Tribunale di Milano, Sez. Lav., 08 settembre 2011 - Licenziamento illegittimo, mobbing, risarcimento danni


 

 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MILANO

SEZIONE LAVORO


Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Benedetta Pattumelli ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 


nella causa di primo Grado iscritta al n. r.g. 430/2011 promossa da:
M.F., con il patrocinio dell'avv. A.R., elettivamente domiciliato in *** Milano presso il difensore avv. R.A.
Ricorrente

contro
N. S.r.l., con il patrocinio dell'avv. L.D'A. e dell'avv. A.M., elettivamente domiciliato in *** Milano presso il difensore avv. A.M.
Convenuta

Oggetto: licenziamento illegittimo, mobbing, risarcimento danni.

FattoDiritto



Con ricorso depositato il 14.1.11, F.M. - premesso di avere lavorato alle dipendenze di N. S.r.l. in virtù di contratto di lavoro stipulato in data 11.1.2001 - impugnava il licenziamento intimatogli in data 14.5.2010 per giustificato motivo oggettivo e chiedeva la condanna della società convenuta al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dello stesso nonché delle condotte di demansionamento e mobbing che egli lamentava di avere subito nel corso del rapporto di lavoro, durante il quale egli affermava di avere subito vessazioni di vario genere e di essere stato "costretto anche a svolgere operazioni in contrasto con la normativa tributaria"; inoltre, il ricorrente chiedeva la condanna della società convenuta al pagamento delle retribuzioni per il lavoro, straordinario che egli esponeva di avere svolto.
La convenuta si costituiva mediante memoria depositata il 15.3.11, chiedendo il rigetto delle domande avversarie, delle quali contestava integralmente la fondatezza; in via riconvenzionale, la stessa chiedeva che - ove fosse stato accertato il compimento da parte del ricorrente degli illeciti tributari menzionati in ricorso - il F. venisse condannato a risarcire i danni così cagionati alla società.
Il ricorrente resisteva all'avversaria domanda riconvenzionale mediante memoria depositata il 29.4.11, chiedendone il rigetto.
Quindi la causa, tentata invano la conciliazione, veniva discussa all'udienza del 2.9.11 e contestualmente decisa mediante lettura del dispositivo in calce trascritto.


Il ricorso è infondato e non può pertanto trovare accoglimento.

Quanto al licenziamento, parte convenuta ha fondatamente eccepito la decadenza del ricorrente dall'azione di illegittimità per mancata impugnazione nei termini di legge.
Invero, la tempestiva impugnazione del licenziamento non è stata dedotta in ricorso, né si evince dalla documentazione prodotta in causa, in mancanza della relativa missiva.
In particolare, al doc. 4 parte ricorrente ha allegato il verbale di mancata conciliazione del 30.6.10, dal quale però emerge solo che il ricorrente ha presentato "richiesta pervenuta alla DPL di Milano" per la convocazione delle parti, ma non è dato evincere che lo stesso abbia inviato alla società convenuta impugnazione del licenziamento dotata dei requisiti di legge sia quanto al contenuto che quanto alla sottoscrizione.
Infatti, ad esempio, è noto come la missiva di impugnazione sottoscritta dal solo difensore, se non accompagnata dalla procura conferita dall'interessato o in mancanza di procura (o la ratifica) portate a conoscenza del datore di lavoro entro il termine stabilito dalla legge per l'impugnazione del licenziamento, sia inefficace ai fini in esame.
In tal senso si è ripetutamente pronunciata la Corte di Cassazione:


- Sentenza n. 8412 del 20/06/2000 "all'impugnativa del licenziamento (ex art. 6 legge n. 604 del 1966), che costituisce un atto giuridico (non negoziale) unilaterale tra vivi a carattere patrimoniale, si applicano le norme sui contratti in quanto compatibili. È quindi ammissibile l'impugnativa mediante un rappresentante investito del relativo potere mediante procura rilasciata in forma scritta; mentre deve escludersi la retroattività della ratifica dell'impugnativa fatta dal rappresentante senza poteri. Conseguentemente anche la preventiva specifica procura o la successiva ratifica, cui è equiparata la proposizione del ricorso giudiziario con cui è impugnato il recesso datoriale, devono essere portate a conoscenza del datore di lavoro entro il termine di decadenza applicabile all'impugnativa del licenziamento";

