Categoria: Commissione parlamentare "morti bianche"
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SENATO DELLA REPUBBLICA

XVI LEGISLATURA

Giunte e Commissioni


Resoconto stenografico

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche»

Seduta 20, martedì 10 marzo 2009

 

Audizione della Consulta interassociativa italiana della prevenzione (CIIP) e delle organizzazioni ad essa aderenti

Presidenza del presidente TOFANI, indi del vice presidente NEROZZI

Intervengono il dottor Rino Pavanello, in rappresentanza della Consulta interassociativa italiana per la prevenzione (CIIP), dell’Associazione italiana radioprotezione (AIRP) e dell’Associazione italiana epidemiologia (AIE); il dottor G. Carlo Bianchi, in rappresentanza della medesima Consulta e dell’Associazione professionale italiana ambiente e sicurezza (AIAS); la dottoressa Manuela Cadringher, la dottoressa Simonetta Leo e il dottor Claudio Francia, in rappresentanza dell’Associazione ambiente e lavoro (AMBLAV); il dottor Salvatore Taliercio, in rappresentanza dell’Associazione nazionale medici d’azienda (ANMA); il dottor Giuseppe Ciarcelluto, in rappresentanza dell’Associazione italiana formatori della sicurezza sul lavoro (AiFOS); il dottor Oronzo Parlangeli, in rappresentanza dell’Associazione italiana di ergonomia (SIE); il dottor Vincenzo Di Nucci, in rappresentanza dell’Associazione italiana tecnici della prevenzione (AiTEP); il dottor Domenico Taddeo, in rappresentanza della Società nazionale operatori della prevenzione (SNOP); il dottor Luigi Frittelli, in rappresentanza dell’Associazione nazionale professionale esperti qualificati (ANPEQ); il dottor Gianni Moro, in rappresentanza dell’Associazione nazionale medici del lavoro pubblico (ANMeLP); il professor Giorgio Trenta, in rappresentanza dell’Associazione italiana radioprotezione medica (AIRM); l’ingegner Elisabetta Gerbino, in rappresentanza dell’Associazione nazionale ingegneria della sicurezza (ANIS); il dottor Franco Pugliese, in rappresentanza dell’Associazione italiana responsabili servizi di prevenzione e protezione in ambiente sanitario (AIRESPSA).


PRESIDENTE
L’ordine del giorno reca l’audizione della Consulta interassociativa italiana della prevenzione (CIIP) e delle organizzazioni ad essa aderenti.
Comunico che sarà redatto e pubblicato il resoconto stenografico della seduta e propongo altresì, ai sensi dell’articolo 13, comma 2, del Regolamento interno, l’attivazione dell’impianto audiovisivo. Se non ci sono osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori.
Ringrazio i nostri ospiti per aver accolto l’invito della Commissione.
Sono particolarmente felice che siano rappresentate tutte le associazioni, perché questo ci permette di avere un contributo da parte di coloro che studiano e operano con riferimento alle problematiche di competenza della nostra Commissione.
Do quindi la parola al dottor Pavanello.

