Categoria: Commissione parlamentare "morti bianche"
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SENATO DELLA REPUBBLICA

XVI LEGISLATURA

Giunte e Commissioni



Resoconto stenografico

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche»



Seduta 33, martedì 21 luglio 2009

Audizione del Direttore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie
Audizione del professor Giuseppe Battista dell’Università degli Studi di Siena



Presidenza del vice presidente NEROZZI, indi del presidente TOFANI


Intervengono, in rappresentanza dell’ANSF (Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie), gli ingegneri Alberto Chiovelli, direttore, e Giulio Margarita, dirigente; in rappresentanza del Centro Universitario per lo studio e lo sviluppo dei sistemi di prevenzione e protezione dei lavoratori dell’Università degli studi di Siena, il professor Giuseppe Battista, presidente, e la dottoressa Francesca Barbagli, specialista in medicina del lavoro.


Audizione del Direttore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie



PRESIDENTE
L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione del Direttore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie iniziata nella seduta dello scorso 8 luglio.
Comunico che, ai sensi dell’articolo 13, comma 2, del Regolamento interno della Commissione, è stata chiesta l’attivazione dell’impianto audiovisivo.
Se non ci sono osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori.
Comunico altresì che della seduta sarà redatto e pubblicato il resoconto stenografico.
Do il benvenuto all’ingegner Chiovelli che invito a proseguire il suo intervento interrotto nella precedente seduta, consapevoli della delicatezza dell’argomento, non solo in quanto tale, ma poiché legato al tragico incidente verificatosi a Viareggio che ha provocato numerose vittime il cui numero di giorno in giorno continua ad aumentare.

