Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 20 settembre 2011, n. 34365 - Rischi connessi all'uso di esplosivi, POS e mancanza di informazione, formazione ed istruzione 


 

Responsabilità del legale rappresentante di una srl, quindi datore di lavoro, del responsabile dei lavori e quindi dirigente e del direttore tecnico anch'egli dirigente per la morte di un dipendente (D.V.G.).

L'infortunio di cui è causa è avvenuto in un cantiere della srl che doveva realizzare una galleria; per procedere nello scavo si era reso necessario operare con l'esplosivo e la mattina di quel giorno, verso le ore 6, il fuochino D.V.G. provvedeva ad inserire i candelotti di esplosivo nei fori che erano stati realizzati la sera prima; seguivano le varie operazioni di routine e giunti alla fase del c.d. "disgaggio", essendovi un punto dove vi era una sporgenza da rimuovere, lo stesso D.V. indicava al collega I. di procedere con il "martellone", operazione che cagionava lo scoppio di una carica inesplosa e la morte immediata dello stesso D.V..

 

Condannati, ricorrono in Cassazione - Rigetto.

 

La Corte afferma, quanto alla tesi della responsabilità esclusiva della vittima, che può osservarsi che egli, "a prescindere dalla competenza professionale della quale doveva essere in possesso per il tipo di attività da svolgere, era comunque un lavoratore subordinato alle dipendenze della ditta P. da solo una settimana, e che nessuna informazione o istruzione gli era stata data sullo stato dei luoghi ed il lavoro da svolgere, neppure provvedendo i responsabili della P. a ribadire la necessità che le operazioni di caricamento delle mine fossero compiute solo dal fochino e dunque dal medesimo D.V. (che invece si fece coadiuvare dai compagni) e a prevedere le opportune cautele per assicurare che non si verificassero inconvenienti del tipo di quello verificatosi, come il caricamento a canne (usato dopo l'incidente) o il semplice borraggio; questo carente comportamento degli imputati ne fonda la colpa ed esclude che possa eccepirsi l'interruzione del nesso di causalità per effetto del comportamento del lavoratore, dovendosi ribadire (sez. 4 23.3.2007 n. 21587 rv. 236721) che in materia di infortuni sul lavoro, la condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute, direttive di organizzazione nella specie, come si è detto, del tutto mancanti."

Oltre a non aver fornito istruzioni scritte ai propri dipendenti, ai tre imputati è stata addebitata anche la totale mancanza di specifiche previsioni sui rischi connessi all'uso degli esplosivi nel piano operativo di sicurezza (POS); "risulta infatti dalla integrativa sentenza di primo grado che nel POS originario, che si specifica essere stato predisposto da P.F. e sottoscritto dal datore di lavoro P.G., i pericoli connessi all'utilizzo degli esplosivi non erano nemmeno stati menzionati e che nel POS integrativo, redatto il 9.9.2002, poco prima dell'incidente, pur prevedendosi l'utilizzo di esplosivi, ci si limitava a generiche disposizioni che stabilivano che ai lavoratori addetti alla manipolazione ed uso degli esplosivi sarebbero state fornite istruzioni e, quanto alla specifica fase del disgaggio, che sarebbero stati informati sui rischi specifici della lavorazione e formati sul corretto modo di procedere. In realtà è avvenuto che nessuna precisa istruzione è stata data, nessuna procedura è stata individuata e seguita, tanto che lo stesso D.V. eseguiva a memoria lo schema di volata che nemmeno prevedeva quanti candelotti di dinamite si dovessero inserire in ogni foro e tanto meno cautele per assicurare la propagazione dell'esplosivo; ed è stato accertato che alla procedura di caricamento collaboravano altri lavoratori, nonostante il divieto previsto dall'art. 27 del predetto D.P.R. che la impresa P. non faceva rispettare."


 

 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Presidente
Dott. ZECCA Gaetanino - Consigliere
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere
Dott. BIANCHI Luisa - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:

sentenza



sul ricorso proposto da:
1) P.G. N. IL ***;
2) C.A. N. IL ***;
3) P.F. N. IL ***;
avverso la sentenza n. 610/2008 CORTE APPELLO di TRIESTE, del 01/07/2009;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/07/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUISA BIANCHI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Cons. GERACI Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore Avv. Innamorati Giuseppe del foro di Perugia.