PAVANELLO
Quale presidente della Consulta interassociativa italiana per la prevenzione (CIIP) e segretario nazionale della sezione ambiente e lavoro sono stato incaricato dai colleghi, presidenti e delegati delle altre associazioni, di introdurre l’argomento.
Anzitutto, desidero ricordare che abbiamo consegnato agli atti della Commissione tre documenti: il primo, aggiornato alla data di oggi, è stato redatto specificamente per l’audizione odierna; gli altri due, sono atti che la nostra Consulta ha deliberato e pubblicato nel settembre 2008 e quindi il 1º dicembre successivo in relazione all’approvazione e all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81 del 2008.
Desideriamo ringraziare lei, Presidente, e tutti i commissari per l’interesse e l’attenzione continui e pregevoli che la Commissione del Senato ha dedicato al tema degli infortuni e delle malattie professionali, proseguendo un’esperienza del Senato ormai storica, dalla Commissione Lama, alla Commissione Smuraglia, alle ultime tre Commissioni da lei presiedute. Ringraziamo anche per l’attenzione che in tutti questi anni il Senato ha voluto rivolgere alla Consulta interassociativa, che è sempre stata audita dalle Commissioni di indagine sia come organismo nel suo complesso, sia attraverso le altre numerose associazioni (l’ultima audizione è del giugno 2007).
La nostra Consulta è un’esperienza che non ha eguali a livello internazionale: è formata da 14 associazioni rappresentative della multidisciplinarietà e multisettorialità esistenti in questo ambito, essendo costituite da medici del lavoro, che operano nel sistema pubblico e privato, in ambito universitario e nella ricerca, da responsabili e addetti dei servizi di prevenzione aziendali, ovvero da consulenti per la sicurezza e tecnici, da psicologi, ergonomi, epidemiologi e radioprotezionisti, nonché da rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Queste persone, che sono decine di migliaia e che noi rappresentiamo, operano in tutti i settori sia pubblici (ASL, ARPA, Direzioni provinciali del lavoro, enti e istituti nazionali e regionali) che privati (aziende private), come consulenti o nelle organizzazioni delle parti sociali.
La Consulta si pone quindi, nel panorama internazionale, forse come l’unica esperienza che mette assieme operatori di diverse discipline e che appartengono ai vari settori. E ` stata fondata nel 1991; ci preme qui ricordare il presidente fondatore, il professor Antonio Greco, uno dei più grandi luminari della medicina del lavoro a livello internazionale. Dal 1991 ad oggi, in questi diciotto anni, abbiamo tentato di operare sempre in termini interdisciplinari, facendoci portatori di indicazioni e proposte di carattere tecnico-scientifico indipendentemente dalle posizioni di altra natura che nel Paese si sono via via discusse.
Fin dalla nascita la Consulta ha operato chiedendo l’approvazione di un Testo unico. Abbiamo quindi salutato con favore prima la legge n. 123 del 2007 e, successivamente, il decreto legislativo n. 81 del 2008, cui abbiamo dato un contributo significativo. Infatti, come il Presidente e il senatore Roilo, che fu relatore di quel provvedimento, ricorderanno, molte delle proposte nostre o delle associazioni che costituiscono la Consulta sono state approvate ed inserite nel decreto legislativo n. 81.
Ad ormai quindici anni dall’approvazione del decreto legislativo n. 626 del 1994 e ad un anno dall’approvazione del decreto legislativo n. 81, pensiamo valga la pena svolgere alcune riflessioni sul fatto che, comunque, il numero di incidenti sul lavoro, di infortuni mortali e malattie professionali continua a rimanere cospicuo; occorre chiarire perché permanga ad un livello così drammatico. Al riguardo, salutiamo con grande favore il lavoro finora svolto dalla Commissione. La legislazione italiana ha fatto molti passi in avanti dalla riforma della legge n. 833 del 1978 ad oggi, tuttavia rimangono alcuni aspetti da approfondire. Negli ultimi trent’anni sono stati ampliati i poteri di intervento a livello territoriale (quindi nei luoghi di lavoro e nei siti più decentrati dove poi avvengono gli infortuni), tuttavia tali poteri sono a tutt’oggi insufficienti, così come ancora insufficiente è la diffusione della cultura della prevenzione in generale.
Si rendono pertanto necessari ulteriori interventi, tenendo conto che la legislazione italiana in materia è ormai quasi interamente di derivazione comunitaria, attraverso il recepimento delle direttive europee; addirittura i regolamenti entrano in vigore senza nemmeno essere recepiti, poiché hanno un diverso iter istituzionale.
Auspichiamo che la Commissione possa fornire un autorevole contributo nella necessaria attività di verifica e monitoraggio delle forze in campo, con interventi non solamente di controllo, repressivi, ma anche di assistenza e consulenza per le aziende, in modo particolare per quelle piccole e medie. Il documento che abbiamo depositato reca in allegato una tabella riassuntiva con i dati, aggiornati alla fine del 2008, relativi a coloro che operano nella prevenzione degli infortuni, divisi per Regione e per figure professionali (tecnici, medici del lavoro, ingegneri e altre figure laureate). Come si evince da tale tabella, siamo di fronte a valori totalmente diversi da Regione a Regione e, presumibilmente, anche da ASL ad ASL: una situazione a macchia di leopardo, che abbiamo sempre denunciato e che questa tabella, forse per la prima volta, consente di analizzare nel dettaglio. Per portare un esempio, lasciando poi intervenire in merito altri colleghi, in Lombardia, la Regione più grande, il rapporto tra tecnici della prevenzione e numero di imprese è pari a 2,758, mentre in Sicilia è pari a 8,6 (quindi tre volte e mezzo tanto). Entrando maggiormente nel dettaglio, vediamo che la Lombardia risulta avere solo nove figure laureate (chimici, ingegneri, biologi o fisici) a fronte delle 18 della Sicilia, mentre annovera 135 medici del lavoro a fronte dei 28 della Sicilia. Ho citato solo due Regioni, l’una del Nord e l’altra del Sud, per evidenziare come anche le macchie di leopardo siano tra loro molto diverse.
Se questo lavoro, che abbiamo portato avanti con grande sforzo e rigore ma che potrebbe essere notevolmente migliorato, fosse in qualche modo ripreso dalla Commissione con gli autorevoli poteri di cui dispone, potremmo conoscere per la prima volta in modo dettagliato e rigoroso, Regione per Regione, ASL per ASL, il numero di soggetti deputati all’intervento a livello territoriale, suddivisi altresì secondo le diverse figure professionali. Su questa base, evidentemente, avremmo la possibilità di esprimere non solo un giudizio, ma anche un’indicazione di merito per andare avanti.
Rispetto a tali problematiche occorre uscire dal terreno politico e verificare le forze in campo e poiché la sicurezza sul lavoro è un problema che si presenta allo stesso modo in qualsiasi Regione o Provincia d’Italia occorre ovviamente che anche che le risorse messe a disposizione vadano in questa direzione. Faccio riferimento, in proposito, ad una previsione normativa contenuta nel decreto legislativo n. 81 che è frutto di un emendamento (l’emendamento 1.122 del disegno di legge n. 1507) sottoscritto nella scorsa legislatura da lei, presidente Tofani, assieme al senatore Ripamonti e ad altri senatori, presentato in sede di esame della legge n. 123 del 2007 e che è diventato norma di legge. Ricordo che seguivo per radio la seduta in diretta, sperando che quella proposta di modifica fosse approvata.
Lei, presidente Tofani, assieme al senatore Zuccherini e ad altri senatori, chiese all’Assemblea del Senato di pronunziarsi in maniera positiva; con posizioni piuttosto articolate, l’emendamento in questione fu approvato: secondo tale disposto, le somme derivanti da sanzioni pecuniarie relative alla sicurezza dovrebbero essere destinate a campagne di informazione ed alle attività dei dipartimenti di prevenzione delle aziende sanitarie locali. In effetti ciò non è avvenuto, o per lo meno non se ne ha conoscenza.
Da questo punto di vista, la Commissione potrebbe certamente avviare un’indagine conoscitiva per verificare se queste somme, che dovrebbero essere assegnate a campagne formative ed informative all’interno dei territori, siano effettivamente a ciò destinate. Stiamo parlando di circa mezzo milione di euro ad ASL ogni anno, quindi di cifre straordinariamente alte che a volte finiscono in altri capitoli di spesa di carattere generale, a volte rimangono ferme, altre volte vengono dislocate verso ambiti diversi.
Un altro degli aspetti salienti che vorremmo rilevare è che molto spesso esistono delle competenze ma gli enti non comunicano tra loro; in particolare per alcune questioni non esiste un potere di intervento sostitutivo.
Lo diciamo con grande chiarezza e avendo molto riflettuto sul tema: pur lasciando o demandando le competenze agli enti cui per legge spettano, occorre prevedere un potere di intervento sostitutivo di livello superiore, di modo che nel caso di un’azione insufficiente vi sia qualcun altro che intervenga, che vada a controllare o comunque vigili. Ripeto, stiamo parlando di salute e sicurezza sul lavoro e di una situazione che non può registrare differenze a livello nazionale.
In sostanza, ribadiamo la necessità di lasciar affidati a livello territoriale gli interventi di controllo, dunque alle ASL o per quanto di competenza ad altri istituti, rendendo però noto e trasparente ciò che si fa in termini di risorse utilizzate e di risultati. Ricordo, sempre in occasione della discussione della legge n. 123 del 2007, un altro emendamento a firma dei senatori Tofani e Ripamonti dedicato alla settimana della sicurezza sul lavoro.
Fu uno dei pochi emendamenti non sottoposti al voto elettronico, ma non venne recepito, anche per via di interpretazioni diverse che se ne diedero.
Il ragionamento sotteso a quella proposta di modifica, che noi avevamo sollecitato, era il seguente: se ci sono risorse messe a disposizione da parte della pubblica amministrazione di esse bisogna rendere conto ai cittadini, alla pubblica opinione. Poiché tutte le aziende, pubbliche e private, presentano un bilancio annuale, non è possibile che queste realtà, qualunque esse siano e a qualsiasi livello, nazionale, regionale o territoriale, non divulghino mai ciò che hanno fatto in tema di prevenzione e sicurezza sul lavoro. Allora, in un’ottica di trasparenza, ipotizziamo una settimana o comunque un momento all’interno dell’anno in cui ogni ente che abbia competenza e quindi risorse per la prevenzione sia obbligato a presentare un bilancio preventivo delle risorse di cui dispone, di come intenda utilizzarle, dei risultati che si propone di ottenere e, successivamente, dei risultati che avrà effettivamente ottenuto.
Un altro punto che vorremmo sottolineare è che a quasi un anno dall’approvazione del decreto legislativo n. 81 mancano ancora più di 50 decreti attuativi su tematiche di diversa importanza. Al di là delle notizie giornalistiche odierne su un ipotetico decreto correttivo che il Governo starebbe preparando e che verrà poi sottoposto al parere delle competenti Commissioni di Senato e Camera e della Conferenza Stato-Regioni, i decreti attuativi devono comunque essere emanati giacché senza di essi difficilmente alcuni profili normativi potranno essere realizzati.
Occorre poi, lo abbiamo detto anche in precedenti audizioni, che vi sia certezza delle sanzioni. Non dobbiamo intervenire sulla quantità delle sanzioni stesse, ma riteniamo che esse debbano essere graduate, come in parte oggi sono, e che sia altresì necessario introdurre degli elementi premiali rispetto a comportamenti virtuosi che abbiamo ipotizzato.
L’ultimo punto in questo dodecalogo (lo abbiamo chiamato così, in termini un po’ giornalistici) che abbiamo inserito all’interno del nostro documento riguarda la piena effettività della formazione e dell’informazione.
Osserviamo, al riguardo, che la formazione non riguarda solamente i lavoratori.
Uno dei decreti attuativi ancora mancanti concerne il libretto formativo del cittadino, dove i datori di lavoro dovrebbero registrare la formazione che hanno effettivamente somministrato. Tra l’altro, esso rappresenterebbe un vantaggio per le aziende dal momento che permetterebbe di conoscere quali elementi di formazione, di addestramento, il nuovo lavoratore ha ricevuto e quindi avere delle certezze in merito.
La formazione riguarda comunque tutte le figure della prevenzione: i responsabili aziendali dei servizi di prevenzione e protezione, gli addetti, i preposti e i dirigenti. Al riguardo interverrà il vice presidente Giancarlo Bianchi; ricordiamo soltanto – lo faremo anche con le Regioni – che ad oltre 24 mesi dalla scadenza del decreto legislativo n. 195 del 2003, che aveva introdotto la formazione per gli RSPP (responsabile del servizio di prevenzione e protezione), manca l’aggiornamento del decreto stesso; siamo in una situazione monca e non se ne capisce il perché. C’è tutta una serie di decreti che dovrebbero essere adottati non solo a livello governativo, ma anche come elementi d’intesa in sede di Conferenza Stato- Regioni o ad altri livelli. Da questo punto di vista, come associazioni rappresentate all’interno della CIIP, per quanto di nostra competenza, tentiamo di dare un contributo da un punto di vista tecnico-scientifico e dichiariamo la nostra disponibilità a proseguire tale attività e ad essere eventualmente consultate anche in relazione ad altre previsioni legislative. Al riguardo, sempre nell’ambito della discussione sulla legge n. 123, un emendamento sottoscritto dai senatori Tofani, Viespoli, Coronella, Ripamonti ed altri, così come un altro emendamento del tutto similare, prevedeva che nell’istituto giuridico dell’interpello potessero presentare quesiti non solamente gli ordini e le associazioni imprenditoriali o sindacali ma anche le grandi associazioni riconosciute dal punto di vista tecnico-scientifico.
A questo punto concludo il mio intervento, anche per lasciare ad altri colleghi la possibilità di intervenire. Voglio ricordare, però, che si sta svolgendo anche un dibattito sull’evoluzione legislativa; dal punto di vista che ci riguarda, cioè quello tecnico-scientifico, siamo ormai in una situazione per cui le norme sono tutte di derivazione europea e quindi di carattere nazionale. Tali norme vengono poi applicate a livello regionale ma in generale non ci sono tracce di norme regionali se non in pochissimi casi e per aspetti assolutamente delimitati, tralasciando il campo sicurezza sul lavoro e ambiente in cui, ad esempio, rientrano le leggi sulle industrie a rischio rilevante di alcune Regioni.
In questa prima fase riteniamo che da parte nostra sia corretto evitare di entrare ulteriormente nel merito, ma potremmo farlo nel caso di domande specifiche. I documenti che abbiamo presentato si riferiscono al quadro generale di cui ho parlato e al giudizio sul titolo I del decreto legislativo n. 81, cioè la parte fondamentale e generale. Aggiungo che, come Consulta interassociativa, stiamo lavorando per l’analisi degli altri titoli del decreto legislativo n. 81, dal II all’XI, che riguardano gli aspetti tecnico- scientifici del problema. Ovviamente lo faremo velocemente e spero con rigore, considerando anche le eventuali modifiche apportate dal decreto correttivo che stiamo aspettando.
Infine, credo che in questo Paese vi sia grande bisogno, oltre ad una cultura della prevenzione in termini generali, di affrontare con rigore tecnico, medico e scientifico le cause principali degli incidenti che portano ad infortuni anche mortali o a malattie progressive. Stiamo lavorando proprio su questo anche con le altre associazioni e presenteremo alla conferenza di Bologna appositi report per l’anno dedicato alla valutazione dei rischi lanciato dall’Unione europea; tali report conterranno una serie di studi in cui si dimostrerà che gran parte degli infortuni gravi, gravissimi o mortali avviene per cause note da molti anni e che la corretta applicazione in ogni luogo di lavoro del decreto legislativo n. 547 del 1955 e del decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 1956 probabilmente eviterebbe già di per sé la stragrande maggioranza – non voglio dire la totalità – degli infortuni gravi, gravissimi e mortali. Se a questo aggiungessimo una formazione rigorosa e svolta secondo corrette prassi di formazione, informazione e addestramento, probabilmente elimineremmo la totalità degli infortuni.
Le associazioni hanno fatto propria questa attività a livello nazionale e internazionale. Auspichiamo che nel prosieguo dei lavori sulla interdisciplinarietà e sulla multisettorialità degli interventi sulla prevenzione del Governo, oltre che di questa e delle altre Commissioni di merito (lavoro e sanità del Senato e della Camera), si possa intervenire nei luoghi di lavoro, a partire dal mondo della scuola sul quale occorrerebbe intervenire fin dall’inizio perché gli studenti di oggi saranno i lavoratori di domani.