CHIOVELLI
Nel corso del nostro precedente incontro, sulla base di una domanda che mi era stata rivolta, ho cercato di fare in pochi minuti il punto della situazione sullo stato di attuazione dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie. Successivamente, avrei dovuto sviluppare gli aspetti che riguardano più specificamente l’incidente di Viareggio e svolgere alcune considerazioni di carattere generale. Vorrei tornare sulla questione riguardante l’organizzazione dell’Agenzia alla fine del mio intervento che vorrei iniziare, invece, partendo dall’incidente di Viareggio.
Fra i compiti che ci sono stati attribuiti, in questa fase di start up, di prima applicazione della norma, è compreso quello di effettuare indagini su tale incidente. Specifico, tuttavia, che le indagini che svolge l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie non sono finalizzate all’individuazione di responsabilità, né sono indagini proprie dell’organismo investigativo – che pure è previsto dalla direttiva comunitaria – tese ad accertare la dinamica completa dell’evento dopo avere acquisito tutte le relazioni dei vari soggetti coinvolti, bensì sono finalizzate fondamentalmente ad individuare eventuali criticità contingenti e, di conseguenza, azioni correttive da porre in essere laddove dovessero risultare pericoli incipienti. Ed è proprio ciò che fino ad oggi abbiamo fatto.
Abbiamo partecipato ai sopralluoghi, abbiamo acquisito dei dati, abbiamo cercato di ricostruire la vita tecnica e manutentiva del carro che è stato coinvolto nell’incidente e siamo quindi risaliti ai vari soggetti che via via hanno partecipato, a vario titolo, alle operazioni effettuate su questo carro. Su un altro fronte, abbiamo chiesto elementi all’impresa ferroviaria Trenitalia e al gestore della rete ed abbiamo poi attivato contatti con le altre agenzie europee per uno scambio di informazioni e di indicazioni da noi acquisite che volevamo fossero note anche ai nostri colleghi europei.
Per quanto riguarda gli elementi richiesti a Trenitalia e a Rete ferroviaria italiana, ancora non abbiamo ricevuto la documentazione. Per quanto riguarda, invece, gli esiti del sopralluogo e di tutte le altre azioni da noi svolte, abbiamo individuato alcuni assi della stessa partita di quella che ha subito il cedimento strutturale ed abbiamo disposto il fermo dei relativi carri per effettuare dei controlli straordinari. Risalendo poi alle varie officine che hanno partecipato al processo manutentivo, abbiamo individuato dei parametri per intercettare un certo numero di carri che ricadevano in queste tipologie (in particolare, mi riferisco alla colata dalla quale erano stati ricavati gli assili, al disegno dell’assile) ed anche in quel caso abbiamo disposto di procedere a controlli straordinari. Questi ultimi sono attualmente in corso. Ovviamente, le categorie di carri che non appartengono a queste tipologie vengono man mano riammesse alla circolazione.
Parallelamente a ciò, visto che come ci ha insegnato tale evento questi carri provengono anche da altri Paesi europei, abbiamo avvisato tutte le agenzie nazionali dell’Unione europea per comunicare loro i parametri in nostro possesso e ci risulta che anche negli altri Paesi siano in corso controlli di questo tipo. Questi i provvedimenti immediati.
Ma, la nostra indagine non è esaurita. Come ho accennato, vi sono ancora degli elementi da acquisire, mentre per quelli già acquisiti sono in corso confronti e approfondimenti; dunque, il nostro lavoro proseguirà ancora per altro tempo.
Più in generale, rispetto alle cause tecniche dell’incidente, fondamentalmente stiamo cercando di stabilire due aspetti. In primo luogo, dobbiamo avere contezza del fatto che le procedure in vigore – sia quelle relative alla normativa nazionale, sia quelle vigenti nel Paese di provenienza del carro – siano state correttamente seguite; ove ciò non fosse, dobbiamo individuare dove la catena della sicurezza ha registrato una falla. Nel caso in cui, invece, dovessimo accertare che le procedure sono state correttamente eseguite, ritengo dovremo chiederci se le procedure oggi in vigore siano o meno idonee.
Al di là di ciò, un evento di questa portata non può non stimolare una riflessione generale sull’assetto normativo. Un sistema complesso come quello ferroviario, in cui si stanno affacciando vari attori, reso ancor più complesso dal fatto che esiste un’interazione, uno scambio di materiale rotabile fra Paesi diversi dell’Unione europea, non si può permettere falle di questo tipo. Quindi, sicuramente sarà necessaria una riflessione al riguardo, non solo, per così dire, in casa nostra, ma a livello europeo. A questo proposito, il prossimo 29 luglio è previsto un incontro presso l’Agenzia ferroviaria europea di tutte le agenzie nazionali proprio per avere uno scambio di informazioni sull’evento specifico, ma anche per gettare le basi per delle azioni comuni. Inoltre, abbiamo già programmato per il prossimo 5 agosto un incontro con tutti gli operatori nazionali nel quale vogliamo riferire degli esiti dell’incontro del 29 luglio ed avere uno scambio di informazioni e di idee con i nostri operatori, proporre delle misure mitigative, condividerle ed individuare poi gli opportuni strumenti per metterle in atto.
Quanto riferito mi sembrava un doveroso aggiornamento sull’evoluzione della vicenda. Tuttavia, credo che l’incontro odierno sia l’occasione per affermare dei principi e dei concetti secondo me molto importanti, tanto più alla luce di quello che è successo a valle dell’incidente. Infatti, a seguito del tragico evento di Viareggio si è diffuso un messaggio, secondo me sbagliato, sull’assetto normativo nazionale e internazionale della sicurezza ferroviaria, anche se ritengo comunque necessario riflettere in modo serio sull’assetto normativo, prevedendo meccanismi correttivi. In questa sede, vorrei affrontare soltanto il tema dell’assetto normativo e non quello delle responsabilità nell’evento specifico; tuttavia, poiché il carro che ha provocato l’incidente di Viareggio è stato immatricolato all’estero, è passato – o si è voluto far passare – il messaggio che vi sia una totale estraneità dell’impresa ferroviaria sul fronte della sicurezza del trasporto ferroviario. Si tratta di un messaggio sbagliato perché ingenera la sensazione, anch’essa errata, che vi siano vuoti normativi sia a livello nazionale che internazionale. Peraltro, pochissimi hanno sottolineato il fatto – a mio avviso non trascurabile – che il carro, benché fosse in Italia per effetto di un assetto normativo internazionale e quindi fosse stato immatricolato all’estero, veniva utilizzato per trasporti nazionali. Tale carro, infatti, serviva per trasporti all’interno della rete nazionale.
Si è citata più volte la circostanza che il riconoscimento delle officine di manutenzione o della figura del detentore del carro – in vigore in altre Agenzie ed in altri Paesi europei – può assolvere completamente l’impresa ferroviaria da qualsiasi gravame in termini di sicurezza; al tempo stesso, contraddittoriamente si lamenta che questo tipo di riconoscimento non è presente nel sistema normativo italiano a causa del mancato o del ritardato recepimento di alcune direttive comunitarie.
Al riguardo devo sottolineare che in qualunque Paese, prima di passare ad un assetto normativo nuovo, vale il sistema previgente e, quindi, non esistono vuoti normativi. In ogni caso, come soggetto preposto all’attuazione di tali norme posso affermare che, seppure oggi venissero recepite le direttive comunitarie cui si è fatto riferimento, cioè quelle che prevedono l’introduzione della figura del detentore dei carri e dell’entità di manutenzione, mi preoccuperei preliminarmente (come mi preoccuperò nel momento in cui le direttive saranno recepite) di avere dall’Agenzia ferroviaria europea indicazioni comuni per tutti i Paesi europei circa i requisiti necessari per il riconoscimento di tali soggetti. Infatti, non ha alcun senso riconoscere i detentori dei carri sulla base di requisiti nazionali quando negli altri Paesi vengono utilizzati per la certificazione requisiti diversi.