 

 

Fatto

 


1. P.G., nella qualità di legale rappresentante della P. Costruzioni s.r.l., e quindi di datore di lavoro, P.F. nella qualità di responsabile dei lavori e quindi di dirigente, C.A. in quella di direttore tecnico e anch'esso quale dirigente, sono stati ritenuti responsabili del delitto di cui all'art. 589 c.p., comma 1 e 2, in relazione alla morte del dipendente D.V.G.; sono stati prosciolti da quello di cui all'art. 590 per le lesioni riportate da altri due dipendenti, J.G. e P.F., per mancanza di querela; per l'effetto sono stati condannati, con le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni 1 di reclusione ciascuno, estinta per effetto di indulto; sono stati altresì condannati in solido tra loro alla rifusione delle spese processuali e al risarcimento dei danni morali e materiali cagionati alle parti civili cui è stata riconosciuta una provvisionale.


L'infortunio di cui è causa è avvenuto in ***, il *** in un cantiere della ditta P. che doveva realizzare una galleria; per procedere nello scavo si era reso necessario operare con l'esplosivo e la mattina di quel giorno, verso le ore 6, il fuochino D.V.G. provvedeva ad inserire i candelotti di esplosivo nei fori che erano stati realizzati la sera prima; seguivano le varie operazioni di routine e giunti alla fase del c.d. "disgaggio", essendovi un punto dove vi era una sporgenza da rimuovere, lo stesso D.V. indicava al collega I. di procedere con il "martellone", operazione che cagionava lo scoppio di una carica inesplosa e la morte immediata dello stesso D.V..


I tre imputati sono stati ritenuti responsabili, nelle rispettive qualità, per difetto di informazione e formazione, essendosi accertata la violazione del D.P.R. n. 302 del 1956, art. 21 per non aver impartito ai propri dipendenti istruzioni scritte circa le modalità di impiego dell'esplosivo ed in particolare circa il caricamento delle mine; il POS, neppure quello integrativo, non conteneva prescrizioni al riguardo e gli imputati non avevano preteso dai propri dipendenti che l'operazione di carico delle mine venisse eseguita, così come avrebbe dovuto essere, dal solo fochino D.V.; consentirono che vi collaborassero altri operai, secondo una prassi abituale, come riferito dai dipendenti e confermato dalla rapidità in cui avvenne l'operazione, 1 ora a fronte del tempo di 2 ore necessario per procedervi ove effettuata regolarmente; nessuna istruzione era stata impartita al fochino, tra l'altro assunto solo da una settimana, sul tipo, caratteristiche, quantità di esplosivo da inserire in ciascuno foro, sulle modalità di inserimento per garantire il contatto tra le cartucce (solo dopo l'incidente si fece riferimento al cd. sistema della canne che prevedeva l'inserimento dei candelotti all'interno di un tubo di plastica per assicurare il buon contatto tra gli stessi) essendosi altresì accertato che l'incidente si verificò proprio a causa dell'erronea operazione di caricamento delle cariche; era rimasta infatti inesplosa la quinta cartuccia inserita nel foro n. 14, l'ultimo dello schema di volata seguito quel giorno, a causa del mancato contatto con le altre; sulla mancata propagazione "per simpatia" della carica detonante erano state formulate 5 ipotesi dal consulente del pm, tutte riconducibili ad una non corretta esecuzione dell'operazione o all'assenza di presidi che garantissero da quel rischio; non era stato effettuato il cd. borraggio (cioè l'apposizione di un tappo di materiale inerte a chiusura del foro di mina) operazione che, come aveva riconosciuto anche il consulente di parte, era prevista dal D.P.R. n. 128 del 1959, art. 340 e avrebbe consentito di accorgersi della presenza della cartuccia all'imbocco del foro e di correggere il suo caricamento oppure estrarla. La mancata esplosione di una carica non poteva ritenersi un fatto fisiologico in quanto tutti i testi avevano smentito tale tesi affermando che da quando si usava la gelatina tale inconveniente non si era più presentato.


