SENATO DELLA REPUBBLICA

XIV LEGISLATURA

Commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro, con particolare riguardo alle cosiddette «morti bianche»

RELAZIONE FINALE

Allegato 3

GRUPPO DI LAVORO

«LAVORO MINORILE E SOMMERSO»

Coordinatore Sen. Euprepio CURTO

Premessa
Qualsiasi indagine sul fenomeno del lavoro irregolare, sia esso sommerso o nero o minorile, non può prescindere dal dato ormai pacifico della sua «centralità» all’interno delle più vaste tematiche del mondo del lavoro e delle sue interrelazioni con un’ampia gamma di variabili politiche, economiche e sociali.
Né é possibile ignorare che, quando lo stesso non é riferibile a comportamenti chiaramente truffaldini o malavitosi, trova spesso fertile humus nella necessità della riduzione del costo del lavoro per una supposta esigenza di «sopravvivenza del tessuto produttivo», e in un contesto socio– economico nel quale necessità di lavoro e di guadagno aumentano la disponibilità di un numero sempre maggiore di persone ad affidarsi a logiche di rinuncia a tutele e garanzie.
L’impegno sin qui complessivamente profuso dalle istituzioni per l’emersione del lavoro sommerso e per la lotta al lavoro minorile, anche se ha prodotto apprezzabili risultati, necessità di una rinnovata azione concertata che coinvolga istituzioni, forze sociali e mondo imprenditoriale.
In questo senso si ritiene utile, nell’ambito delle finalità proprie della tutela dei diritti e della sicurezza dei lavoratori in generale, ma soprattutto delle fasce più deboli costituite da minori ed extracomunitari, elaborare un contributo di conoscenza e di analisi di un fenomeno nei confronti del quale non sembra siano state ancora né individuate né proposte strategie adeguate e risolutive.
Peraltro l’estensione del lavoro irregolare, che dilata in maniera esponenziale l’area dei rischi lavorativi, impone una seria riflessione sia sui dati reali degli infortuni sia sulle effettive dimensioni del decremento complessivo degli eventi infortunistici registrato negli ultimi anni.
Tenuto conto del crescente aumento del lavoro nero – un recente rapporto Inps riferisce che il 75% delle aziende ispezionate impiegano lavoro irregolare – ci si deve infatti porre il problema di quanto possa incidere sui dati degli infortuni l’occultamento degli eventi «sommersi», che potrebbero, infatti, oscillare dal dieci al venti per cento di quelli denunciati e che comunque impongono di guardare con prudenza alla timida tendenza alla diminuzione registrata in questi ultimi anni.

PARTE PRIMA

IL LAVORO SOMMERSO



IL LAVORO NERO NELLA COMUNITÀ EUROPEA

La Commissione Europea ha dedicato un documento specifico al tema con la «Comunicazione della Commissione sul lavoro sommerso», in cui preliminarmente viene tentata una definizione di tale forma di attività e si cerca di analizzare la dimensione del problema; operazioni peraltro non semplici sia perché risulta difficile trovare una definizione comune di lavoro sommerso, a causa dei suoi diversi aspetti nelle diverse parti dell’Unione, sia perché l’ampiezza del fenomeno, per le sue caratteristiche intrinseche, può essere soltanto stimata.
In un importante studio condotto per conto della Commissione europea dal 1988 al 1992 il concetto di economia sommersa e di forme irregolari di occupazione risultava definito dai sistemi normativi. Il lavoro illegale non esiste in un contesto del tutto deregolato e permissivo. Per questo motivo alcune attività economiche possono essere illegali in alcuni paesi, ma legali in altri, e ciò rende difficile formulare una definizione comune per tutta l’UE.
É possibile, comunque, pur tenendo conto delle diversità dei sistemi giuridici vigenti negli Stati membri, considerare «lavoro sommerso» qualsiasi attività retribuita, di per sé legittima, che non venga dichiarata alle autorità pubbliche. Ne restano escluse, quindi, le attività criminali e quelle attività lavorative che non necessitano di notifica alle autorità pubbliche, come ad esempio le attività espletate nell’ambito dell’economia familiare.
È difficile identificare quale proporzione del prodotto interno lordo sia ascrivibile all’economia sommersa, e si devono di conseguenza usare diversi metodi per formulare ipotesi attendibili. Mediamente la dimensione dell’economia sommersa nell’UE può essere stimata tra il 7 e il 16% del PIL dell’UE, il che corrisponde all’incirca a 10-28 milioni di unità di manodopera, vale a dire al 7-19% del volume dell’occupazione regolare complessiva, sulla base di presupposti formulati in relazione ai settori in cui si manifestano forme di lavoro nero e quindi sulla sua produttività media.
Ovviamente non tutta l’occupazione sommersa, così stimata, va aggiunta al numero delle persone «ufficialmente» occupate, poiché gran parte del lavoro nero é effettuato da persone che lavorano anche nell’economia formale e che rientrano quindi già nel computo dell’occupazione complessiva. Se tutto il lavoro sommerso dovesse passare all’economia formale, non é quindi chiaro di quanto aumenterebbe il PIL.
Se le stime dell’economia sommersa variano significativamente a seconda del metodo usato, é però possibile pervenire a quantificare il fenomeno per gruppi di paesi.
Da un lato vi é un gruppo di paesi in cui l’economia sommersa é stimata a circa il 5% del PIL (Paesi Scandinavi, Irlanda, Austria e Paesi Bassi), dall’altro vi sono paesi quali Italia e Grecia in cui essa é stimata a più del 20%. Vi sono, poi, due gruppi intermedi: il Regno Unito, la Germania e la Francia, che si situano grossomodo a metà strada tra i due estremi, mentre il Belgio e la Spagna presentano percentuali un po’ più elevate.
Le ragioni che spingono datori di lavoro, lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi a preferire l’economia sommersa sono essenzialmente di natura economica. Lavorare nell’economia sommersa offre l’opportunità di aumentare i guadagni, di sottrarre gli stessi alle tasse ed ai contributi sociali, e comunque di ridurre i costi. Irrobustiscono, inoltre, il fenomeno una crescente domanda di «servizi personalizzati», la riorganizzazione dell’industria in lunghe catene di dis-integrazione verticale e di subappalto e la diffusione di tecnologie leggere che schiudono nuove opportunità lavorative e nuovi ambiti di attività di servizio.
In una prospettiva storica vi sono tre fattori che concorrono, in varia misura, a determinare il fenomeno del lavoro sommerso:
a) il manifestarsi di una domanda estremamente diversificata di «servizi personalizzati» alle famiglie e alle persone (come ad esempio assistenza, pulizia ...) caratterizzati da un’alta intensità di manodopera e da un basso incremento produttivo;
b) la riorganizzazione delle industrie e delle imprese in lunghe catene di disintegrazione verticale e di subappalto, al fine di rendere la produzione più flessibile e di accrescere le capacità di innovazione e di adattamento a situazioni specifiche e alle fluttuazioni del mercato. Questo tipo di flessibilizzazione porta ad un aumento del lavoro autonomo e dei lavoratori- imprenditori, un certo numero dei quali può lavorare nel sommerso;
c) l’impatto della diffusione delle tecnologie leggere, come ad esempio i personal computer, che fornisce nuove opportunità lavorative e schiude nuovi ambiti alle attività di servizi.
Le prospettive e le dimensioni del lavoro sommerso variano in funzione dei diversi aspetti istituzionali dell’economia in ciascuno Stato membro, quali ad esempio:
– i livelli dell’imposizione fiscale e dei contributi sociali.
Il livello delle tasse e dei contributi sociali influenza chiaramente il livello del lavoro sommerso. Un onere fiscale più elevato costituisce un incentivo sia per i lavoratori che per gli imprenditori ad entrare nel sommerso.
Al di là del livello di tasse e di contributi per la sicurezza sociale, anche la struttura di imposte e contributi influenza il lavoro nero. Nei paesi in cui l’imposizione sui redditi é elevata, la spinta viene dall’offerta di manodopera e il lavoratore del sommerso é di solito un lavoratore autonomo; nei paesi in cui i contributi della sicurezza sociale sono elevati, la spinta viene dalla domanda e il lavoratore del sommerso tende ad essere inquadrato in aziende (parzialmente o totalmente) sommerse;
– oneri regolamentari e amministrativi.
Il sussistere di costi eccessivi e di procedure amministrative troppo onerose può scoraggiare la dichiarazione dell’attività se entrambe le parti trovano vantaggio ad occultarla. L’esistenza di associazioni professionali può essere anch’essa propizia al lavoro sommerso, poiché in alcuni paesi é prescritta l’appartenenza ad un’associazione professionale per svolgere determinate professioni. Tali associazioni, pur avendo come finalità quella di garantire la qualità del prodotto o del servizio, spesso erigono per ragioni corporative vere e proprie barriere all’accesso, di modo che le persone escluse possono essere tentate a svolgere la professione clandestinamente;
– inadeguata legislazione in materia di mercato del lavoro.
Uno scarso riconoscimento, nell’ambito della legislazione vigente, dei nuovi tipi di lavoro (ad esempio gli orari lavorativi atipici, il lavoro part-time o i contratti temporanei) può a sua volta spingere i lavoratori verso il sommerso;
– strutture industriali.
Nelle zone dominate da poche grandi imprese il mercato del lavoro sommerso é relativamente piccolo ma, all’altro estremo, laddove le economie locali sono costituite da una pletora di piccole imprese, non solo é più probabile che si manifesti tale fenomeno, ma sono anche più grandi le probabilità che esso avvenga su base organizzata piuttosto che su base individuale.
Tuttavia, laddove i lavoratori sono coscienti dei loro diritti, il lavoro sommerso tende ad essere meno diffuso;
– bassa competitività.
Il ricorso al lavoro sommerso, con la riduzione dei costi che esso comporta, può costituire un riflesso di autoconservazione da parte di imprese in settori in declino che altrimenti non sarebbero in grado di sopravvivere in un mercato competitivo. Alla lunga, tuttavia, é difficile che un settore sommerso riesca a competere sul piano internazionale, poiché é più disorganizzato e richiede un alto grado di fiducia reciproca tra gli operatori, il che é difficile da realizzare al di là di un circuito chiuso;
– accettazione culturale.
Vi é una certa comprensione o accettazione culturale dell’economia informale. Il fatto di partecipare all’economia informale a livello locale viene spesso concepito quale scambio di servizi o mutua assistenza che non occorre dichiarare (pulizia, lavori agricoli stagionali, ecc.);
– esistenza di facili opportunità.
Chiunque scelga di lavorare al nero fa un’analisi personale costi/benefici in cui soppesa i vantaggi, come, ad esempio, un reddito (immediato) più elevato, e gli svantaggi, come, ad esempio, il rischio di sanzioni se viene scoperto, il rischio stesso di venir scoperto o considerazioni d’ordine morale. Quanto più una persona ha l’opportunità di esercitare un’attività sommersa a basso rischio (ad esempio, per il lassismo dei controlli o perché tale persona é già coperta dall’assicurazione del datore di lavoro principale o di un coniuge), tanto più probabile sarà che se ne avvantaggi.
I lavoratori del sommerso comprendono:
a) coloro che svolgono un secondo lavoro e coloro che hanno più lavori. La maggior parte del lavoro sommerso é effettuata da persone che svolgono già un’attività regolare e che rispondono ad una domanda rivolta a qualifiche specifiche e professionalità elevate;
b) le persone «economicamente inattive», come studenti, casalinghe e prepensionati;
c) i disoccupati. Da un lato il rischio di partecipare al lavoro sommerso può essere più elevato per loro poiché potrebbero perdere in tal modo le prestazioni di disoccupazione, soprattutto se queste sono legate alla ricerca attiva di un lavoro o alla partecipazione ad azioni di formazione.
D’altro canto i disoccupati si possono veder offrire un lavoro a condizione che questo rimanga nero e la loro capacità di resistere all’offerta é molto bassa, soprattutto se l’assegno di disoccupazione é anch’esso basso.
Tuttavia, quanto più a lungo dura la situazione di disoccupazione, tanto più si riducono le opportunità di svolgere un lavoro sommerso;
d) i cittadini di paesi terzi.
L’età e il sesso dei lavoratori del sommerso sono in ampia misura funzionali ai settori interessati. Le donne non rappresentano la maggioranza dei lavoratori del sommerso, pur essendo in una posizione più vulnerabile.
Mentre gran parte di coloro che fanno un doppio lavoro o che hanno più lavori sono in prevalenza uomini, mentre le donne che fanno lavoro nero risultano ufficialmente inattive (casalinghe). Ciò ha conseguenze negative allorché i loro diritti a pensione dipendono esclusivamente dal coniuge piuttosto che dalla loro attività lavorativa.
Attualmente é possibile riscontrare in quasi tutti gli Stati membri tre gruppi di settori che presentano modelli di comportamento alquanto omogenei:
– i settori tradizionali quali l’agricoltura, le costruzioni, il commercio al dettaglio, la ristorazione o i servizi domestici (caratterizzati da una produzione ad alta intensità di manodopera e da circuiti economici locali). Il settore delle costruzioni fa spesso ricorso al subappalto, senza che vi sia un grande controllo da parte delle pubbliche autorità; nel settore alberghiero e della ristorazione molte piccole imprese sono anch’esse difficili da controllare per quanto concerne il turn – over e i dipendenti; i servizi privati sono anch’essi legati in ampia misura all’accettazione e alle tradizioni culturali, anzi per alcuni servizi personalizzati non esistono figure professionali formali;
– il settore manifatturiero e i servizi commerciali in cui i costi sono il principale fattore di concorrenza. Nell’Europa meridionale il settore tessile, con le sue opportunità di lavoro a domicilio, pare essere particolarmente esposto al lavoro sommerso;
– moderni settori innovativi (essenzialmente contraddistinti da lavoro autonomo) in cui l’uso delle comunicazioni elettroniche e dei computer agevola la contrattazione e l’esecuzione di servizi in località diverse, il che consente di non dichiarare tali attività. Il primo e secondo gruppo possono essere ancora ritenuti quelli in cui si svolge la maggioranza del lavoro sommerso e in cui il lavoro sommerso può sfociare in sfruttamento, mentre il terzo gruppo riguarda persone altamente qualificate che scelgono espressamente il lavoro nero. Quest’ultimo fenomeno può essere il risultato di regolamenti inadeguati o che non vengono fatti rispettare. Una volta che tali attività divengano attività principali vi sono incentivi per farle rientrare nell’economia formale.
Molte nuove imprese iniziano nel sommerso per formalizzare la loro attività soltanto una volta che hanno preso piede.
Le informazioni di origine nazionale sulla situazione negli Stati membri indicano tuttavia che non esiste un quadro europeo comune del lavoro sommerso e che in effetti sussistono numerose differenze tra i vari paesi.
Nei Paesi Scandinavi, nei Paesi Bassi, in Belgio, Francia e nel Regno Unito i lavoratori del sommerso sono tendenzialmente uomini giovani e qualificati.
Nell’Europa meridionale i lavoratori del sommerso tendono a essere giovani, donne che lavorano a domicilio e immigrati clandestini.
In Germania e in Austria il numero di immigrati clandestini che svolgono lavoro nero é significativo, anche se essi non costituiscono il gruppo dominante.
In quale misura i cittadini di paesi terzi residenti illegalmente in Europa (definiti immigrati clandestini) partecipano all’economia informale é ancora più difficile da stimare che le dimensioni dell’economia sommersa.
La partecipazione degli immigrati clandestini al lavoro sommerso é ritenuta da tutti gli Stati membri un problema serio da affrontarsi nell’ambito della loro strategia globale di lotta contro l’immigrazione clandestina. Per molti immigrati clandestini il lavoro sommerso costituisce una strategia di sopravvivenza. Rispetto ad altre categorie gli immigrati clandestini sono particolarmente vulnerabili poiché, avendo violato le norme in materia di residenza, essi rischiano di essere espulsi una volta scoperti. Ciò consente ai datori di lavoro di occupare immigrati clandestini a condizioni che non sarebbero accettate da altre persone. Inoltre, spesso accade che cittadini di paesi terzi vengano introdotti di nascosto nel territorio degli Stati membri e divengano quindi attivi nel sommerso. D’altro canto appare comprovato che la presenza di buone opportunità di lavoro sommerso funge da fattore trainante dell’immigrazione clandestina.
Un tempo il lavoro sommerso effettuato da immigrati clandestini tendeva a concentrarsi nell’industria della costruzione, ma la tendenza attuale va verso il settore dei servizi.
Una strategia integrata é stata adottata in alcuni paesi che hanno compiuto uno sforzo coordinato coinvolgendo i diversi servizi della pubblica amministrazione.
L’efficacia dipende in grande misura da ampie iniziative politiche che interessano ambiti diversi che vanno dalla normativa sul lavoro a misure fiscali rispondenti alle caratteristiche del problema riscontrabile nei singoli Stati membri.
Si riportano di seguito degli esempi relativi alla strategia integrata applicata in tre Paesi: Danimarca, Paesi Bassi e Francia.
In Danimarca diverse iniziative sono state prese per combattere il lavoro sommerso. Alcune iniziative indirizzate verso altri settori hanno avuto effetti collaterali positivi creando una sinergia con le misure introdotte contro il lavoro illegale.
In primo luogo, é stato intensificato il controllo nel campo dell’ispezione fiscale e dell’ispezione del lavoro per individuare i casi di godimento illegittimo di prestazioni sociali. Ciò é stato effettuato in cooperazione tra le autorità fiscali e quelle preposte al mercato del lavoro. In secondo luogo, sono stati varati diversi modelli per incoraggiare il lavoro nell’ambito dell’economia formale piuttosto che in quella sommersa, in considerazione del fatto che in certi settori (essenzialmente nel campo dei servizi domestici) il lavoro sommerso era risultato costituire la regola piuttosto che l’eccezione: sistemi per i servizi domestici (un sistema di sussidi per i servizi di consumo é stato introdotto nel 1994); sussidi per la riparazione di abitazioni.
Inoltre, l’attuazione, nel 1994, di una riforma fiscale che ha ridotto la tassazione dei redditi marginali ha avuto l’effetto collaterale di ridurre gli incentivi a svolgere attività sommerse.
Nei Paesi Bassi le iniziative sono state incentrate sul godimento illecito di prestazioni sociali e la legislazione nel merito é stata varata di recente.
La legge é volta ad assicurare che i beneficiari di prestazioni sociali soddisfino determinati criteri e non assumano un secondo lavoro o un lavoro illegale in violazione delle condizioni per beneficiare di tali prestazioni.
Si ritiene che il modo migliore per combattere il lavoro sommerso sia mediante la legislazione fiscale e la riduzione delle aliquote IVA. Per tale motivo non si sono prese iniziative volte a rafforzare le sanzioni e i controlli al fine di lottare contro il lavoro sommerso.
Inoltre, nei Paesi Bassi sono stati ridotti i costi non salariali della manodopera.
Queste riduzioni riguardano in particolare i bassi salari. Tali misure sono state introdotte al fine di promuovere l’occupazione, ma hanno anche avuto effetti collaterali positivi per quanto concerne la riduzione del lavoro sommerso.
In Francia é stata creata un’agenzia specifica con il compito di combattere il lavoro sommerso.
La strategia prescelta é stata essenzialmente basata su iniziative giuridiche concentrate sulle repressioni e le sanzioni in caso di violazione della normativa vigente. In ciò rientrano misure contro il «donneur d’ordre» (il committente) che é ritenuto essere il beneficiario del lavoro sommerso, e non solo contro il lavoratore in nero.
É stato inoltre introdotto un sistema di buoni-servizio per incoraggiare la dichiarazione del lavoro domestico, mentre sono stati anche aumentati gli sgravi fiscali per la riparazione di abitazioni e per l’ingaggio di personale domestico.
Inoltre sono state avviate campagne d’informazione in collaborazione tra il governo e le parti sociali di determinati settori produttivi, onde fare opera di sensibilizzazione su alcuni dei rischi che comporta il ricorso a manodopera non dichiarata. Si é dato anche impulso al dialogo sociale ed é stato raggiunto un accordo tra le parti sociali e il Ministero del lavoro.
Si riportano inoltre le schede relative ai paesi della Comunità che analizzano per ogni nazione: le caratteristiche dei lavoratori del sommerso, il lavoro sommerso ripartito per settore e le misure politiche adottate.

