REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARZANO Francesco
Dott. IACOPINO Silvana Giovanna
Dott. LICARI Carlo
Dott. NOVARESE Francesco
Dott. PICCIALLI Patrizia

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:
S.M.F., n. a ***;
avverso la sentenza in data 18 maggio 2007 della Corte di Appello di Messina;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Patrizia Piccialli;
udito il Procuratore Generale nella persona del Sostituto Proc. Gen. Dott. Iannelli Mario, che ha concluso il rigetto del ricorso;
udito il difensore dell'imputato avv. Valenti Carlo del Foro di Roma che ha concluso per l'annullamento della sentenza impugnata.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Messina, in parziale riforma della sentenza di primo grado, pronunciata dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, revocava le statuizioni civili contenute nella sentenza appellata, confermando il giudizio di responsabilità nei confronti di S.M.F. per il reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme antinfortunistiche (ex art. 590 c.p., commi 1 e 2).
L'infortunio era occorso in data *** in danno del lavoratore C.S., il quale, mentre si trovava all'interno dei locali di uno stabile in corso di costruzione era stato colpito alla testa da un blocco di cemento precompresso (pignatta) staccatosi dalla soletta di copertura del piano terra ed aveva riportato, essendo privo dell'elmetto di protezione, lesioni consistite, secondo il capo di imputazione, in contusione escoriata regione occipitale, trauma cranico con frattura in sede occipitale destra.
A carico del S.M., in qualità di legale rappresentante della ditta S., committente i lavori ad altra ditta che stava effettuando lavori di copertura su un solaio sovrastante il luogo dell'incidente, nonché progettista e direttore dei lavori, erano stati ravvisati profili di colpa specifica, fondati sulla inosservanza del disposto del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 12, secondo il era tenuto ad informare la ditta appaltatrice sulle modalità eliminazione o riduzione dei rischi relativi alle interferenze tra i lavoratori addetti alle diverse imprese, coordinando l'attività lavorativa delle stesse ed aveva omesso di approntare nel cantiere le misure di sicurezza previste al fine di evitare infortuni e di vigilare circa la loro osservanza da parte dei propri dipendenti.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per Cassazione S.M.F., articolando cinque motivi.
Con il primo lamenta la mancanza di motivazione e la mancata assunzione di una prova decisiva in merito alla richiesta di rinnovazione della perizia al fine di accertare la natura e l'entità delle lesioni subite dal C..
Il ricorrente prospetta la decisività di una nuova consulenza assumendo di contestare le conclusioni cui era pervenuto il CTU nella causa di lavoro promossa dal lavoratore nei confronti dell'INAIL, acquisite nel procedimento penale: in particolare, sostiene che il nuovo accertamento era reso necessario dalla circostanza che la frattura cranica era stata esclusa, come dimostrato dal fatto che l'INAIL liquidò solo parzialmente l'indennità temporanea, cioè sino al 16 agosto 2000. Per lo stesso motivo deduce che nella fattispecie non è configurabile una durata delle lesioni superiori ai 40 giorni e che pertanto ciò determinerebbe l'improcedibilità dell'azione per difetto di querela.
Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge con riferimento all'art. 522 c.p.p., e la conseguente manifesta illogicità della motivazione laddove i giudici di appello hanno escluso la mancata correlazione tra imputazione e sentenza, pur avendo il giudice di primo grado ritenuta la sussistenza di lesioni (l'aggravamento della pressione arteriosa e stress cranico), mai contestate e sulle quali, pertanto, l'imputato non era mai stato messo nelle condizioni di difendersi adeguatamente.
Con il terzo motivo lamenta la violazione della normativa prevista dal D.Lgs. n. 626 del 1994 in tema di delega per la sicurezza, assumendo che il S.M. si occupava della sola gestione amministrativa della società e che, in base ai principi affermati in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini della identificazione del responsabile di omesse cautele sul luogo di lavoro, ciò che rileva è l'effettiva situazione di responsabilità all'interno delle aziende, anche a prescindere da un formale atto di delega.
Con il quarto motivo si duole della violazione di legge con riferimento al giudizio di responsabilità, assumendo l'insussistenza del nesso causale tra il comportamento del ricorrente e l'evento nonché l'assenza di colpa. La condotta del lavoratore che per sua stessa ammissione in una pausa dal lavoro, contravvenendo ai specifici ordini operativi, si era recato al piano terra dello stabile ove erano in corso i lavori, non interessato in quei giorni da alcuna attività, comporterebbe, ad avviso del ricorrente, una interruzione del nesso causale tra l'evento ed ogni violazione di prescrizioni infortunistiche eventualmente riferibili all'interessato.
Parimenti, inesistenti o irrilevanti sarebbero i profili di colpa contestati emergendo anche documentalmente che erano state svolte dall'imputato diverse riunioni operative ai fini della sicurezza dei lavoratori.
Con il quinto motivo lamenta la manifesta contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, pur essendo stata provato documentalmente l'inesistenza della frattura cranica, la Corte di appello avrebbe sminuito la valenza della prova con argomentazione "prive del benché minimo pregio giuridico".
È stata ritualmente depositata una memoria difensiva nell'interesse dell'imputato, con la quale si sottolinea che nei chiarimenti forniti al giudice del lavoro il CTU aveva ammesso che il trauma cranico, di lieve entità, non aveva provocato fratture e che la inabilità permanente era dovuta solo all'ipertensione arteriosa, preesistente all'infortunio, concludendo però illogicamente che l'infortunio avesse contribuito a metterla in evidenza.