- Sentenza n. 11178 del 07/10/1999 "in tema di licenziamento individuale qualora l'impugnativa di cui all'art. 6 della legge n. 604 del 1966 - a prescindere dalla sua qualificabilità come atto negoziale o come atto unilaterale non negoziale - sia proposta da persona diversa dal lavoratore (quale l'avvocato) è necessario che il relativo atto di legittimazione (preventiva procura, anche "ad litem", ovvero successiva ratifica rilasciate dal lavoratore) abbia forma scritta e sia tempestivamente portato a conoscenza del datore di lavoro, salvo restando che, a tale ultimo fine, non si richiede la consegna di copia dell'atto, essendo sufficiente la comunicazione dell'esistenza dell'atto stesso e della sua data certa".

Pertanto, la mera convocazione delle parti avanti alla commissione di conciliazione non basta certamente ad attestare la rituale e tempestiva impugnazione del licenziamento.
L'istanza di produzione della missiva di impugnazione, svolta dal ricorrente solo in udienza, è stata respinta perché tardiva avendo ad oggetto uno dei presupposti della domanda e non potendo essere quindi compiuta in corso di causa.
La domanda avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento è quindi inammissibile.
Si osserva al riguardo come, secondo l'orientamento maggioritario e condivisibile della giurisprudenza di legittimità, debba escludersi che - in caso di decadenza dall'impugnazione del licenziamento - il lavoratore possa azionare la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto costituito dall'accertamento giudiziale dell'illegittimità del recesso (v. Cass. 4.5.09, n. 10235, secondo la quale "la decadenza dall'impugnativa del licenziamento, individuale o collettivo, preclude l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, sia sul piano contrattuale, in quanto l'inadempimento del datore di lavoro consista nel recesso illegittimo in base alla disciplina speciale, sia sul piano extracontrattuale, ove il comportamento illecito dello stesso datore consista, in sostanza, proprio e soltanto nell'illegittimità del recesso"; nello stesso senso, v. Cass. 3.3.2010, n. 5107.
In ogni caso, quanto alla domanda risarcitoria relativa al licenziamento, si osserva che la stessa risulta formulata in modo del tutto generico: in particolare, quanto al danno derivato dalla stipulazione del mutuo, non viene esposto in ricorso per quale ragione esso sia ascrivibile alla società convenuta, non essendo dedotta la consapevolezza della stessa al riguardo né in ogni caso la previdibilità del licenziamento da parte della stessa al momento della relativa erogazione; inoltre, non espone il ricorrente in cosa il danno in esame sarebbe consistito, non emergendo dal ricorso con la dovuta specificità quali siano state le conseguenze del licenziamento in relazione al finanziamento in esame.
Quanto poi agli ulteriori danni, l'atto introduttivo del giudizio si fa menzione del tutto generica di sofferenze patite dal ricorrente o di un danno "di varia natura, biologico, psicologico, esistenziale", senza precisazione alcuna in ordine al genere delle eventuali patologie, alle loro conseguenze lesive temporanee e/o permanenti, nonché alla loro entità e senza indicazione alcuna in ordine alla quantificazione delle voci di danno in esame.
Le deduzioni svolte da parte ricorrente, nella memoria difensiva depositata in relazione all'avversaria riconvenzionale, in ordine alle domande oggetto del ricorso vanno poi ritenute del tutto inammissibili poiché contenute in atto il quale ha la specifica finalità di replicare a tale domanda di parte convenuta e pertanto del tutto inidonee ad integrare in alcun modo il ricorso con riguardo a temi esulanti rispetto alla stessa.
Quanto al demansionamento, si osserva che il ricorrente è stato assunto con inquadramento E (il più basso previsto dal ccnl di settore) e mansioni di "fattorino".