2. Avverso la sentenza della Corte di Trieste hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati per il tramite del comune difensore. Con un primo motivo deducono violazione di legge per essere il giudice pervenuto alla ricostruzione del fatto sulla base di uno "pseudo esperimento giudiziale" effettuato dal consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, atto da ritenersi inutilizzabile ovvero nullo; nullità derivante dalla acquisizione dell'atto stesso ex art. 501 cod. proc. pen., tempestivamente eccepita con i motivi di appello. I cui contenuti, si eccepisce col secondo motivo, sarebbero in ogni caso stati sopravalutati senza tenere conto che tale consulente, come dallo stesso ammesso, non era specificamente competente in materia di uso di esplosivi nell'esercizio di attività mineraria. Pertanto le conclusioni alle quali -sulla base di tale consulenza - sono pervenuti sia il giudice di primo grado che quello di appello, e cioè che le modalità di caricamento della volata non erano state corrette perché avvenute, in tempi troppo brevi, non possono considerarsi soddisfacenti e attendibili; tanto più che le stesse sono generiche in quanto nulla affermano sul fatto che tale ipotizzata negligenza nel caricamento abbia proprio interessato il foro in cui si trovava la carica inesplosa. Col terzo motivo ci si duole dell'erroneo accertamento del nesso di causalità, che - ricordano i ricorrenti - deve essere apprezzato secondo il principio della "probabilità logica" di cui alla nota sentenza Francese; nel caso in esame non si è voluto tenere conto che, secondo tutti i testi assunti, la mancata esplosione delle cariche e/o di parti di esse costituisce un fatto fisiologico all'attività di coltivazione mineraria mediante esplosivo; si tratta di un evento connaturale all'attività di miniera, che non poteva essere addebitato alla correttezza o meno delle procedure di sicurezza imposte dall'impresa;
si sostiene che la situazione emersa dall'istruttoria svolta configurava la responsabilità esclusiva dello stesso lavoratore infortunato che, chiamato presso la bugna che impediva la collocazione di una centina, non la riconosceva come segnale di una carica inesplosa nella sede ove egli stesso aveva effettuato il caricamento e ordinava all'operatore di agire col "martellone", così causando l'esplosione; peraltro anche ammesso che si potesse ritenere una negligenza degli operatori nella fase del caricamento (secondo quanto suggerito dal consulente del pm con il già contestato "para- esperimento"), non vi era prova alcuna che tale incuria avesse interessato proprio quel foro della carica poi inesplosa. Con il quarto motivo si lamenta l'erronea determinazione e il difetto di motivazione sulla individuazione delle posizioni personali degli imputati. Al riguardo si richiama la circostanza che l'art. 21, sulla cui base gli imputati sono stati condannati, prevede un obbligo del datore di lavoro. La responsabilità di P.F. e C.A., è stata collegata a pretese qualifiche "dirigenziali" agli stessi genericamente attribuite, prive di specificazione circa l'effettivo ruolo svolto, le mansioni attribuite e l'esistenza (o meno) di nesso causale tra le qualifiche degli imputati e l'evento.


Quanto a P.G. la difesa sottolinea come sia risultato che l'impresa di cui egli era legale rappresentante si trovava in situazione di regolarità ai fini della sicurezza nell'ambiente di lavoro, come emerso dalla deposizione del tecnico della ASL D.B.F. che non aveva ritenuto neppure di contestare l'omesso inserimento nel POS di istruzioni circa l'uso e il manipolamento di esplosivi, ritenendo sufficienti le istruzioni dettate con specifico piano integrativo del 9.9.2002 redatto quando la società si determinò ad utilizzare l'esplosivo quale tecnica di avanzamento; tale piano doveva essere considerato equipollente alle istruzioni scritte previste dal D.P.R. n. 302 del 1956, art. 21 e non si era spiegata la rilevanza in punto causalità della omissione di tali istruzioni; sul posto era presente tale B.A., cui era attribuito il controllo delle attività da svolgersi in galleria, che avrebbe dovuto considerarsi vero responsabile dell'evento, unitamente allo stesso fochino.

