effetto degli artt. 62 bis e 65 n.3 c.p., quindi aumentata di mesi 2 ai sensi dell'art. 81 cpv. c.p.) per Pa.C.;

- mesi cinque di reclusione (pena base: mesi 6 di reclusione, diminuita di mesi 2 per effetto degli artt. 62 bis e 65 n.3 c.p., quindi aumentata di mesi 1 ai sensi dell'art. 81 cpv. c.p.) per Ca.A.;

- mesi quattro di reclusione (pena base: mesi 6 di reclusione, diminuita di mesi 2 per effetto degli artt. 62 bis e 65 n.3 c.p.) ciascuno per Or.E., Ir.G. e Mu.G..

Non ricorrendo condizioni ostative di natura soggettiva ovvero oggettiva, possono convertirsi, ai sensi degli artt. 53 D.P.R. 689/81 (e succ. modif.) e 135 c.p., le pene detentive rispettivamente inflitte al Pa., al Ca., all'Or., all'Ir. e al Mu. con quelle corrispondenti pecuniarie nella misura indicata in dispositivo.

A seguito della contrazione delle pene come sopra rideterminate entro il limite dei due anni di reclusione e tenuto conto dei modesti precedenti non ostativi del Ri. e del Ca., sono ravvisabili anche per costoro i presupposti di fatto e di diritto del beneficio della sospensione condizionale dell'esecuzione della pena per i termini e sotto le comminatorie di legge.

Sempre in considerazione della penale incensuratezza di tutti gli appellanti diversi dal Ri. e dal Ca., i medesimi possono esser ammessi, altresì, a godere dell'ulteriore beneficio della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale a termini dell'art. 175 c.p.

Quanto all'appello delle parti civili UIL regionale e provinciale, considerate unitariamente per le ragioni di cui in prosieguo, si osserva.

Anche in questo caso la Corte ritiene di accogliere in buona parte le censure mosse alla decisione sul punto del primo Giudice: non può non constatarsi, al riguardo, la stridente contraddizione con il complesso delle argomentazioni riversate nell'impugnata sentenza.

Invero, al di là delle singole persone fisiche offese, si erge onnipresente la figura del vero grande danneggiato dal reato contestato: il sindacato.

Le pur profonde ed eleganti analisi operate riguardo all'assenza di un danno in capo al sindacato riconducibile direttamente alla condotta criminosa posta in essere dagl'imputati non convincono.

Dire che la posizione del sindacato sia stata solo indirettamente colpita, che anzi la condotta illecita degli imputati avrebbe potuto paradossalemente rappresentare uno stimolo utile a far crescere il sindacato, che la lesione anzi la sconfitta dello stesso trova causa diretta in altre cause ricondotte, tra l'altro, a situazioni generali di natura occupazionali di questa città, che notoriamente ha come unica azienda industriale privata di siffatte dimensioni solo I'ILVA (che quindi rappresenta non solo la "cartina di tornasole" del livello e stato occupazionale tarantino, ma addirittura il suo fulcro stesso), costituisce una chiara quanto inconciliabile contraddizione sia con la realtà socio-economica locale sia con tutta l'impalcatura del procedimento e degli elementi del reato come esaminati ed accertati tanto nell'impugnata sentenza quanto nella presente.

Così a proposito dell'illegittimità della costrizione, così a proposito dell'ingiustizia del danno, così a proposito del movente, sempre si è sottolineato che la condotta degl'imputati colpiva direttamente la funzione di tutela e controllo assegnata ai sindacati, eludendo ogni dialettica con gli stessi, specie in aperta violazione delle procedure previste dalla L. n. 223 del 1991.

Peraltro, anche a fronte di eventuali di concause su base locale o centrale d'indebolimento, ciò non esclude la diretta incidenza della condotta criminosa: persino colui che deliberatamente colpisca una persona gravemente ferita che poi muoia concorre nel conseguente evento letale.

Va richiamato quanto rilevato a proposito dei peculiari "vizi" di quei lavoratori che furono inviati alla palazzina Laf, tra i quali si staglia, quasi come un leit motif, l'appartenenza al sindacato e la sollecitazione a ritirare l'iscrizione ad esso (v. casi P., Ca., Le., Ch., Ve., Fi.): come negare che tale martellante e sistematica politica aziendale non abbia inciso sia sulla consistenza numerica degli aderenti al sindacato sia sulla sua immagine e potere contrattuale? E come ritenere che tale effetto sia stato solo indirettamente perseguito e voluto?