Il medesimo problema si è posto per i certificati di sicurezza delle imprese ferroviarie: prima sono entrate in vigore le direttive che hanno recepito il meccanismo del certificato di sicurezza, il quale è stato rilasciato dai singoli Paesi sulla base delle normative nazionali, determinando quindi una sorta di disomogeneità tra i vari Stati nell’attribuzione della certificazione di sicurezza alle imprese ferroviarie; in seguito, con successivi provvedimenti, l’Agenzia ferroviaria europea ha predisposto dei requisiti comuni dei certificati di sicurezza, suddividendoli in una parte A, cioè comune a tutti i Paesi europei, ed in una parte B più specifica per le infrastrutture nazionali.
Mi preme mettere in evidenza questa situazione che, a mio avviso, è contraddittoria. Infatti, da quanto accaduto dopo l’incidente, ho ricavato la netta sensazione che il processo di liberalizzazione sia inteso come possibilità per i vari operatori di scaricarsi a vicenda le responsabilità oppure, più comodamente, di scaricarle sulle Agenzie nazionali che comunque devono impartire le regole. Credo che un’impostazione del genere porterebbe in poco tempo a conseguenze molto negative sui livelli di sicurezza e soprattutto non sarebbe coerente con le norme vigenti. Questo tipo di impostazione – che io ho percepito e che spero non alberghi tra gli operatori nazionali ed internazionali – cozza con la realtà rappresentata dalla norma, che non lascia spazio ad equivoci. Infatti, la direttiva n. 49 del 2004, recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 10 agosto 2007, n. 162 (che, peraltro, ha istituito l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie), al riguardo è cristallina perché attribuisce alle imprese ferroviarie e ai gestori della rete l’onere di garantire il funzionamento sicuro del sistema; anche le modifiche che verranno apportate dalla direttiva successiva, cioè quella che introdurrà le figure del detentore e dell’entità di manutenzione, non saranno volte a frammentare le responsabilità, bensì a rafforzare il sistema. Quest’ultimo si basa su più soggetti certificati, ma non va inteso come un mosaico, cioè come una frammentazione di responsabilità; si tratta, al contrario, di un’interazione tra i vari soggetti titolari dei riconoscimenti, che devono garantire, interagendo tra loro, la sicurezza al sistema.
Le direttive cui facciamo riferimento riguardano la sicurezza, ma si inquadrano nell’ambito del processo di liberalizzazione e sono sostanzialmente volte a favorire l’accesso tra le reti, garantendo nel contempo i livelli di sicurezza. Proprio per favorire il processo di liberalizzazione, il legislatore comunitario sta creando un sistema basato sulla certificazione dei vari soggetti che operano in tutti i campi del settore ferroviario (la manutenzione, il possesso o comunque la gestione del carro, il trasporto e la gestione della rete). La normativa comunitaria prevede che ogni impresa o gestore è responsabile della propria parte di sistema e del relativo sicuro funzionamento, nei confronti di utenti, clienti, lavoratori interessati e terzi.
Su tale concetto si fonda l’impostazione della direttiva comunitaria, recepita anche nel nostro ordinamento nazionale. Dunque, la direttiva comunitaria dà ampia autonomia e responsabilità agli operatori. In tale contesto, si inquadra il ruolo delle Agenzie nazionali, che presentano forme diverse nei vari Paesi. D’altra parte, storicamente vi sono sempre stati assetti differenti: quello italiano, ad esempio, era abbastanza lontano dai princìpi della direttiva incardinando il processo relativo alla sicurezza all’interno di un solo operatore, cioè sul gestore della rete; quindi, il nostro Paese era molto lontano dall’assetto richiesto dalla direttiva comunitaria. Per tale motivo, il legislatore ha pensato di individuare un ente pubblico, preoccupandosi di garantire il passaggio delle competenze nel segno della continuità e del mantenimento del know-how. Ha immaginato che, nella fase di prima applicazione, l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie si potesse avvalere di un gruppo di professionalità appartenenti alle Ferrovie dello Stato già addette a compiti in materia di sicurezza.
In tutti i Paesi, anche per contenere la spesa, le Agenzie nazionali sono soggetti light (mi sia consentita l’espressione), cioè organizzazioni abbastanza snelle, che non effettuano controlli capillari, ma si limitano a svolgere un’azione di controllo sugli operatori: sostanzialmente controllano che questi ultimi agiscano conformemente alle norme e verificano i processi messi in atto dagli operatori, fino ad arrivare ai processi di manutenzione, senza effettuare un controllo di dettaglio.
D’altra parte, dai dati della nostra rete nazionale risulta che abbiamo 16.500 chilometri di rete (non sto calcolando le reti regionali, che pure rientreranno all’interno delle competenze dell’Agenzia), 9.000 treni al giorno, 47.500 carri immatricolati solo in Italia. È evidente che nessuna struttura, né di 100 né di 300 persone, sarebbe in grado di operare controlli di dettaglio. Bisogna organizzare il sistema affinché sia in grado di funzionare anche per quanto riguarda i controlli. Ovviamente, compito dell’Agenzia è creare le condizioni affinché tali controlli possano essere effettuati da soggetti qualificati. In questo primo anno di attività abbiamo operato proprio in tal senso sulla base della norma di riferimento, cioè il decreto legislativo n. 162 del 2007 che prevede – come già ricordato – la certificazione di sicurezza per le imprese ferroviarie e per i gestori della rete e la nascita dell’Agenzia. Ciò non significa che gli operatori non si occupano più della sicurezza; se ne occupano ancora, ma non ne fissano più le regole. Laddove l’avvento dell’Agenzia venisse inteso come un tentativo di sollevare gli operatori dal controllo sulla sicurezza, sarei io il primo a suggerirne la soppressione perché l’effetto sarebbe completamente negativo. Nel primo anno di attività, dunque, abbiamo lavorato in considerazione di questo tipo di assetto.
A seguito dell’impostazione contenuta nel nuovo schema organizzativo indicato dal decreto legislativo n. 162, è stato messo a punto un provvedimento di dettaglio, pubblicato il 4 aprile, con il quale è stata data attuazione ai principi contenuti nel decreto legislativo stesso. Si tratta del decreto dirigenziale n. 1, a lungo dibattuto con tutti gli operatori e sul quale sono state svolte una serie di riunioni e hanno avuto luogo scambi di idee per cercare di favorire un approccio di sistema. È un provvedimento che ha ridisegnato, in qualche modo, le figure dei vari operatori presenti nel panorama normativo attuale e con il quale è stata effettuata una ricognizione delle norme preesistenti per avviare un riordino del quadro normativo di riferimento.
Come già ricordato, tale decreto ha attuato i principi contenuti nel decreto legislativo, ma non quelli dettati dalla nuova direttiva poiché essa non è stata ancora recepita. Non appena ciò avverrà ci preoccuperemo di fissare con l’Agenzia ferroviaria europea dei principi comuni per individuare i requisiti relativi alle nuove figure istituite.
Sempre in relazione all’annunciato presunto vuoto normativo, credo che al riguardo sia stato dato un messaggio sbagliato. Con riferimento, ad esempio, alla parte che riguarda le merci pericolose (quindi il carro inteso come parte ferroviaria e come parte che trasporta merci pericolose), vorrei far presente che le norme RID (Règlement concernant le Transport International Ferroviaire des narchandises Dangereuses), tanto nominate in questi giorni, sono norme tecnicamente molto evolute e fra le poche relative al settore ferroviario completamente armonizzate a livello europeo; si tratta di norme di dettaglio che definiscono i compiti di tutti gli operatori che partecipano alla catena della sicurezza nella movimentazione e manipolazione delle merci pericolose.