I ricorrenti si dolgono della erronea liquidazione del danno alle parti civili ed in particolare a F.C., ritenuta convivente del D.V. nonostante che la medesima avesse ammesso che, pur essendo da tempo fidanzati, il loro rapporto non si era mai concretato in una vera condizione di convivenza giacché il D.V. abitava in Lombardia e stava con la fidanzata solo al fine settimana. Mancava dunque la prova della convivenza, prova che deve essere rigorosa per evitare odiose mistificazioni.
Si lamenta ancora la eccessività della pena irrogata. Non è giustificato il giudizio dato dalla Corte di appello circa l'alto grado della colpa in quanto non si è considerato che era stata dimostrata l'attività di formazione svolta a favore di tutte le maestranze presenti nel cantiere e che le specifiche prescrizioni relative agli esplosivi contenute nel piano integrativo erano equivalenti alle disposizioni scritte previste dalla vecchia, contestata normativa. Non è stato in nessun modo considerato il comportamento della persona offesa, sicuramente colpevole nella fase di caricamento della volata o in quella di controllo delle cariche inesplose, comportamento che avrebbe dovuto essere tenuto presente almeno come colpa concorrente per la concessione delle attenuanti generiche in regime di prevalenza e per adeguare la pena al disvalore del fatto.
Con successiva memoria viene ulteriormente sviluppato il motivo attinente alla esclusiva responsabilità della vittima con riferimento alla sentenza 7267 del 2010 di questa stessa sezione con la quale si è affermato che possono assumere rilevanza in relazione all'art. 41 c.p., comma 2 condotte gravemente colpose o abnormi del lavoratore anche se realizzate nell'ambito delle mansioni attribuite;
con questa sentenza si è voluto ribadire - rilevano i ricorrenti - che l'imputazione del reato non può basarsi solo sull'elemento oggettivo del nesso di causalità, e che nell'accertamento della colpa del datore di lavoro non si può automaticamente considerare la realizzazione di una condotta colposa del lavoratore come indice di colpa del datore di lavoro sotto il profilo della omessa o carente vigilanza nella specie, qualunque possa essere stata la condotta colposa del fuochino (erronea carica di un foro da mina come ritenuto dai giudici; omesso rilievo della carica inesplosa come sostenuto dalla difesa), si configura una assorbente condotta colposa della vittima, lavoratore altamente specializzato la cui attività non è evidentemente sempre "vigilabile" da parte del datore di lavoro, e che ha posto in essere un comportamento pur astrattamente prevedibile, ma oggettivamente incontrollabile.

Si lamenta poi la mancata applicazione del art. 18, comma 3 bis del Testo Unico n. 81 del 2008 come modificato dal D.Lgs. n. 106 del 2009. All'art. 18, dopo il comma 3 è aggiunto il seguente: "comma 3-bis. Il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all'adempimento degli obblighi di cui agli artt. 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti.". A norma del D.P.R. n. 302 del 1956, art. 27 il confezionamento ed innesco delle cariche, il caricamento dei fori da mina e l'eliminazione di cariche esplosive sono eseguibili esclusivamente da persona munita della licenza di fuochino; se la carica della mina è avvenuta secondo modalità non corrette, ciò è imputabile al D.V.. Lo stesso D.P.R. prevede anche la situazione della "mina mancata o inesplosa" situazione dunque da ritenersi prevedibile e normale; le procedure da seguire in tale caso sono stabilite dall' art. 38 che fa carico al "capo squadra minatore", B.A.I., coadiuvato dal fuochino, di rilevare e segnalare la mina inesplosa. Non si può dunque ritenere il datore di lavoro responsabile di tale comportamento, nemmeno per omessa vigilanza, che peraltro nemmeno è stata contestata.

 

 

Diritto

 


1. I ricorsi non meritano accoglimento risultando correttamente acclarata la responsabilità degli imputati sulla base di fatti accertati a seguito di prove ritualmente assunte e valutati secondo consolidati principi giuridici, prove e principi che per di più vengono contestati in questa sede con argomentazioni che riproducono pedissequamente, in larga parte, i motivi di appello. Sotto il primo profilo i ricorrenti lamentano che sia stato accertato che le operazioni di caricamento dei fori da mina erano avvenute in tempi più brevi di quelli che sarebbero stati necessari ove tali operazioni avessero avuto luogo in modo corretto ( cioè a tanto procedendo il solo fuochino) sulla base dell'irrituale accertamento effettuato dal consulente del pubblico ministero. Sostengono che pur non essendosi trattato di un vero e proprio esperimento giudiziale, in quanto non avvenuto per incarico del pubblico ministero ma su iniziativa autonoma dello stesso consulente, lo stesso giudice di primo grado vi si è riferito come ad "un vero e proprio esperimento" e che di esso irritualmente è stata disposta l'acquisizione al dibattimento, con conseguente nullità per violazione dell'art. 501 cod. proc. pen. puntualmente eccepita con l'appello.