Austria
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: 1/10 di tutte le persone in età lavorativa ha un’attività collaterale. L’attenzione maggiore é stata riservata all’occupazione illegale di manodopera straniera.
Lavoro sommerso ripartito per settore: 40% nell’edilizia e nell’artigianato, 16% in altre imprese commerciali e industriali (riparazioni di autoveicoli, macchinari, ecc.), 16% nel settore dei servizi, 13% nello spettacolo e 15% in altri settori commerciali e servizi (insegnamento di recupero, parrucchieri, baby-sitter).
Misure politiche: maggiori controlli da parte degli ispettorati del lavoro; semplificazione delle norme in materia di attività commerciali e industriali; dispositivi più flessibili in materia di orario di lavoro; semplificazione delle procedure amministrative. Sono stati inoltre introdotti progetti pilota per i disoccupati nell’ambito dei servizi domestici. I costi della manodopera non salariali sono stati ridotti per quanto concerne i tirocinanti e in caso di ingaggio di disoccupati di una certa età.

Belgio
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: lavoratori semiqualificati o a bassa qualifica, uomini, giovani.
Lavoro sommerso ripartito per settore: ristorazione, commercio al dettaglio, industria della costruzione, settore tessile, traffico/trasporti, servizi domestici (pulitura, ecc.), agricoltura (raccolta di frutta).
Misure politiche: misure giuridiche, estensione dei servizi di ispezione.
Maggiori controlli su determinate industrie. Aumento delle multe.
Tentativi di ridurre i costi della manodopera mediante diverse iniziative (piano tessile, Maribel). Sistema di buoni-servizio.

Danimarca
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: lavoratori qualificati e non qualificati, studenti, uomini (con frequenza doppia rispetto alle donne). Si riscontra uno spartiacque geografico (culturale); (giovane uomo qualificato che vive fuori Copenagen).
Lavoro sommerso ripartito per settore: 33% nel settore della costruzione, 50% nel settore dei servizi privati (baby-sitter, pulizie, riparazione di autoveicoli, giardinaggio, ecc. ...).
Misure politiche: rafforzamento delle sanzioni in materia fiscale. Abbassamento delle tasse sui redditi marginali, sussidi per la riparazione di abitazioni, sussidi per i servizi di consumo, rafforzamento dei controlli da parte delle autorità fiscali e di quelle preposte al mercato del lavoro.

Finlandia
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: giovani uomini qualificati.
Lavoro sommerso ripartito per settore: costruzione, settore alberghiero e della ristorazione, commercio al dettaglio (comprende la riparazione di autoveicoli), servizi immobiliari.
Misure politiche: preparazione di prestazioni di sussistenza/sussidi per determinati servizi domestici. Rafforzamento delle misure di controllo anche per quanto concerne i disoccupati. Rafforzamento dell’azione e del controllo fiscale. Modifiche della legislazione sul lavoro atipico. Collaborazione coi settori dell’industria e del commercio. Semplificazione della burocrazia che grava sui datori di lavoro. Ampie campagne informative.

Francia
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: cittadini francesi, immigrati regolari, immigrati clandestini.
Lavoro sommerso ripartito per settore: 60% nel settore dei servizi (essenzialmente alberghi, caffè, ristoranti), 27% in quello della costruzione, 13% in altri settori.
Misure politiche: rafforzamento della legislazione. Creazione dell’Agenzia MILUTMO. Introduzione di un sistema di buoni-servizio. Rafforzamento dei controlli dell’ispettorato del lavoro. Estensione delle competenze delle autorità pubbliche nei confronti del lavoro illegale. Maggiore cooperazione tra le autorità preposte al mercato del lavoro e altre parti dell’amministrazione. Rafforzamento delle sanzioni. Contributo delle parti sociali. Semplificazione delle procedure per i lavoratori agricoli stagionali.

Germania
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: immigrati clandestini, persone che svolgono un doppio lavoro nonché coloro che lavorano in nero.
Lavoro sommerso ripartito per settore: settore della costruzione, settore alberghiero e della ristorazione, trasporti (persone o beni), settore della pulizia, spettacolo/arti/cultura.
Misure politiche: intensificazione delle misure di controllo, rafforzamento degli strumenti giuridici, innalzamento delle multe, campagna di informazione («illegal ist unsozial»).

Grecia
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: immigrati regolari o clandestini; pensionati, donne/lavoro a domicilio; giovani – per lo più lavori stagionali.
Lavoro sommerso ripartito per settore: settori che presentano possibilità di lavoro a domicilio (tessile), alberghi/ristoranti/turismo, servizi, servizi domestici, trasporti.
Misure politiche: azione giuridica; rafforzamento delle sanzioni/ multe. Maggior rigore nell’applicazione della normativa fiscale. Riforma fiscale che riduce le possibilità di evasione fiscale. Riduzione delle tasse su presentazione delle fatture per acquisti e servizi. Deregolamentazione per quanto concerne le possibilità per gli immigrati di rimanere nel paese.

Irlanda
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: studenti, persone che fanno un doppio lavoro. Non sono coinvolti immigrati clandestini.
Lavoro sommerso ripartito per settore: edilizia, costruzione, distribuzione.
Misure politiche: applicazione più rigorosa della legislazione vigente per quanto concerne l’evasione fiscale ecc..; riduzione della tassazione personale. Riduzione dei contributi della sicurezza sociale per alcune categorie di lavoratori.

Italia
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: persone che svolgono un secondo lavoro, giovani, donne, pensionati.
Lavoro sommerso ripartito per settore: agricoltura, costruzioni, settore dei servizi privati, tessile (lavoro a domicilio).
Misure politiche: intensificazione dei controlli delle autorità fiscali.
Detrazioni fiscali per i servizi professionali. Riduzione dei costi non salariali della manodopera. Semplificazione delle procedure amministrative.
Nuovi accordi contrattuali (contratti di riallineamento).

Lussemburgo
Risulta esservi qualche forma minima di lavoro sommerso nel settore della costruzione. Non sono state introdotte misure.

Paesi Bassi
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: uomini, qualificati con un lavoro formale.
Lavoro sommerso ripartito per settore: settore alberghiero e della ristorazione, taxi, servizi di corriere, autocorriere, industria metallurgica, abiti confezionati.
Misure politiche: intensificazione dei controlli da parte della autorità fiscali e dell’ispettorato del lavoro, rafforzamento delle sanzioni. Liberalizzazione nel settore delle agenzie private di collocamento. Modifiche della normativa fiscale. Modifiche della normativa del lavoro. Maggiore cooperazione con i settori economici. Campagne d’informazione. Sussidi ai fornitori di determinati servizi.

Portogallo
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: immigrati clandestini, donne, lavoratori non registrati.
Lavoro sommerso ripartito per settore: costruzione, settore tessile, commercio al dettaglio.
Misure politiche: iniziative giuridiche concernenti gli immigrati clandestini e il lavoro minorile. Riforma fiscale. Semplificazione di alcune procedure amministrative.

Spagna
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: persone di meno di 25 anni, donne, persone qualificate, attive nelle PMI.
Lavoro sommerso ripartito per settore: agricoltura, servizi (settore alberghiero e della ristorazione), settore dei servizi privati.
Misure politiche: alcuni mutamenti alle disposizioni in materia di lavoro atipico.

Svezia
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: nessuna caratteristica particolare, per lo più si tratta di uomini lavoratori autonomi o qualificati.
Lavoro sommerso ripartito per settore: settore dei servizi privati, ristorazione, imprese di pulizia.
Misure politiche: intensificazione dei controlli fiscali. Riforma fiscale che ha abbassato le aliquote per i redditi marginali. Detrazioni fiscali per i lavori di rinnovo di abitazioni. Riduzione dei costi non salariali della manodopera.

Regno Unito
Caratteristiche dei lavoratori del sommerso: uomini (25-55 anni) qualificati/ operai.
Lavoro sommerso ripartito per settore: settore della costruzione, mercatini, settore alberghiero e della ristorazione.
Misure politiche: aumento dei controlli e del personale per affrontare il problema del godimento illecito di prestazioni sociali. Misure a livello di legislazione fiscale.