Il ricorso è infondato.

Con riferimento al primo ed al quinto motivo, strettamente connessi, in quanto rivolti a contestare la valutazione operata dalla Corte di merito sulla natura ed entità delle lesioni subite dal lavoratore a seguito dell'infortunio, si osserva quanto segue.
È affermazione pacifica quella secondo cui l'accertamento peritale - per sua natura mezzo di prova "neutro" - non può ricondursi al concetto di "prova decisiva", la cui mancata assunzione possa costituire motivo di ricorso per Cassazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lettera d), in quanto il ricorso o meno ad una perizia è attività sottratta al potere dispositivo delle parti e rimessa essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità (Sezione 3, 23 novembre 2004, Marras; Sezione 4, 28 ottobre 2005, Conti; Sezione 6, 22 maggio 2007, Caputo).
Nella vicenda processuale de qua il giudicante ha dato adesione, con motivazione logica e adeguata, all'impostazione del consulente tecnico di ufficio nella causa di lavoro promossa dal C. contro l'INAIL, le cui conclusioni sono state ribadite in sede di esame dibattimentale e confortate dalla deposizione del consulente della parte civile.
Sulla base di tali elementi la Corte di merito ha ritenuto che il lavoratore in conseguenza dell'infortunio aveva patito lesioni personali gravi, con esiti di inabilità permanente pari al 20%, dovuta ad ipertensione arteriosa stabilizzata e a stress cranico, entrambi derivati dal trauma subito in occasione dell'infortunio e, coerentemente, con valutazione in questa sede non censurabile, non ha disposto la rinnovazione del dibattimento per l'espletamento della perizia sulla natura, entità e durata delle lesioni.
La censura proposta dal ricorrente è peraltro infondata anche con riferimento all'altro profilo, relativo all'omessa motivazione in merito alla richiesta rinnovazione della istruttoria dibattimentale, poiché non tiene conto delle caratteristiche della rinnovazione del giudizio in appello. In vero, secondo assunto pacifico, poiché il giudizio d'appello, costituisce un procedimento critico che ha per oggetto la sentenza impugnata, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale è un istituto di carattere eccezionale, rispetto all'abbandono del principio di oralità del secondo grado, nel quale vale la presunzione che l'indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento svoltosi innanzi al primo giudice. In una tale prospettiva, l'art. 603 c.p.p., comma 1, non riconosce carattere di obbligatorietà all'esercizio del potere del giudice d'appello di disporre la rinnovazione del dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove prove, ma vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla rigorosa condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti. Con la conseguenza che, se è vero che il diniego dell'eventualmente invocata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale nei limiti della illogicità e della non congruità è esercitabile il controllo di legittimità) può anche ricavarsi per implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere decidere allo stato degli atti (v., Sez. 4, 28 ottobre 2005, Conti).
La Corte di appello si è posta in linea con il principio sopra enunciato ed ha in effetti logicamente ed implicitamente argomentato sul rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale ribadendo quanto già affermato dal giudice di primo grado in merito alla gravità delle lesioni ed alla riconducibilità delle stesse al trauma cranico conseguente all'infortunio. La tesi difensiva, fondata sull'affermazione che l'aggravamento della ipertensione arteriosa non era collegato al trauma cranico subito in conseguenza dell'infortunio, si risolve in una inammissibile rivalutazione del materiale probatorio, inidonea a scalfire l'accertamento compiuto in maniera logica ed adeguata dai giudici di merito.

