Cassazione Penale, Sez. 4, 12 aprile 2011, n. 14684 - Vano sprovvisto di parapetto e infortunio mortale


 

Responsabilità di un datore di lavoro perchè, per negligenza, imprudenza ed imperizia nonchè per violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, cagionava, omettendo di porre in essere adeguate misure di protezione a garanzia della sicurezza e dell'incolumità dei lavoratori, la morte di M.M., cittadino egiziano, clandestinamente presente in Italia, operaio edile.

La vittima, mentre era intenta ad effettuare lavori di muratura al primo piano di un edificio all'interno del cantiere aperto per la ristrutturazione dell'immobile e gestito in subappalto dalla Ditta medesima, precipitava all'interno del vano dove avrebbe dovuto essere in seguito installato l'ascensore, vano che si trovava sprovvisto di adeguato parapetto, con una caduta di circa sette metri.

L'imputato viene accusato di non aver protetto con parapetto idoneo, ai sensi del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 26 il vano d'ingresso ascensore, come previsto dal D.P.R. n. 165 (ndr 164) del 1956, art. 68, comma 3, di aver omesso di dare attuazione a quanto previsto dal piano di Sicurezza e Coordinamento e dal Piano Operativo di Sicurezza da lui stesso redatto ovvero di non aver osservato la disposizione di sicurezza, secondo la quale "quando saranno finite le murature, le porte ed ogni apertura saranno protette con idonei parapetti, che saranno realizzati con tavelle fissate sulla muratura, lato corridoi oppure con tubi da ponteggio e vitoni".

Condannato, ricorre in Cassazione - Rigetto.

 

Quanto alla dinamica dell'infortunio, la Corte afferma che la stessa Corte d'Appello ha considerato la testimonianza del Maresciallo A., intervenuto sul posto subito dopo l'incidente, che ha dichiarato che la botola entro cui è precipitata la vittima, era priva di protezione; tale testimonianza, a fronte di altra secondo cui, almeno fino al mattino del giorno dell'incidente, la stessa botola era protetta da due o tre assi, è stata logicamente ritenuta più credibile.

Con riferimento poi alla dedotta "indebita presenza del lavoratore vittima dell'infortunio, sul posto ove questo è avvenuto fuori dell'orario di lavoro, va considerato che tale circostanza sarebbe comunque irrilevante in quanto il datore di lavoro, o comunque il responsabile della sicurezza risponde dell'infortunio del lavoratore anche se avvenuto fuori dell'orario di lavoro, in quanto le norme antinfortunistiche sono poste a tutela di tutti coloro che si trovano a contatto degli ambienti di lavoro, a prescindere dall'orario di servizio".


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE
 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente
Dott. D'ISA Claudio - Consigliere
Dott. MAISANO Giulio - rel. Consigliere
Dott. MARINELLI Felicetta - Consigliere
Dott. MONTAGNA Alfredo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

 

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GERACI Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore Avv. Fardella Sara del Foro di Milano che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
 

 

 

Fatto

 

 


Con sentenza del 29 maggio 2009 la Corte d'Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano del 30 gennaio 2008, per quanto rileva in questa sede, ha ridotto a mesi sei di reclusione la pena inflitta a W.M. per il reato di cui agli artt. 113, 40 e 589 c.p., perchè, in cooperazione con altri imputati assolti in grado di appello, per negligenza, imprudenza ed imperizia nonchè per violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro di seguito indicate, quale datore di lavoro della persona deceduta e titolare della s.r.l. S., corrente in (OMISSIS), cagionava, omettendo di porre in essere adeguate misure di protezione a garanzia della sicurezza e dell'incolumità dei lavoratori, la morte di M.M., cittadino egiziano, clandestinamente presente in Italia, operaio edile per la S. s.r.l.; in particolare, per non aver protetto con parapetto idoneo, ai sensi del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 26 il vano d'ingresso ascensore, come previsto dal D.P.R. n. 165 (ndr 164) del 1956, art. 68, comma 3 e per aver omesso di dare attuazione a quanto previsto dal piano di Sicurezza e Coordinamento e dal Piano Operativo di Sicurezza da lui stesso redatto ovvero per non aver osservato la disposizione di sicurezza, secondo la quale "quando saranno finite le murature, le porte ed ogni apertura saranno protette con idonei parapetti, che saranno realizzati con tavelle fissate sulla muratura, lato corridoi oppure con tubi da ponteggio e vitoni; in conseguenza di ciò, il 20 settembre 2005, il M., mentre era intento ad effettuare lavori di muratura al primo piano dell'edificio sito in (OMISSIS) all'interno del cantiere aperto per la ristrutturazione dell'immobile e gestito in subappalto dalla Ditta medesima, precipitava all'interno del vano dove avrebbe dovuto essere in seguito installato l'ascensore, vano che si trovava sprovvisto di adeguato parapetto, con una caduta di circa sette metri, per fermarsi, infine, sul pavimento del piano interrato sottostante, riportando gravi lesioni personali consistite in politrauma da precipitazione e coma, a seguito delle quali veniva ricoverato in prognosi riservata presso l'Ospedale San Raffaele di (OMISSIS), dove decedeva il (OMISSIS) a causa di un complesso traumatismo contusivo produttivo di lesioni craniche meningee ed encefaliche.

