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Cassazione Penale, Sez. 4, 09 giugno 2011, n. 23307 - Scala a mano non efficacemente fissata


 

 

 

 

 

Responsabilità di un datore di lavoro per infortunio ad un proprio dipendente: si era addebitata all'imputato la violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 164 del 1956, articolo 8 per avere permesso al lavoratore dipendente infortunatosi di utilizzare una scala non efficacemente fissata.


Condannato in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Rigetto.




In via preliminare, il Collegio osserva che l'addebito contestato al datore di lavoro non è l'omessa informazione del lavoratore ma l'omessa adozione delle misure di sicurezza previste per l'utilizzo delle scale a mano ex
Decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, articolo 8, che richiama il Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, articolo 18 per le caratteristiche di sicurezza. In particolare, la normativa di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, articolo 18 e Decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, articolo 8 richiede per la tutela della incolumità dei lavoratori, che le scale a mano siano sempre "sistemate e vincolate" al fine di evitare "sbandamenti, slittamenti, rovesciamenti, oscillazioni od inflessioni accentuate", quale che sia l'altezza alla quale il lavoro deve essere eseguito.

La responsabilità dell'imputato, nella qualità di datore di lavoro, è stata dunque correttamente ricondotta dai giudici di merito all'omessa adozione delle misure di sicurezza previste per l'utilizzo delle scale a mano.


 

 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCO Carlo G. Presidente del 29/04/2 -

Dott. ROMIS Vincenzo Consigliere SENTE -

Dott. MAISANO Giulio Consigliere N. -

Dott. VITELLI CASELLA Luca Consigliere REGISTRO GENER -

Dott. PICCIALLI Patrizia rel. Consigliere N. 42648/2 -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

 



sul ricorso proposto da:

1) CR. FR. , N. IL (Omissis);

avverso la sentenza n. 2103/2009 CORTE APPELLO di MILANO, del 24/02/2010;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/04/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Fodaroni Giuseppina, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito il difensore avv. Gaio Giulio, del foro di Roma, in sostituzione dell'avv. Gherri, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

 

 


FattoDiritto

 



CR. Fr. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, indicata in epigrafe, che ha confermato quella di primo grado con la quale il medesimo è stato ritenuto colpevole del reato di lesioni personali colpose aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica (articolo 590 c.p., commi 1, 2 e 3), in danno di G. R. , un lavoratore della ditta di cui l'imputato era titolare.

Si era addebitato al medesimo la violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 164 del 1956, articolo 8 per avere permesso al lavoratore dipendente infortunatosi di utilizzare una scala non efficacemente fissata.

Il ricorrente articola tre motivi, strettamente connessi, con i quali contesta il giudizio di responsabilità, cosi' sintetizzati, ex articolo 173 disp. att. c.p.p., nei termini che seguono.

Con il primo motivo lamenta la manifesta illogicità della sentenza sotto il profilo del travisamento delle prove afferenti la ricostruzione dell'incidente. Sul punto si duole della illogicità del giudizio di attendibilità della prima versione del fatto fornita dalla parte lesa e dall'unico testimone, suo cugino. Tale valutazione partirebbe dall'inesatto presupposto che nella immediatezza del fatto i due cugini avrebbero narrato la stessa dinamica del fatto, secondo la quale il G. era caduto dalla scala, priva dei presidi antinfortunistici. La dinamica dell'incidente era stata invece ricostruita alla luce delle sole dichiarazioni rilasciate dall'unico testimone ai funzionari dell'ASL ed ai carabinieri intervenuti sul posto. Si sostiene il travisamento anche delle dichiarazioni rilasciate dall'altro operaio, dipendente della medesima ditta, accorso subito dopo l'incidente, il quale aveva affermato di aver visto il "muletto" spento e tale circostanza era stata illogicamente valutata decisiva ai fini dell'attendibilità della versione della "scala" rispetto a quella del "muletto".

Analoga censura viene svolta con il secondo motivo, invocando il travisamento della prova in merito all'asserito inadempimento del Cr. all'obbligo di informazione. Tale conclusione sarebbe in contrasto con le dichiarazioni rilasciate in dibattimento dal teste, che aveva assistito all'incidente, delle quali viene prodotta copia.

Con il terzo motivo si duole dell'erronea applicazione degli articoli 40, 41 e 43 c.p., sostenendo che la Corte di merito aveva imputato l'evento al Cr. sulla base della astratta posizione di garanzia dallo stesso ricoperta, senza tener conto delle peculiari caratteristiche del caso concreto. In particolare non si era tenuto conto che il lavoro assegnato ai due dipendenti era molto semplice (utilizzo di una scala per visionare il tetto) e che il datore di lavoro aveva fatto affidamento sul comportamento diligente dei propri lavoratori, anch'essi titolari di un obbligo di sicurezza nei confronti degli altri lavoratori. Il riferimento è in particolare alla valutazione compiuta dai giudici in merito alla irrilevanza del comportamento imprudente del danneggiato e del cugino, il quale, pur essendo presente sul luogo, non aveva trattenuto la scala.

 



Il ricorso è infondato, riproponendo le stesse doglianze già proposte in appello, ma senza tenere conto che, su ogni punto, si è già espresso quel giudice, articolando, in fatto, le ragioni che conducevano all'inaccoglibilità delle doglianze stesse.

Con riferimento al primo motivo, è infatti, sufficiente osservare che il ricorrente propone, anche in questa sede, una diversa versione del fatto a fronte di una ricostruzione "in fatto" della vicenda che non merita di essere rivalutata in questa sede, per i noti limiti del giudizio di legittimità.