Nel settore ferroviario esiste una norma di riferimento internazionale che risale addirittura all’approvazione della precedente Convenzione sui trasporti internazionali per ferrovia (COTIF), recepita dall’ordinamento italiano negli anni ’80 e subito dopo nelle norme tecniche nazionali. Pertanto il regime con cui quel carico circolava in Italia ha ben poco a che fare con la liberalizzazione. Quel carro vent’anni fa sarebbe stato sottoposto a questa stessa normativa tecnica e avrebbe circolato comunque. Inoltre gli stessi contratti oggi vigenti a livello europeo per l’utilizzo dei carri, per intenderci quelli ai quali partecipano le imprese ferroviarie e i nuovi soggetti riconosciuti, non prevedono una distinzione di responsabilità a comparti stagni. Chiaramente i contraenti, siano essi detentori o imprese ferroviarie, si assumono responsabilità specifiche nei vari processi, ma esiste un’interazione continua. Se leggete il Contratto uniforme di utilizzazione, quello più volte invocato come allegato alla COTIF del 1999, non ancora recepita in Italia, vedrete che prevede impegni reciproci tra impresa ferroviaria e detentore. La manutenzione di un carro che un detentore affida ad un’impresa ferroviaria non può mai intendersi come rapporto unilaterale, perché il carro circola, dunque deve esserci uno scambio continuo di informazioni su eventuali anomalie tra impresa ferroviaria e detentore. Anche quando si giungerà ad un approccio di questo tipo nel panorama normativo italiano, l’interazione fra operatori ferroviari sarà comunque dovuta. Intravedo quindi – e, ripeto, questo è il segnale più negativo che ho colto in questo periodo – la possibilità che fra i vari operatori ci possa essere semplicemente un confine di responsabilità che definisce dove finisce la responsabilità di uno e dove inizia quella di un altro. Peraltro, personalmente ritengo questo sistema errato in un panorama come il nostro in cui gli interlocutori continuano a moltiplicarsi. Se solo si pensa che oggi in Italia esiste un gestore della rete, 30 imprese ferroviarie con la certificazione di sicurezza, cui fra un paio di anni si aggiungeranno altri gestori della rete (i gestori delle reti secondarie) e i nuovi soggetti (i detentori dei carri e le officine di manutenzione), appare evidente che il numero dei soggetti negli anni continuerà a proliferare. A mio parere, è impensabile pensare di gestire un sistema del genere lasciando che il limite delle responsabilità di ognuno finisca dove inizia quello di un altro, in assenza di una cornice di sicurezza che governi l’intero sistema. Ed è proprio questo – io credo – il compito delle Agenzie nazionali che ovviamente però quando forniscono questo tipo di indicazioni debbono essere ascoltate.
Quanto ciò sia vero non lo dice solo la norma (e già sarebbe sufficiente), né solo l’Agenzia (che, per carità, essendo nata da non molto è poco autorevole per definizione), lo affermano anche gli operatori nel prospetto informativo della rete che Rete ferroviaria italiana comunica alle imprese ferroviarie che entrano nella sua rete. Nel prospetto informativo si legge (si tratta di un documento del 12 dicembre del 2008, quindi non troppo vecchio e comunque successivo alla nascita dell’Agenzia): «è obbligo delle imprese ferroviarie assumere piena ed esclusiva responsabilità in merito al materiale rotabile utilizzato nei confronti della clientela e verso le istituzioni ancorché il gestore dell’infrastruttura ne abbia ammesso la circolazione sull’infrastruttura ferroviaria». Questo è il quadro.
Dunque, anche i documenti non propriamente normativi, ma di natura più commerciale, come il prospetto informativo della rete o il contratto uniforme di utilizzazione già citato, vanno in questa direzione.
Cercherò di tradurre la preoccupazione che oggi vi sto manifestando in una serie di indicazioni che da qui a breve daremo agli operatori, non solo riferite al caso specifico delle merci pericolose, ma più in generale ad un approccio culturale che su questo tipo di materia deve necessariamente veder crescere gli operatori perché i segnali che ho colto dopo l’incidente da questo punto di vista – debbo dire in tutta onestà – non sono stati molto confortanti.
Nella scorsa audizione ho brevemente sintetizzato qual è lo stato di attuazione dell’Agenzia. Come ho ricordato, siamo ancora in una fase di transizione: abbiamo acquisito del personale dal gruppo FS, ma ancora non tutte le competenze; abbiamo formulato una proposta per acquisire ulteriore personale in modo da completare il trasferimento delle competenze a maggio e stiamo ancora attendendo una risposta. Sono stati emanati tre dei quattro regolamenti che a regime consentiranno all’Agenzia di funzionare.
Non abbiamo ancora raggiunto l’autonomia finanziaria, ma credo che potremo risolvere in breve tempo tale problema essendo già stato approvato il regolamento di contabilità.
Vorrei sottoporre alla vostra attenzione un’altra questione di carattere più generale, al di là del dettaglio di questa fase che – lo voglio ricordare – è stata stabilita dalla normativa: la norma, infatti, ha previsto una lunga fase di transizione volta a trasferire gradualmente le competenze per cercare di mantenere la continuità nelle attività e di conservare il know-how. Non è, dunque, uno scandalo se siamo in una fase di transizione. Certamente quest’ultima deve essere contenuta al minimo indispensabile anche perché in tale periodo l’Agenzia non può definirsi completamente indipendente – come prevede la norma – dal gruppo Ferrovie dello Stato fintanto che ne utilizza il personale; lo sarà solo al termine del processo. In pratica, in questo periodo, il garante dell’indipendenza è solo il direttore.
Vorrei sottolineare il fatto che, in questo caso, personale e know-how provenienti da una società per azioni, cioè da un privato, vengono trasferiti in un comparto pubblico. Infatti, l’Agenzia è un ente pubblico giacché il legislatore ha deciso che la sicurezza è un bene collettivo e quindi deve essere in capo ad un soggetto pubblico. Questo processo, dunque, è richiesto dalla norma ed è evidente che tutti gli attori devono cercare di favorirlo.
Anche per l’inquadramento finale del personale, si dovranno creare condizioni idonee per agevolare il passaggio dal gruppo Ferrovie dello Stato e da Rete ferroviaria italiana verso il nuovo ente pubblico (ovviamente nessuno può essere obbligato). La riuscita, a regime, dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie dipende anche da questo: a mio avviso, bisogna comprendere che il processo basato sul tentativo di conservare il know-how si basa solo ed esclusivamente sulla possibilità di inquadrare il personale all’interno dell’Agenzia. Tale questione, peraltro, è ben presente al ministro Matteoli, che ha sempre sostenuto l’operato dell’Agenzia e ha anche intrapreso iniziative di carattere legislativo atte a favorire tale passaggio.
Concludo richiamando le attività svolte nel suo primo anno di vita dall’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie. Non volendo tediarvi, ho preparato un report, che consegnerò agli Uffici. Voglio soltanto ricordare che tra i vari compiti dell’Agenzia vi è quello di verificare che gli operatori ferroviari agiscano in conformità con le norme. A tal fine, pur non avendo ancora raggiunto il pieno organico (il personale consta di 75 unità), abbiamo svolto ben 48 audit presso tutti gli operatori ferroviari; abbiamo effettuato verifiche in tutte le imprese ferroviarie che hanno la certificazione di sicurezza, ovviamente in modo proporzionale al traffico svolto (dunque, le verifiche presso Trenitalia sono state più numerose).
Da tali controlli sono emerse criticità e non conformità nelle procedure, di cui, nel tempo, abbiamo verificato l’effettiva rimozione. Nei casi particolarmente evidenti, abbiamo chiesto alle imprese ferroviarie di riconsiderare la propria organizzazione per garantire il corretto svolgimento delle procedure.