IL LAVORO NERO IN ITALIA
Il lavoro nero, che rappresenta uno dei problemi più complessi del nostro paese, vulnera la dignità e la sicurezza di milioni di lavoratori, é la fonte principale di evasione fiscale e contributiva, reca grave danno alla parte legale del sistema produttivo ponendo in essere pericolosa concorrenza sleale.
Tale anomalia si inserisce in quell’ampia gamma di fenomeni economici, la cui caratteristica unificante é di sfuggire all’osservazione della Pubblica Amministrazione, e che possiamo raggruppare nelle tre grandi categorie dell’economia sommersa, dell’economia illegale e dell’economia informale, intendendo:
a) per economia sommersa l’insieme delle attività legali di cui la Pubblica Amministrazione non ha conoscenza per ragioni diverse: evasione fiscale o contributiva, elusione delle norme lavoristiche (leggi e contratti), mancato rispetto delle norme amministrative. Con l’ulteriore distinzione tra «sommerso di impresa» (organizzazione aziendale di dimensioni variabili completamente o parzialmente sconosciuta al fisco e alle statistiche ufficiali) e «sommerso di lavoro» (totale assenza di un rapporto formalizzato, o anche una regolarità solo formale a fronte di un salario e una condizione totalmente differente);
b) per economia illegale (o criminale) quell’attività che viene esercitata in violazione delle norme penali;
c) per economia informale quelle attività svolte in genere in ambito familiare che, non essendo rivolte necessariamente all’evasione fiscale e contributiva, non possono essere incluse nell’economia sommersa.
Valgono ovviamente, anche per la nostra economia, le difficoltà di quantificazione del fenomeno e della sua incidenza sul prodotto interno lordo, già segnalate in tutta l’area comunitaria.
Secondo stime Svimez, il lavoro sommerso produce tra il 15,9% e il 17,6% del Prodotto Interno Lordo, rappresentando parte significativa della più vasta area dell’economia irregolare che, complessivamente «sfiora» il 26% (dati Banca d’Italia 2004), con una crescita del giro d’affari del sommerso (dati Guardia di Finanza 2004) tra il 2001 e il 2003 pari a +28,2%.
Il «solo» lavoro nero produce quindi un valore minimo di 170 miliardi di euro annui, con l’omissione di ingenti versamenti fiscali e contributivi, per la maggior parte concentrati nel terziario, caratterizzato da una struttura produttiva polverizzata in unità di piccolissime dimensioni, che richiedono moduli organizzativi molto snelli, con un modesto immobilizzo di capitali fissi e con contabilità aziendali semplificate.
Il lavoro sommerso inoltre rappresenta almeno un terzo del valore aggiunto del settore agricolo, il 19% del settore terziario e il 13% del settore industriale.
L’esercito dei lavoratori in nero in Italia é imponente, conta 3,3 milioni di persone (1,5 milioni al Sud e 1,8 al Centro-Nord), concentrate in larga parte nel settore dei servizi, con 2,3 milioni di lavoratori irregolari, e in quello agricolo. Nel 2004 il 13,5% dei lavoratori risultava irregolare, in linea con quanto registrato nel 2003.
La distribuzione territoriale dell’occupazione irregolare ci indica come essa sia presente per il 24,3% nel centro Italia, per il 18,9% nel nord-est, per il 20,1% nel nord-ovest e per ben il 36,7% nel mezzogiorno.
L’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno nel suo annuale notiziario economico-statistico rileva che un lavoratore su 4 nel Mezzogiorno é in nero, il doppio che nel Centro-Nord.
Quindi, anche se stabile, negli ultimi anni, sul piano nazionale, il fenomeno del sommerso torna quindi a crescere al Sud, raggiungendo picchi decisamente elevati: in Calabria il 32% della forza lavoro é irregolare, mentre in Campania e in Sicilia la percentuale scende rispettivamente al 23,6% ed al 25,3%.
Alla luce delle più recenti proiezioni quindi si può dedurre, in prima approssimazione (rapporto INPS 2003), che le posizioni lavorative realmente a nero siano superiori da quelle previste dall’Istat, per un totale di almeno 6.152.000 (il 19,7% degli occupati totali).
Considerando i diversi settori (per cui le stesse cause variano e si articolano ulteriormente) il settore di attività maggiormente interessato é quello dei servizi (74,6%).
Infatti il 35% dei lavoratori a nero risulta occupato nella branca del commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni, il 12,5% nelle intermediazioni finanziarie e monetarie e nelle attività immobiliari e servizi imprenditoriali, il 27,2% in altre attività di servizi.
Rispetto al numero totale di lavoratori impiegati i settori più esposti sono nell’ordine l’agricoltura e pesca (31,4%), industria in senso stretto (5,9%), costruzioni (15,6%), commercio e intermediazioni (18,7 e 13,1), altre attività di servizi (15,3%).
Nel 2004, il tasso di irregolarità nel terziario é risultato pari al 13,5%, «valore immutato rispetto al 2003, ma decisamente inferiore ai valori medi, intorno al 15%, rilevabili ad inizio 2000».
Considerando la disaggregazione territoriale poi il dato maggiormente evidente é relativo alla marcata presenza di occupati non regolari nel settore dei servizi in tutta Italia: in particolare, eccezione fatta per il sud (63,9%), la percentuale dei lavoratori irregolari nei servizi supera il 74% nel nord e raggiunge l’80% nel nord-ovest.
Nel sud risulta invece più elevata che nel resto di Italia la quota di lavoratori irregolari impiegati in agricoltura (17,8%) con punte in Calabria e Puglia rispettivamente del 28 e 25%. La differenza con il Centro-Nord é, invece, abissale nel settore industriale: 20% nel Mezzogiorno contro il 3,5% al Nord. Un divario che é conseguenza – spiega Svimez – di un peso più elevato degli irregolari nel Mezzogiorno sia nell’industria in senso stretto (17% contro il 2,8%) che nelle costruzioni.
Il fenomeno é quindi in crescita e ad arginarlo, soprattutto nel Mezzogiorno, dove il dato é drammatico, non basterà il potenziamento dell’attività repressiva con il preannunziato arrivo di nuovi ispettori del lavoro, comunque importante, se non cresce complessivamente, a partire dalla scuola, la cultura della legalità. I dati Svimez ci dicono chiaramente che si profila un’ennesima «questione meridionale». Se, infatti, fra il 2001 ed il 2003 nel Centro-Nord il tasso di irregolarità si é ridotto del 2%, nel Sud é rimasto sostanzialmente invariato.
Tuttavia nel 2004 il trend di contrazione del sommerso in atto dal 2000 si é interrotto, segnale questo che «costituisce un importante campanello di allarme se si considera la sfavorevole congiuntura economica che sta attraversando il paese» come afferma lo Svimez.
«Il dualismo del mercato del lavoro italiano» é ancor più evidente se si osservano le rilevazioni degli ultimi otto anni: al Sud, già tradizionalmente interessato da tassi di irregolarità assai più elevati che nel centronord, fra il 1996 ed il 2004 le unità di lavoro irregolari sono cresciute del 17,9%, con un incremento in valore assoluto di 233.000 unità.
Nello stesso periodo al Centro-Nord, invece, si é assistito ad un calo del 9,9%, pari a 194.000 unità. E la quota di sommerso si espande in tutti i settori produttivi nelle regioni meridionali.
I dati esposti risultano confermati anche dalle informazioni fornite dal Comando Generale della Guardia di Finanza relative all’attività svolta dal Corpo a contrasto del fenomeno del «lavoro sommerso» nel 2005 e 2004, informazioni che confermano come il fenomeno sia maggiormente presente nelle zone del Sud Italia e del Nord–Ovest.
I lavoratori irregolari ed in nero scoperti nei primi dieci mesi del 2005 (Gennaio–Ottobre) ripartiti per aree geografiche, vedono al primo posto il Sud–Italia con 7.493 lavoratori «scoperti» con una percentuale del 29,13%, al secondo posto il Nord–Ovest con 5.778 pari al 22,46%, al terzo il Centro con 5.014 pari al 19,49%, segue il Nord–Est con 4.763 pari al 18,52% ed in ultimo le Isole con 2.676 pari al 10,40%.
Il totale dei lavoratori irregolari ed in nero «scoperti» dalla Guardia di Finanza nel periodo di Dicembre–Ottobre 2005 ammontano a 25.724 rispetto ai 31.930 di tutto il 2004. In particolare il numero dei lavoratori irregolari scoperti nel 2005 é di 9.484 rispetto agli 11.583 del 2004, mentre quello dei lavoratori in nero a 16.240 nel 2005 rispetto ai 20.347 del 2004.
Ed i dati esposti trovano ulteriore sostanziale conforto anche negli studi del Censis e nelle statistiche ISTAT.
Le analisi del Censis, stimano che per il 2004 circa il 23-24% dei lavoratori prestino la propria opera in maniera non regolare, per un numero complessivo di circa 5 milioni e 696 mila persone (tra lavoro autonomo e lavoro dipendente). Per un aumento registrato nel 2004 sul 2003 (elaborazioni Cigl su dati Istat e Banca d’Italia) di circa 200 mila nuove unità, tra il lavoro dipendente (nel 2003 erano circa 4 milioni e 340 mila).
La contabilità nazionale Istat stima che vi sono circa 23 milioni e 110 mila unità di lavoro, costituite per il 15,1% da una componente non regolare, pari a 3 milioni e 486 mila unità di lavoro cioé pari a 5.468.200 posizione lavorative (18,6% degli occupati totali).
Inoltre, come confermano le proiezioni «storiche» dell’INPS e dell’Istat (con esclusione dell’anno 2002 per via della regolarizzazione degli immigrati) si registra una generale diminuzione delle così dette posizioni «grigie» (doppio lavoro non denunciato, compensi fuori busta paga, ecc.) e un aumento del nero integrale.
Tale dinamica sarebbe strettamente connessa con l’attuale ciclo economico, che riduce il sommerso d’abbondanza (fase espansiva, aumento della domanda) a favore del sommerso di sopravvivenza (imprese che a fronte di una crisi economica più generale riducono i costi, immergendosi ulteriormente o nascendo a nero, o «smontano» sempre più il ciclo produttivo con esternalizzazioni o catene di sub appalti, ecc.).
Alla luce delle più recenti proiezioni quindi si può dedurre, in prima approssimazione (rapporto INPS 2003), che le posizioni lavorative realmente a nero siano superiori da quelle previste dall’Istat, per un totale di almeno 6.152.000 (il 19,7% degli occupati totali).
È evidente, tra l’altro, come le caratteristiche e le differenziazioni che il fenomeno assume, pur nella sua complessiva riconducibilità al costo eccessivo del lavoro e degli oneri contributivi, risentono inevitabilmente dell’influenza sociale, culturale ed economica dei diversi contesti territoriali.
Nel Sud-Italia, per esempio, l’humus socio-culturale che sicuramente favorisce il lavoro nero é costituito dalla diffusione del contoterzismo, dalle difficoltà incontrate dalle imprese nell’accesso al credito, dalla presenza di una cultura imprenditoriale obsoleta, dall’illegalità diffusa, dal controllo di vaste aree da parte di organizzazioni criminali, da fenomeni di emarginazione sociale, da una cultura del lavoro ancora «intrisa di tradizionalismo ed individualismo» e da un’arcaica cultura assistenzialista che finiscono, interagendo, per rappresentare un freno per lo sviluppo economico di quelle zone.
Differenti le cause del fenomeno del «sommerso» nelle zone del Centro– Nord, lì dove la presenza di un’economia più florida e di una sorta di «benessere diffuso» omologa nei comportamenti e nei ruoli lavoratori e datori di lavoro.
Qui il ricorso al lavoro in nero serve ad accrescere il reddito già esistente, e solo in parte per colmare le mancanze di manodopera disposta a svolgere lavori pesanti o a basso livello qualificativo.
Vanno quindi tenuti distinti il sommerso di «necessità» che investe maggiormente le regioni più evolute del Sud–Italia dove lo stretto legame con il tessuto produttivo centrato sul contoterzismo diviene un fattore necessario a «garantire» la sopravvivenza delle imprese sul mercato; il sommerso di «adattamento» che colpisce le aree più depresse del meridione come la Campania, la Calabria e la Sicilia, dove il ricorso all’occultamento rappresenta una sorta di adattamento alla condizione complessiva del tessuto imprenditoriale che ha ormai incancrenito e reso patologica tale situazione; ed, in ultimo, un sommerso, che potremmo definire, di «ricchezza», tipico delle regioni del Centro– Nord dove le cause e le ragioni del fenomeno sono state individuate soprattutto nella rincorsa tanto da parte del lavoratore che del datore di lavoro verso un incremento del guadagno.
Si registra, peraltro, un generale calo della presenza sul territorio delle imprese sommerse, soprattutto al Sud: in particolare, le imprese in nero si sono ridotte dal 22,3% del 2002 al 9,7% del totale delle imprese produttive italiane.
«Rispetto ai precedenti rapporti – spiega Giuseppe Roma, presidente del Censis – il quadro é segnato da una netta accelerazione di quei processi di destrutturizzazione che già da tempo si intravedono sottotraccia, come la terziarizzazione del sommerso e la crescita delle imprese irregolari di immigrati, ma anche le nuove fenomenologie generate da una difficile congiuntura».
Al Sud il sommerso é ancora molto diffuso in particolare in Campania ed in Calabria. «Oltre alla pressione fiscale – spiega l’indagine elaborata dal Censis – e al cuneo contributivo sul costo del lavoro, le cause principali del fenomeno sono l’esistenza di un vasto tessuto di microimprese legate al decentramento di funzioni, alla sub-fornitura e all’outsourcing, a una cultura assistenzialista, a un cattivo funzionamento delle istituzioni locali che non contribuiscono a determinare un ambiente favorevole alle attività di impresa e allo svilupparsi di una responsabilità individuale del lavoro».
Ed é proprio questa retrograda cultura assistenzialista che spesso conduce alla ricerca di lavoro irregolare, pur di non vedersi venir meno i vari sussidi di disoccupazione o mobilità.
Discorso a parte meritano le presenze di unità di lavoro non regolari imputabili a cittadini stranieri non comunitari, che l’Istat quantifica in 516 mila unità solo nei settori agricoli e delle costruzioni (questi ultimi minimamente interessati dalla recente sanatoria che ha fatto emergere principalmente lavoratori impegnati soprattutto nei servizi alla persona e nelle imprese manifatturiere).
In questo contesto vi é da riscontrare una crescita, in particolar modo nelle regioni del Veneto, Emilia Romagna e Lombardia, degli irregolari immigrati, fenomeno soprattutto legato alla stagionalità, che si concretizza nei lavori a basso valore aggiunto (lavori domestici e di assistenza alle persone) o in quelli tradizionalmente ad alta irregolarità (bar, ristoranti, agriturismi ecc.).
La posizione di estrema debolezza non solo economica, ma anche sociale e giuridica, dei lavoratori extra comunitari, é tale da renderli particolarmente esposti alle lusinghe ed al ricatto del lavoro nero, soprattutto in settori produttivi come l’agricoltura dove il fenomeno interessa un’area molto eterogenea, composta prevalentemente, ma non esclusivamente, di manodopera sotto-qualificata, giacché coinvolge oltre a lavoratori immigrati e donne addette alla raccolta dei prodotti, anche lavoratori specializzati e qualificati che operano nelle filiere della viticoltura e dell’olivicoltura, nelle coltivazioni serricole e nella zootecnia.
Dal rapporto annuale dell’INAIL per l’anno 2004 si può rilevare che nel medesimo anno gli infortuni tra i lavoratori extracomunitari sono stati 116.000 (oltre il 16% del complesso delle denuncie) con una crescita del 6% rispetto al 2003 e del 25% rispetto al 2002 e con una percentuale del 13% circa del totale dei decessi.
Nel rapporto é evidenziato un alto rischio del lavoro degli extracomunitari con una netta differenza rispetto alla media degli altri lavoratori.
Si é calcolato, infatti, che il tasso di incidenza degli infortuni é di circa 65 infortuni denunciati su 1000 assicurati, contro un tasso di poco superiore al 40 per gli occupati nel loro complesso, individuando tra le cause di tale elevata «rischiosità» la pericolosità dei lavori ai quali questi lavoratori sono adibiti (costruzioni ed industria dei metalli), la scarsa attuazione delle norme di sicurezza e la carenza di formazione professionale adeguata.
È evidente la relazione, inoltre, del predetto dato con il fenomeno del lavoro sommerso, considerato che assenza di misure di sicurezza e mancanza di formazione dei lavoratori costituiscono caratteristiche peculiari del predetto fenomeno.
Con riferimento alla provenienza geografica degli extracomunitari infortunati si osserva, poi, che la metà degli stessi riguarda lavoratori di Marocco, Albania e Romania, mentre, stranamente, di scarso rilievo numerico sono gli infortuni denunciati da lavoratori filippini e cinesi che, però, costituiscono alcune tra le comunità più numerose del nostro paese.
Una politica in grado di incidere positivamente su una corretta gestione dei flussi migratori, partendo dall’accettazione politica e culturale che l’immigrazione é un dato strutturale e permanente delle nostre società, rappresenta quindi una modalità non secondaria per arginare il lavoro sommerso. Gli stessi dati quantitativi e qualitativi connessi alla regolarizzazione dei lavoratori dipendenti irregolari, avvenuta a fine 2002 a seguito della specifica iniziativa del governo, provano quanto stretto sia il legame tra lavoro nero e fenomeni di migrazione e clandestinità.
Ma se dalle analisi più generali si procede nella ricerca delle cause che generano o favoriscono economia sommersa e lavoro nero, e si prescinda dalle ipotesi più eclatanti in cui i fenomeni sono riconducibili a cosciente volontà di persone che approfittano del sistema e ne indeboliscono al contempo i meccanismi di solidarietà, si possono individuare le seguenti situazioni che concorrono all’emergere e al consolidarsi di tali fenomeni:
– una crescente domanda di «servizi personalizzati»;
– la riorganizzazione dell’industria in lunghe catene terziarizzate, che operano secondo filiere sempre più frammentate e tramite subappalto. In diversi settori (per esempio il settore tessile e manifatturiero) i processi di terziarizzazione e di sub fornitura possono nascondere fenomeni di lavoro nero di difficile rilevazione, facendo venire meno anche un rapporto diretto e trasparente tra prodotto e vendita, nonché tra mercato e consumatore.
In particolare la riduzione dei costi connessi con la terziarizzazione non sempre corrisponde a un’organizzazione specifica e più flessibile dell’impresa che produce i «semi lavorati»;
– la diffusione di tecnologie leggere che schiudono nuove opportunità lavorative e nuovi ambiti di attività di servizio;
– una situazione di competizione strutturale al ribasso fondata sulla capacità di riduzione dei costi oltre ogni limite. Non a caso il lavoro sommerso é in generale diffuso in settori ad alta intensità di manodopera e a bassa redditività, quali l’agricoltura, la costruzione, il commercio al dettaglio, la ristorazione, i servizi domestici ed i servizi manifatturieri e commerciali, tutti comparti in cui i costi costituiscono il principale fattore di competizione;
– il livello elevato dell’imposizione fiscale e di quella contributiva;
– gli oneri regolamentari e burocratici particolarmente onerosi;
– l’inadeguatezza di politiche e servizi efficaci per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro: in presenza di servizi poco efficienti il lavoratore tende a privilegiare i canali informali, spesso a discapito della regolarità delle stesse mansioni future;
– la qualità delle strutture industriali: nelle zone dominate da poche grandi imprese il mercato del lavoro sommerso é relativamente piccolo ma, all’altro estremo, laddove le economie locali sono costituite da una pletora di piccole imprese, non solo é più probabile che si manifesti il fenomeno del lavoro sommerso, ma sono anche più grandi le probabilità che esso avvenga su base organizzata piuttosto che su base individuale;
– la scarsa propensione alla competitività. Il ricorso al lavoro sommerso, con la riduzione dei costi che esso comporta, può scaturire da un riflesso di autoconservazione da parte di imprese in settori in declino che altrimenti non sarebbero in grado di sopravvivere in un mercato competitivo.
Alla lunga, tuttavia, é difficile che un settore sommerso riesca a competere sul piano internazionale, poiché é più disorganizzato e richiede un alto grado di fiducia reciproca tra gli operatori, il che é difficile da realizzare al di là di un circuito chiuso.
É utile alla comprensione del fenomeno anche verificare come non sempre il lavoratore sia indotto all’accettazione del lavoro sommerso da necessità di sopravvivenza. Spesso, infatti, egli lo accetta di buon grado, in quanto per sue personalissime esigenze lo preferisce al lavoro regolare.
Partendo da questo assunto si può concludere che nel mercato italiano si determinano schematicamente tre tipologie di lavoro sommerso (Rapporto Cnel 2001):
– quella relativa ad attività caratterizzate da una situazione di elevata disoccupazione che può indurre numerose persone ad accettare occupazioni non tutelate, dalla mancanza di un grado sufficientemente elevato di organizzazione e consapevolezza dei lavoratori, e dalla carenza di controlli che permettono al datore di lavoro di imporre la rinuncia ai diritti garantiti da leggi e contratti;
– quella relativa ad attività in cui esiste interessenza tra domanda e offerta di lavoro, che finiscono spesso per coincidere (microimprese individuali e familiari, lavoratori autonomi);
– quella relativa ad attività dove gli interessi dell’offerta condizionano la domanda: si tratta di rapporti di lavoro che si istaurano con il preciso fine di ridurre i costi connessi all’attività di impresa in una logica di «compartecipazione».
Un cenno particolare va fatto al sistema degli appalti posti in essere da parte delle pubbliche amministrazioni sia per la realizzazione di opere pubbliche sia per la fornitura di beni e servizi in quanto al suo interno si cela parte non secondaria del lavoro nero di questo paese, dal momento che la competizione delle imprese partecipanti é fondata sulla capacità di formulare un’offerta caratterizzata dalla estrema compressione dei costi.
Le norme soprattutto in materia di appalti pubblici non mancano e sono sostanzialmente positive nelle proprie disposizioni. Purtroppo risultano largamente disattese, e sono ancora troppo numerosi i bandi di gara che hanno come riferimento il criterio del massimo ribasso.
Nel campo dei servizi (pulizia, sicurezza, manutenzione, catering e «global service») e più in generale per gli appalti pubblici, basta ricordare infatti come norme quali quelle del D.Lgs. n. 157/1995 o del D.P.C.M. n. 116/1997 o della legge n. 327/2000 sono spesso disattese. Da questo punto di vista la recente norma che obbliga le imprese in convenzione o che operano in appalto con le pubbliche amministrazioni a possedere un «certificato di regolarità» fornito da INPS e INAIL può fornire risultati spesso non soddisfacenti ed adeguati all’intento.
Nel settore dei lavori pubblici, occorre peraltro impostare un intervento di contrasto del lavoro nero, sia affermando i principi di responsabilità e condivisione tra imprese appaltanti e subappaltanti sia favorendo il ripristino immediato delle tutele e dei limiti sanciti dalle leggi quadro Merloni (fino alla L. n. 415/1998).
Nel settore dei servizi merita una particolare attenzione il fenomeno dei «contratti di franchising». Tali contratti costituiscono oramai una costante nella riorganizzazione del settore dei servizi e della distribuzione nel nostro paese, secondo rapporti tra due soggetti (l’affiliante e l’affiliato) regolati esclusivamente dal Codice Civile, mancando una specifica normativa al riguardo. Il franchising, contando circa duecentomila operatori nella sola ristorazione e turismo, si presenta in Italia come una realtà consolidata in almeno tre macro settori: distribuzione (a fronte dell’uso dei marchi, dei servizi resi e dei beni forniti l’Affiliante chiede all’Affiliato un corrispettivo sotto forma di diritto di entrata e/o di canoni periodici), servizi (l’Affiliato non vende alcun prodotto, ma offre la prestazione di servizi inventati, messi a punto e sperimentati dall’Affiliante, tipico dei settori come la ristorazione, le attività turistiche e del tempo libero gli istituti di bellezza e parrucchieri, servizi di consulenza professionale agli istituti di istruzione e formazione, autonoleggio, ecc.), industria (concessione di brevetti).
In particolare, la rilevanza del fenomeno nei primi due settori (in cui si concentra buona parte di lavoro nero in Italia), richiede, non solo una norma specifica in grado di dare maggiori certezze in termini di rapporti economici tra gli operatori, ma richiede anche una subordinazione del contratto specifico tra le parti al rispetto di specifiche norme di garanzia sociale che possano intervenire a fronte di un guadagno (reale o eventuale) che un operatore (l’affiliante) fa, pur nell’indipendenza, rispetto a soggetti terzi (l’affiliato): in particolare occorre riconoscere un principio di responsabilità in solido per cui, a fronte di un guadagno indiretto, vi debba essere sempre una garanzia di rispetto esplicito delle norme contrattuali e di legge da parte di tutti i soggetti della «catena di affiliazione» (indipendentemente se diretto o di terza generazione), incentivata da appositi meccanismi sanzionatori che agiscano a monte in termini preventivi.