Va ricordato, in premessa, che l'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), come modificato dalla Legge 20 febbraio 2006, n. 46, stabilisce che il ricorso per cassazione può essere proposto per "mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione", quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri "atti del processo" specificamente indicati nei motivi di gravame".

Anche alla luce del nuovo testo dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), non è però tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

La previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal "testo" del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Infatti, allorchè si deduca il vizio di motivazione risultante dagli "atti del processo", non è sufficiente che detti atti siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice. Occorre, invece, che gli "atti del processo" su cui fa leva il ricorrente per sostenere la sussistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Pertanto, il giudice di legittimità è chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica ed internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernente "atti del processo". Tale controllo è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice.

Mentre resta precluso al giudice di legittimità, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: operazioni, queste, che trasformerebbero la corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto (v., Sezione 1, 10 luglio 2007, Brusca ed altri).

Alla luce di tali principi è evidente la infondatezza delle doglianze che propongono un travisamento delle prove a fronte di un apprezzamento del materiale probatorio convenientemente sviluppato con motivazione affatto illogica o insufficiente da parte del giudice di merito.

La Corte di appello ha tenuto conto degli elementi acquisiti e ha affermato che la dinamica dell'infortunio dovesse essere ricostruita nei termini indicati dal giudice di primo grado. I giudici di merito, con motivazione logica e coerente, hanno escluso che l'infortunio abbia avuto origine dalla iniziativa del lavoratore di scendere dal tetto servendosi di un bancale posto su di un muletto, che si sarebbe ribaltato, facendo precipitare il G. da un'altezza di quattro-cinque metri.

Siffatte conclusioni sono state fondate, oltre che sulle dichiarazioni rese nella immediatezza del fatto dalla parte lesa e dall'altro lavoratore, cugino del primo, che aveva assistito all'incidente, valorizzando altresi' le testimonianze rese dai carabinieri intervenuti sul posto immediatamente dopo l'incidente e dai funzionari dell'Asl, chiamati dagli operanti, i quali hanno concordemente dichiarato di aver notato una scala per terra, di non aver visto i presidi di sicurezza e di non ricordare di aver visto un muletto.

Il ricorrente ripropone anche in questa sede una ricostruzione del fatto non risultante dal testo della sentenza e come tale preclusa alla cognizione del giudice di legittimità, risolvendosi in una censura sulla valutazione delle emergenze fattuali della vicenda come ricostruite dal giudice di merito, pur in presenza di una motivazione logicamente argomentata.

Analoghe considerazioni valgono in merito alla doglianza di cui al secondo motivo di ricorso, concernente l'addebito formulato nei confronti del Cr. , laddove si sostiene la non configurabilità della violazione dell'obbligo di informazione in tema di sicurezza delle scale, giacchè l'unico teste presente all'incidente aveva dichiarato nel corso del dibattimento, dopo la ritrattazione della prima versione, che il datore di lavoro lo aveva informato delle misure di sicurezza da adottare.

In via preliminare, si osserva che l'addebito contestato al Cr. non è l'omessa informazione del lavoratore, bensi' l'omessa adozione delle misure di sicurezza previste per l'utilizzo delle scale a mano ex Decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, articolo 8, che richiama il Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, articolo 18 per le caratteristiche di sicurezza. In particolare, la normativa di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, articolo 18 e Decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, articolo 8 richiede per la tutela della incolumità dei lavoratori, che le scale a mano siano sempre "sistemate e vincolate" al fine di evitare "sbandamenti, slittamenti, rovesciamenti, oscillazioni od inflessioni accentuate", quale che sia l'altezza alla quale il lavoro deve essere eseguito.

La ricostruzione dell'addebito operata in sede di merito attraverso l'analitico riferimento allo stato dei luoghi nella immediatezza dell'incidente (caratterizzato dall'assenza dei presidi di sicurezza previsti per l'utilizzo delle scale) non puo', pertanto, qui essere rivalutata, solo sulla base del dissenso in proposito articolato nel ricorso, per le ragioni di principio evidenziate in premessa, tenuto altresi' conto che l'attendibilità del teste, indicato peraltro dalla difesa a sostegno di un preteso adempimento di obbligo informativo da parte del datore di lavoro, è stata certamente compromessa dalla dubbia ritrattazione operata nel corso del procedimento.

Anche il terzo motivo è manifestamente infondato.

La responsabilità dell'imputato,nella qualità di datore di lavoro, è stata correttamente ricondotta dai giudici di merito all'omessa adozione delle misure di sicurezza previste per l'utilizzo delle scale a mano.

Questa conclusione, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, è coerente con il ruolo del datore di lavoro e con le responsabilità che da questo al medesimo derivano.

La decisione è in linea, in punto di diritto, con la giurisprudenza costante di questa Corte secondo la quale è principio non controverso quello secondo cui il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, piu' generalmente, al disposto dell'articolo 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 c.p., comma 2, (di recente, tra le tante, Sezione 4, 8 luglio 2009, Fontanella).

Manifestamente infondata è anche l'altro profilo di censura contenuto nel terzo motivo articolato sulla pretesa abnormità del comportamento del lavoratore o di terzi.

L'eventuale imprudenza del medesimo non autorizza a farne discendere la pretesa interruzione del nesso di causalità, sia perchè in ogni caso non si è trattato di una imprudenza assolutamente inconferente rispetto alle mansioni svolte, sia perchè comunque alla base dell'infortunio vi è stata pur sempre la colpa dell'imputato afferente l'omessa adozione dei presidi di sicurezza previsti per le scale a mano, come ricostruita in fatto.

Vale il principio in forza del quale, poichè le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione puo' essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Peraltro, in ogni caso, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, puo' essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.

Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell'articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

P.Q.M.

 



Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.