PRESIDENTE
Abbiamo ascoltato con molta attenzione la relazione dell’ingegner Chiovelli – che ringraziamo per la disponibilità – dalla quale la Commissione potrà trarre alcune considerazioni e verificare l’opportunità di presentare ulteriori richieste.
L’ingegner Chiovelli, d’altra parte, è stato molto preciso. Ha affermato che si terranno due incontri, l’uno in sede europea, l’altro in sede nazionale. Sarebbe importante che la Commissione venisse informata sugli esiti di queste due riunioni. Sarebbe altresì interessante se, oltre alla documentazione consegnata agli Uffici della Commissione riguardante le attività svolte dall’Agenzia nell’ultimo anno, proprio sulla base di quanto accaduto ci venissero indicate eventuali iniziative da intraprendere o modifiche legislative da apportare.
Ringrazio ancora una volta l’ingegner Chiovelli, anche per la franchezza dell’esposizione. Credo che tutti i colleghi leggeranno con attenzione la sua relazione, in base alla quale – ripeto – valuteremo l’opportunità di chiedere ulteriori chiarimenti al direttore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie o agli altri soggetti precedentemente auditi.
Dichiaro concluso il seguito dell’audizione.


Presidenza del presidente TOFANI

Audizione del professor Giuseppe Battista dell’Università degli studi di Siena

PRESIDENTE
L’ordine del giorno prevede ora l’audizione del professor Battista dell’Università degli studi di Siena, che ringraziamo per la disponibilità. Tale audizione si inserisce nell’ambito dell’attività del gruppo di lavoro sui temi della formazione e della prevenzione nel settore più ampio degli infortuni sul lavoro, coordinato dalla senatrice Bugnano, alla quale cedo la parola.

BUGNANO (IdV)
Signor Presidente, abbiamo voluto ascoltare oggi il punto di vista del mondo accademico, anche alla luce della specifica esperienza sviluppata dal professor Battista presso l’Università degli studi di Siena. Come abbiamo rilevato anche nell’audizione della scorsa settimana, la creazione di una cultura in materia di infortuni sul lavoro rispetto agli aspetti più specifici della prevenzione e quindi della formazione degli operatori (da intendersi come datori di lavoro e come lavoratori) è assai importante, forse anche più del sistema sanzionatorio.