CONCLUSIONI E PROPOSTE RELATIVE AL LAVORO NERO


La lunga disamina delle dimensioni del lavoro nero, delle condizioni strutturali e contingenti che lo favoriscono, é strettamente finalizzata alla indagine sul fenomeno infortunistico, in quanto attiene ad una delle principali e più insidiose fonti di rischio.
Non ha bisogno di molte spiegazioni, infatti, il nesso evidente che esiste tra «lavoro nero», assoluto disprezzo per le misure minime di sicurezza ed infortuni dei predetti lavoratori, denunciati solo nei casi più gravi, ma il più delle volte occultati, tanto da rendere necessaria una rilettura del dato relativo al decremento degli eventi infortunistici soprattutto in alcune regioni del mezzogiorno che dalle statistiche appaiono stranamente virtuose.
Nell’ambito del lavoro illegale gli infortuni sul lavoro sono riconducibili a due fattori concorrenti: da una parte, la particolare durezza, faticosità e rischiosità delle mansioni affidate al lavoratore irregolare; dall’altra, l’assoluta mancanza di qualsiasi tipo di tutela, sia sul piano economico (il che rende il lavoratore maggiormente ricattabile), sia su quello infortunistico vero e proprio.
Il lavoratore in nero ricomprende anche il lavoratore immigrato «non regolarizzato», che non avendo diritti civili ed essendo praticamente «inesistente» sul territorio nazionale, é costretto ad accettare qualunque condizione ed a non poter ricorrere ad alcuna tutela giurisdizionale in caso di infortunio.
In questo caso, le norme penali vigenti in tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non hanno fatto altro che acuire il fenomeno, perché in caso di infortunio il datore di lavoro e persino gli stessi colleghi del lavoratore ferito o morente, sono spinti ad un comportamento disumano: cioè ad abbandonarlo a se stesso, allontanandosi o allontanandolo dal luogo di lavoro per non essere coinvolti nelle indagini del caso.
Nell’interesse del lavoratore dovrebbe essere prevista una garanzia di immunità, nel caso in cui il lavoratore extracomunitario clandestino denunci il proprio sfruttatore.
Più favorevole solo apparentemente la posizione del lavoratore, titolare dei diritti di cittadinanza, che, indotto dal bisogno e dalla mancanza di lavoro regolare, raggiunge un accordo con il datore di lavoro ai fini di eludere la normativa fiscale e previdenziale, prestando consapevolmente la propria opera a condizioni di svantaggio, più gravose e più rischiose.
La sua voce, nel campo della salvaguardia del diritto alla sicurezza ed alla salute, rimane comunque molto flebile, in quanto il patto lavorativo, stretto in difformità dalle previsioni normative, unisce il datore di lavoro ed il lavoratore in una complicità che impedisce una tutela efficace in questo campo.
Ecco perché nel lavoro sommerso si registrano le medesime condizioni di assoluta mancanza di igiene, di prevenzione e di sicurezza presenti nel lavoro nero e clandestino.
In questo caso é più difficile intervenire perché la garanzia dell’immunità non é sufficiente al lavoratore per superare i motivi di bisogno che lo hanno spinto ad accettare il ricatto ed il compromesso.
La lotta alle «morti bianche» ed agli infortuni sul lavoro, passa quindi necessariamente da una maggiore tutela del lavoratore, che deve prevedere maggiori garanzie economiche e sociali, anche nei confronti della propria famiglia, nel caso in cui il lavoratore «sommerso» denunci il datore di lavoro.
In conclusione, si può affermare che per contenere la formidabile fonte di rischio infortunistico costituita dal lavoro irregolare, e più in particolare dal lavoro nero, appare necessaria una forte azione di contrasto alla molteplicità dei fattori sociale ed economici che lo determinano.
Muovendo perciò dagli apprezzabili risultati ottenuti dalla normativa di cui alla legge n. 383/2001 e ritenendo una congrua piattaforma d’intervento quella concordata tra le parti sociali ed il governo con l’Avviso Comune per l’emersione del sommerso, si indicano come possibili strumenti di contrasto al lavoro nero:
– l’esenzione in agricoltura, nei primi sessanta giorni di prestazione lavorativa, degli oneri previdenziali per i lavoratori stagionali extracomunitari «dichiarati», fermi restando la operatività e la generalizzazione dell’obbligo dei datori di lavoro di comunicare agli uffici circoscrizionali per l’impiego l’instaurazione del rapporto di lavoro il giorno antecedente all’assunzione;
– la previsione di una aliquota sociale di contribuzione agevolata per le imprese «emergenti», per un arco temporale sufficiente a rimuovere le situazioni sfavorevoli di contesto;
– la previsione di maggiore flessibilità dei Contratti collettivi nazionali, con attribuzione di più incisive possibilità di adeguamento concordato dei salari e della disciplina contrattuale, in sede regionale o aziendale, al tessuto produttivo della zona in cui l’azienda opera;
– il potenziamento delle strutture di vigilanza anche attraverso la reiterazione dei controlli delle imprese che hanno utilizzato lavoratori «a nero»;
– il superamento negli appalti pubblici del meccanismo dell’aggiudicazione fondata sul massimo ribasso, anche attraverso una ridefinizione normativa più puntuale delle «offerte anomale»;
– l’obbligo per il datore di lavoro di rifusione all’INAIL dell’intero ammontare dei costi sostenuti per l’infortunio di un lavoratore «irregolare»;
– l’estensione del concetto di responsabilità e solidarietà contributiva tra l’impresa leader e le imprese alle quali questa affida alcune lavorazioni, anche per evitare che l’esternalizzazione di alcune lavorazioni, possa essere utilizzata per eludere le normative sulla trasparenza e sulla regolarità dei rapporti di lavoro;
– la rapida, uniforme e piena applicazione della nuova disciplina dell’apprendistato;
– la previsione, in concertazione con le parti sociali, di correttivi di flessibilità per un’applicazione graduale dei vincoli connessi al superamento del limite dei quindici dipendenti;
– l’adeguamento dei flussi d’ingresso dei lavoratori extracomunitari alle reali esigenze dei diversi comparti produttivi.