BIANCHI
Mi associo pienamente a quanto detto dal collega che mi ha preceduto nel ringraziare il Presidente e la Commissione per averci dato l’opportunità di essere ascoltati, dato che sono circa trentatré anni che la nostra associazione lavora per promuovere una prevenzione efficiente ed efficace, fatta con applicazione tecnico-scientifica in modo da ottenere risultati certi. L’obiettivo delle nostre associazioni è quello di individuare degli strumenti applicativi che, se utilizzati correttamente all’interno delle aziende, garantiscano dei risultati.
Ricordo a tutti che il problema degli infortuni è grave sotto il profilo umano, sociale ed economico. L’ammontare delle spese per la mancata prevenzione degli infortuni è ogni anno di circa il 3,2 per cento del PIL – 45 miliardi di euro –, quindi intervenire in maniera tecnica e applicativa porterebbe a dei sicuri vantaggi complessivi. A nostro parere, il decreto legislativo n. 81 costituisce un grande passo in avanti. Come Presidente delle associazioni europee dell’ENSHPO (European network of safety and health professional organisations), che racchiude 18 associazioni professionali di 18 Paesi europei, ho la possibilità di confrontare ciò che viene fatto in Italia, anche a livello legislativo, con quanto viene fatto nelle Nazioni più avanzate a livello europeo. Dunque posso affermare che il decreto legislativo n. 81 rappresenta un grandissimo passo in avanti a livello internazionale per due ragioni precise: in primo luogo, in base al capo II e al piano nazionale della prevenzione, per la prima volta viene applicato al sistema istituzionale italiano un approccio sistemico, quindi si passa da un sistema pubblico di prevenzione dei rischi frammentato, contraddittorio, costoso e poco efficace ad un sistema pubblico apparentemente coordinato, pianificato, programmato e controllato. Dico «apparentemente» riferendomi al coordinamento giuridico perché, come dimostra l’esperienza storica italiana, questo da solo non porta sicuramente ad un effettivo coordinamento e ad un’effettiva pianificazione e controllo delle attività.
Riteniamo che si debba distinguere tra recupero della centralità e normativa statale e necessità di mantenere un’applicazione puntuale della prevenzione attuata a livello regionale tramite piani e obiettivi precisi che vedano coinvolte in modo responsabile anche le ASL provinciali e soprattutto che siano controllati puntualmente nella loro applicazione dalle Regioni e dallo Stato. Quest’ultimo deve assicurare, con la collaborazione delle Regioni, la pianificazione triennale con l’individuazione e l’assegnazione di risorse in linea con piani precisi delle attività di prevenzione, identificando altresì piani annuali attuativi controllati tramite apposite riunioni in cui devono essere esaminati i risultati raggiunti e riprogrammate le attività per l’anno successivo. Ricordo, ad esempio, che il Giappone dedica alla prevenzione una settimana all’anno, in cui il Governo, di fronte al Capo dello Stato, riporta le attività svolte, i risultati raggiunti e le programmazioni delle attività di prevenzione. Personalmente provengo da un’esperienza di diciassette anni in una delle più importanti multinazionali, in cui ho ricoperto il ruolo di responsabile per l’Italia della prevenzione e posso dire che solo l’evidenza della grande importanza che i vertici aziendali danno alla prevenzione – che dovrebbe essere ripresa anche dai vertici istituzionali – conferisce grande importanza operativa alla prevenzione, il tutto collegato ad un controllo puntuale delle attività. Ribadisco dunque che sarebbe necessario un controllo annuale tramite un’apposita riunione in cui vengano esaminati i risultati conseguiti in presenza delle massime autorità istituzionali, facendo qualcosa di simile a ciò che avviene per l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici che annualmente presenta una relazione di fronte al Presidente della Repubblica sulle attività svolte, i risultati raggiunti e le carenze individuate.
Inoltre, riteniamo che esistano ampi spazi per arrivare a integrare in un’organizzazione (polo o agenzia) l’INAIL, l’IPSEMA, l’ISPESL, l’IAS (già IIMS), al fine di costituire un organismo dotato di idonee risorse economiche, organizzative e tecnico-scientifiche professionali, adeguato alle necessità attuali e all’organizzazione specifica dell’Unione europea. Quest’ultima è infatti basata su un sistema di agenzie; in particolare vorrei ricordare l’Agenzia per la sicurezza e la salute sul lavoro, con sede a Bilbao, che si occupa di verificare i piano attuativi e programmare in dettaglio l’applicazione della politica europea. Ritengo che esistano già le premesse legislative e organizzative per attuare tutto ciò; basta mettere in atto tali iniziative, controllarne l’applicazione, adottare i provvedimenti migliorativi necessari, scaturiti dalle esperienze, ed intervenire con i già previsti poteri sostitutivi, qualora sia necessario. Questo è quanto occorrerebbe fare nel sistema istituzionale.
Il decreto legislativo n. 81 mette in moto anche il sistema privato, coordinandolo con quello pubblico. La questione è come collegare i due sistemi. In particolare, il citato decreto prevede e rafforza il ruolo dei responsabili del servizio di prevenzione e protezione (RSPP). Con il decreto legislativo n. 195 del 2003, entrato in funzione operativamente nel 2008, sono stati qualificati professionalmente circa 100.000 tra RSPP e ASPP (addetti al servizio di prevenzione e protezione), che lavorano quotidianamente nelle imprese e per le imprese, e sono pagati dalle stesse per attuare in modo efficace la prevenzione dei rischi. Per la prima volta vi è quindi un numero estremamente elevato e professionalmente qualificato di soggetti che lavorano nelle aziende. Gli RSPP devono diventare collaboratori professionali del datore di lavoro per istituire, mantenere e controllare il sistema di gestione per la sicurezza e la salute, secondo standard già indicati nel decreto legislativo n. 81 del 2008, conformemente al British Standard OHSAS 18001 del 2007, che permette già da adesso di integrare non solo la sicurezza e la salute, ma anche la protezione ambientale. Infatti, affinché venga assicurata l’efficacia sul campo, specialmente per le piccole e medie imprese, occorre ottenere una normalizzazione e un’integrazione fra sicurezza, salute e ambiente.
Per la prima volta, il sistema di gestione introduce la possibilità di collegare ai risultati effettivi dell’impresa, e quindi alle necessità di miglioramento delle attività imprenditoriali, la sicurezza e la salute, mettendo in moto un meccanismo di integrazione puntuale, dinamica e continua tra la sicurezza e gli obiettivi di impresa, il miglioramento della produttività e la capacità competitiva delle imprese. A livello europeo le statistiche dimostrano che le Nazioni con le migliori performance di sicurezza e salute ottengono, allo stesso tempo, le migliori performance di produttività. In base alle statistiche dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, è evidente che la produttività delle imprese e delle singole Nazioni è strettamente collegata al livello di sicurezza e di salute.
Per realizzare tale collegamento, dobbiamo dare incentivazioni alle imprese. Occorre elaborare degli indici di responsabilità sociale delle singole imprese, in modo da distinguere dalle altre quelle imprese – soddisfacenti, buone e ottime – che abbiano messo in moto un meccanismo di gestione migliore rispetto alle esigenze legislative ed assicurare ad esse vantaggi di carattere economico, organizzativo, amministrativo e nella partecipazione alle gare pubbliche. Diversamente, non si metterà in moto quel meccanismo di coinvolgimento, diretto e operativo, delle imprese nella prevenzione degli infortuni e si rischierà di perpetuare il sistema in cui la prevenzione degli infortuni viene fatta in modo apparente e sulla carta.
È necessario istituire un elenco pubblico degli RSPP e ASPP qualificati, che permetta di conoscere, tenere sotto controllo e indirizzare tali professionisti, realizzando un sistema pubblico-privato armonizzato e coordinato.
Per fare questo bisognerebbe assicurare il riconoscimento istituzionale alle associazioni professionali qualificate che operano, a volte da più di trent’anni, nel settore della protezione dai rischi.
A livello europeo, con le nuove politiche, è stato introdotto il concetto di stakeholder, il portatore di interessi; le associazioni professionali sono grandi portatori di interessi umani, sociali ed istituzionali, e vengono riconosciute in modo ufficiale come collaboratrici nella fase di identificazione delle normative, affinché le loro esperienze operative possano essere utilizzate quando si elabora una nuova normativa. In particolare, in Italia il decreto legislativo n. 81 introduce degli elementi di grande novità, ossia le linee guida e le buone pratiche. Riconoscere alle associazioni professionali, ad esempio, la capacità di identificare e proporre alle istituzioni quelle linee guida e quelle buone pratiche derivate dall’esperienza operativa può portare già di per sé ad un miglioramento legislativo e operativo notevole. Per modificare la normativa in materia, com’è accaduto con il decreto legislativo n. 81 del 2008, abbiamo impiegato trent’anni, laddove adottando il sistema delle linee guida e delle buone pratiche potremmo realizzare dei cambiamenti tempestivi in materia di prevenzione agli specifici rischi aziendali. Quindi il riconoscimento istituzionale, più che meritato, delle associazioni che operano per la qualificazione e l’incremento professionale e continuo dei propri iscritti permetterebbe di realizzare un sistema pubblico armonizzato e basato sugli stessi criteri, indirizzi e strumenti metodologici.
Per quanto riguarda il problema dell’informazione, formazione e addestramento, affrontato anche dal dottor Pavanello, riteniamo che bisognerebbe determinare un cambiamento nei comportamenti, in modo che i percorsi di informazione, addestramento e formazione generino una modifica comportamentale negli operatori. Anche in questo settore esistono programmi e metodologie tecniche e scientifiche basati sul BBS (Behavior based safety), strumento utilizzato dalle multinazionali da più di trent’anni per controllare e indirizzare i comportamenti dei lavoratori verso la sicurezza, in modo che oltre agli aspetti formali di istruzione, addestramento e formazione, si mettano sotto controllo i risultati in modo continuo, con sistemi tecnici e scientifici che diano risultati efficaci.

TADDEO
Sono il presidente della Società nazionale operatori della prevenzione (SNOP). Ringrazio questa Commissione che ha voluto ascoltare il parere delle associazioni, tra cui anche la nostra. Non ripeterò i contenuti che abbiamo già condiviso come Consulta interassociativa e che il presidente Pavanello ha ampiamente illustrato, soffermandomi piuttosto su alcuni aspetti che la nostra associazione ha approfondito (soprattutto grazie agli operatori pubblici dei servizi di prevenzione delle ASL), per portare un contributo al mandato della Commissione, che è di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alle cosiddette morti bianche.
Nonostante le difficoltà presenti nel sistema e le asimmetrie richiamate dal presidente Pavanello, che ribadiamo auspicando un potenziamento dei servizi pubblici in tutte le Regioni, vi sono state esperienze di coordinamento a livello nazionale che hanno dato buoni risultati, tra cui la lettura dei dati storici degli ultimi anni relativi all’andamento degli infortuni. Tale lettura ha consentito di analizzare la localizzazione degli infortuni ed i settori, nonché, attraverso lo studio dei casi di infortuni mortali, di ipotizzare percorsi di vigilanza, di informazione e di azione coordinata della pubblica amministrazione.
In breve, dall’analisi dei dati degli ultimi anni emerge quanto segue. Gli infortuni nel periodo 2004-2007 sono scesi da 1.325 nel 2004 a 1.207 nel 2007, registrando una inversione di tendenza per cui, mentre nel 2004 si sono avuti 828 incidenti sui luoghi di lavoro e 500 incidenti stradali, nel 2007 vi sono stati 642 incidenti stradali e 565 infortuni sui luoghi di lavoro.
Questo è un primo dato che evidenzia l’aggredibilità del problema.
Un quarto di questi infortuni mortali riguarda il settore delle costruzioni indicando la necessità di intervenire, come ho detto, non solo in termini di vigilanza, ma anche di promozione e coordinamento della pubblica amministrazione.
Vi è poi un fenomeno nuovo che bisogna registrare, legato al Paese di provenienza: gli stranieri sono il 6 per cento della forza lavoro, ma raggiungono il 14 per cento negli infortuni. Dai dati esaminati si evince che nel 2007, su 3.700.000 imprese, 280.000 hanno avuto un solo infortunio, mentre 18.000 ne hanno avuti più di cinque. Si può quindi pensare ad un percorso di promozione della prevenzione, di controllo, di aiuto e di verifica indirizzato a determinati settori.
In particolare, dallo studio dei casi di infortunio mortale è emerso che è possibile concentrare l’azione sulle seguenti macrocategorie: le cadute dall’altro, le cadute di materiali, gli investimenti, la perdita di controllo degli attrezzi. Questo è un suggerimento che ci permettiamo di portare all’attenzione della Commissione per sollecitare il sistema a lavorare in una direzione precisa.
Per quanto concerne la pubblica amministrazione, ne siamo parte ma non vogliamo essere attenti solo al nostro osservatorio. Nel documento che lasceremo agli atti della Commissione affrontiamo il tema della pubblica amministrazione nel suo complesso (che pensiamo debba operare in rete) e riportiamo un quadro di composizione della stessa, con riferimento alle ASL, alle Direzioni provinciali del lavoro, all’INPS e all’INAIL, perché vogliamo che sia valorizzata la loro diversità e complementarietà. Infatti, non esiste una competenza unica per tutti i campi di intervento in materia di controllo: esistono una professionalità e un sapere per i contratti ed una competenza specialistica per la salute e la sicurezza. Voglio ricordare i percorsi specialistici necessari per entrare nelle ASL: da tecnico di prevenzione, a medico del lavoro, a ingegnere, a chimico. Non è quindi da ipotizzare un conflitto o un antagonismo, bensì una completa integrazione, come alcune esperienze stanno realizzando. In alcuni territori e in particolari comparti le due braccia del sistema (le competenze in materia di contratti e quelle in materia di salute e sicurezza) hanno condotto interventi congiunti mirati che hanno dato buoni risultati.
Tuttavia, non vogliamo tralasciare l’importanza dell’insieme del sistema.
Oggi il sistema della sicurezza nelle imprese, come hanno ricordato il presidente Pavanello e il vice presidente Bianchi, contempla più soggetti che devono collaborare per realizzare la prevenzione; sono quindi importanti la cultura e l’attenzione alla sicurezza nell’impresa, il ruolo, le competenze e le professionalità dei servizi per l’impresa (siano essi i responsabili dei servizi di prevenzione e protezione, siano i medici competenti) e l’agibilità dei lavoratori e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.
Tutto il sistema deve tenere, dal momento che la normativa di derivazione comunitaria ha introdotto, di fatto, un nuovo meccanismo di controllo interno che l’ente pubblico va a verificare. Deve essere elevato il controllo autonomo interno e deve essere alta la professionalità che si esprime. Mi associo, pertanto, alle sollecitazioni del presidente Pavanello circa le risorse da destinare al sistema pubblico, con riferimento alla destinazione del 5 per cento del Fondo sanitario nazionale e delle risorse derivanti dal sistema sanzionatorio per i Dipartimenti di prevenzione. Le competenze necessarie per questo lavoro stanno nei livelli di assistenza e nella complessità del quadro di responsabilità e di prevenzione delle singole imprese.
L’analisi che abbiamo svolto sui dati storici degli infortuni risponde all’esigenza che si svolga un ruolo di conoscenza e ricerca (conoscere, individuare e mappare il territorio) per effettuare una vigilanza che non sia puntiforme, sulle singole violazioni, ma sia sui sistemi del controllo interno.
Tale analisi testimonia l’importanza di avere la capacità di esprimere orientamenti e indirizzi, costruendo un sistema di raccomandazioni partecipate con le parti sociali e le pubbliche amministrazioni e svolgendo un ruolo di informazione e formazione.
Vogliamo ribadire che, come associazione, ci proponiamo di passare dalla prevenzione «contro», alla prevenzione «con» il sistema delle imprese, dalla vigilanza al controllo, dal controllo sui singoli oggetti al controllo sui processi, dal sistema delle regole alle norme dell’autocontrollo e, possibilmente, ad un’azione congiunta e coordinata della pubblica amministrazione.
Non siamo sulla luna: siamo sul territorio, in un contesto civile e sappiamo che è in atto una discussione sulla centralizzazione delle competenze. Tale discussione non ci fa paura. Ribadiamo che le esperienze positive fin qui realizzate e la conoscenza del territorio raggiunta testimoniano l’importanza di una presenza decentrata su di esso. Occorre altresì un livello nazionale di raccordo e coordinamento tra sistemi: le Regioni centralmente coordinate con gli organismi dello Stato. A tal fine, ci sono gli organismi previsti dal decreto legislativo n. 81 ma se ne possono studiare altri. Il sistema della prevenzione può trarre vantaggio da un coordinamento a livello nazionale delle strutture decentrate sul territorio. Si sviluppa così il concetto, illustrato dal presidente Pavanello, della necessità che lo Stato attivi poteri sostitutivi, prendendo atto delle asimmetrie nella pubblica amministrazione e adottando provvedimenti conseguenti.
In tal senso, formuliamo un modesto suggerimento: le asimmetrie non sono solo nelle ASL, ma in tutti i settori della pubblica amministrazione.
I territori sono diversi anche nel tasso di legalità, quindi se c’è un’asimmetria nelle ASL essa è purtroppo amaramente condivisa: il centro del problema è l’asimmetria della pubblica amministrazione in certi territori e lo sviluppo nel Paese.