BATTISTA
Innanzitutto, rivolgo alla Commissione un ringraziamento per l’invito, che ho accettato molto volentieri. Sono ormai molti anni che in Italia si dibatte sulla questione relativa agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali; finora si è sempre intervenuti attraverso norme e misure ispettive e/o repressive. Questa è la storia del nostro Paese in materia. Già alla fine degli anni ’60 l’Ispettorato del lavoro fu accusato dai rappresentanti dei maggiori sindacati dell’epoca non tanto per la carenza di personale, che pure esisteva ed era reale, quanto per la metodologia di lavoro imposta dall’esterno e che veniva recepita come tale dal mondo del lavoro. Con il passare dei decenni, al di là delle posizioni ideali o politiche, come ha ricordato poc’anzi la senatrice Bugnano, la partecipazione attiva dei lavoratori (che prima dello Statuto dei lavoratori non era prevista esplicitamente nel nostro ordinamento) è divenuta cultura comune, condizione imprescindibile ai fini della prevenzione, come oggi prevedono le stesse norme di derivazione comunitaria.
Immagino non sia necessario che io spenda parole in questa sede per ricordare come alla base della partecipazione si collochi l’informazione e, alla base dei comportamenti corretti, la formazione dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori e dei tecnici che hanno responsabilità nel processo della prevenzione, compresi i tecnici delle ASL, dell’Ispettorato del lavoro, ecc. Siamo di fronte a problemi che riguardano centinaia di migliaia di lavoratori che si muovono nel mondo produttivo: operai, quadri intermedi, dirigenti, figure professionali tecniche specializzate nella prevenzione, responsabili dei servizi di proviene e protezione, addetti alla sicurezza, medici competenti.
Voglio approfittare di questa occasione per essere franco e diretto, sperando che non me ne vorrete. Dall’intero processo della formazione, sia in ambito normativo che nella pratica, cui in larga misura partecipano le Regioni ed il Servizio sanitario nazionale, le Università rimangono sostanzialmente escluse. Le ragioni della diffidenza nutrita da alcuni luoghi del potere istituzionale nei confronti delle Università sono storiche. Probabilmente, alcune colpe sono delle Università, ma anche in questo caso non si tratta di realtà omogenee, così come omogenee non sono le Regioni e le altre istituzioni. Da alcuni calcoli da me eseguiti, risulta che in Italia operano 59 facoltà di ingegneria sparse su tutto il territorio nazionale; 42 corsi di laurea di primo livello (lauree brevi della durata di tre anni) per tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro e 11 corsi di laurea di secondo livello in scienze delle professioni sanitarie della prevenzione; ad essi si aggiungono almeno 40 scuole di specializzazione in medicina del lavoro. Faccio notare che il corso di specializzazione in medicina del lavoro da quest’anno durerà cinque anni, mentre in passato ne durava quattro. La formazione dei responsabili dei servizi di prevenzione e protezione, invece, varia da 64 a 120 ore con aggiornamenti ogni cinque anni che possono oscillare tra le 60 e le 40 ore sempre secondo la complessità dei luoghi di lavoro nei quali si diventa abilitati ad operare.
Per gli addetti ai servizi di prevenzione e protezione, invece, è prevista una formazione che prevede un monte ore variabile tra le 40 e le 90 ore, con aggiornamenti ogni cinque anni di 28 ore. E ` sempre operante il concetto secondo cui, a secondo del settore merceologico (la legge fa riferimento ai settori merceologici dell’INAIL) e dei rischi che questo presenta, sono previsti periodi di addestramento ed aggiornamento più o meno lunghi, più o meno approfonditi.
Approfitto di questa sede autorevolissima per esprimere con molta chiarezza il mio pensiero; d’altra parte sono quasi quarant’anni che esercito questo mestiere ed ho visto tante cose cambiare, tante cose drammatiche accadere, tanti sprechi e tante cose sciocche affermarsi nel nostro Paese. Con tutto il rispetto per i principi giuridici, per l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, ritengo che non si possono, ad esempio, progettare piani efficaci di prevenzione per le acciaierie ed il settore edile (che presentano maggiore rischio infortunistico o di contrarre malattie professionali) ed imporre le medesime cautele per il lavoro negli uffici o nel settore commerciale.
Tra l’altro, l’INAIL, pur nella genericità inevitabile nelle statistiche nazionali, fornisce degli indici infortunistici per settore, sulla base dei quali vengono modulati, per esempio, i tempi dell’addestramento al primo soccorso dei lavoratori nei luoghi di lavoro: laddove si registra un indice infortunistico più elevato, evidentemente la durata dell’addestramento deve essere maggiore ed il corso più approfondito rispetto a quello previsto per il lavoro d’ufficio. Molti anni fa ho lavorato qui in Senato occupandomi della prevenzione sui danni alla salute dei lavoratori addetti ai videoterminali; l’attenzione e l’impegno di risorse pubbliche o private, in questi casi o in casi analoghi può essere più contenuto che non nella siderurgia, nell’edilizia, nell’industria chimica, ecc. La mancata adozione di scale di priorità degli interventi di controllo non dipende soltanto dalle leggi, ma anche dalla loro applicazione in sede regionale e da parte delle ASL; si dovrebbe cioè procedere su progetti di intervento nazionali (es. lotta alle cadute dall’alto o agli infortuni nei trasporti, etc.), regionali o di ASL secondo le caratteristiche geo-sociologiche del territorio e dell’industrializzazione (es.: lotta all’impiego di trattori inadatti su terreni scoscesi, prevenzione degli infortuni tra gli immigrati, nei distretti del legno, della concia, dell’industria tessile o metalmeccanica, ecc.).
Sempre circa i progetti ordinati per priorità, ritengo per essere più esplicito, che gli ispettori delle ASL non possano, ad esempio, occuparsi con lo stesso impegno degli operai che lavorano nel settore edilizio e che rischiano cadute dall’alto e degli addetti ai videoterminali o dei lavoratori esposti all’irraggiamento solare che potrebbero, nell’ordine di grandezza di 1x10-5 persone anno, sviluppare un melanoma cutaneo. Se per contenere i fattori di rischio di melanoma sono necessarie precauzioni ed accortezze, a maggior ragione dovrebbe essere prestata la giusta attenzione alle scale, ai parapetti ai fermapiedi, all’uso di imbracature idonee, ecc. In verità, gli ufficiali di polizia giudiziari delle ASL quando si recano in un’azienda devono, allo stato attuale, controllare tutti gli aspetti della sicurezza e della salute sul lavoro: un’ispezione dura un tempo molto lungo. Le cose si semplificherebbero se si riuscisse ad agire per piani di intervento, mirati su singoli fattori di rischio. Se i maggiori pericoli sono rappresentati dalle cadute dall’alto o dall’uso da alcune macchine, nelle statistiche dell’INAIL non sono presenti informazioni più specifiche su quali modelli si tratti, su quale siano le dinamiche specifiche ecc.; tali informazioni sono però disponibili presso le ASL, ai livelli territoriali più periferici.