PARTE SECONDA

IL LAVORO MINORILE



IL LAVORO MINORILE


Nel mondo ed in Italia il lavoro minorile rappresenta una realtà fortemente radicata, ed, a detta di molti osservatori, in espansione.
In questi anni il tema del lavoro dei bambini e degli adolescenti é, seppure a fatica, giunto all’attenzione dell’opinione pubblica, nell’ambito di una più generale considerazione per la promozione e protezione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Un impegno che si é caratterizzato non solo per gli aspetti internazionali del problema (che assume contorni drammatici nei paesi più poveri), ma anche per le sua portata nazionale.
L’attenzione dell’Istat e dell’Inail al fenomeno (l’Inail ha riconosciuto indennizzi a più di 22 mila minori, a seguito di infortunio grave e quindi denunciato, solo nel 2002) nonché l’esperienza di alcune realtà come l’Osservatorio per il lavoro minorile della Fondazione Banco di Napoli e l’IRES lo testimoniano.
Solo per citare i dati Istat, si stima infatti in almeno 144 mila il numero dei minori coinvolti nello sfruttamento minorile (escludendo da tale calcolo i minori immigrati e i rom) confermando così come il fenomeno assuma una grande rilevanza quantitativa e qualitativa, essendo presente in tutta l’area geografica del paese: nelle aree più arretrate come indicatore di una povertà economica e nelle aree più ricche come rilevatore di una povertà culturale.
La presenza illegale dei minori al lavoro non é comunque quantificabile, soprattutto nel Mezzogiorno, dove é ancora diffuso il fenomeno dell’apprendistato illegale, con bambine e bambini in età scolare che lavorano soprattutto nelle piccole imprese artigiane.
Secondo l’IRES che ha rivolto particolare attenzione ad un fenomeno sicuramente non marginale, in Italia lavora un minore su cinque.
Da un’indagine sui lavori minorili, presentata nel 2005, il cui obiettivo é stato quello di analizzare il fenomeno in alcune grandi città italiane (Torino, Milano, Verona, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Catania) con più di 2.000 interviste a minori tra gli 11 ed 14 anni, sia nelle scuole che sul territorio, sono emersi dati particolarmente significativi.
Dalle interviste realizzate agli 11-14enni in alcune scuole medie inferiori, si é rilevato che il 21,4% – ovvero circa un minore su 5 tra gli 11 ed i 14 anni – ha esperienze di lavoro precoce, con picchi intorno al 30-35% nelle città del sud e quote più basse in quelle del centro-nord (tra il 15 ed il 18%).
Ovviamente ci si riferisce a forme di lavoro non appariscenti, spesso mimetizzate, che sono più frequentemente costituite da collaborazioni con i genitori (70%), occupazioni presso parenti o conoscenti (20.9%), mentre solo il 9,1% riguarda attività svolte presso terzi. Più evidente é il fenomeno dei giovani tra i 15 ed i 17 anni che lavorano: l’INAIL registra casi di infortunio sul lavoro occorso a minorenni, in 171 casi con inabilità permanente così grave da essere indennizzata con rendita.
È possibile individuare alcune caratteristiche specifiche del fenomeno, connesse alle diverse dinamiche di sviluppo del territorio ed alle diverse esigenze produttive che caratterizzano il nostro paese.
In particolare il lavoro e lo sfruttamento minorile si concentrano nel Mezzogiorno e riguardano in prevalenza i maschi (2 su tre) ed il 90% dei minori italiani e nel Nord-est, i cui modelli produttivi sono assai distanti tra loro. Nel primo caso il lavoro minorile nasce da condizioni di degrado socio-economico, con carenze infrastrutturali notevoli, con una presenza diffusa della criminalità organizzata, con tassi di disoccupazione e povertà alti che interessano circa un terzo della popolazione e delle famiglie. Nel secondo caso si é invece in presenza di una disoccupazione prossima allo zero in molte province, con una domanda da parte delle imprese altissima, soprattutto per le figure meno qualificate (operai e addetti alla ristorazione), e con un’offerta salariale spesso allettante.
In ambedue i contesti, la scuola appare incapace, salvo poche e coraggiose esperienze sostenute dagli enti locali, di praticare una funzione compensatrice e di recupero, rimettendo in discussione radicalmente i propri modelli organizzativi, le pratiche di insegnamento-apprendimento e gli stessi contenuti della formazione.
L’ISTAT ha condotto ben due indagini esplorative del fenomeno del lavoro minorile, una nel 2000 ed una nel 2002, che verranno meglio analizzate nel paragrafo successivo. La prima non forniva direttamente il numero dei minori che nel 2000 stavano lavorando, ma era basata su un approccio retrospettivo teso a calcolare, dalle risposte fornite ad un questionario «Le prime esperienze lavorative dei giovani», quanti fossero i 15-18enni che avessero avuto un’esperienza di lavoro prima dei 15 anni.
Al termine del lavoro i minori di età compresa tra i 7 ed i 14 anni che svolgono una qualche attività lavorativa vengono dall’ISTAT stimati in circa 145 mila (escludendo i minori immigrati, i rom ed i minori coinvolti in attività illegali), pari al 3,1% del totale dei minori di quell’età.


Il dato deve destare preoccupazione, se si considera che, nonostante la presenza di una legislazione avanzata e la disomogeneità dei dati connessa alle diverse metodologie di rilevazione, il confronto delle statistiche ISTAT con quelle dell’OIL, colloca l’Italia ben oltre la media europea dell’1,5% e, comunque, oltre la media europea del 2% dei principali paesi occidentali.
Risulta interessante osservare la dislocazione territoriale del fenomeno: nel nord est, dove la percentuale di giovani fra i 15 ed i 18 anni che hanno svolto una qualche attività lavorativa prima dei 15 anni risulta molto più alta della media nazionale, l’elevato ricorso al lavoro minorile é palesemente connesso alle caratteristiche del mercato del lavoro locale ed alla scarsa attrazione della scuola, trattandosi di zone dove il sistema scolastico ed il mondo del lavoro sono in forte competizione.
Il lavoro, in definitiva, in alcuni territori del paese é ritenuto più necessario ed utile delle aule scolastiche, anche perché costituisce gratificante accesso a modelli di vita esaltati dal consumismo e dalla produzione.
Non bisogna mai dimenticare che il percorso lavoro – guadagno – consumo costituisce lusinga ed attrazione notevolissima per qualsiasi adolescente che viva in un contesto sociale connotato da ricchezza e piena occupazione.
Il lavoro minorile, pertanto, é frutto spesso della disoccupazione, del lavoro precario degli adulti, di forme di degrado culturale e sociale che mettono in moto drammatici meccanismi di esclusione e di povertà.
Prendendo come riferimento i principali indicatori sulla povertà, l’esclusione sociale e l’insuccesso scolastico, il quadro é infatti indirettamente confermato.
L’Italia é, infatti, al 2º posto in Europa per la più alta percentuale di minori che vive sotto la soglia di povertà. Il 17% di minori in Italia é povero; al Sud la percentuale arriva al 29.1%. Nel panorama generale della povertà, la fascia di età fino ai 18 anni é la più povera insieme a quella che comprende chi ha più di 65 anni.
Approfondendo le stime fornite dai principali studi (Istat, Fondazione Banco di Napoli), alcune situazioni confermano poi che tra i bambini di 7 e 10 anni che lavorano, più dell’80% di questi proviene da famiglie sotto o ai limiti della soglia di povertà (a differenza degli adolescenti coinvolti nel fenomeno, provenienti da famiglie economicamente non povere); il 90% di questi nuclei familiari sarebbero rientrati nelle soglie previste dalla passata normativa per aver diritto al reddito minimo di inserimento; nella fascia 13-14 anni si registra una dispersione scolastica nell’ultimo anno (14º) pari a più del 70%, per i minori coinvolti in forme di lavoro irregolare.
Quanto alla dispersione scolastica in Italia, su 1.000 iscritti alla scuola media 85 abbandonano senza aver conseguito la licenza (73 nel Mezzogiorno). Di questi, solo il 30% circa proseguirà in apprendistato o corsi di formazione professionale. 5 ragazzi su 100 al Nord, 4 al Centro, 7 al Sud, 10 nelle Isole abbandonano la scuola secondaria superiore nel primo anno. Il 19,4% degli iscritti al primo anno della scuola secondaria superiore nel Mezzogiorno abbandona definitivamente il sistema scolastico (dati Svimez Marzo 2004).
Nel 2002 l’ISTAT si é nuovamente occupato dell’argomento presentando la ricerca «Le prime esperienze lavorative dei giovani».
Anche in questo caso si pone l’accento sulla grande varietà delle attività che coinvolgono bambini e preadolescenti. Nella maggioranza dei casi sono lavori stagionali, con una durata complessiva di non più di tre mesi nell’arco di un anno e quindi quasi sempre conciliabile con la frequenza scolastica.
Sono state sinteticamente individuate tre tipologie: gli aiuti ai familiari (50%), i lavori stagionali (32%) ed i lavori più impegnativi (18%).
Mentre il primo gruppo raccoglie in grandissima maggioranza ragazzi che aiutano un genitore o un familiare, con impegno lieve e non quotidiano, senza particolari rinunce al tempo per gli amici e ristorati con una « paghetta», nel secondo e terzo gruppo le attività svolte sono assimilabili ad un vero e proprio lavoro, prevedono una retribuzione, sono connotate da apprezzabile tasso di afflittività ed assorbono tempo normalmente dedicato ad attività ludiche e sociali.
Nel secondo gruppo riscontriamo la massima quota di ragazzi che tengono per sé i soldi guadagnati, mentre nel terzo gruppo (caratterizzato da attività svolte più o meno durante tutto il corso dell’anno), i ragazzi dichiarano che il lavoro, quand’anche impegnativo, é comunque preferibile alla scuola. E questo nonostante sia proprio la terza area quella in cui si ritrovano i lavori che l’ISTAT definisce come area dello sfruttamento, in quanto «continui», in conflitto con la frequenza scolastica e con il tempo libero, o caratterizzati da elevata «pericolosità».
Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, l’incidenza dei ragazzi che hanno avuto una qualche esperienza lavorativa in età precoce é massima nel Nord-Est (20,1% ) e minima al Centro (9,9%).
Altri istituti forniscono stime diverse sui minori impegnati in attività lavorative in Italia. La Fondazione del Banco di Napoli, per esempio, stima un totale di oltre 380.000 minori mentre l’IRES-CGIL fa riferimento ad un numero complessivo di oltre 400.000, entrambi comprendendo anche i minori immigrati ed i rom.
Le differenze delle stime in questo complesso settore sono causate dall’adozione di metodologie diverse per la rilevazione dei dati. In ogni caso, é innegabile che ci si trovi di fronte ad una realtà di forte significatività sociale, concordemente situata in modo prioritario all’interno di alcuni settori economici ben definiti: il settore agricolo, quello delle piccole e piccolissime aziende, che presentano una forte concentrazione manifatturiera ed un elevato ricorso ad attività contoterziste (ambiente che, non a caso, spesso «incrocia» l’economia sommersa), alcuni settori dell’artigianato (calzaturiero, abbigliamento), il settore edile.