L'affermazione della voce padronale attraverso lo "spauracchio" della palazzina Laf e la conseguente condotta criminosa posta in essere nei confronti di tutti gl'impiegati ivi destinati comportava direttamente e necessariamente, al contempo, l'affievolimento sia nell'ottica dei medesimi sia a livello globale delle prerogative e delle capacità interlocutrici dei sindacati, poiché per ottenere il loro obiettivo e cioè il demansionamento al di fuori di ogni controllo, gl'imputati dovevano dovevano contestualmente ledere i diritti del sindacato.

Del resto, ciò s'inserisce perfettamente in quel "conflitto plateale, anomalo, abnorme" tra sindacato e proprietà e in quell' "uso disinvolto se non distorto delle proprie prerogative e la mancanza di rispetto per il ruolo della rappresentanza sindacale, considerata alla stregua di fastidioso incomodo..." da parte del gruppo Ri. rilevati nello Schema conclusivo dell'indagine conoscitiva della Commissione Senatoriale (p. 2).

Se, peraltro, fu proprio il sindacato a coinvolgere la Commissione Senatoriale presieduta dal Sen. Smuraglia (dep. Galiano, p. 157 ud. 28.3.2000), ciò avvenne, evidentemente, perché nessun altro interlocutore locale era possibile: a quel momento il tentativo del reato di violenza privata era ormai perfezionato ed aveva già prodotto il suo effetto di isolare e delegittimare i sindacati al punto da costringerli a valicare qualsiasi ostacolo locale e ricorrere addirittura alle massime Autorità parlamentari di controllo nel settore del lavoro. Analogamente gli accordi del 1999, intervenuti in epoca successiva al reato in questione, non possono fornire alcun lume in ordine alle ragioni per le quali i sindacati si risolsero ad aderirvi: semmai valgono a dimostrare ancora una volta lo stato di estrema debolezza in cui versavano, stato che non può non ricondursi anche alla pregressa condotta degl'imputati tanto che, nel prendere atto della situazione di fatto avviata ed attuata, non si faceva alcun cenno alla palazzina Laf.

A nulla rileva, infine, la circostanza che le altre sigle sindacali siano assenti nel presente procedimento: si tratta di scelte autonome ed insindacabili, né valutabili in alcun modo. Consegue la condanna di tutti gl'imputati odierni appellanti, per quanto di ragione, al risarcimento del danno, da liquidarsi nella competente sede civile al pari di quanto statuito in primo grado per le altre parti civili, nonché, in solido, alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza, relative ad entrambi i gradi di giudizio, in favore della parte civile UIL, nella misura specificata in dispositivo.

Giova rimarcare, a tal proposito, l'unicità della parte civile in questione attesa l'unitaria accezione e forza rappresentativa dell'associazione sindacale connotata dalla sigla predetta: ad essa in via generale ed inscindibile, al di là della sua strutturazione periferica ed interna, deve ricondursi il peculiare centro d'interessi al quale imputare il danno, di natura prevalentemente morale, patito per effetto dell'illecita condotta dei prevenuti elusiva dell'intervento sindacale, apprezzandosi la costituzione della rappresentanza regionale in aggiunta a quella provinciale del sindacato, quale meramente rafforzativa e confermativa delle ragioni fatte valere in giudizio a tal fine.

Non si ravvisano, di converso, i presupposti per quantificare e concedere in favore di detta parte civile l'impetrata provvisionale la quale dovrebbe limitarsi alla liquidazione, ancorché parziale, del solo danno morale la cui consistenza, attesa la natura stessa, impersonale, della parte civile in questione e la peculiarità della vicenda, non é possibile determinare con certezza, sino a concorrenza di una somma liquidanda sia pur in via approssimativa.

Non ricorrono, alla luce di tutte le sopra esposte osservazioni, nemmeno elementi di tale incisività da differenziare o ridurre la quantificazione dei danni operata nell'impugnata sentenza (peraltro in questa sede limitata alla sola concessione della provvisionale in relazione ad una quota parte, eguale per tutti, del rispettivo danno morale) nei confronti dei plurimi lavoratori-parti lese.

Consegue, infine, la condanna degl'imputati Ri.E., Ca., Ca., Gr., Ga., B., Bi. e Ir. alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza relative al presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, in favore delle rispettive parti civili che hanno rassegnato le conclusioni a loro carico.

In tali termini conseguirà la parziale riforma dell'impugnata sentenza, nel resto integralmente confermanda.

Atteso il palese errore materiale rinvenibile nel dispositivo dell'impugnata sentenza, laddove indica Ca. L. in luogo di Gr.A. tra gl'imputati assolti dal reato di cui al capo k), si deve disporre, ai sensi dell'alt. 130 c.p.p., la correzione del medesimo nei termini precisati nel presente dispositivo.

Si reputa opportuno riservare, ai sensi dell'art. 544, 3° co. c.p.p., tenuto conto del numero degl'imputati e delle imputazioni nonché della particolare complessità del procedimento, il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione.
 