Bisognerebbe, dunque, individuare le situazioni di maggiore rischio a livello territoriale. E ` noto in l’Italia la produzione industriale è organizzata anche in distretti produttivi per cui è possibile prevedere piani di settore che diano la priorità agli aspetti più gravi; si tratterebbe di un fatto culturale e pratico di evidente importanza. Per raggiungere questo obiettivo, sarebbe necessario unire le forze ed evitare divisioni tra le Istituzioni. Sicuramente esistono separazioni tra l’INAIL, il Servizio sanitario nazionale, l’Università, l’ISPESL, ecc., che dovrebbero essere superati nello spirito del decreto legislativo n. 81 del 2008.
Mi scuso se mi sono in parte allontanato dal tema sollevato dalla senatrice Bugnano, la quale ha chiesto che io indicassi, in questa audizione, anche cosa siamo riusciti a realizzare in esperienze pratiche controtendenza. Nel corso della attività del gruppo di lavoro da me coordinato, innanzi tutto sul piano culturale, abbiamo cercato di mettere insieme le varie competenze, tra le quali rientrano sicuramente anche quelle di carattere giuridico, per fornire regole generali e dare forma stabile e chiara alle varie questioni. Cito in particolare le competenze degli ingegneri, che esprimono la sostanza della prevenzione tecnica, nonché quelle dei medici e degli psicologi, che conoscono le reazioni dell’essere umano nelle diverse situazioni. Al riguardo nell’Università degli studi di Siena negli ultimi due anni sono stati realizzati due master interdisciplinari, uno su iniziativa della facoltà di medicina (da me coordinato); e uno su iniziativa della facoltà di giurisprudenza (coordinato dal professor Fiorai). Anche il collega che si occupa di quest’ultimo si è preoccupato innanzitutto di ricostituire l’interdisciplinarità, dietro la spinta della scuola edile e dell’Associazione nazionale costruttori edili di Grosseto, i quali hanno consapevolezza della gravità del problema che investe il comparto (al riguardo sottolineo che dovremmo imparare a valorizzare gli aspetti positivi del nostro Paese).
Se questo settore edile è al quinto posto come indice di frequenza degli infortuni, si tratta di un livello piuttosto elevato e sia i lavoratori che i datori di lavoro ne hanno coscienza. La scuola edile di Grosseto (e in ogni Provincia del nostro Paese ne è presente una analoga) organizza e finanzia, anche con generosità, il master di formazione per i responsabili e per gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione nel loro settore.
Voglio ancora sottolineare come a mio avviso, bisognerebbe promuovere seriamente l’interdisciplinarità, badando di più alla sostanza degli aspetti preventivi e agli aspetti tecnici; con i tecnici dovrebbero essere allo stesso tavolo «i produttori» – come la CEE definisce i datori di lavoro ed i lavoratori – che dovrebbero rappresentare il primum movens del processo di prevenzione. In Italia, infatti, la legislazione non sarebbe cambiata senza la spinta sindacale degli anni ’70, che oggi, però, per motivi che credo siano noti a tutti appare quasi inattesa e prevale il processo di delega (e/o di critica) al S.S.N.
Per alcune categorie particolari, come ad esempio quella dei lavoratori extracomunitari, la formazione è importante non solo per la salute degli operatori, ma anche per una questione più generale di civiltà e di tutela dei cittadini oltre che di sicurezza e salute in fabbrica anche per gli altri lavoratori. Gli immigrati, stabilmente occupati, condividono con facilità i problemi degli stessi lavoratori italiani e ciò rende più facile la condivisione di elementi culturali e civili avanzati, partendo dalla prevenzione, tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri. Si tratta peraltro oggi anche di creare un obbligo ex d.lgs. n. 81 del 2008; bisogna però attivarsi anche a livello periferico, tramite le varie associazioni (penso, ad esempio, a quelle dei senegalesi). Esistono, infatti, problemi culturali che non sono soltanto quelli relativi alla conoscenza della lingua. Il mio gruppo di lavoro – di cui fa parte anche la dottoressa Barbagli, oggi qui presente – ha predisposto alcuni progetti al riguardo, che ha confrontato con le associazioni dei Senegalesi (un popolo abbastanza vicino alla cultura dell’Europa occidentale); è necessario interessarle e rispettare i loro capi e le loro regole. Non sono insormontabili le difficoltà per trasformare le norme italiane in un elemento di accettazione e di integrazione più che di imposizione.
Quindi, in materia sono disponibili programmi ed idee specifici.
Per quanto riguarda le disponibilità di personale, ho già ricordato che le facoltà di ingegneria organizzano corsi di laurea per tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro; ne sono attivi 42, con 40 iscritti in media per anno, per un totale di tre anni. Si tratta di migliaia di persone che sono confinate nelle aule nell’apprendimento teorico. Mi chiedo per quale motivo gli studenti di tali corsi di laurea non possano collaborare, anche attivamente, con le strutture del Servizio sanitario nazionale, coadiuvandole a livello amministrativo, nelle inchieste sugli infortuni o sulle problematiche più frequenti. Forse il mondo dell’Università si potrebbe occupare anche di questo.
Voglio introdurre un altro elemento di riflessione, soffermandomi sulla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
Ho letto quanto è stato detto nelle precedenti sedute e ho potuto constatare il buonsenso e le osservazioni acute dei senatori attivi in questa Commissione.
Certamente, nei servizi di prevenzione e protezione sono necessarie competenze di carattere giuridico; è altrettanto vero che si pongono problemi pedagogici inerenti alle modalità della formazione (psicologia, insegnanti, ecc.). In ogni caso però, la sostanza della prevenzione, di cui c’è ancora molto bisogno in Italia, riguarda gli aspetti tecnici degli impianti, delle macchine, degli ambienti e dell’organizzazione del lavoro, e tali argomenti dovrebbero essere in capo agli ingegneri. Si pongono senz’altro anche problemi di carattere psico-sociale con la necessità di competenze mediche e, quindi, servono i medici e le strutture di rapporto con il complesso delle strutture sanitarie, anche pubbliche, operanti nel territorio.