ANALISI DEL LAVORO MINORILE E SUE CARATTERISTICHE


Il riferimento al tipo di lavoro svolto ci dice che il 70% dei minori occupati collabora ad un’attività di famiglia, più del 20% lavora nel circuito dei parenti o degli amici di famiglia e il 9% lavora presso datori di lavoro terzi. Prevalgono i maschi, che rappresentano i 2/3 del totale.
Le attività sono prevalentemente occasionali (1 su 2) o stagionali (il 30%). Soltanto il 21% svolge lavori continuativi; in ogni caso, si tratta di lavori che spesso impegnano in modo anche intenso: 3 minori su 10 sono impegnati quasi tutti i giorni e altrettanti qualche volta a settimana.
Inoltre più del 20% é coinvolto in lavori per più di 7 ore al giorno, prevalentemente in attività di tipo commerciale, spesso gestite dalle famiglie (il 25% in un negozio ed il 12% in attività legate alla ristorazione). I minori partecipano altresì alla vendita ambulante (quasi il 10%) ed a quella «porta a porta», di solito a supporto dell’attività paterna (il 12%), nonché ai lavori in campagna (il 10%). Per il loro impegno ricevono paghette occasionali o regali.
Una stima del numero dei minori coinvolti in lavori precoce é stata ottenuta estendendo il valore medio del rapporto tra popolazione scolastica residente che non lavora e quella che lavora – ovvero il 21,4% – alla popolazione tra gli 11 ed i 14 anni residente nelle 9 grandi città esaminate; il risultato é una cifra complessiva di circa 150.000 11-14enni, italiani e non, coinvolti in quelle realtà urbane in forme di lavoro precoce dalle caratteristiche generali sopra analizzate.
Proiettando questo dato sulla popolazione degli 11-14enni residente in Italia, si può stimare un range di 460.000-500.000 minori italiani e non (stranieri: il 9-10%), che svolgono lavori precoci.
Analizzando le informazioni raccolte, sono stati ricostruiti tre gruppi:
a) gli 11-14enni che lavorano e frequentano la scuola; b) gli 11-14enni con esperienze di lavoro talvolta alternative alla formazione scolastica; c) in un’ottica retrospettiva, i 15-17enni che oggi lavorano e hanno avuto esperienze di lavoro tra gli 11 ed i 14 anni.
Innanzitutto si sono verificate alcune tendenze progressive:
aiuti nelle attività di famiglia, lavori nei circuiti parentali e presso terzi: se il 70% degli 11-14enni ancora studenti collabora con i genitori ad attività di famiglia, un po’ più del 20% fa esperienze di lavoro nei circuiti parentali e/o amicali e meno del 10% lavora per terzi, si nota, invece, una netta e progressiva diminuzione di chi lavora per la famiglia negli altri due gruppi: rispettivamente il 60% degli 11-14enni e il 23,4% dei 15-17enni. Ad aumentare sono soprattutto le forme di lavoro presso parenti/amici/conoscenti nel caso degli 11-14enni rintracciati sul territorio (più di 1 su 3) e quelle di lavoro presso terzi che balzano al 42,1% tra i 15-17enni;
da attività occasionali a lavori continuativi: la tendenza evidenziata é confermata anche dai dati sul «tempo dedicato al lavoro» dai minori appartenenti ai tre gruppi, ricostruito intorno alle variabili "periodicità del lavoro durante l’anno", "frequenza delle attività sul mese/settimana", "nº di ore di lavoro al giorno". Anche qui si può individuare una progressione tra i tre gruppi, per cui l’occasionalità, la stagionalità tendono a trasformarsi in continuatività ed in tipi di mansioni che fanno di questi aiuti familiari di fatto dei veri e propri "lavori da adulti" soprattutto nel passaggio dalla scuola dell’obbligo al percorso formativo superiore. Da una parte, infatti, gli 11-14enni nelle scuole fanno prevalentemente lavori occasionali ("lavoro quando capita" – in quasi il 50% dei casi) e a seguire lavori stagionali ("lavoro soltanto in alcuni periodi dell’anno" – in quasi il 30% dei casi), in accordo con una loro frequenza regolare del circuito scolastico. La situazione comincia a invertirsi già nel caso degli 11-14enni sul territorio, tra cui cresce la percentuale di coloro che fanno lavori continuativi ("lavoro durante tutto l’anno" – oltre il 40%), resta stabile la quota di chi lavora e fa lavori stagionali (circa il 30%) e si dimezza quella di chi lavora in modo occasionale (dal 50% al 28%). Si mette a fuoco, quindi, una maggiore strutturazione della relazione di lavoro per gli 11-14enni intervistati sul territorio, frutto sia di un legame più debole con la scuola, sia viceversa di una maggiore partecipazione alle vocazioni socio-produttive dei contesti territoriali. Tale tendenza é emersa ancora più accentuata per i 15-17enni, in cui la componente dell’occasionalità diventa decisamente minoritaria (circa il 24%) e aumentano i fattori di continuatività (quasi il 50% fa lavori continuativi e il 30% lavori stagionali).
Discorso analogo vale se si considera la frequenza delle attività nel mese e sulla settimana ed il numero di ore di lavoro al giorno. Nel primo caso si registra, infatti, per gli 11-14enni nelle scuole una maggiore distribuzione dei comportamenti tra chi lavora qualche volta al mese (circa il 25%), chi qualche volta a settimana (circa il 30%), chi più o meno tutti i giorni (un po’ più del 30%); mentre tra gli 11-14enni sul territorio e tra i 15-17enni emerge una crescita rilevante di chi lavora più o meno tutti i giorni (rispettivamente il 46% ed il 58%) a discapito di chi lavora solo qualche volta al mese o a settimana. In tutti e tre i casi, comunque, risulta minoritaria la quota di chi lavora solo una volta a settimana (rispettivamente 15%, 7%, 4%), segno che, seppure sempre in una dinamica a scalare, solo di rado il lavoro ha il carattere di un’attività molto saltuaria.
Anche nel secondo caso – numero di ore di lavoro al giorno –, se tra gli 11-14enni nelle scuole emerge una maggiore distribuzione dei comportamenti con una concentrazione tra chi lavora fino a 2 ore al giorno (il 34%) e da 2 a 4 ore (circa il 30%), tra gli 11-14enni sul territorio aumenta chi lavora da 2 a 4 ore (circa il 38%) e si evidenza chi é impegnato da 4 a 7 ore al giorno (più del 30%), mentre diminuisce sensibilmente chi lavora fino a 2 ore (meno del 15%). Con un andamento analogo di sostituzione dei comportamenti, i 15-17enni tendono a lavorare prevalentemente da 4 a 7 ore (quasi il 50%) e più di 7 ore (il 31,7%), e decisamente meno da 2 a 4 ore (circa il 19%) e fino a 2 ore (il 2%). In ogni caso resta significativo il dato di chi lavora più di 7 ore presente in tutti e tre i gruppi, come segnale ulteriore di una presenza non di poco conto nella vita dei minori appartenenti a tutti e tre i gruppi;
paghe, luoghi di lavoro e tipi di attività svolte: sugli aspetti legati alla retribuzione si é registrata una crescita progressiva della regolarità della retribuzione nei tre gruppi: si passa progressivamente dal circa 40% degli 11-14enni nelle scuole le cui attività vengono pagate regolarmente, al 47,9% degli 11-14enni sul territorio fino al 75% dei 15-17enni.
Nello stesso tempo, ed in modo simmetrico, si é evidenziata una diminuzione costante dei casi di mancata retribuzione, quasi sempre legati a forme di collaborazione in attività di supporto alle micro-imprese delle famiglie, ricompensate spesso attraverso regali, oggetti e così via.
Per quanto riguarda i luoghi di lavoro: a) gli 11-14enni nelle scuole tendono a lavorare soprattutto in un’attività commerciale (più di 1 su 3), spesso gestita dai genitori. Frequenti sono anche i casi dei minori che accompagnano il padre o la madre a lavorare «in giro per le case» (il 12%) o in strada spesso in attività di ambulantato (quasi il 10%) o di quelli che aiutano i genitori in campagna (il 10%); b) anche gli 11-14enni sul territorio collaborano in molti casi ad attività commerciali (quasi il 30%), con un’inversione di tendenza, però, tra chi é impegnato in esercizi di ristorazione (quasi il 20% di contro al 12% del precedente gruppo) e chi in altri tipi di negozi ristorazione (il 13% di contro al 25% del precedente gruppo). Si registra anche una crescita tra chi é impegnato in strada (il 14%) e in casa propria (il 13%); c) differenze più marcate si evidenziano per i 15-17enni tra cui, oltre ad una concentrazione sempre evidente nell’ambito delle attività commerciali soprattutto legate alla ristorazione (il 21% in quest’ultimo caso ed il 32% in generale), sono diffusi i lavori in fabbrica (il 10% di contro al 4% e allo 0,2% degli altri due gruppi) o in cantiere (l’8% rispetto ad una media del 5% degli altri due gruppi) in assonanza con un loro maggiore coinvolgimento presso datori di lavoro terzi. Da sottolineare come siano ancora presenti forme di collaborazione al lavoro di padri o madri «in giro per le case» (il 13%), come cresca progressivamente il lavoro in laboratori artigianali (il 6% rispetto al 3% ed al 5% degli altri due gruppi), probabilmente in chiave sempre più sostitutiva al percorso formativo scolastico, e come viceversa diminuisca l’impegno «in casa propria» (il 3,5% rispetto al 7% e al 13% degli altri due gruppi).
L’analisi sui luoghi di lavoro é stata poi accompagnata da una ricostruzione delle attività concretamente svolte dai minori: si é evidenziata una duplice tendenza.
Prevalentemente gli 11-14enni (sia nelle scuole che nel territorio, ma con una predominanza di questi ultimi, rispettivamente il 14,4% ed il 20%) tendono a riconoscersi nella categoria «fare lavoretti», in cui ricorrono le forme di collaborazione più disparate e spesso di natura generica (ad esempio: aiutare, sistemare, montare e smontare, e così via) difficilmente riconducibili ad attività specifiche.
Viceversa tra i 15-17enni questa percezione tende a calare e viene sostituita da un riconoscimento crescente di svolgere attività specifiche, come «fare il muratore o l’operaio», «fare lavori di artigianato». Per tutti e tre i gruppi, così come per i luoghi di lavoro, le attività più ricorrenti sono risultate quelle che fanno capo al settore del commercio;
intermediazioni familiari e motivazioni personali: per gli 11-14enni nelle scuole la motivazione principale al lavoro precoce é quella di «aiutare economicamente la propria famiglia», in quasi il 40% dei casi, percentuale che si dimezza per gli 11-14enni sul territorio (circa il 20%) e diminuisce ulteriormente per i 15-17enni. D’altro canto, però, per gli 11-14enni sul territorio pesa in modo significativo la spinta della famiglia, racchiusa nella motivazione «perché i miei genitori mi hanno detto di farlo» (in quasi il 30% dei casi). Viceversa, tra i 15-17enni prevale in più del 55% dei casi la motivazione legata al poter disporre di soldi propri, una sorta di «formula» che sta ad indicare l’istanza di autonomia personale posta alla base della scelta di lavorare, diffusa comunque anche tra gli 11-14enni. Meno presenti sono risultate invece motivazioni quali «perché mi piace» (presente in particolare tra gli 11-14enni nelle scuole – quasi l’11% la indica come motivazione), oppure ‘per non andare a scuola’ indicata in particolar modo dai 15-17enni (in quasi il 10% dei casi) ed in questo caso probabile segnale di una scelta alternativa al percorso scolastico.
Si evidenzia quindi per il campione analizzato il seguente percorso:
1) si comincia a lavorare tra gli 11 ed i 14 anni sotto una spinta, più o meno dichiarata o diretta, proveniente dalla famiglia: lo si fa per un bisogno conclamato di integrazione al reddito familiare o per corrispondere ad una volontà familiare più genericamente definita; 2) si continua a lavorare dopo i 14 anni, riconvertendo l’istanza familiare in motivazione personale alla ricerca di un percorso di autonomia individuale.
Sono soprattutto gli 11-14enni che frequentano la scuola a collaborare con i genitori ad attività e/o a vere e proprie imprese familiari: in molti casi li supportano nella gestione di esercizi commerciali, in lavori di piccola edilizia o manutenzione a domicilio. Si tratta prevalentemente di lavori occasionali e/o stagionali, svolti qualche volta al mese o a settimana, al massimo per 4 ore al giorno. C’é comunque una quota significativa di minori che, quando lavora, lo fa intensamente – più o meno tutti i giorni e da un minimo di 4 a più di 7 ore. Queste collaborazioni, retribuite con «paghette» occasionali, o con compensi indiretti (regali, oggetti, etc.) sono legate da una parte all’esigenza familiare di sostegno nella gestione della micro-impresa e dall’altra al desiderio del minore di ottenere autonomia attraverso una disponibilità personale di danaro.
Tali lavori si accompagnano a percorsi scolastici a rischio, vista la frequenza di segnali di dispersione differita, come le assenze, le bocciature, le difficoltà di apprendimento e così via.
Si tratta talvolta di collaborazioni stagionali, talvolta di lavori continuativi soprattutto nel settore del commercio-negozi, attività di ristorazione e vendita ambulante; in ogni caso, impegnano spesso qualche volta a settimana, se non quasi tutti i giorni, e per oltre 4 ore al giorno.
Per il loro impegno, i minori tendono a ricevere sempre più spesso paghe regolari.
La motivazione al lavoro é da ricercarsi sovente in una precisa indicazione familiare, dettata spesso da una scommessa della famiglia sul valore formativo e di inclusione attribuito all’impegno lavorativo (anche in alternativa alla scuola); talvolta, invece, la motivazione é costituita da un bisogno di integrazione del reddito familiare, oppure per disporre di soldi da spendere per sé;
i lavori continuativi presso terzi: sono molto diffusi tra i 15-17enni che hanno avuto esperienze di lavoro anche tra gli 11 ed i 14 anni. Sulla scorta delle esperienze lavorative maturate prima dei 15 anni, i minori preferiscono spesso continuare a lavorare secondo modalità più strutturate, che di fatto impediscono di frequentare percorsi formativi, oltre quello dell’obbligo. Progressivamente, infatti, i minori si impegnano in veri e propri lavori, svolti quasi tutti i giorni, part time o full time, con paghe abbastanza regolari, seppure non commisurate al numero delle ore di lavoro (di rado si supera i 400 Euro al mese). Si lavora come camerieri in bar, ristoranti, pizzerie, oppure in fabbrica o come aiutante nel campo della piccola edilizia.
Nello stesso tempo a partire dalla classificazione e dalle progressioni delle esperienze individuate tra i tre gruppi, pur nella consapevolezza che molteplici sono le varianti individuali e sociali, si sono ricostruiti i seguenti stadi di sviluppo del lavoro minorile:
1. si comincia tra gli 11 ed i 14 anni a sperimentare collaborazioni occasionali, stagionali in attività o in piccole imprese di famiglia sotto una spinta, più o meno dichiarata o diretta, proveniente dalla famiglia stessa.
Lo si fa continuando a frequentare la scuola dell’obbligo, anche se talvolta si cominciano a delineare difficoltà nel percorso formativo (assenze, bocciature, difficoltà di apprendimento), segnali di percorsi scolastici a rischio di dispersione, se non nella scuola dell’obbligo, in modo differito in quella superiore;
2. fin dalla scuola dell’obbligo, per cerchi concentrici tali collaborazioni hanno buone possibilità di trasformarsi in esperienze più impegnative svolte non più direttamente per la famiglia, ma all’interno della cerchia di parenti ed amici. Attraverso tali esperienze si comincia a riconvertire l’istanza familiare di sostegno in motivazione personale alla ricerca di un percorso di autonomia individuale, in cui sempre meno trova spazio la scommessa sulla formazione scolastica;
3. tale percorso matura al termine della scuola dell’obbligo e nel passaggio a quella superiore: le esperienze di lavoro dei 15-17enni che hanno cominciato a lavorare prima dei 15 anni risultano lavori a tutti gli effetti alternativi alla formazione scolastica.

Alcune condizioni familiari e territoriali alla base del lavoro minorile.
Si é riscontrata spesso una propensione favorevole delle famiglie al lavoro precoce dei figli: i genitori pensano che per i loro figli sia meglio lavorare che stare in strada (nel 40% dei casi per gli 11-14enni e nel 61% per i 15-17enni), probabilmente a partire da due convinzioni di fondo diverse per gli 11-14enni e per i 15-17enni.
Nel primo caso si pensa che il lavoro possa risultare più utile della scuola nell’inserimento sociale del proprio figlio, così come indicato anche dal 23% degli 11-14enni (‘sono contenti perché pensano che il lavoro sia più utile della scuola’). Nel secondo caso, si ritiene che sarebbe preferibile la scuola (confermato anche dal 12% dei 15-17enni e dalla significativa diminuzione di chi pensa che il lavoro sia più utile della scuola – dal 23% al 14%), ma che, a fronte di un percorso lavorativo già svolto e di difficoltà nell’inserimento o re-inserimento nella scuola, meglio il lavoro della strada.
D’altra parte, questa lettura mette in luce come un’iniziale scommessa sul lavoro da parte delle famiglie – talvolta in alternativa alla scuola – possa in alcuni casi trasformarsi in una delusione delle famiglie stesse, segnata però da una difficoltà a tornare indietro per puntare nuovamente sul percorso formativo scolastico.
Da segnalare, infine, una quota di chi segnala l’importanza per le famiglie dell’aiuto proveniente dal lavoro dei figli, soprattutto tra gli 11-14enni, a conferma di quanto pesi nell’iniziale accesso al lavoro per i minori la «pressione familiare».
Si tratta di famiglie i cui genitori hanno frequentemente bassi titoli di studio: a) in media 1 genitore su 2 (sia madre che padre) ha conseguito la licenza media inferiore; b) tra chi non alcun titolo (in media il 6%), si registra una concentrazione tra le madri; c) frequenti sono anche i casi di chi ha la sola licenza elementare (in media 1 genitore su 5); d) coloro che hanno un titolo di scuola media superiore sono in media il 18%, mentre i laureati sono il 6%.
Inoltre incrociando alcuni aspetti sulla composizione delle famiglie con quelli sulla loro condizione lavorativa, professionale e abitativa come indicatori indiretti dello stato di reddito familiare, sono emersi i seguenti elementi correlati al lavoro precoce: le piccole e piccolissime imprese a gestione familiare, nel settore del commercio o della piccola edilizia, più o meno inserite in contesti produttivi consolidati e quindi a vario grado appartenenti ad ambiti di economia sommersa. Circa il 40% delle famiglie risulta dalla nostra indagine possedere attività e imprese di tal genere; genitori con occupazioni dipendenti innanzitutto come operai e in seconda battuta come impiegati: il 41.6% dei padri occupati é un operaio.
Le madri occupate nel 25,2% sono operaie, nel 21,1% sono impiegate; scarsa occupazione delle donne: nel 36% dei casi le madri dei minori intervistati sono casalinghe nel 4,5% o disoccupate; famiglie monoreddito: 1 famiglia su 2 é risultata monoreddito con il solo padre occupato; famiglie numerose, spesso con diversi minori a carico: il 10% dei casi ha oltre 3 figli; famiglie con un solo genitore: circa 1 famiglia su 5 ha un solo genitore, in quasi la totalità dei casi la madre.