Le stesse considerazioni valgono con riferimento al quinto motivo.

L'esclusione della frattura occipitale, quale conseguenza dell'infortunio, da parte dei giudici di merito, non è certamente sintomatica della illogicità della decisione, costituendo anzi la prova che il materiale probatorio è stato oggetto di attenta valutazione, all'esito della quale sono state riconosciute le lesioni sopra indicate, con supporto logico-scientifico, ricondotte al trauma cranico.

Infondato è anche il secondo motivo, con il quale si contesta la violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, sul rilievo che nella contestazione le lesioni era state indicate in "una contusione escoriata occipitale ed in un trauma cranico con frattura in sede occipitale destra" mentre le sentenze di merito avevano concluso per la sussistenza di un aggravamento della ipertensione arteriosa e di stress cranico, determinati da trauma cranico, escludendo la frattura occipitale.
Non può sostenersi, con la difesa, che con siffatto argomentare, la Corte di merito, precisando la natura delle lesioni, è incorsa nella violazione del principio di necessaria correlazione tra la sentenza e la contestazione.
Tale violazione non vi è stata alla luce di quella che risulta essere stata la contestazione formulata nei confronti dell'odierno ricorrente, delle ampie possibilità defensionali che questi ha avuto, in relazione a tutti i profili di colpa generica addebitatigli.
Non va del resto dimenticato che, per assunto pacifico, il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa. Tale principio non è invece violato quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza (cfr., tra le tante, Sez. 4, 3 novembre 2004, Volpi). Ciò che nella specie deve ritenersi, non potendosi revocare in dubbio che il S.M. si sia trovato a rispondere della propria condotta, ritenuta colposa, senza che ne siano derivati pregiudizi per le sue scelte difensive.
Nella specie, inoltre, non occorre neanche richiamare il principio suddetto, non potendosi revocare in dubbio, che l'intervenuta modifica operata dai giudici di merito rispetto al capo di imputazione non rileva ai fini esposti dal ricorrente giacché, per la configurabilità della violazione denunciata, bisogna avere riguardo alla condotta posta a base della contestazione e non alle conseguenze che ne sono derivate, verificando, rispetto ad essa, se quella ritenuta in sentenza abbia subito un sostanziale mutamento nei suoi elementi essenziali, così da ritenere che l'imputato sia stato condannato per un fatto diverso per il quale non aveva potuto adeguatamente difendersi. Tale ipotesi, per quanto sopra esposto, deve essere esclusa nella fattispecie in esame.