 

La Corte territoriale ha confermato la penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato ascrittogli considerando che, al momento dell'infortunio, la botola del vano ascensore nella quale è precipitata la vittima dell'incidente, era sprovvista di protezione, e solo successivamente è stato apposto un asse ligneo all'altezza di metri 1,05, ricavando tale affermazione dalla testimonianza del maresciallo giunto in cantiere nell'immediatezza del fatto, e dalla deduzione che, se fosse stato presente il suddetto asse ligneo, la caduta non sarebbe stata possibile se non a seguito di un tuffo volontario della parte offesa o di una spinta apposita, ipotesi inverosimili e comunque non confermate da alcun teste.

 

Il W. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza lamentando, con il primo motivo, mancanza e contraddittorietà della motivazione in punto di interruzione del nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento morte. In particolare si deduce che la ricostruzione dell'incidente per cui è processo sarebbe avvenuta sulla base di mere supposizioni senza alcun supporto probatorio. Anzi, le deposizioni testimoniali acquisite avrebbero confermato la presenza di un'adeguata protezione della botola nei giorni precedenti l'infortunio ed anche nella mattinata dello stesso giorno; nè sarebbe stata data alcuna motivazione sulla circostanza per cui tali protezioni sarebbero state rimosse. Inoltre non sarebbe stata considerata la circostanza per cui l'incidente sarebbe avvenuto al di fuori dell'orario di lavoro quando il lavoratore infortunato non doveva trovarsi sul posto dove è avvenuto l'incidente, e la responsabilità del datore di lavoro non potrebbe spingersi fino al controllo dei movimenti di tutti i dipendenti anche al di fuori dell'orario di lavoro.
Con secondo motivo si lamenta mancanza di motivazione in punto di mancato riconoscimento del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle contestate aggravanti che sarebbe giustificato dallo stato di incensuratezza dell'imputato e dal suo comportamento processuale.

 


Diritto
 

 

Il ricorso non è fondato e va conseguentemente rigettato.


La Corte territoriale, in presenza di elementi istruttori contrastanti, e nell'impossibilità di una ricostruzione certa della dinamica dell'incidente per cui è processo, ha esaurientemente e logicamente valutato dette risultanze pervenendo ad una ricostruzione logica dell'incidente dando fede alle risultanza logicamente più credibili. In particolare la stessa Corte d'Appello ha considerato la testimonianza del Maresciallo A., intervenuto sul posto subito dopo l'incidente, e che ha dichiarato che la botola entro cui è precipitata la vittima, era priva di protezione; tale testimonianza, a fronte di altra secondo cui, almeno fino al mattino del giorno dell'incidente, la stessa botola era protetta da due o tre assi, è stata logicamente ritenuta più credibile anche sulla base della presumibile dinamica dell'incidente, considerando che, nel caso di una pur parziale protezione, la caduta sarebbe stata necessariamente volontaria o procurata dolosamente, ipotesi queste non ipotizzabili. La valutazione delle prove non è censurabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivata, come pure le considerazioni svolte per la ricostruzione dell'incidente sulla base di esse. In questa sede, una volta verificata e riconosciuta la logicità e coerenza della motivazione, non è possibile una rivisitazione degli elementi istruttori nè una loro diversa valutazione riservata, questa, al giudice di merito. Con riferimento alla dedotta indebita presenza del lavoratore vittima dell'infortunio, sul posto ove questo è avvenuto fuori dell'orario di lavoro, va considerato che tale circostanza sarebbe comunque irrilevante in quanto il datore di lavoro, o comunque il responsabile della sicurezza risponde dell'infortunio del lavoratore anche se avvenuto fuori dell'orario di lavoro, in quanto le norme antinfortunistiche sono poste a tutela di tutti coloro che si trovano a contatto degli ambienti di lavoro, a prescindere dall'orario di servizio (Cass. 24 febbraio 2005 n. 20559).

Riguardo al secondo motivo di ricorso va considerato che il giudizio di prevalenza delle attenuanti costituisce giudizio di fatto riservato pure al giudice di merito. Nel caso in questione, la Corte d'Appello ha condiviso pienamente il giudizio operato in merito dal giudice di primo grado, osservando che non vi erano motivi intervenuti per mutarlo. Il giudizio di fatto operato da tale giudice di primo grado e fatto proprio dalla Corte d'Appello con la sentenza impugnata, è immune da censure riguardando solo una valutazione di merito non censurabile in questa sede di legittimità.



Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

P.Q.M.
 

 

La Corte Suprema di Cassazione, quarta sezione penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.