DI NUCCI
Sono il presidente dell’Associazione italiana tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro. Ovviamente mi associo al ringraziamento rivolto alla Commissione e a tutti coloro che hanno lavorato perché l’evento di oggi fosse possibile.
Molto è stato già detto negli interventi finora svolti. Dalla tabella che abbiamo presentato (che oggettivizza molte delle riflessioni che abbiamo fatto come operatori tecnici della prevenzione, che lavorano principalmente nel sistema pubblico delle ASL, nei dipartimenti di prevenzione e nei servizi di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro ma non solo) si evince un andamento del fenomeno a macchia di leopardo. Da parte mia, vorrei illustrare qualche caso ulteriore. Per esempio, nella Regione Sicilia lavorano solo 44 tecnici della prevenzione: uno nella ASL di Messina; uno nella ASL di Catania che procede alle verifiche impiantistiche per la provincia di Catania e per quelle di Enna e di Caltanissetta. Due soli colleghi lavorano nella ASL di Venosa, in Basilicata, dove c’è il più grande campo petrolifero italiano e il più grande stabilimento della FIAT (quello di Melfi); sei colleghi in provincia di Verona, dove ha sede il più grande comparto del mobile e del legno della bassa veronese, nel quale operano 1.800 aziende; quattro colleghi a Pomezia, dove si trova l’area industriale della provincia di Roma.
Questi sono i numeri con cui dobbiamo fare i conti. A fronte di ciò esiste, ed è stata richiamata prima, una questione relativa ai finanziamenti.
Gli ultimi dati resi pubblici risalgono ad una tabella pubblicata dal quotidiano «Il Sole 24 Ore» nel settembre 2005 nella quale si indicava, regione per regione, le risorse che finivano al Dipartimento di prevenzione. Ebbene, non si superava quasi mai il 3 per cento per tutto il Dipartimento di prevenzione, mentre per il servizio di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro non si superava quasi mai lo 0,5 per cento. Siamo quindi lontanissimi dalle cifre che vengono proposte nel decreto legislativo n. 81, con il famoso 5 per cento destinato alla prevenzione.
Voglio aggiungere un’ulteriore riflessione, cui ha fatto cenno poco fa anche il presidente Pavanello: in ogni ASL abbiamo una media di proventi derivanti dalle sanzioni che vengono comminate e direttamente introitate che ammonta più o meno a 500.000 euro per ASL, per un totale – in Italia ci sono 196 ASL – di circa cento milioni di euro. Ebbene, con una cifra del genere si potrebbe pagare lo stipendio di 3.500 colleghi tecnici della prevenzione: ad oggi in tutta Italia ne abbiamo in servizio 2.048 di cui solo 1.850 hanno la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria.
Quindi, si potrebbe fare molto di più se questi soldi venissero reinvestiti in maniera più efficiente e non solo per fare più vigilanza: come prima ricordava il presidente Taddeo, secondo noi avere più fondi a disposizione (per esempio, per superare il blocco delle assunzioni dei tecnici della prevenzione in ASL) vorrebbe dire avere più risorse umane per fare più prevenzione ed assistenza alle imprese. Mi riferisco soprattutto alle piccole imprese: nel nostro Paese, lo ricordava prima il vicepresidente Bianchi, il 95 per cento delle imprese ha in media 5 dipendenti; il 99,1 per cento dei lavoratori italiani lavora in imprese con meno di 20 dipendenti.
Ci troviamo di fronte, quindi, ad un sistema delle imprese polverizzato, nel quale ha un ruolo fondamentale la figura, prima richiamata, del consulente.
È su tale strumento, allora, che dobbiamo lavorare, sulla qualificazione, sulla preparazione, sulla crescita professionale di questi professionisti. All’interno della CIIP si discute da anni di crescita e dell’individuazione di profili che possano partecipare attivamente al sistema della prevenzione.
Abbiamo nel tempo elaborato documenti e proposte – dal tecnico della prevenzione al medico competente, all’ergonomo – e crediamo che questa sia la strada maestra. D’altra parte, voglio qui testimoniare un’esperienza. Non è detto che in questo Paese vada sempre tutto male; possiamo essere testimoni una volta tanto di una buona pratica. Nel nostro Paese duecento anni fa Ramazzini ha inventato la medicina del lavoro; nel nostro Paese è stata creata la prima clinica del lavoro, a Milano; nel nostro Paese, trent’anni fa, è stato inventato un percorso professionale specifico per tecnici della prevenzione che si occupassero di prevenzione a tutto tondo, con una sintesi tra le competenze mediche e quelle umanistiche ed ingegneristiche, comprendendo anche gli aspetti dell’impatto ambientale richiamati negli interventi che mi hanno preceduto. Ebbene, noi pensiamo che su quella strada si debba continuare ad investire.
Signor Presidente, onorevoli senatori, non siamo convinti che siano sufficienti le 120 ore previste dal decreto legislativo n. 81 del 2008 – e prima dal decreto legislativo n. 626 del 1994 – per essere dei buoni consulenti del lavoro per le imprese. Basta fare un giro in Internet per constatare che ci sono consulenti che vendono le loro prestazioni per meno di 200 euro; qualche volta siamo arrivati addirittura a 100 euro per un documento di valutazione dei rischi: parliamo di consulenze vendute via Internet.
Questo ci porta alla conclusione che prima vi ha esposto il dottor Bianchi e cioè che vi è un rispetto delle regole che è soltanto apparente, formale, ma che non ha nulla di sostanziale. Noi invece vogliamo passare dal sistema della forma a quello della sostanza e per farlo abbiamo bisogno di mettere in campo dei professionisti seri, preparati, con una formazione continua nel tempo. Mi riferisco, ad esempio, ai colleghi che lavorano nelle ASL. I tecnici della prevenzione, essendo dei professionisti sanitari, sono sottoposti all’obbligo ECM (Educazione continua in medicina) per cui tutti gli anni devono raggiungere 50 crediti, corrispondenti a 60 ore, ovvero molto di più dell’aggiornamento quinquennale previsto dal decreto legislativo n. 81. Ricordo, inoltre, ed è una realtà ormai abbastanza consolidata, che in Italia ci sono 28 università che offrono il nostro corso di laurea, con 35 sedi universitarie e circa 900 iscritti ogni anno. Considerando che sulla base dei dati del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca ogni iscritto all’università costa 50.000 euro l’anno, la conclusione è che il Paese non può permettersi di sprecare cinque milioni di euro l’anno per formare dei professionisti che poi non entrano nel sistema delle imprese. E ` un aspetto su cui dobbiamo puntare l’attenzione: ci deve essere un canale che metta in comunicazione la domanda e l’offerta.
Ancora. Riteniamo che le risorse che prima venivano sollecitate dal presidente Pavanello e da altri intervenuti debbano servire a potenziare il sistema della ricerca nella pubblica amministrazione. La ricerca può essere fatta solo là dove non c’è un interesse diretto, dove c’è una terzietà, dove si possono verificare le buone pratiche e le soluzioni che possiamo mettere a disposizione degli organi legislativi, proponendo, ove ne sia il caso, una serie di riflessioni critiche rispetto all’efficacia di alcune di esse. Non sono così convinto, per esempio, della validità di tutta una serie di adempimenti e di documentazioni: il decreto legislativo n. 81 ha abbassato l’altezza dei parapetti di protezione da 100 a 95 centimetri, anche se i dati antropometrici più recenti testimoniano esattamente una tendenza contraria nell’altezza della popolazione; non so, inoltre, se esista uno studio scientifico che dimostri che un parapetto alto 95 centimetri sia più sicuro di quello di 100 centimetri previsto dal vecchio decreto del Presidente della Repubblica n. 164 del 1956. Questo per dire che dobbiamo ancora investire molto sul campo della riflessione e della ricerca scientifica, cercando di produrre studi che possano essere utili per fare rete, per mettere insieme le conoscenze e le capacità. Nel documento di sintesi che abbiamo presentato come CIIP tutte queste considerazioni sono riportate in maniera sintetica e precisa.
Voglio concludere sperando che l’invito del dottor Pavanello ad avviare una ricerca per appurare come e dove vengono spese le risorse attualmente disponibili in tutti i dipartimenti e servizi delle ASL venga raccolto dalla Commissione.