P.Q.M.
 
La Corte, letti gli artt. 605-592 C.P.P.;

- in parziale riforma della sentenza emessa in data 7.12.2001 dal Tribunale di Taranto, in composizione monocratica, appellata dagl'imputati Ri.E., Ca.L., Ca.A., B.A., Ga.A., Bi.I., Gr.A., Pa.C., Or.E., Ir.G. e Mu.G. nonché dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto e dalla parte civile UIL:

- afferma la penale responsabilità di Ri.E., Ca.L. e Gr.A. anche in ordine al reato di cui al capo k) dell'imputazione, unificato per continuazione con gli altri reati ai medesimi rispettivamente ascritti;

- condanna tutti gl'imputati, per quanto di ragione, al risarcimento dei danni anche in favore della UIL;

- concede a tutti gl'imputati predetti, diversi dal Ri., le circostanze attenuanti generiche;

- ridetermina la pena in anni uno e mesi dieci di reclusione nei confronti di Ri.E., anni uno e mesi sei di reclusione per Ca.L., anni uno e mesi tre di reclusione per Gr.A., anni uno di reclusione, ciascuno, per B.A., Ga.A. e Bi.I., mesi sei di reclusione per Pa.C., mesi cinque di reclusione per Ca.A., mesi quattro di reclusione ciascuno per Or.E., Ir.G. e Mu.G.;

- sostituisce la pena detentiva inflitta a Pa. con la multa nella misura di € 6.840,00; - sostituisce la pena detentiva inflitta a Ca. con la multa nella misura di € 5.700,00;

- sostituisce la pena detentiva inflitta a Or., Ir. e Mu. con la multa nella misura di € 4.560,00 ciascuno.

- Concede il beneficio della sospensione condizionale della pena a Ri. e Ca. e, a tutti gli altri imputati diversi dai due predetti, quello della non menzione della condanna.

- Conferma nel resto l'impugnata sentenza e condanna tutti gli imputati in solido tra loro a rifondere la parte civile UIL delle spese di costituzione e rappresentanza, liquidate in euro 1.544,00 (di cui € 44 per esborsi) per il primo grado di giudizio e in euro 1.022,00 (di cui € 22,00 per esborsi) per il presente grado di giudizio.

- Condanna Ri., Ca. e Ca. alla rifusione delle spese di questo grado di giudizio in favore della parte civile P. liquidandole in € 1.022,00 (di cui € 22,00 per esborsi).

- Condanna Ri., Ca. e Gr. alla rifusione delle spese di questo grado di giudizio in favore delle parti civili Le., Ba., Lo., Ca., Ca., Giove, D.G., Ma. e Sp., liquidate in € 1.172,00 (di cui euro 22,00 per esborsi) per Ba. e Le. R., € 1.172,00 (di cui euro 22,00 per esborsi) per Lo. e Ca., € 1,366,00 (di cui euro 66,00 per esborsi) per Ca., Gi.e D.G., € 1.022,00 (di cui € 22,00 per esborsi) per Ma. ed € 222,00 (di cui € 22,00 per esborsi) per Sp., in aumento di quanto come sopra liquidato, per questo grado di giudizio, in favore della codifesa UIL.

- Condanna Ri., Ca. e Ga. alla rifusione delle spese di questo grado di giudizio in favore della parte civile De. liquidate in €200,00 in aumento a quanto sopra liquidato in favore del codifeso Ma..

- Condanna Ri., Ca. e B. alla rifusione delle spese di questo grado di giudizio in favore delle parti civili Pr. e Ma. liquidandole per la prima in € 200,00 in aumento a quanto sopra liquidato per il codifeso Ma. e per la seconda in € 1.022,00 (di cui € 22,00 per esborsi).

- Condanna Ri., Ca. e Bi. alla rifusione delle spese di questo grado di giudizio in favore di Gi. liquidate in € 1.022,00 (di cui € 22,00 per esborsi).

- Condanna Ri., Ca. e Ir. alla rifusione delle spese di questo grado di giudizio in favore di Lo. liquidate in € 1.022,00 (di cui € 22,00 per esborsi), oltre rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge, per tutti.

Visto l'art. 130 c.p.p., dispone che nel dispositivo della sentenza impugnata ove é scritto "assolve Ri.E., Ca.L. e Ca.A. dal reato loro ascritto sub k" debba intendersi scritto e leggersi "assolve Ri.E., Ca.L. e Gr.A. dal reato loro ascritto sub k". Manda alla Cancelleria del Giudice di I grado per le annotazioni di rito. Indica il termine di giorni 90 per il deposito della motivazione.

Taranto, 12.4.2005

Il Consigliere estensore (dr. Umberto Ma.) Il Presidente

(dr. Dino Maria 5emeraro)

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2005