Percorsi scolastici a rischio di dispersione.
Le prime difficoltà si manifestano nella scuola dell’obbligo. Dall’indagine si é rilevato che circa il 4% degli 11-14enni intervistati sul territorio ha dichiarato di aver lasciato la scuola dell’obbligo prima di prendere la licenza media e nella maggior parte dei casi per lavorare. Un’analoga quota, invece, ha terminato la scuola dell’obbligo e non si é iscritto alla scuola superiore, pur non avendo ancora 15 anni ovvero l’età minima di accesso al lavoro prevista dalla legge italiana. In ogni caso, focalizzando l’attenzione soltanto sulla quota degli 11-14enni fuori dal circuito scolastico dell’obbligo, appare evidente quanto il loro peso – il 4% – sia ben superiore ai dati di fonte ministeriale che registrano nelle scuole elementari e medie tassi ormai di natura fisiologica, attestati dalla fine degli anni ’90 ad oggi intorno rispettivamente allo 0,1% ed allo 0,5%.
Inoltre bocciature, frequenza «a salti», periodi ricorrenti di assenza, tempo dedicato allo studio, forme di abbandono temporaneo o definitivo sono stati considerati un insieme di segnali che, isolati o combinati, evidenziano percorsi scolastici a rischio di dispersione. Si é quindi acclarato come sul versante delle assenze, la possibilità di saltare spesso o qualche volta giorni di scuola per lavorare sia una pratica diffusa tra gli 11-14enni che frequentano la scuola (sia tra quelli intervistati nelle scuole – in quasi il 17% dei casi, che tra quelli contattati sul territorio – nel 24% dei casi), che viene poi percepita tra chi ha abbandonato la scuola come una condotta «normale», attuata infatti da più di 7 minori su 10 quale antefatto della successiva fase di abbandono.
Tale progressione é un buon esempio di dispersione differita: difficoltà e disagi vengono espressi gradualmente attraverso assenze prima saltuarie, poi sempre più ricorrenti che in alcuni casi assumono la forma di abbandono parziale, in altri di effettiva dispersione senza l’acquisizione del titolo di studio dell’obbligo; anche le bocciature rappresentano un buon esempio di dispersione differita.
In questo caso, a fare la differenza non é soltanto il riscontro della bocciatura: sia gli iscritti che i non iscritti, infatti, sono stati in circa il 30% dei casi respinti. Ancor più significativa nel rendere la bocciatura un segnale di disagio che con molta probabilità può sfociare in abbandoni veri e propri del circuito scolastico risulta la distribuzione del numero di bocciature: gli 11-14enni iscritti sono stati prevalentemente respinti una volta (in quasi il 20% dei casi), quelli non iscritti, invece, più di due volte (12%) o due volte (9%). In entrambi i casi, poi, la prima bocciatura risulta avvenire in I media, a segnare un passaggio, quello dalla scuola elementare alla scuola media, che, come molti studiosi evidenziano da tempo, rappresenterebbe una cesura troppo netta, in cui si tendono ad accumulare disagi, disaffezioni e calo della motivazione.
Con l’ingresso, quindi, nella scuola media cominciano a maturare quei segnali – difficoltà di apprendimento, peggioramento del rendimento scolastico, assenze, bocciature e così via – che possono facilitare percorsi di dispersione.
Quasi 1 su 2 dei 15-17enni intervistati ha scelto di abbandonare gli studi alla fine del percorso obbligatorio, spesso per continuare svolgere lavori cominciati prima dei 15 anni. Tra coloro che hanno abbandonato la scuola, poi, la maggior parte non si sono proprio iscritti alla scuola superiore (circa il 60%); e in modo minoritario o non hanno preso la licenza media (l’8,3%) oppure hanno abbandonato dopo l’iscrizione alla scuola superiore (9,1%).
Le esperienze di lavoro prima dei 15 anni sembrano, quindi, contribuire ad orientare precocemente i minori in modo selettivo verso il lavoro a discapito del percorso formativo, dal momento che la scelta matura in una rinuncia spesso «a priori» alla scuola superiore.
L’immagine complessiva, emersa dall’analisi, é quella di un forte investimento sul lavoro precoce – prima dei 15 anni – da parte delle famiglie innanzitutto e a seguire da parte dei minori; un investimento che si traduce in:
– una pressione familiare e territoriale a favore del lavoro;
– un processo graduale di disimpegno dalla scuola a favore del lavoro;
– un accesso privilegiato a relazioni che avvengono solo grazie al lavoro precoce;
– una scarsa attribuzione di valore, sia individuale che sociale, ad altri tipi di esperienze.
Ciò significa che complessivamente i minori attivati in circuiti lavorativi tendono a sperimentare il lavoro precoce come esperienza privilegiata in grado di ridurre il rischio di esclusione sociale.
Stando, ad esempio, ad un recente studio di Esping-Andersen, che ha promosso la centralità di una Child Centred Social Investment Strategy, i requisiti di base per una cosiddetta «good life» sono incentrati sull’acquisizione di competenze multilevel che comprendono: abilità cognitive e linguistiche, capacità di accedere ed utilizzare le nuove tecnologie, skills logico- matematiche, competenze sociali e qualifiche professionali. Si tratta di un capitale sociale, culturale e cognitivo che si può sviluppare soltanto se fin dall’infanzia e dalla pre-adolescenza le famiglie e le società investono in modo determinante sullo sviluppo dell’individuo.
Il rischio, altrimenti, é di maturare uno svantaggio sociale, assai difficile da colmare in età giovanile ed adulta, che può condannare ai cosiddetti lavori poveri, ovvero ad occupazioni spesso precarie e dai bassi salari.
Inoltre da alcuni dati tratti da una collaborazione tra Ministero del lavoro, ISTAT e INAIL, riferita ad un’inchiesta sul lavoro minorile nel triennio 1999-2001, é stato possibile distinguere all’interno della più ampia categoria del lavoro minorile irregolare tre «sotto– categorie».
La prima riguarda i minori impiegati in attività illecite (per natura o modalità della prestazione); la seconda in attività vietate; la terza i minori che effettuano lavori in condizioni di irregolarità.
I dati forniti con riferimento al primo semestre 2001 in ordine ai c.d. «lavori vietati» é di 2,6 casi su 100, mentre la violazione più riscontrata é costituita dalla mancanza di visite mediche periodiche (30,2% di violazioni nel 2001).
Rispetto alle tipologie di lavoro si potrebbe affermare che il lavoro minorile più «grave» é legato alle condizioni di disagio economico delle singole famiglie, soprattutto lì dove é basso il tasso di occupazione generale e le difficoltà economiche sono più evidenti per assenza o modestia del reddito familiare.
I ragazzi, in queste situazioni, che dichiarano di aver avuto un’esperienza lavorativa prima del raggiungimento dei 15 anni é pari al 13,8% laddove il primo lavoro di solito é rappresentato da un lavoro estivo o stagionale, e più raramente da lavoro continuativo che veda impegnato il minore per l’intero anno in aziende di piccola e media dimensione.
Quest’ultima attività lavorativa é tipica delle zone del Nord– Est d’Italia, dove é numerosa la presenza di piccole e medie imprese a conduzione familiare, laddove la formazione professionale di basso livello, ma sicura ed immediata, porta a ritenere la scuola quasi un ostacolo nell’inserimento del mondo del lavoro.
Al Sud il lavoro minorile é presente in maggior misura nel settore agricolo, edile e della ristorazione ed é fortemente condizionato dal più elevato tasso di povertà, atteso che i due terzi delle famiglie povere risiedono nel Sud, specie in Campania e Calabria, tre famiglie su quattro sono composte da almeno quattro persone ed elevata é la presenza di famiglie monoreddito.
Abbastanza frequente é anche il fenomeno del garzonaggio, cioè del minore che viene utilizzato in attività del terziario per svolgere piccole mansioni: portare il caffè del bar o la spesa del negozio di alimentari, la pulizia della bottega.
I dati dell’attività di vigilanza dell’INPS nel 2003 hanno riscontrato 384 casi di lavoratori sotto l’età minima di assunzione, mentre sempre con riferimento allo stesso anno, l’attività ispettiva svolta dal Ministero del Lavoro (fonte rapporto CNEL) ha messo in evidenza come, su 3.000 aziende ispezionate, siano stati trovati 1.678 minori risultati irregolari (su un totale di 3.979): il che induce a concludere che per un lavoratore minore su due si é riscontrata una violazione della norma di riferimento.
Nel 2004, sebbene i dati ad esso riferiti non possono essere confrontati con quelli del 2003, poiché le aziende ispezionate non sono le stesse, né per tipologia né per dimensione, si é riscontrato come dato generale una crescita di lavoratori minori irregolari.
Difatti nel corso del 2004 le aziende ispezionate sono state 4.730 all’interno delle quali risultavano occupati 4.931 minori, di cui 440 extracomunitari.
Fra questi, i minori impiegati in violazione della normativa vigente sono risultati 1.854, di cui 172 extracomunitari.
Le violazioni più ricorrenti riguardavano la mancata sorveglianza sanitaria (1.200 violazioni circa) ed il mancato rispetto della disciplina dell’orario e dei riposi (447 violazioni); seguono quelle inerenti all’età minima di assunzione (174 violazioni) e i lavori vietati (42 violazioni).
Emerge in maniera evidente come la molteplicità delle cause sociali, economiche e culturali, che sono in stretta correlazione con il fenomeno del lavoro minorile e delle sue degenerazioni, fa sì che lo stesso debba essere affrontato da più punti di vista attraverso una collaborazione ed interazione fra tutti i soggetti che direttamente o indirettamente sono coinvolti.

LAVORO MINORILE ED INFORTUNI
Le difficoltà che si incontrano nella delimitazione in concreto della dimensione e della distribuzione, per lavorazioni e territorio, del lavoro minorile, diventano ovviamente ancora più forti ove, come nel caso di specie, occorra effettuare le sue interrelazioni con il fenomeno infortunistico.
I dati di cui disponiamo, non molti per la verità, attengono ovviamente alla parte emersa dell’iceberg, cioè a quella fetta di occupazione minorile che, sia pure in forme non sempre corrispondenti alla realtà, é già palese ed a quella ulteriore entità produttiva che emerge proprio in occasione dell’infortunio particolarmente grave e verificatosi in circostanze tali da non poter essere occultato.
Ci riferiamo, quindi, non ai minori degli anni quindici, età minima legale, ma ai minori degli anni diciotto.
Come sottolinea, infatti, l’INAIL non risulta nelle Banche Dati dell’Istituto «alcun evento occorso a infortunati di età inferiore a quella minima legale. Infatti nella fattispecie la normativa prevede il divieto del ricorso a minori per lo svolgimento di attività lavorative e, conseguentemente, non é ipotizzabile da parte del datore di lavoro di una siffatta denuncia d’infortunio che, automaticamente, farebbe emergere in sede penale la violazione di un diritto costituzionalmente garantito». (cfr. nota prot. 376/05 Presidente INAIL del 15.11.2005).
Ciò premesso si rileva che in Italia nell’anno 2004 risultano denunciati per i minori degli anni diciotto 1836 infortuni su 211.826 infortuni denunciati per l’intera popolazione lavorativa.
Trattasi di percentuale molto vicina al 9%, sicuramente viziata per difetto dalla preponderante presenza di eventi, normalmente di piccola e media entità, ma in alcuni casi particolarmente gravi e forse anche mortali, non denunciati.
Le denunce sono più numerose nel nord – est e meno numerose al sud, dove in alcune provincie (Avellino, Benevento, Caserta, Potenza, Enna, Caltanissetta), che risultano quindi stranamente virtuose, non risulta denunciato alcun infortunio occorso a minori degli anni 18.
In realtà il maggior numero di denunce rilevate nel ricco nord est, caratterizzato dalla piena occupazione, può anche essere la conseguenza di una maggiore facilità dell’accesso al lavoro e della grande diffusione delle imprese familiari, condizioni entrambe che favoriscono l’immediato inserimento dei minori nella realtà produttiva e sconsigliano l’investimento nella scolarizzazione e nella formazione.
Tra le province che hanno segnalato il maggior numero di casi di infortunio primeggiano le provincie di Brescia (85) e di Bergamo (77), mentre risulta anomalo e degno di particolare attenzione il dato di Bolzano, dove risultano denunciati 504 infortuni, e che concorre ad attribuire al Trentino Alto – Adige il primato fra le regioni.
Significativi anche i dati relativi agli apprendisti nell’industria e nei servizi, per i quali nell’anno 2004 risultano denunciati ed indennizzati (a tutto il 30 aprile 2005) 17.716 infortuni, con ben 23 infortuni mortali; di questi ultimi, molti (17 su 23) sono relativi ad aziende con meno di 15 addetti.
La riduzione rispetto all’anno 2003 risulta abbastanza marcata ove si consideri che per il predetto anno gli infortuni denunciati ed indennizzati (a tutto il 30 aprile 2005) sono 21.086, di cui 35 mortali.
Si ha peraltro la conferma come i rischi maggiori e gli infortuni mortali riguardino soprattutto le piccole aziende che, anche per intuibili carenze organizzative e per la ridotta esposizione ai controlli interni ed esterni, tendono a gestire con molta approssimazione le procedure e gli adempimenti imposti dalla normativa sulla sicurezza, ed a risparmiare i costi della formazione.
Le aziende con oltre 250 addetti non registrano invece alcun caso di infortunio mortale tra gli apprendisti.
Non dissimile il discorso relativo al sottosettore delle aziende artigiane, per le quali nell’anno 2004, relativamente agli apprendisti, vengono denunziati ed indennizzati (a tutto il 30 aprile 2005) 7.528 infortuni, con dieci casi mortali, tutti riferiti a lavoratori di sesso maschile occupati in aziende con meno di 15 addetti.
Ma, come si é detto, i dati esposti fotografano solo una parte, per giunta marginale, del fenomeno.
Sfugge, infatti, agli stessi tutta la problematica della sicurezza che riguarda la presenza illegale dei minori sui luoghi di lavoro.
Tale illegalità rende i minori privi di protezione al punto che se si infortunano rischiano di essere abbandonati o trasportati altrove anziché essere soccorsi subito.
Un’esplorazione del rapporto tra lavoro minorile ed infortuni postula peraltro spesso indagini relative ad aree geografiche ridotte, per le quali é più semplice l’individuazione delle utili fonti di notizie e lo scandaglio degli eventi.
Preziosa in questo settore potrebbe essere l’attività degli enti locali ai quali va necessariamente richiesto un preciso impegno conoscitivo in questo settore.
Interessante, per esempio, uno studio relativo all’Umbria che rivela come nell’arco di quattro anni, dal 2000 al 2004, ove si escludano gli infortuni scolastici, risultano denunciati 697 infortuni per il settore industria – artigianato e 21 infortuni per il settore agricolo, che nel primo settore, quello dell’industria– artigianato, la percentuale di extra-comunitari risulta pari al 14,4% e che il numero più elevato degli eventi riguarda il settore delle costruzioni (159 casi) e dell’industria dei metalli (107 casi), e che la maggiore quantità di denunce, a conferma della stagionalità dell’impiego dei minori, é concentrata nei mesi estivi.

LAVORO MINORILE ED IMMIGRAZIONE
Ad oggi manca inoltre una qualsivoglia stima sul fenomeno dei minori immigrati coinvolti nel nostro paese in forme di lavoro nero. I minori stranieri presenti in Italia sono stimati in circa 330.000, di questi circa 16.000 sono minori non accompagnati. Per stessa ammissione del Comitato Minori Stranieri é da ritenere inoltre che tale dato sia assolutamente difettoso perché non contenente l’area della clandestinità, «più consistente (almeno 30-35.000 minori)».
Quanto al numero dei minori immigrati lo si stima nel 20,7% sul numero complessivo degli immigrati e nel 10% dei minori occupati, con punte più alte in Lombardia, Romagna e Veneto (22%) e punte più basse in Campania (13,5%), in Calabria (15,2%) ed in Sardegna (16,2%).
Con riferimento alla provenienza, quasi la metà é costituita da asiatici, con un peso rilevante delle comunità cinesi insediate nei vari territori metropolitani. Un quarto é giunta dall’Europa dell’Est, con una prevalenza dalla Romania e dall’Albania e dalle aree dell’ex Jugoslavia. Uno scarso 20% proviene dai Paesi nord-africani, come l’Egitto, la Tunisia e il Marocco; il 7% infine arriva dall’America Latina.
A tali stime concorrono non solo gli organi ufficiali di rilevazione statistica, pur con le approssimazioni naturalmente connesse ad una realtà estremamente magmatica e complessa nella sua gravità, ma anche ricerche svolte da altre fonti non ufficiali quali la Fondazione Agnelli, la Fondazione Banco di Napoli e l’ISMU (Fondazione Iniziative e Studi sulla Multietnicità).
Va detto che questi minori costituiscono la «generazione del sacrificio», in quanto destinata a pagare gli alti costi del percorso migratorio deciso dai familiari; sono emigranti contro la loro volontà, e lavoratori per necessità, essendo chiamati dalle emergenze familiari a contribuire concretamente agli sforzi di sopravvivenza e di inserimento dei genitori in difficoltà.
Non é raro il fenomeno dei giovani extracomunitari di età compresa tra i 14 ed i 17 anni sottoposti quotidianamente a pesanti lavori di manovalanza e di facchinaggio, spesso a corredo dell’attività dei genitori, ovviamente in modo del tutto illegale.
Peraltro, alcune culture di riferimento degli immigrati non hanno ancora acquisito coscienza del problema della relazione tra lavoro e minore e considerano del tutto normale la condizione del minore – lavoratore.
Ne consegue che per combattere o comunque scoraggiare il lavoro minorile degli immigrati vanno adottate non solo politiche che consentano il superamento di condizioni reali di disagio, ma anche iniziative di mediazione culturale che sostengano una diffusa consapevolezza dei diritti dei lavoratori adulti e dei minori.
Questo é uno dei tanti punti sui quali il sindacato (cfr. la piattaforma CISL-CGIL-UIL) ha fermato la sua attenzione nella piattaforma elaborata in vista del congresso sul lavoro minorile svoltosi di recente a Firenze.
Affrontare il tema del lavoro minorile, avuto anche riguardo alla formulazione dell’art. 3 della legge n. 977/1967, e successive modificazioni, che vieta l’ammissione al lavoro prima dell’esaurimento dell’obbligo scolastico, significa, quindi, analizzare, anche sul versante della popolazione immigrata, il fenomeno dell’abbandono e della dispersione scolastica; vuol dire, inoltre, valutare se sia adeguata sul territorio la rete di sensibilità e di professionalità capace di intercettare i segnali, anche deboli, dello sfruttamento dei minori extracomunitari; significa anche battersi per una politica della cittadinanza che riconosca il principio dello «Jus soli» per tutti i bambini che nascono in Italia.
Le considerazioni che precedono non devono farci dimenticare che esiste, all’interno dello specifico fenomeno, la situazione dei «minori non accompagnati», quelli cioè che o non hanno famiglia o hanno la famiglia altrove e che confluiscono ovviamente in quell’area, ancora più bisognosa di quotidiana attenzione da parte delle istituzioni, che comunemente viene definita di «sfruttamento», alla quale non é nemmeno applicabile il concetto di «lavoro».
Se si considera poi che i minori stranieri presenti nelle scuole italiane sono circa 230.000 (dati Ministero dell’Istruzione) una prima conclusione vedrebbe almeno 100.000 minori extra-comunitari non intercettati dal sistema formativo nazionale, con punte di dispersione scolastica (escludendo i minori in età non scolare) intorno al 30%, più del doppio rispetto alla media nazionale (comunque alta, circa il 14%).
Una cifra, nel suo complesso, assolutamente inaccettabile.