PARLANGELI
Per prima cosa ringrazio la Commissione per l’invito.
Mi preme agganciarmi alle ultime parole del collega Di Nucci perché, come Società italiana di ergonomia, siamo ovviamente conviti della necessità di una visione sistemica delle relazioni lavorative e quindi della considerazione degli ambienti di lavoro come ambienti complessi dove le norme e le organizzazioni apportano dinamicità al sistema, rendendolo quasi sempre un unicum che difficilmente può essere ingabbiato in norme generali, che prevedono misure uguali per tutti, in tutte le circostanze ed in tutte le situazioni. Ciò comporta la necessità di tarare le soluzioni sui singoli, specifici contesti e quindi rimanda alla necessità di una ricerca puntuale e contestuale non soltanto a livello macroscopico e sociologico o di incidenza di accadimento di particolari eventi avversi, quanto piuttosto ad una ricerca delle condizioni attuali di ciascuna circostanza lavorativa.
In Italia, invece, succede spesso che la ricerca prenda il nome di «indagine», ovvero si verifica un incidente che nessuno avrebbe voluto accadesse e solo a posteriori si ricercano le cause determinanti del terribile accadimento. Spesso non è la norma a non essere corretta, ma è il particolare contesto che non combacia con quanto essa prevede; dunque la norma stessa diventa inattuabile per una serie di circostanze che andavano probabilmente previste prima tramite una ricerca adeguata e non individuate soltanto successivamente all’evento.
La ricerca connessa agli incidenti sul lavoro deve essere realizzata a molti livelli, partendo da quelli macroscopici per giungere a penetrare i singoli contesti lavorativi al fine della comprensione degli stessi e delle pratiche da adottare, anche perché è in tali ambiti che va fatta la cultura della prevenzione. Quest’ultima deve essere creata basandosi sui singoli soggetti e sulle caratteristiche dei singoli individui all’interno di particolari contesti. Come psicologi, come ergonomi, sappiamo che la percezione del rischio non è uguale per tutti e non è la medesima nemmeno considerando lo stesso soggetto in ambiti diversi perché muta con il mutare del soggetto e del contesto: cambia, ad esempio, in relazione al fatto che il soggetto abbia figli o meno, in relazione al fatto che sia stato formato o meno o che abbia o meno un collega accanto. Tutte queste variabili microscopiche non possono essere considerate una volta per tutte. Si dovrebbe prevedere di poter ricercare di volta in volta i mezzi di intervento e le norme corrette per questi particolari contesti, non soltanto per quel che riguarda le condizioni lavorative ma anche per la formazione stessa.
Proprio quest’anno abbiamo organizzato un workshop in cui, cercando l’aggancio con le nuove tecnologie, abbiamo esaminato tutti i prodotti formativi creati al riguardo, andando a vedere come erano stati realizzati e cercando di individuare delle punte di eccellenza. Esistono numerosissimi prodotti, di enti come l’ISPESL e l’INAIL, che sono a disposizione pressoché di tutti, quindi anche facilmente distribuibili, e che potrebbero essere fruiti in maniera molto semplice. Si tratta di prodotti per bambini, lavoratori, adulti in cerca di lavoro e quant’altro. Il problema è che quasi nessuno di questi percorsi viene realizzato facendo precedere alla sua creazione un’analisi dei soggetti ai quali il prodotto si rivolge o dei contesti lavorativi specifici; spesso si recepiscono le normative e si trasferiscono in maniera più o meno ludica informazioni e conoscenze, che quasi mai vengono poi attualmente concretizzate nelle pratiche lavorative.
In particolare, se manca la ricerca preventiva e la formazione, ancora di più manca la ricerca successiva per verificare se l’intervento formativo ha ottenuto i risultati sperati. Questo accade nel breve termine ma soprattutto nel lungo termine perché la modifica di un atteggiamento, si sa, non è certo stabile e una volta ottenuta non è detto che il comportamento si stabilizzi per l’intera durata del periodo lavorativo successivo.
Sottolineo quindi questi due punti, l’analisi del contesto e della formazione, ribadendo che non si può parlare di tali aspetti senza considerare l’aleatorietà e vaghezza dell’oggetto al quale ci riferiamo e quindi la necessità della ricerca e dello studio di soluzioni che arrivino sino ai più piccoli, semplici e singolari contesti.

MORO
Qualche mese fa, il direttore generale di una ASL della mia provincia, Treviso, mi spiegava che se la Regione autorizza l’assunzione di un medico non viene certo assunto un medico del lavoro ma magari un ortopedico per il pronto soccorso; oppure se la Regione autorizza l’assunzione di un tecnico non viene assunto un tecnico della prevenzione ma un tecnico di radiologia; solo se la Regione dovesse obbligare o comunque finanziare assunzioni in più si è costretti a farlo.
È chiaro, allora, come la prevenzione non possa subire la concorrenza della medicina di cura che è quella che assorbe la maggior parte delle attenzioni e dell’urgenza dal punto di vista politico, tanto è vero che quel 5 per cento di risorse vincolate alla prevenzione vuole venire incontro proprio a questo. Sarebbe interessante – ed è la nostra proposta e il nostro auspicio – che da parte dell’amministrazione centrale ci fosse un maggiore controllo sulle Regioni perché dedichino una minima percentuale delle proprie risorse alla prevenzione. Il 5 per cento non mi pare una quantità notevole: in Veneto siamo al 3 per cento e, più o meno, questa è la media delle altre Regioni.

PRESIDENTE
Per essere chiari, lei si riferisce al 5 per cento del piano sanitario nazionale e quindi alla prevenzione in senso lato?

MORO
Si. Il problema è, appunto, che la prevenzione langue e deve subire la concorrenza della medicina di cura. Anche i direttori generali delle ASL dovrebbero essere valutati dalle Regioni sulla base del raggiungimento di alcuni obiettivi minimi in campo di prevenzione; stiamo parlando, in questo caso, della prevenzione negli ambiti di lavoro. Tali obiettivi possono essere abbastanza facilmente individuati in un numero percentuale di aziende visitate nel corso dell’anno oppure con altri indicatori che vanno dalle sanzioni, dai verbali di prescrizione e disposizione dati ad altri indicatori di efficienza. Se non si affronta questo problema di sicuro non riusciremo a disincagliarci dall’attuale rapporto di un tecnico della prevenzione ogni 2.800 imprese.
Sempre nell’ambito dell’utilizzo delle risorse attualmente presenti, noi auspichiamo che a livello regionale si trovi un punto di incontro in cui i vari enti che a vario titolo svolgono attività di vigilanza negli ambienti di lavoro – soprattutto DPL e INAIL da una parte e dall’altra i servizi delle ASL – possano coordinarsi per aumentare l’efficacia dei propri interventi.

CIARCELLUTO
Signor Presidente, sono il vice presidente dell’AIFOS, Associazione italiana formatori della sicurezza, e vorrei soffermarmi proprio sul tema della formazione. Come ha affermato il collega Bianchi, dalle indagini internazionali risulta che quasi tutti gli infortuni avvengono per comportamenti errati da parte dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Cosa può fare dunque la formazione per incidere sulla qualità e ridurre il numero di infortuni e malattie professionali? Noi abbiamo elaborato alcune proposte operative, che vorrei esporre brevemente. In primo luogo, sarebbe necessario prevedere la formazione obbligatoria per i datori di lavoro e per i committenti, che oggi non è prevista da nessuna normativa. I committenti, ad esempio, in occasione del ritiro di una concessione edilizia, dovrebbero dimostrare di conoscere le norme principali sulla sicurezza, le loro responsabilità e i loro obblighi, ma attualmente questo non accade.
La formazione per i lavoratori dovrebbe avvenire sul campo e non soltanto in un’aula o firmando un documento che dimostra di averla ricevuta, come generalmente avviene. Occorre stabilire regole precise per i soggetti che somministrano la formazione, specie per quella non normata dagli accordi Stato-Regioni. Come accennato in precedenza, spesso la formazione viene venduta via Internet per 100 euro.

MORO
La situazione è ancora peggiore: accade per il documento di valutazione dei rischi.

CIARCELLUTO
Certo, ma anche per la formazione.
I docenti e gli istruttori non dovrebbero essere solo bravi tecnici, ma soprattutto dimostrare di conoscere il sistema della formazione e di saperla somministrare. Si potrebbe iniziare a trattare i problemi della sicurezza fin dalle scuole elementari, per educare le nuove generazioni e farle crescere con la cultura della sicurezza. Da ultimo, sarebbe auspicabile che i soggetti addetti alla vigilanza fossero anch’essi formati ed aggiornati in materia, anche se con l’ECM (Educazione continua in medicina) si è avuta un’evoluzione che consente di essere formati annualmente.