Quanto ai profili di censura che investono il giudizio di responsabilità, contenuti nel terzo e quarto motivo, la sentenza è correttamente motivata nel riferire all'imputato, nella qualità di legale rappresentante della committente S., nonché progettista e direttore dei lavori, gli obblighi inerenti alla sicurezza dei lavori che si svolgevano nel cantiere da lui diretto e che comportavano l'apprestamento delle necessarie misure di protezione e la vigilanza sulla loro adozione. Siffatti obblighi erano dallo stesso stati assunti come comprovato dalla documentazione acquisita e dall'esame testimoniale, in base ai quali correttamente i giudici di merito hanno escluso la sussistenza di una delega di funzioni conferita ad altri.
Né è dubitabile la posizione di garanzia in cui si trovava il S.M., essendo rimasta indimostrata la tesi sostenuta dal ricorrente in appello e riproposta in questa sede, secondo la quale le funzioni in materia di sicurezza dell'ambiente di lavoro erano state da lui delegate. Non risulta, infatti, che nel corso del giudizio di merito, l'imputato abbia adempiuto l'onere della prova dell'avvenuto conferimento della delega, onere che si estende ai contenuti ed ai limiti della delega stessa.
In proposito, è assolutamente pacifico il principio secondo cui l'atto di delega per essere rilevante deve essere espresso, inequivoco e certo, dovendo inoltre investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico; fermo restando, comunque, l'obbligo per il datore di lavoro di vigilare e controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega secondo quanto la legge prescrive (da ultimo, tra le tante, Sez. 4, 22 gennaio 2007, Pedone ed altro).
Cosicché, deve senz'altro escludersi la legittimità di una delega inespressa o implicita, presumibile solo dalla ripartizione interna all'azienda dei compiti assegnati ad altri dipendenti o dalle dimensioni dell'azienda stessa; non foss'altro perché una delega di tal genere impedirebbe di apprezzare - a tacer d'altro - l'accettazione da parte del delegato.
Nella fattispecie, la Corte di merito, in sostanziale applicazione dei suindicati principi, ha correttamente escluso la sussistenza di una valida delega conferita dal S.M. per la predisposizione delle misure antinfortunistiche e per la vigilanza circa la loro concreta osservanza. Sul punto, i giudici dell'appello hanno correttamente evidenziato che alle riunioni periodiche concernenti l'esecuzione delle opere complessive partecipava in prima persona l'imputato, che, nella sua qualità di progettista e direttore dei lavori, era l'unico che aveva la visione d'insieme dei lavori da compiere ed era in grado di conciliare in modo proficuo e, nel contempo, sicuro, l'attività delle tre imprese appaltatrici.
Infondata è anche la quarta censura, volta a prospettare l'interruzione del nesso causale basata sul comportamento imprudente della parte offesa (che avrebbe inopinatamente assunto l'iniziativa di recarsi, durante una pausa di lavoro, al piano terra dello stabile, contravvenendo a precisi disposizioni).
La doglianza è infondata, non emergendo dalla ricostruzione dei fatti, così come operata dai giudici di merito, alcun elemento rispetto al quale possa porsi un profilo di enormità della condotta del lavoratore, tale da legittimare la pretesa interruzione del nesso causale.
Sotto questo profilo, è assolutamente pacifico l'assunto in forza del quale per escludere la responsabilità del datore di lavoro "in colpa" e, quindi, per interrompere, ex art. 41 c.p., comma 2, il nesso causale tra la condotta colposa di questi e l'evento pregiudizievole derivazione, non basterebbe un comportamento del lavoratore pur avventato, negligente o disattento, che il lavoratore pone in essere mentre svolge il lavoro affidatogli, trattandosi di comportamento "connesso" all'attività lavorativa o da essa non esorbitante e, pertanto, non imprevedibile. Per converso, deve ritenersi che, per interrompere il nesso causale, occorra un comportamento del lavoratore che sia "anomalo" ed "imprevedibile" e, come tale, "inevitabile"; cioè un comportamento che ragionevolmente non può farsi rientrare nell'obbligo di garanzia posto a carico del datore di lavoro. Si deve trattare, in altri termini, di un comportamento del lavoratore definibile come "abnorme", che, quindi, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro (cfr., per tale definizione, Cassazione, Sezione 4, 26 ottobre 2006, Palmieri).
Le considerazioni del ricorrente, a ben vedere, si risolvono in una opinabile diversa ricostruzione delle modalità di comportamento del lavoratore e dei rapporti tra tali modalità e il contenuto dei compiti e delle mansioni lavorative che non possono avere ingresso in sede di legittimità.
Il ricorso, pertanto, va rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2008