BUGNANO (IdV)
Vorrei evidenziare come anche nella sua esposizione ricorrano alcuni temi che ci sono già stati ricordati nelle precedenti audizioni: intanto la necessità che ci sia una multidisciplinarità nell’approccio alla prevenzione e alla formazione.

BATTISTA
Non va dimenticato l’aspetto economico.

BUGNANO (IdV)
Come lei giustamente ha ricordato, non basta solo fare le norme, o imporne l’applicazione. Bisogna anche creare una cultura che insegni a rispettarle.
Un ulteriore tema già sollevato nella scorsa audizione, che ritengo molto importante, è quello della formazione per particolari categorie di lavoratori.
Lei ha ricordato, per esempio, i lavoratori extracomunitari, ma nella scorsa audizione si è parlato altresì della difficoltà di formazione per i lavoratori con contratti a termine. Questo è un altro aspetto che dovremo approfondire perché si tratta di due categorie di lavoratori molto diffuse, alle quali va riservata una particolare attenzione.

BATTISTA
Se mi permettete, vorrei fare un’integrazione. Ritengo giusta la previsione di promuove la formazione nelle scuole, così come prevede il decreto legislativo n. 81 del 2008. Al riguardo siamo tutti d’accordo.
Però, se sarà svolta in maniera generica servirà solo a distribuire un po’ di soldi e a tenere impegnati gli studenti. Sicuramente una sensibilizzazione generale anche nelle scuole elementari e medie non sarà inutile, però i bambini sono bambini e devono giocare, mentre gli studenti delle scuole professionali sono soggetti diversi, che si avviano al mondo del lavoro.
In questo caso, allora, i concetti devono avere una maggiore capacità di penetrare nella formazione. Per esempio, uno dei sistemi più efficaci per parlare di prevenzione, di cui mi sembra lo stesso ministro Sacconi abbia parlato in una recente assemblea dell’Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi del lavoro, potrebbe essere quello di partire dai casi concreti, magari raccontati dagli stessi lavoratori che hanno subìto una menomazione o un infortunio, secondo lo schema di passare dal particolare al generale. L’Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, sono certo, è disponibile in tal senso. Personalmente, ho sperimentato questo sistema anche con i lavoratori stranieri. Ho raggruppato, in collaborazione con lo stesso Servizio di prevenzione nei luoghi di lavoro della Regione Toscana, un gruppo di lavoratori extracomunitari cui ho mostrato le lesioni subìte da un compagno di lavoro e abbiamo analizzato le dinamiche dell’accadimento insieme ai lavoratori, al capo reparto, ai tecnici del servizio pubblico di prevenzione; successivamente sono state esaminate le varie ipotesi per prevenire l’incidente (generalizzazione). Si deve prevedere assolutamente la presenza di tecnici esperti per inquadrare meglio la questione. Le possibilità di lavoro sono molteplici e occorrono tempo, pazienza e inventiva.

PRESIDENTE
Ringrazio il dottor Battista per il suo contributo e dichiaro conclusa l’audizione.
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Fonte: Senato della Repubblica