PUGLIESE
Signor Presidente, sono il segretario nazionale di AIRESPSA, un osservatorio particolare che rappresenta i responsabili dei servizi di prevenzione e protezione in ambiente sanitario. L’Associazione è composta da varie estrazioni disciplinari ed ha grosso modo una rappresentanza tripartita: medici del lavoro/biologi/ingegneri, architetti, chimici.
Siamo testimoni tutti i giorni dei rischi cui vanno incontro gli operatori, anche perché forniamo servizi a coloro che si infortunano e si ammalano, secondo quanto disposto dal decreto legislativo n. 626 del 1994 prima ed oggi del decreto legislativo n. 81 del 2008.
La contraddizione nella quale attualmente ci troviamo è simile a quella di cui vi hanno parlato gli altri colleghi che si occupano di prevenzione.
Può sembrare strano, ma spesso sono proprio le aziende sanitarie a non applicare per prime in modo corretto, in termini di dotazione di personale, la previsione di un servizio di prevenzione e protezione interna.
Evidenzio tale circostanza con amarezza perché penso che, in generale, esistano almeno due livelli di contraddizione: il primo, è che nella sanità si fa testimonianza della prevenzione; il secondo, è che la sanità è un luogo altamente rischioso sia per complessità (vorrei ricordare che in sanità sono presenti attività di cura ed attività tecnologiche altamente specializzate), sia perché gli operatori lavorano in una struttura aperta tutti i giorni, 24 ore al giorno, per 365 giorni all’anno. Che sia un luogo rischioso lo dimostra il fatto che non solo si infortunano gli operatori, ma a volte vengono danneggiati anche i pazienti. Mettere insieme i due aspetti attraverso la coniugazione del rischio significa concepire il rischio a 360 gradi. Un operatore che compie una stima errata sul peso di una persona da sollevare può infortunarsi alla schiena e, allo stesso tempo, potrebbe provocare la caduta del paziente da soccorrere. Bisogna anche considerare che un operatore può commettere degli errori non solo per imperizia, ma anche per stanchezza.
A tali problemi va aggiunto il rischio biologico nonché una serie di altri rischi più immateriali ed evanescenti, o almeno considerati tali, che producono invece enormi problemi all’interno delle strutture sanitarie.
Mi riferisco allo stress correlato al lavoro (il cosiddetto burnout), che nelle strutture sanitarie determina l’espulsione dal ciclo lavorativo e la mancata applicazione delle misure di prevenzione in termini di ergonomia applicata. Quando parlo di ergonomia applicata non mi riferisco solo a quella fisica, per esempio cioè al sollevamento, ma anche all’operatore che in sala operatoria deve controllare una serie di apparecchiature mentre svolge, contemporaneamente, altre funzioni.
Tali questioni descrivono la complessità della sanità, fatta anche di relazioni interne ed esterne differenziate. Un esempio in proposito è il cosiddetto DUVRI (Documento unico di valutazione dei rischi da interferenza).
Non so se si abbia piena consapevolezza circa il numero di persone che entrano quotidianamente all’interno di un ospedale per le forniture.
Ad esempio, nella piccola AUSL di Piacenza, dove lavoro, abbiamo circa 3.000-4.000 contratti. Se poi consideriamo ospedali molto più grandi, come «il San Martino» di Genova, «Le Molinette» di Torino o Policlinico Gemelli e Ospedale «Umberto I» di Roma, è ancora più elevato il numero di persone che entrano e che, per la sola attività consegna di beni o per l’effettuazione di servizi minimali, devono essere sottoposte ad una valutazione con un documento che valuti i rischi da interferenza. Saper governare la scansione della legge, identificando i problemi, come sottolineato dal dottor Taddeo, e cercando di garantire una prevenzione efficiente ed utile, là dove occorre assicurarne il livello minimo, è un punto che consideriamo centrale.
Nella sanità si concentrano, come in una sorta di luogo sperimentale, tutti i nuovi rischi: quello di genere e quello relativo alla provenienza, ad esempio. Prima si è parlato degli extracomunitari, della lingua e delle difficoltà di comunicazione. Spesso gli infermieri provengono da Paesi stranieri e non sempre la loro conoscenza della nostra lingua è tale da garantire la piena sicurezza del paziente; vi è poi il problema dell’età (un altro dei punti presi in considerazione nel nuovo decreto legislativo); infine sappiamo tutti che c’è una maggiore permanenza sul lavoro degli operatori, in particolare nella sanità.
Per quanto riguarda il discorso delle emergenze, in particolare per l’antincendio, da un lato abbiamo il grande problema della difformità delle strutture sanitarie, in termini di edilizia sanitaria e quindi di livelli di sicurezza differenti; dall’altro, vi è una serie di difficoltà a predisporre il sistema dell’emergenza, che abbiamo comunque allestito in questi anni, per cercare di evitare uno dei rischi più temibili in un ospedale, ossia quello di incendio. L’ospedale rappresenta, infatti, il luogo anche simbolico a cui il malato affida se stesso e la sua sicurezza. È evidente che l’incendio non solo è un momento di gravissimo pericolo per il malato, ma è anche una profonda contraddizione per la struttura che in quel momento lo ospita.
Quanto all’elemento della formazione, informazione e addestramento, esso deve essere gestito attraverso la comunicazione, abilità che deve essere garantita all’operatore sanitario, come al lavoratore. Poc’anzi si è parlato del contesto nel quale far calare tale elemento. Ebbene, quello sanitario è un contesto del tutto particolare. Rammento che l’azienda sanitaria, spesso e volentieri, è la più grande sul territorio in termini di occupazione e quindi rappresenta un punto di riferimento dal punto di vista non solo economico, ma anche culturale. Pertanto, l’azienda sanitaria che si occupa della formazione, dell’informazione e dell’addestramento del suo personale dovrebbe imparare, come del resto tutte le altre aziende, a misurare il ritorno di tale investimento, che gli inglesi chiamano ROI (return on investment). Quali gli indicatori con cui si misurano le performance dei direttori generali in relazione alla qualità e specificità di questa formazione, informazione e addestramento, esattamente come se fossero dirigenti o gestori di aziende private?
E giungo ad uno dei punti focali del mio intervento, che vuole anche esserne la conclusione: il problema del controllore-controllato. Le aziende sanitarie spesso si vengono a trovare nella contraddizione di dover controllare e vigilare un territorio e poi, al loro interno, di disporre solo di una o due persone dedicate al servizio di protezione e prevenzione. Peraltro, come ho detto, si tratta di aziende che rimangono aperte 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, che hanno il problema del danno che può essere arrecato al paziente e di mantenere sano il proprio personale. Esso è prezioso, dal momento che se si ammala compromette un investimento in formazione specifica e abilità tecnico-professionali sempre più sofisticate.
Da questo punto di vista, come AIRESPSA, stiamo sperimentando l’applicazione dei sistemi di gestione e sicurezza lavoro, perché pensiamo che questi, portando un maggiore controllo in termini di sicurezza, possano interfacciarsi correttamente con un altro punto del sistema, il risk management, cioè il governo clinico, ossia garantire la sicurezza dei pazienti.
Mettendo insieme questi due elementi, probabilmente si riuscirà ad avere una visione di sistema, che è nell’intendimento della legge che cerchiamo in questo modo di interpretare.

GERBINO
Sono il segretario del comitato tecnico scientifico dell’Associazione nazionale ingegneria della sicurezza (ANIS). Condivido gli interventi che mi hanno preceduto e desidero sottolineare il ruolo strategico che, ad avviso dell’associazione, dovrebbe avere nel contesto della sicurezza sui luoghi di lavoro l’ingegnere della sicurezza.
A supporto dei precedenti interventi, vorremmo evidenziare come nelle amministrazioni che si occupano della materia siano carenti i tecnici della prevenzione e soprattutto gli ingegneri, che sono coloro che detengono la conoscenza scientifica e tecnica delle varie problematiche. Chiediamo quindi un rafforzamento delle pubbliche amministrazioni in tal senso. Basti pensare che nelle ASL il rapporto tra medici e ingegneri è mediamente di 15 a 1, mentre nei Dipartimenti provinciali del lavoro è completamente ribaltato e che, come noto, le ASL svolgono attività di vigilanza e delle tematiche della sicurezza in tutti i settori, mentre i Dipartimenti provinciali del lavoro si occupano prevalentemente del settore edile.
Come si è detto, è fondamentale il ruolo della formazione, informazione e addestramento nelle istituzioni scolastiche. Riteniamo opportuno prevedere questi insegnamenti nelle scuole di ogni ordine e grado, con particolare riferimento all’addestramento previsto per gli istituti professionali e tecnici, portando i ragazzi dalla scuola al lavoro con percorsi formativi e stage nelle attività lavorative di riferimento del percorso di studi prescelto.
Vorrei aggiungere che poche realtà, nel nostro Paese, contemplano corsi di laurea in ingegneria della sicurezza laddove questo corso di studi si potrebbe diffondere prevedendolo in più realtà nazionali, al fine di accrescere la presenza sul territorio dei tecnici della prevenzione.

PRESIDENTE
Chiedo la cortesia al vice presidente Nerozzi di continuare a presiedere la riunione dovendomi assentare per qualche minuto, scusandomi con coloro che ancora non sono stati ascoltati. Comunque di questa audizione sarà redatto il resoconto stenografico, che riporterà le vostre dichiarazioni. Nella speranza di incontrarvi ancora, voglio cogliere l’occasione per ringraziare tutti voi e in particolare il dottor Pavanello, presidente di una realtà che ritengo rappresenti il punto più alto della scientificità sul tema, che in questi anni ci ha sempre sostenuto e confortato con pubblicazioni e riflessioni.
È nostra intenzione creare ulteriori occasioni di incontro e fare in modo che quanto ci avete oggi riferito possa trovare realizzazione.

PAVANELLO
La ringrazio, signor Presidente. Colgo l’occasione per ricordare che nei giorni 10, 11 e 12 giugno a Bologna si terrà la nostra più importante manifestazione annuale. Abbiamo già fatto avere agli uffici della Commissione un invito formale per tutti i membri di essa; ci aspettiamo, quindi, di potervi ospitare in quel di Bologna, portando in quella sede i risultati del lavoro della Commissione. Un’attività cui abbiamo sempre dato un particolare risalto, pubblicando ampi stralci dei lavori della Commissione, cosa che ovviamente continueremo a fare.