In ricorso lamenta il ricorrente di avere svolto mansioni "dequalificanti e umilianti" quali "pulire i gabinetti, pulire gli uffici, scopare e buttare via i cestini dei rifiuti, strappare l'erba, pulire gli escrementi degli animali, ecc.", operazioni che egli sarebbe stato costretto ad eseguire "più volte"; nella citata memoria depositata il 29.4.11, parte ricorrente - nel replicare alla domanda riconvenzionale di controparte - afferma espressamente di avere lavorato come fattorino (pag. 7: "il sig. F.M. conservava in auto la contabilità fatture del carburante delle auto su cui lavorava come fattorino").
Posto quindi che parte ricorrente ammette di avere svolto mansioni di fattorino ed in mancanza di alcuna precisazione al riguardo, non è dato evincere dagli atti di parte la frequenza e l'intensità del dedotto compimento di attività dequalificanti, non essendo evidentemente sufficiente il loro svolgimento occasionale - come pare desumibile dalla locuzione "a volte" usata in ricorso - a determinare demansionamento alcuno.
Né parte convenuta ha formulato al riguardo in memoria ammissione alcuna: infatti, in tale atto espressamente si afferma che il ricorrente ha svolto mansioni di "consegna di elaborati grafici prodotti da Ne. ai clienti ovvero di ritiro di documenti dai clienti di N." e che l'esecuzione di compiti diversi quali svuotamento dei cestini può essere avvenuta in modo del tutto occasionale; nega invece chiaramente la convenuta che il ricorrente sia stato adibito a strappare erba o pulire escrementi o pulire uffici e bagni.
Quanto al mobbing, i fatti esposti in ricorso - per la loro indeterminatezza in ordine a date, frequenza, contenuti, autori - risultano del tutto inidonee ad integrare alcuna condotta risarcibile.
Infatti, secondo la Corte di Cassazione il mobbing è costituito dalla condotta posta in essere dal datore di lavoro o da altri dipendenti (in presenza di colpevole inerzia del datore di lavoro), "protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) diretti alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica)" (Cass. 09/09/2008 n. 22858).
L'onere di allegare e dimostrare i fatti lamentati grava sul lavoratore. Così ha statuito la Corte di Cassazione: "la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per mobbing e conseguente malattia depressiva, in relazione a comportamenti datoriali che abbaino determinato il dipendente alle dimissioni, è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi" (Cass. 29.9.2005, n. 19053).
L'applicazione di tali pacifici principi al caso di specie consente di escludere con certezza l'idoneità delle deduzioni svolte in ricorso - per la loro assoluta genericità come già sopra rilevata - a fondare la sussistenza del lamentato mobbing.
Le domande del ricorrente non possono pertanto trovare accoglimento.
Anche la domanda riconvenzionale va respinta, non essendo stata addotta prova idonea degli illeciti tributari in questione, della relativa entità, nonché dei conseguenti danni.
La soccombenza va individuata in capo al ricorrente, posto che la riconvenzionale deve ritenersi dipendente dall'accertamento di fatti dedotti dal ricorrente stesso, il quale non è stato compiuto per mancanza di specificità e quindi di rilevanza delle relative deduzioni.
Pertanto, il F. va condannato a rifondere a parte convenuta le spese processuali, liquidate come in dispositivo.
Il grado di complessità della controversia giustifica la fissazione di termine di giorni 30 per il deposito della sentenza.

P.Q.M.


Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:
1. rigetta il ricorso;
2. rigetta la svolta domanda riconvenzionale;
3. condanna il ricorrente a rifondere alla convenuta le spese processuali che liquida in complessivi Euro 3.500,00 oltre oneri di legge;
4. riserva il deposito della sentenza entro giorni 30 da oggi.