CONCLUSIONI E PROPOSTE RELATIVE AL LAVORO MINORILE
É evidente, per quanto si é detto, che nella tematica del lavoro minorile si incrociano una pluralità di questioni, di notevole complessità: il lavoro sommerso, l’abbandono scolastico, una cattiva percezione dell’importanza di un percorso adeguato di istruzione e di formazione, l’immigrazione, una domanda di lavoro da parte delle imprese piccole e medie, ancora orientata a soggetti con titolo di studio o qualifiche professionali medio- basse, la necessità di ridurre i costi delle imprese familiari o moltiplicare i redditi familiari, la tendenza a seguire i ritmi di consumo imposti dal mercato, politiche familiari e di inclusione sociale ancora insufficienti.
Ne consegue l’obiettiva difficoltà, ove si prescinda dalla repressione che deve perseguire sempre con maggiore decisione la parte delittuosa del fenomeno, elaborare strategie precise di verifica e di attacco.
La stessa complessità rende necessario un intervento integrato e coordinato di tutte le istituzioni sia per il monitoraggio delle situazioni a rischio, sia per organizzare un efficace sostegno a politiche di ausilio delle famiglie bisognose e di rilancio del sistema scolastico attraverso sinergie operative tra istituzioni scolastiche, forze sociali, amministrazioni locali ed organi di controllo.
Ma risulta importante anche la maturazione di una cultura che individui nello sfruttamento del lavoro minorile, ed in particolare dei minori di quindici anni, la privazione di diritti fondamentali quali l’educazione, il gioco, la formazione, il rispetto dei tempi di crescita.
Tale cultura é fondamentale anche per affinare la sensibilità diffusa di quanti, con compiti e responsabilità diverse incontrano bambini e adolescenti, ed ai quali deve essere demandato il compito di intercettare, come sensori di una rete presente su tutto il territorio, anche i segnali più deboli dello sfruttamento dei minori.
Resta fondamentale, comunque, l’esigenza, di porre sotto osservazione il lavoro minorile non tanto per un processo semplicistico di stigmatizzazione di questo fenomeno, quanto per evidenziarne quegli aspetti che lo possono rendere un segnale di rischio per un minore. La questione non é «se e quanto il lavoro minorile sia buono o cattivo»; ma piuttosto, in che modo decifrare le dimensioni del lavoro precoce che ne fanno un’esperienza difficilmente reversibile per un individuo.
E nell’ambito di tale osservazione dovrà essere affrontato con decisione il problema dello sfruttamento dei bambini ROM atteso che servizi sociali, amministrazioni comunali e giustizia minorile sembrano incapaci di dominare il fenomeno. Il rispetto delle culture non può divenire tolleranza e giustificazione di illegalità gravissimi perpetrati a danni di bambini che vengono schiavizzati e sfruttati ed ai quali vanno, invece, garantiti con ogni mezzo gli stessi diritti dei bambini italiani.
Può essere d’aiuto inoltre, l’attento monitoraggio anche di quella parte di presenze minorili nel mondo del lavoro che, allo stato, si presentano, quanto meno dal punto di vista formale, come legali. Si pensi ad esempio, all’apprendistato svolto dai minori compresi tra i 15 ed i 18 anni, che il più delle volte tale non é, ma maschera un vero e proprio rapporto di lavoro. A tale scopo i soggetti, che per la loro attività istituzionale dispongono di Banche Dati (INPS, INAIL, Ministero del Lavoro) devono fare il massimo sforzo di incrocio e di analisi per verificare quanti sono i minori che lavorano, con quali mansioni ed in quali settori, l’età di inizio del lavoro, tipologia dei contratti, ecc. e, soprattutto, per verificare se viene rispettato quell’obbligo di formazione che deve essere sempre centrale nell’utilizzo del minore in attività lavorative.
Così come deve essere possibilmente protratto nel tempo, il monitoraggio ed il controllo, da parte degli organi repressivi, di tutte quelle aziende nelle quali siano stati accertati casi di lavoro minorile irregolare, tali da far presumere la reiterazione dei comportamenti illegali.
Appare utile qui ricordare quanto può essere importante, ove non venga recepita dai destinatari solo come mero adempimento formale, la sollecitazione rivolta in tal senso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali alle Direzioni Regionali e Provinciali del Lavoro ad «effettuare apposita rilevazione dalla quale risultino, oltre agli elementi già emergenti in sede di relazione annuale e semestrale, ulteriori dati limitatamente al lavoro minorile, quali la tipologia dimensionale delle aziende in cui siano stati trovati minori intenti al lavoro ed il settore merceologico delle aziende medesime».
Né va dimenticata la tutela da riservare ai minori che lavorano legalmente, ai quali spettano speciali tutele riguardo all’orario di lavoro, alla faticosità delle mansioni, al rischio dei processi produttivi cui sono adibiti.
Molti infortuni mortali riguardano soggetti molto giovani, appena usciti dal periodo di apprendistato, proprio a causa del fatto che durante il periodo di addestramento non si effettua un’adeguata formazione in tema di prevenzione e sicurezza.
L’ANMIL propone che il minore al lavoro sia tutelato almeno con l’obbligo di 1/10 di formazione nel campo della tutela antinfortunistica, compresa nell’orario di lavoro e retribuita.
Sembra che questo sia il minimo da garantire ad un giovane, che comincia a lavorare presto, che deve essere tenuto lontano da lavori pesanti e nocivi per la sua salute, che va esonerato da lavori rischiosi o che richiedono un’elevata perizia tecnica per limitare i rischi.
Utilizzare la decima parte dell’orario di lavoro per educarlo e formarlo alla sicurezza ed alla salute sul luogo di lavoro é un modo ancora più efficace di preservare la sua salute anche per il futuro, quando, compiuti i 18 anni, rischia di essere immesso in un processo di lavoro faticoso e rischioso senza adeguata preparazione e senza nemmeno conoscere i propri diritti.
Il divieto di utilizzare lavoratori in formazione o in apprendistato in processi di produzione rischiosi, resta spesso del tutto inefficace soprattutto nei casi di lavoro illegale.
Dalla relazione della Commissione del Senato sull’infanzia istituita nella precedente legislatura emerge, peraltro, come uno degli strumenti preventivi di maggiore efficacia sia la scolarizzazione. Un giovane scolarizzato almeno fino a 14 anni e che non ha eluso, sostanzialmente o di fatto, l’obbligo di istruzione, é più capace di tutelare la propria sicurezza durante le fasi dell’apprendistato lavorativo.
I minori, quindi, dovrebbero entrare nel mondo del lavoro, attraverso la formazione scolastica, i tirocini formativi, gli stage aziendali, e l’apprendistato.
Tutti strumenti che dovrebbero dare sicurezza adeguata a chi in giovane età entra nel mondo del lavoro. Spesso però questi strumenti vengono usati per assumere lavoratori con agevolazioni, mentre i minori continuano ad essere sfruttati con lavoro irregolare e privo di tutele.
Alle considerazioni che precedono resta da aggiungere che la Carta di Impegni del 1998, sottoscritta dai sindacati, dalle organizzazioni datoriali e dal Governo e la conseguente costituzione del Tavolo sul lavoro minorile, hanno avuto il merito di offrire alle attività di contrasto del fenomeno, poste in essere in ordine sparso, una sede di confronto stabile tra istituzioni e parti sociali ed un programma condiviso di politiche sociali, formative e della salute, con il massimo coinvolgimento di tutti gli attori istituzionali e sociali.
Dall’ampio dibattito in corso si segnalano come misure operative di prevenzione da mettere in campo:
– l’attivazione di un sistema informativo integrato sul lavoro minorile che, con autorevolezza istituzionale, permetta permanentemente di avere un quadro attendibile del fenomeno, non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo;
– il reperimento di maggiori risorse per un’azione di presidio e di vigilanza costante sul territorio, con particolare attenzione ai fenomeni di reclutamento dei minori;
– maggiore incisività della normativa in materia di tutela della salute e di sicurezza del lavoro degli adolescenti;
– riconoscimento ai minori stranieri ed alle loro famiglie dei diritti sociali e realizzazione di una politica di integrazione che offra loro pari opportunità;
– contrasto dell’abbandono e della dispersione scolastica, con il rilancio degli Osservatori provinciali e regionali contro la dispersione scolastica e l’attivazione di meccanismi premiali nei trasferimenti delle risorse per quelle amministrazioni scolastiche più impegnate nel contrastare il fenomeno dell’abbandono;
– adozione per via contrattuale, per le imprese operanti in Italia e nell’Unione Europea, di «Codici di Condotta» atti a garantire in ogni paese del mondo, dove le aziende europee operano, il rispetto dei diritti sociali e del lavoro così come individuati dalle convenzioni fondamentali Oil, indipendentemente dalla legislazione vigente localmente;
– misure a sostegno della scolarità nelle fasce dell’obbligo e con l’accesso gratuito ai servizi sociali e socio-sanitari per i soggetti coinvolti nel lavoro irregolare.
Ma essenziale resta, ovviamente, anche l’attività di repressione, con il presidio del territorio ad opera di specifiche task-force provinciali comprendenti, oltre ai servizi ispettivi, i servizi sociali e scolastici.
In altri paesi dell’Unione (Danimarca, Spagna, Francia, Austria fra gli altri) sono state sensibilmente aumentate le risorse (e le competenze) destinate ai servizi ispettivi, procedendo negli ultimi anni a un rafforzamento dei sistemi sanzionatori ed inasprendo le pene (Commissione Europea, Comunicazione sul lavoro sommerso 1998).
In Italia, gli organici degli addetti ai servizi ispettivi sono purtroppo estremamente carenti, soprattutto nelle aree geografiche in cui l’azione di contrasto dovrebbe essere più efficace. E ` stata, a tal proposito, più volte segnalata, anche di recente, la drammatica situazione esistente sotto questo profilo in Campania, Puglia e Calabria. Alle carenze di organico si aggiungono, inoltre, una serie di limiti legati alle metodologie e alle prassi organizzative delle varie amministrazioni, il coordinamento delle quali é spesso più formale che sostanziale.
I controlli e le ispezioni, sia sul piano contributivo che su quello delle norme di sicurezza, sono efficaci sul piano qualitativo, ma non quantitativo: é stato calcolato che l’attuale frequenza dei controlli implicherebbe, per le imprese, il «rischio» di 1 ispezione ogni 30 anni.
É urgente il potenziamento delle risorse finanziarie, tecnologiche e umane dei diversi servizi ispettivi e di vigilanza, anche con il ricorso ai proventi dell’attività stessa; l’ampliamento dei controlli amministrativi a monte sulle entrate; il superamento del principio dell’attività ispettiva basata solo sulle singole aree di appartenenza, puntando a una regionalizzazione degli interventi e delle modalità operative; l’individuazione dei settori a rischio (ad esempio edilizia e trasporto merci) dove la comunicazione all’INAIL e/o all’INPS deve precedere di cinque giorni l’assunzione (superando così il principio della comunicazione di assunzione entro le 24 o 120 ore successive, che «casualmente» vede proprio nelle prime giornate di lavoro concentrarsi numerose denuncie di incidenti); l’incremento dell’attività di formazione ed informazione deputata alle figure previste dal D.Lgs. n. 626/1994, Responsabili dei Servizi di Prevenzione e Protezione e Medici Competenti – Medici del Lavoro; inserimento nel libretto personale delle competenze professionali anche di una sezione dedicata alla specifica formazione alla sicurezza.
Il potenziamento dei servizi ispettivi, oltre a recuperare all’erario risorse dirette, consentirebbe anche, indirettamente, mediante la riduzione degli infortuni, di risparmiare i miliardi di euro di spesa sociale legata alle prestazioni in favore degli invalidi, delle vittime del lavoro e delle loro famiglie.
Ma l’attività di controllo non può gravare solo sui servizi di vigilanza.
Le forze dell’ordine, le istituzioni, gli enti e le amministrazioni pubbliche hanno il preciso dovere di far rispettare le norme di prevenzione e sicurezza del lavoro e quelle di tutela della salute dei lavoratori, sempre e comunque, in ogni luogo.
Ai controlli va, con opportune cautele, affiancato un sistema di incentivazione delle denunce da parte dei lavoratori e di un forte monitoraggio da parte delle associazioni di categoria.
Non si può considerare la sicurezza dei lavoratori, la loro vita e la loro salute, come una grandezza economica, una semplice quantificazione di oneri del processo produttivo, un mero «costo» per l’impresa.
La sicurezza e la prevenzione devono essere, invece, una ricchezza, un’immensa risorsa per la società in cui viviamo, per il progresso, per la civiltà, per l’umanità del lavoro.
Le ispezioni ed i controlli non devono essere viste come un danno per l’impresa: sono invece l’unico modo per garantire il rispetto delle norme, che in questo caso sono anche il rispetto della vita e della salute dei lavoratori.

ALCUNE FONTI DOCUMENTALI E BIBLIOGRAFICHE UTILIZZATE
– Comunicazione della commissione sul lavoro sommerso, Commissione Europea, Bruxelles, com (98) – 219 – Mai più lavoro minorile!, CGIL-CISL-UIL, Roma, 2004
– Le proposte della Cgil per un «piano di legislatura» contro il lavoro nero, CGIL, Bari 2005
– L’osservatorio sul lavoro minorile i lavori minorili nelle grandi città italiane, CGIL, 2005
– Analisi, idee e proposte per una strategia di lotta al lavoro nero, CGIL, 2003
– Rapporto annuale INAIL 2004
– Infortuni lavorativi mortali: stime basate su più fonti informative, Baldasseroni A. et al., Med Lav 2001, 92,4:239-248
– Infortuni mortali lavorativi: aggiornamento dei dati di un registro di mortalità, Mantero S. et al, Med Lav 2005, 96,3: 238-242
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Fonte: Senato della Repubblica