Presidenza del vice presidente Nerozzi

TALIERCIO
Signor Presidente, intervengo in rappresentanza dell’Associazione nazionale medici d’azienda (ANMA), ringraziando per l’invito all’audizione odierna, che si aggiunge a quelli delle passate legislature. Intendo presentare un contributo teso al miglioramento della situazione attuale per quanto concerne la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali sul lavoro; detto contributo rappresenta la sintesi della voce dei nostri associati, circa 1.200 medici competenti, ovvero nominati dal datore di lavoro, i quali esprimono una parte preponderante della realtà dei luoghi di lavoro (considerazioni più articolate sono raccolte nei documenti che lasciamo all’attenzione della Commissione).
Come abbiamo già avuto modo di sottolineare nell’audizione del 6 novembre 2007 davanti a questa Commissione, il punto focale per contrastare efficacemente il fenomeno degli infortuni sul lavoro – compresi quelli in itinere - e delle morti bianche sta secondo noi nel processo di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori; un binomio a nostro avviso imprescindibile e indissolubile. Ovviamente questo percorso di conoscenza e d’azione avrà successo limitato se non sarà accompagnato da un adeguato processo informativo ed formativo, capace di suscitare consapevolezza degli effetti sulla salute dei pericoli presenti in una data situazione e di come si possano innescare i rischi.
Il fenomeno infortunistico, in senso lato, trova sempre una possibilità di innesco là dove viene a mancare il contributo attivo e responsabile di ognuno di noi. Per tale motivo è sempre più urgente formare i cittadini alla sicurezza sul lavoro, sulla strada, nei comportamenti, attraverso un programma educativo che parta dall’età scolare, in modo che i successivi passi nel mondo del lavoro trovino persone criticamente attive, recettive, responsabili e partecipative.
Il decreto legislativo n. 81 è stato senza dubbio di grande stimolo, ma a nostro avviso non ha ancora prodotto gli effetti attesi. Come si accennava, la cosiddetta valutazione del rischio non ha ancora spostato il baricentro sulla valutazione del rischio per la salute, o health risk assessment, che esprime in modo più pronto l’esercizio di considerare contestualmente e sinergicamente in una visione integrata il rapporto di esposizione al rischio presente nella specifica mansione per ogni lavoratore, tenendo conto degli aspetti di organizzazione del lavoro e delle caratteristiche del lavoratore e del suo stato di salute. La risultante di questa integrazione è l’appropriato giudizio di idoneità alla mansione.
Si osserva, invece, un percorso di analisi del rischio ancora troppo tecnico, che potrebbe vanificare gli sforzi per l’applicazione dell’articolo 30 del decreto legislativo n. 81, che – come è noto – richiede la presenza di qualificate figure professionali che agiscono in team. In analogia, abbiamo testimonianza di come la presenza del medico competente nell’organismo di vigilanza rappresenti uno stimolo efficace per la crescita della prevenzione nelle imprese. Nel documento che consegniamo dettagliamo la nostra esperienza e proponiamo azioni correttive.
Un secondo aspetto che ci preme evidenziare, anche perché strettamente correlato al fenomeno infortunistico ed alle malattie professionali, è rappresentato dal sistema di registrazione, di comunicazione e di controllo dei risultati operativi ottenuti dal medico competente. Credo sia a tutti noto lo stato di fibrillazione che si sta vivendo in questi giorni, in prossimità della scadenza dell’obbligo di soddisfare la previsione dell’articolo 40 del decreto legislativo n. 81, secondo i requisiti dettagliati nell’allegato 3B. Pochi giorni fa un gruppo di tecnici nominato dal coordinamento delle Regioni ha prodotto – ma non ufficializzato – un formato da inviare per via telematica agli enti territoriali su cui inserire i dati richiesti dall’allegato in questione. Tale formato è stato successivamente, se così si può dire, personalizzato da alcune Regioni che ne hanno dato diffusione, seppure non ufficialmente; ora attendiamo – lo dico con una seppur lieve vena polemica – che qualche ASL proponga una propria versione e la renda obbligatoria.
È questo un esempio, se vogliamo banale, di applicazione a geometria variabile (in altre relazioni si parla di applicazione a macchia di leopardo), che comunque non si adatta ad una materia che deve assicurare gli stessi livelli di tutela e di prevenzione su tutto il territorio nazionale, in sintonia tra l’altro con quanto avviene in molti Paesi dell’Unione europea.
Oltre a ciò, l’allegato 3B sembra essere stato interpretato più come uno strumento di controllo sull’operato del medico competente che come fondamentale strumento di aggregazione di elementi atti a determinare la politica di prevenzione a livello generale e territoriale.
Per tale motivo, sarebbe auspicabile demandare ad alcuni enti già in indirizzo nel decreto legislativo n. 81 – in primo luogo l’ISPESL e l’INAIL – la raccolta, l’aggregazione e l’analisi dei dati, al fine di elaborare proposte atte al controllo efficace delle situazioni di rischio. Ovviamente questa notazione richiede una riflessione su tutto il sistema informativo, comprendendo la trasmissione dei dati sanitari raccolti attraverso la cartella sanitaria e di rischio (su cui abbiamo avanzato severe critiche, ampiamente documentate negli allegati che consegniamo), nonché la modalità di trasmissione, le garanzie del trattamento dei dati e, non ultima, una puntuale comunicazione degli indirizzi elettronici cui inviare la documentazione, che ad oggi non è stata ufficializzata.
La prevenzione, a nostro avviso, passa anche attraverso queste piccole cose, che se assenti o carenti inficiano di fatto ogni azione responsabile tesa all’autentico miglioramento della situazione, ritardando il raggiungimento del traguardo di azzeramento degli infortuni, delle malattie professionali e delle morti per complicanze di malattie professionali.
Ringraziamo per l’attenzione e nell’assicurare la nostra piena disponibilità a contribuire attivamente al successo della prevenzione, porgiamo il nostro grazie più sincero, a nome del consiglio direttivo, per l’impegno profuso da questa Commissione.

TRENTA
Signor Presidente, illustri senatori, sono il presidente dell’Associazione italiana radioprotezione medica (AIRM). Intervengo per ultimo in quanto la radioprotezione è un tema che non rientra nel decreto legislativo n. 81, ma fa parte a sé. Le radiazioni ionizzanti – un po’ per l’eretismo che la popolazione ha nei confronti di questa fonte di rischio, un po’ perché l’Unione europea emana in materia direttive separate rispetto a quelle per i rischi convenzionali – hanno una legislazione autonoma.
Mi riferisco innanzitutto al decreto legislativo n. 230 del 1995, che se vogliamo è stato il cavallo di traino della stessa normativa sul rischio convenzionale e sfortunatamente anche di quella parte del decreto legislativo n. 81 che presenta un carattere più burocratico-amministrativo.
Ciò comporta, ovviamente, dei costi per la collettività. In particolare, volendo citare un esempio, il decreto legislativo n. 230 del 1995, e successivamente il decreto legislativo n. 81, prevedendo la consegna del documento sanitario al lavoratore e il trasferimento dello stesso all’ISPESL, hanno dato luogo ad un’attività lavorativa estremamente impegnativa: si tratta di fotocopiare i documenti che riportano le visite mediche dei lavoratori – un volume notevole – e inoltrarli via posta all’ISPESL che, non sapendo dove accantonare questo materiale, paga una ditta per custodirlo laddove sarebbe molto più logico che lo detenesse il datore di lavoro sotto la sua responsabilità e cura. Ciò comporterebbe un probabile notevole risparmio per la collettività giacché il numero degli esposti alle radiazioni ionizzanti, in Italia, è grosso modo di 100.000 unità. Eseguendo un rapido calcolo si vede come, solo per questa voce, si arriva ad un costo di un milione di euro all’anno.
Un secondo punto che vorrei portare all’attenzione della Commissione riguarda la vigilanza. A suo tempo sono stato ispettore dell’ENEA- DISP; in questa veste ho potuto notare come negli impianti si succedevano, in modo pressoché continuo, ispettori della ASL, ispettori dell’ispettorato centrale e periferico del lavoro, ispettori dell’APAT, che sovente impartivano prescrizioni tra loro in conflitto. Per questo suggerirei che quantomeno le responsabilità di tipo ispettivo venissero riservate, in sede locale o in sede nazionale, ad un’unica struttura. Soprattutto deve trattarsi di una struttura in grado di svolgere questa attività, giacché molto spesso ci troviamo di fronte ad ispettori che non conoscono tecnicamente la materia ma soltanto la normativa di carattere burocratico e che sanzionano quindi il lavoratore, il datore di lavoro o il povero medico solo sulla base della mancanza di una firma o di una data. Dunque, così come si chiede la formazione dell’operatore di prevenzione – fisico, tecnico, ingegnere o medico – deve egualmente richiedersi la formazione e la qualificazione del personale ispettivo.

FRITTELLI
Signor Presidente, sono presente in sostituzione di Giorgio Cucchi, il segretario generale dell’Associazione nazionale professionale esperti qualificati in radioprotezione. Il professor Trenta, che mi ha preceduto, ha illustrato la peculiarità dell’attività di protezione dalle radiazioni ionizzanti rispetto ad altri agenti fisici. Non è un caso che, come veniva ricordato, il decreto legislativo n. 230 venga richiamato esplicitamente nel decreto legislativo n. 81 senza essere in esso integrato. Questo è un particolare positivo ma anche un aspetto di debolezza.
Vorrei ricordare, anche se il professor Trenta l’ha ben esplicitato, che molti dei modelli valutativi inseriti nel decreto legislativo n. 81 sono stati presi dalla radioprotezione; mi riferisco, ad esempio, ad alcune valutazioni a priori del rischio o al fatto che esista un elenco di persone che hanno superato un esame presso il Ministero del lavoro (non è una professione cui si accede per un titolo di studio), così come ai medici autorizzati. Queste persone hanno diverse grandi responsabilità, delle quali rispondono anche penalmente; credo che sia uno dei pochi operatori della sicurezza destinatario, secondo la normativa attuale, di sanzioni specifiche.
Ovviamente questo porta ad una maggiore professionalità nello svolgimento delle proprie funzioni da parte degli esperti qualificati, i quali – vorrei ricordarlo perché è un particolare assolutamente anomalo nel panorama della prevenzione italiana – hanno precise responsabilità anche nei confronti della protezione della popolazione. Penso che tutti i colleghi presenti abbiano, per formazione e per il lavoro che svolgono, una visione separata della protezione dei lavoratori rispetto a quella della popolazione.
Ebbene, per quanto riguarda la protezione dalle radiazioni ionizzanti l’esperto qualificato deve occuparsi anche di una visione complessiva della questione. Questo ha portato, in passato, a tutta una serie di problemi come per esempio il cosiddetto trade off tra esposizione dei lavoratori ed esposizione della popolazione, che noi abbiamo tentato di risolvere nel modo migliore.
Comunque i rapporti con il medico competente e con il medico autorizzato sono sempre stati ottimi. Qualche sofferenza, obiettivamente, c’è stata nei rapporti con gli organismi di vigilanza per le motivazioni esposte da chi mi ha preceduto.
Infine, nel decreto legislativo n. 81 sono elencate diverse competenze, in particolare quelle che riguardano gli agenti fisici, che al momento attuale non hanno una destinazione ben precisa e viene lasciata alla valutazione del responsabile, l’RSPP, la ricerca di quelle competenze che possano garantire un servizio all’altezza di quello richiesto dalla citata normativa. L’ANPEC si sta organizzando per arrivare ad una certificazione interna dei propri iscritti in modo che costoro, attraverso opportuni corsi organizzati con l’ISPESL e con altre realtà, possano dare al datore di lavoro e alle autorità vigilanti la garanzia di un servizio di elevata qualità.

ROILO (PD)
Signor Presidente, ho ascoltato con attenzione gli interventi e le considerazioni che la Consulta ha presentato. Concordo con la considerazione, che io ritengo fondamentale, secondo cui dalla ricostruzione degli infortuni si può ricavare il dato che, nella stragrande maggioranza dei casi, le cause degli infortuni stessi derivano dalla mancata applicazione o dalla elusione delle prescrizioni vigenti. Sono d’accordo con tale considerazione sia per esperienza diretta sia per l’esperienza parlamentare, maturata nel corso della precedente legislatura nell’ambito di questa Commissione, con la discussione della legge n. 123 prima e del Testo unico poi.
Si aggiunge, altrettanto giustamente, che per questa ragione bisogna rendere effettive le norme vigenti, in particolare quelle che riguardano la prevenzione, cioè quelle che intervengono sul rischio eliminandolo, oppure, laddove ciò non sia possibile, limitandolo e contenendolo. A questo punto, secondo me, si pongono due problemi, per affrontare i quali si deve partire dal presupposto che gli infortuni dipendono dalle cause che abbiamo ricordato e che quindi bisogna intervenire a livello di prevenzione.
Il primo problema, che in questa sede non è stato affrontato, riguarda le imprese essendo il ruolo del datore di lavoro ai fini della prevenzione fondamentale.
Esiste una vasta normativa al riguardo, a partire dalle direttive europee, che fa riferimento alle responsabilità del datore di lavoro anche se spesso le aziende fingono di dimenticarlo: tutte le norme fanno capo al datore di lavoro, anche se esistono determinate disposizioni che si rivolgono direttamente al lavoratore e lo ritengono responsabile rispetto alla loro attuazione. Comunque, nella stragrande maggioranza dei casi, il riferimento è alle imprese.
Il secondo problema riguarda il ruolo delle strutture pubbliche, che nella discussione di oggi è stato fortemente sottolineato, soprattutto in riferimento al fatto che mancano le risorse. Nella tabella contenuta nel documento che ci avete consegnato mi ha colpito il dato relativo al rapporto tra imprese e tecnici della prevenzione: se il dato relativo alla Toscana evidenzia un rapporto di 1,158, quello della Sicilia è quasi otto volte più elevato. Se poi confrontiamo i dati delle varie Regioni, lo squilibrio, che davvero non trova spiegazione, nel rapporto tra imprese (stiamo infatti parlando di queste e non della popolazione residente) e tecnici preposti alla prevenzione è ancor più evidente. Vi è pertanto un problema di distribuzione delle risorse.
Le domande che vorrei porre sono le seguenti. Ritenete che il sistema attuale, fondato sul ruolo delle Regioni, che evidenzia disparità così clamorose (ve ne sono anche di altro genere in relazione alla prevenzione), possa essere migliorato con un semplice incremento delle risorse, a partire da quelle Regioni in cui esse sono più scarse, oppure bisogna puntare ad altre soluzioni? Qualcuno di voi ha accennato, ad esempio, al personale addetto alla vigilanza e al controllo. Inoltre, occorre operare su base territoriale oppure sarebbe preferibile tornare ad un sistema centralizzato?
Il sistema territoriale, infatti, presenta degli elementi non sempre positivi.
Vorrei cogliere l’occasione della vostra presenza per porre anche a voi questi interrogativi, che richiamano riflessioni che spesso svolgiamo nei dibattiti della Commissione al fine di cercare una risposta adeguata.
Si tratta di problematiche che, a mio parere, non riguardano solamente la necessità di impiegare ulteriori risorse, ma anche la concezione del modello finora messo in campo e le sue capacità di affrontare e aggredire una piaga sociale che pur essendo diminuita (tutti conosciamo i dati degli ultimi anni) resta pur sempre di una gravità inaccettabile.