Al riguardo è sufficiente osservare che, come già la sentenza di appello ha chiarito, a prescindere dalla espressione usata dal primo giudice (che certamente non vale a conferire ad un atto una natura che lo stesso non ha), non si è trattato affatto di un esperimento tecnico ma di una attività liberamente e lecitamente svolta dal consulente del p.m., che nello svolgimento dell'incarico ricevuto può compiere le operazioni e gli accertamenti necessari ai fini di rispondere ai quesiti posti, i cui risultati sono confluiti nella consulenza tecnica e dei quali è stato ampiamente riferito durante l'esame dibattimentale, con pieno contradditorio al riguardo e dunque legittimamente entrata a far parte del materiale processuale alla stregua del pacifico valore testimoniale delle dichiarazioni rese dai consulenti tecnici di parte. Può ulteriormente rilevarsi che ove anche volesse prendersi in considerazione l'ipotesi di una nullità nel momento della disposta acquisizione agli atti, essa dovrebbe comunque ritenersi sanata per non essere stata tempestivamente formulata alcuna obiezione al riguardo da parte della difesa dell'imputato presente al compimento dell'atto (art. 182 c.p.p., comma 2). Quanto al contenuto di tale consulenza censurata sotto il profilo di una scarsa competenza del cap. V., la Corte di appello ha già rilevato come non vi fosse ragione di dubitare della competenza professionale del consulente soltanto perché costui aveva una specifica specializzazione in ordigni bellici, avendo il medesimo ampiamente documentato le proprie valutazioni secondo argomentazioni largamente corrispondenti a quelle del consulente dell'imputato e dallo stesso almeno in parte condivise, oltre che condivise dal geologo K., la cui competenza professionale non era stata posta in dubbio dalla difesa, e che aveva parlato di "tempi estremamente contratti" nelle esecuzioni delle operazioni.
Con il terzo motivo ci si duole dell'accertamento del nesso di causalità, riproponendo da un lato la tesi secondo cui la possibilità di cariche o parti di esse inesplose doveva ritenersi un fattore fisiologico nell'attività di miniera e, dall'altro quella della responsabilità esclusiva del D.V. per non aver riconosciuto la presenza di una carica inesplosa che egli stesso aveva collocato.

Ora. la prima affermazione è smentita dalla risposta già fornita dal giudice di appello ad analogo motivo in quella sede prospettato, avendo puntualizzato la Corte che una tale possibilità era stata esclusa da tutti i consulenti trattandosi di inconveniente che era collegato all'uso di un esplosivo diverso dalla gelatina, cessato da quando si era fatto ricorso a tale materiale.
Quanto alla tesi della responsabilità esclusiva del D.V., può osservarsi che egli, a prescindere dalla competenza professionale della quale doveva essere in possesso per il tipo di attività da svolgere, era comunque un lavoratore subordinato alle dipendenze della ditta P. da solo una settimana, e che nessuna informazione o istruzione gli era stata data sullo stato dei luoghi ed il lavoro da svolgere, neppure provvedendo i responsabili della P. a ribadire la necessità che le operazioni di caricamento delle mine fossero compiute solo dal fochino e dunque dal medesimo D.V. (che invece si fece coadiuvare dai compagni) e a prevedere le opportune cautele per assicurare che non si verificassero inconvenienti del tipo di quello verificatosi, come il caricamento a canne (usato dopo l'incidente) o il semplice borraggio; questo carente comportamento degli imputati ne fonda la colpa ed esclude che possa eccepirsi l'interruzione del nesso di causalità per effetto del comportamento del lavoratore, dovendosi ribadire (sez. 4 23.3.2007 n. 21587 rv. 236721) che in materia di infortuni sul lavoro, la condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute, direttive di organizzazione nella specie, come si è detto, del tutto mancanti.