PAVANELLO
Signor Presidente, vorrei innanzitutto ringraziare il presidente Tofani per le parole lusinghiere che ha avuto per la Consulta, a proposito della quale egli ha dichiarato che rappresenta il più alto livello di scientificità in Italia. Essa rappresenta indubbiamente anche un momento di dialettica interna e di grande discussione, non sempre semplice per evidenti motivi. Su questi temi ci cimentiamo da molto tempo e la nostra posizione è storicamente acquisita. Vi è un problema di intervento sul territorio che vorrei sottolineare perché è un dato centrale. Il quadro normativo, che deve essere di livello nazionale almeno per quanto riguarda i livelli minimi essenziali di sicurezza, è il punto di partenza per un’azione che deve poi dispiegarsi sul territorio.

PRESIDENTE
È proprio questo il punto più delicato delle varie interpretazioni.
Se ho ben capito, lei sostiene che l’elemento legislativo deve intervenire a livello nazionale, mentre l’aspetto di formazione e di controllo deve avvenire sul territorio, sostanzialmente da parte delle Regioni che demandano tali aspetti, ad esempio, alle ASL, che sono pur sempre uno strumento delle Regioni.

PAVANELLO
Nell’ultima pagina del nostro documento è contenuto un salto ulteriore, pur con grande cautela. Come anche lei ha sottolineato, si tratta di un punto estremamente delicato. Dal 1994 (ma potremmo fissare la data di partenza al 1988, con l’introduzione del decreto del Presidente della Repubblica n. 175 del 1988, la cosiddetta legge Seveso), la legislazione italiana, in termini di attivazione tecnica, è interamente di derivazione comunitaria, a parte alcuni aspetti residuali dei decreti del Presidente della Repubblica n. 303 del 1956 e n. 547 del 1955. La normativa tecnica o attuativa sui rischi psicosociali e quant’altro fa riferimento ad accordi europei tra la Confederazione europea dei sindacati e dei lavoratori, quindi addirittura alle parti sociali a livello europeo. Ciò rappresenta il livello minimo essenziale di intervento, che poi va però attuato sul territorio, poiché è lì che occorre svolgere l’azione di vigilanza e il controllo.
In Italia, negli ultimi anni, non è esistito alcun controllo e alcuna verifica circa l’esistenza di un livello minimo essenziale omogeneo sul territorio (il famoso emendamento sul 2 per cento per la prevenzione, sul quale ricordo che il Governo e la Commissione bilancio del Senato espressero parere contrario e che ciò nonostante fu approvato). Pertanto, le risorse ci sono, e quando non vengono destinate alla prevenzione occorre che intervengano dei poteri sostitutivi. L’intervento sul territorio non può che essere territoriale. Concentrarsi soltanto sulla normativa nazionale costituisce un falso problema, poiché essa è la normativa minima di riferimento rispetto alla quale le Regioni possono andare oltre.

PRESIDENTE
Non sempre. Le faccio un esempio: il cosiddetto decreto legislativo Damiano interviene sulla responsabilità oggettiva e anche penale.

PAVANELLO
Presidente, oggi tutta la normativa è nazionale.

PRESIDENTE
Oggi è nazionale, però con la riforma del Titolo V della Costituzione è demandata alle Regioni.

PAVANELLO
È materia concorrente. Ad oggi tutti gli interventi sono stati realizzati in modo coordinato tra lo Stato e le Regioni, comprese le attività che potevano essere di altra natura. Ad esempio, la formazione, che è totalmente demandata alle Regioni, è invece rientrata in un’intesa Stato-Regioni.
La nostra sensazione è che occorra uscire da una polemica un po’ sterile sull’alternativa tra la dimensione nazionale e quella regionale. Lo ripeto, l’intervento sul territorio deve essere fatto a livello territoriale; le competenze, il numero di uomini e la loro professionalità non possono che essere definiti a livello regionale, nonché subregionale, a livello di ASL. Se poi in alcune aree si è al di sotto di certi livelli oppure vi è una mancata applicazione, allora occorre – lo abbiamo scritto esplicitamente – una verifica dei poteri sostitutivi, per andare al di sopra dei livelli minimi essenziali.
Nel nostro documento abbiamo parlato di livelli minimi essenziali nazionali (LEAP), e di livelli minimi essenziali regionali (LEAR). Così come i livelli essenziali dell’assistenza sono costituzionamente garantiti, anche la salute sul lavoro è garantita dalla Carta costituzionale; i livelli li definisce lo Stato ma poi, a livello territoriale, si può anche andare oltre.
A tal proposito, abbiamo inserito una tabella nel nostro documento che, pur suscettibile di qualche imperfezione, ci è costata un certo sforzo.

PRESIDENTE
A noi interesserebbe avere, se possibile, alcuni dei dati menzionati: sostanzialmente, vorremmo disporre di quelli relativi alle entrate, che temo non siano uguali tra Regione e Regione, e di quelli relativi alle zone industriali. Infatti, i dati che lei ha fornito sono assolutamente significativi: non le ho chiesto quanti siano gli operatori nella zona del petrolchimico di Gela, ad esempio, ma immagino sia uno, visto che l’altro è a Messina, dove insiste la raffineria di Milazzo. Tutto ciò sarebbe di grande interesse, perché ci consentirebbe di farci un’idea sia delle entrate, che personalmente penso siano differenziate (e sarebbe interessante anche vedere come lo sono), sia delle zone industriali a grande e medio rischio (tutte sono a rischio, però alcune lo sono più di altre, per l’ambiente sia interno che esterno, che pure va considerato).

PAVANELLO
Presidente Nerozzi, ci conosciamo da anni e so che da sempre lei è attento a questi aspetti. I dati possono variare di qualche unità, ma complessivamente sono corretti. In realtà, con tutto il rispetto e per quanto consentito, quella odierna è per noi l’occasione di sollecitare alla Commissione un aiuto, sulla base dei poteri di cui è dotata: chiedete alle singole ASL quali sono le loro entrate e dove vanno a finire le risorse.
Scoprirete che, in qualche caso, queste ultime finiscono nel bilancio delle aziende sanitarie, dentro al calderone generale; in qualche altro caso, possono rimanere su conti correnti particolari che non sono toccati da anni e che giacciono lì per motivi i più strani; infine, in altri casi, sono parzialmente, se non totalmente utilizzate per questo.

PRESIDENTE
Se ci forniste questi dati interverremmo direttamente. Mi riferisco, ovviamente, a quanto è in vostro possesso.

PAVANELLO
Noi vorremmo che fosse la Commissione ad assumere politicamente questi dati.

PRESIDENTE
Il punto è proprio questo: per assumere politicamente la questione la Commissione deve sapere, trattandosi di 187 aziende sanitarie, quali siano le più interessanti da verificare. Poiché conosco la pubblica amministrazione so bene che se scriviamo a 187 aziende sanitarie prima di quattro anni non avremo tutte le risposte.

TADDEO
In queste ore tutte le Regioni, in base al protocollo di comunicazione del Patto nazionale per la salute, stanno inviando i dati relativi alle attività del 2008, che vengono raccolti in qualche ufficio di Roma.
I dati che noi vi forniremmo sarebbero quelli carpiti da questo censimento.
Mi chiedo allora se forse voi non abbiate maggiore autorevolezza di noi rispetto agli uffici di coordinamento delle Regioni. Comunque, non appena questo lavoro sarà completato e saremo in grado di avere i dati ve li forniremo.
Al momento, tutte le ASL hanno comunicato alle Regioni i dati e queste ultime a loro volta li stanno comunicando agli uffici di coordinamento.

PRESIDENTE
Chiederemo i dati agli uffici per il coordinamento delle Regioni, così come al Ministero della salute. Poiché ho una certa conoscenza della pubblica amministrazione, chiedevo di avere dei dati-tipo perché in forza del nostro ruolo ispettivo possiamo fare qualche intervento diretto, ma rivolgendoci alle 187 ASL impiegheremo almeno quattro anni per avere i dati, forse solo due se ci rivolgeremo al Ministero della salute e al coordinamento delle Regioni. Non credo che i tempi saranno più brevi, conoscendo per esperienza trentennale come vanno le cose nella pubblica amministrazione in questi particolari settori. Comunque lo faremo.

TADDEO
Si è parlato dell’aspetto della centralizzazione delle competenze, cui modestamente ho accennato nel mio breve contributo.

PRESIDENTE
Lei ha fatto un’esposizione che considero molto equilibrata, in cui ha parlato del potere di intervento delle Regioni. Il dilemma che ci troviamo di fronte è un po’ più ampio e riguarda, da un lato, il fatto che una scuola di pensiero vuole centralizzare l’insieme delle competenze e, dall’altro lato, il fatto che, come lei ha accennato, forse non oggi ma in futuro vi potrebbero essere in materia legislazioni diverse tra Regione e Regione, con una correzione non sempre positiva. I problemi aperti sono dunque quello della centralizzazione, che personalmente non condivido; vi è poi un problema reale ed attuale ed un problema che può sorgere con la legislazione vigente, non ancora applicata. Mi riferisco alla questione della legislazione concorrente (che nessuno ha ancora capito cosa sia su questa come su altre materie). Si tratta di problemi molto delicati, posto che non stiamo parlando di piccolezze, bensì di aspetti che purtroppo investono la vita delle persone, del territorio e dell’ambiente.
In conclusione, sarebbe molto interessante se ci trasmetteste i dati richiesti, in modo da poter fare qualcosa di più reattivo rispetto alle troppe lentezze delle burocrazie centrali, anche sapendo che il presidente Tofani, giustamente, ha sempre il desiderio di anticipare i tempi. Comunque, ci rivolgeremo alle istituzioni competenti, come ci avete consigliato.
Ringrazio tutti gli intervenuti e dichiaro conclusa l’audizione.
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Fonte: Senato della Repubblica