Né a diverso avviso conduce la sentenza 7267 del 2010 di questa Corte invocata dai ricorrenti, che, nel ribadire il principio di cui sopra, ha escluso la prevedibilità dell'evento in un caso del tutto diverso rispetto a quello in esame, essendo stato accertato che il datore di lavoro aveva predisposto il mezzo idoneo a svolgere il lavoro (un apposito sollevatore) e che era stato il lavoratore a decidere di utilizzare un mezzo improprio (un muletto) essendo momentaneamente utilizzato da altri l'apposito sollevatore.
Situazione in cui in sostanza mancava proprio, a ben vedere, un comportamento colposo del datore di lavoro, che aveva fatto tutto il possibile per assicurare la sicura effettuazione dell'operazione di sollevamento; situazione dunque assai diversa da quella in esame, in cui è stata accertata una colpa del datore di lavoro e dei dirigenti per la mancanza di istruzioni e regole sulle procedure da seguire che si è rivelata essere in diretta connessione causale con l'evento verificatosi.

Quanto alla posizione dei tre imputati, agli stessi è stato contestata sia la colpa generica sia quella, specifica, di non aver fornito istruzioni scritte ai propri dipendenti così come prescritto dal D.P.R. n. 302 del 1956, art. 21 e l'addebito ha trovato concreto riscontro nelle testimonianze rese dai dipendenti e nella mancanza di specifiche previsioni al riguardo nel piano operativo di sicurezza (POS) della P.; risulta infatti dalla integrativa sentenza di primo grado che nel POS originario, che si specifica essere stato predisposto da P.F. e sottoscritto dal datore di lavoro P.G., i pericoli connessi all'utilizzo degli esplosivi non erano nemmeno stati menzionati e che nel POS integrativo, redatto il 9.9.2002, poco prima dell'incidente, pur prevedendosi l'utilizzo di esplosivi, ci si limitava a generiche disposizioni che stabilivano che ai lavoratori addetti alla manipolazione ed uso degli esplosivi sarebbero state fornite istruzioni e, quanto alla specifica fase del disgaggio, che sarebbero stati informati sui rischi specifici della lavorazione e formati sul corretto modo di procedere. In realtà è avvenuto che nessuna precisa istruzione è stata data, nessuna procedura è stata individuata e seguita, tanto che lo stesso D.V. eseguiva a memoria lo schema di volata che nemmeno prevedeva quanti candelotti di dinamite si dovessero inserire in ogni foro e tanto meno cautele per assicurare la propagazione dell'esplosivo; ed è stato accertato che alla procedura di caricamento collaboravano altri lavoratori, nonostante il divieto previsto dall'art. 27 del predetto D.P.R. che la impresa P. non faceva rispettare.

Di tale situazione correttamente sono stati ritenuti responsabili i tre imputati, P.G. quale legale rappresentante e dunque datore di lavoro; P.F. che, a prescindere dalla sottoscrizione, nel POS originario è indicato quale direttore tecnico dell'azienda e che, secondo la sentenza di primo grado, lo aveva predisposto mentre era stato firmato da P.G.; e che si era comunque impegnato con l'appaltatrice I. alla formazione e informazione dei proprio personale e figurava quale datore di lavoro in documenti attinenti alla formazione; C.A. per avere predisposto e sottoscritto il POS integrativo, come si è visto del tutto generico, con un'assunzione di responsabilità che gli deriva dalla specifica funzione di collaborazione svolta (v. sez. 4 sentenza n 18472 del 4.3.2008).

Da ultimo, anche con riferimento alla misura della pena la Corte di appello si è già fatta carico, con adeguata e congrua motivazione, della valutazione dell' eventuale concorso di colpa della vittima, ritenendo che, anche a volerlo ammettere, non poteva portare ad una diversa quantificazione della stessa ed in particolare alla valutazione di prevalenza delle attenuanti generiche, attesa la rilevante colpa degli imputati nell'aver omesso ogni informazione e formazione.

Come pure ha già chiarito i termini della legittimazione della parte civile richiamando le circostanze della relazione tra la vittima e la F., iniziata quando la giovane aveva 15 anni, con una convivenza tra i due durata 16 anni e mezzo, con periodi di piena coabitazione ed altri in cui il D.V. la raggiungeva nel fine settimana nella casa comune di Gemona perché occupato a lavorare in Lombardia durante la settimana.


Circostanze sulla cui base può ritenersi accertata la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra la donna e la vittima con quella comunanza di vita e di affetti e vicendevole assistenza materiale e morale che rendono la convivenza assimilabile al rapporto coniugale.
 

2. In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.



P.Q.M.

 

 

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.