T.A.R. Veneto Venezia, Sez. 1, 14 settembre 2011, n. 1401 - Atteggiamento mobbizzante da parte dei superiori gerarchici



 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale 264 del 2011, proposto da:

R.S., rappresentato e difeso dall'avv. Nicola Zampieri, con domicilio eletto presso Enrico Tonolo in Venezia, San Polo, 135;

contro

Ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresentato e difeso dall'Avvocatura, domiciliata per legge in Venezia, San Marco, 63; Comando Generale della Guardia di Finanza;

per l'annullamento

MARESCIALLO CAPO G.F. IN CONGEDO: RISARCIMENTO DEI DANNI

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Economia e delle Finanze;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 luglio 2011 la dott.ssa Alessandra Farina e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

 

Fatto

 

 

 

 

Espone l'odierno ricorrente di aver prestato servizio in qualità di Maresciallo capo alle dipendenze della Guardia di Finanza dal 17 gennaio 1982 al 14 novembre 2001, conseguendo sempre giudizi positivi e la qualifica di "superiore alla media".

In particolare il ricorrente evidenzia il servizio prestato a decorrere dal 1998 presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Treviso.

Con il presente gravame l'istante, attraverso l'esposizione di tutta una serie di avvenimenti che lo hanno visto coinvolto sia in sede penale che in sede disciplinare, nonché in qualità di ricorrente in ulteriori giudizi instaurati davanti all'autorità giurisdizionale amministrativa, pretende di essere risarcito per il danno patrimoniale e non patrimoniale subito a causa di supposte condotte di mobbing, riconducibili proprio ai diversi accadimenti che lo hanno a più riprese interessato.

Detti accadimenti ed in particolare il loro protrarsi e ripetersi nel tempo, sino a determinare l'aggravamento dello stato patologico del ricorrente (caratterizzato da disturbi di origine psichiatrica, come documentato in atti), che ne ha causato nel 2004 il collocamento in congedo assoluto per inidoneità al servizio, sarebbero - ad avviso di parte ricorrente - sintomatici di una condotta "mobbizzante" posta in essere nei suoi confronti nel periodo temporale durante il quale si sono verificati gli episodi riportati in ricorso.

Poiché il comportamento posto in essere dalle amministrazioni intimate - Ministero dell'Economia e delle Finanze e Comando Generale della Guardia di Finanza - ha determinato un ingente danno alla salute del ricorrente, con il gravame in oggetto viene avanzata la richiesta di risarcimento di tutti i danni subiti.

L'Amministrazione resistente, nel costituirsi in giudizio, ha evidenziato l'infondatezza del ricorso, anzitutto per l'insussistenza dell'antigiuridicità dei comportamenti posti in essere e, comunque, dell'elemento soggettivo dell'intento vessatorio e del nesso di causalità tra i fatti asseritamente lesivi e l'evento dannoso affermato: donde l'insussistenza di qualsiasi elemento che possa far ritenere integrati nel caso di specie gli estremi delle condotte di mobbing.

In modo particolare, la difesa resistente si sofferma sull'infondatezza di tutte le argomentazioni difensive di parte ricorrente rivolte ad evidenziare l'illegittimità dei provvedimenti di mancato avanzamento al grado superiore, con riguardo alla mancata considerazione del servizio prestato presso la Procura della Repubblica di Treviso, sottolineando come i giudizi instaurati al riguardo dal ricorrente siano ancora subiudice.

All'udienza del 9 luglio 2011 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

 

 

Diritto

 

 

Oggetto del presente gravame è l'asserito comportamento mobbizzante subito dal ricorrente, che lo stesso ha ritenuto di denunciare in questa sede e per il quale ora pretende il risarcimento del pregiudizio patito sotto il profilo patrimoniale e morale.

Al fine di inquadrare correttamente la fattispecie in oggetto e quindi valutare correttamente se sussistano i presupposti e le condizioni per poter qualificare gli episodi denunciati dal ricorrente quali espressione di un atteggiamento mobbizzante da parte dei superiori gerarchici, sui quali illegittimamente l'amministrazione non avrebbe vigilato, è necessario richiamare i principi generali che sono stati elaborati in materia di mobbing.

E' stato così definito "mobbing" un complesso di atteggiamenti illeciti posti in essere, nell'ambiente di lavoro, nei confronti di un dipendente e che si risolvono in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di violenza morale o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire l'isolamento e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità.

Quanto agli specifici presupposti che devono ricorrere affinchè possa parlarsi di mobbing, giova innanzi tutto rammentare che tale condotta illecita non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (CdS, VI, 6.5.2008 n. 2015; T.A.R. Piemonte, I, 8.10.2008 n. 2438).

Per configurare il mobbing non è, quindi, sufficiente un singolo comportamento, dovendosi piuttosto riscontrare una diffusa ostilità proveniente dall'ambiente di lavoro che si realizzi in una pluralità di condotte, frutto di una vera e propria strategia persecutoria, avente di mira l'emarginazione del dipendente dalla struttura organizzativa di cui fa parte (TAR Lazio, Roma, I, 7.4.2008 n. 2877; TAR Puglia, Lecce, III, 10.9.2007 n. 3143; TAR Lombardia, Milano, III, 8.3.2007 n. 403).

Inoltre è stato posto in rilievo che il tratto strutturante del mobbing - tale da attrarre nell'area della fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro - è proprio la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa. Pertanto, in ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR Lombardia, Milano, I, 11.8.2009 n 4581; TAR. Lazio, Roma, III, 14.12.2006 n. 14604).

In altri termini, il mobbing - proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo - non può essere correlato in via esclusiva, ma neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto, ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, I, 7.4.2008 n. 2877).

La sussistenza di una condotta mobbizzante deve dunque essere esclusa qualora la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare "singulatim" elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (CdS, IV, 21.4.2010 n. 2272; VI, 1.10.2008 n. 4738; V, 27.5.2008 n. 2515).

D'altra parte, secondo la giurisprudenza (TAR Perugia, I, 24.9.2010 n. 469), nell'esaminare i casi di preteso mobbing il giudice deve evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima. Da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica. Dall'altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve cioè sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato. Tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale. Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l'ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai fuorviante.

In estrema sintesi, dunque, gli elementi strutturali della condotta mobbizzante sono dati dalla molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; dall'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; dal nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psicofisica del lavoratore.

Ai fini risarcitori è quindi necessaria: 1) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cass. Civ., sez. lav., 17/02/2009 n. 3785); 2) la prova del danno all'integrità subito; 3) che sia dimostrato il nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato di prostrazione (cfr, ex plurimis, Cass. civ., III, 8.7.2010 n. 16148).

In tale contesto, peraltro, non è revocabile in dubbio che l'azione risarcitoria da mobbing rinvenga il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del soggetto asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo su di esso incombente ai sensi dell'art. 2087 c.c.: al che accede, in modo pacifico, il carattere contrattuale della proposta azione risarcitoria, con la conseguenza che, ricondotta la controversia in questione nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., la distribuzione dell'onere probatorio fra il prestatore (asseritamente) danneggiato ed il datore di lavoro deve essere operata in base al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro - in base al principio di inversione dell'onus probandi di cui al richiamato art. 1218 c.c. - il solo onere di provare l'assenza di una colpa a sè riferibile (in tal senso, ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 8.5.2007 n. 10441). Ne consegue che laddove, quindi, il lavoratore ometta di fornire la prova anche solo in ordine alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie oggettiva, difetterà in radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno (e del conseguente obbligo risarcitorio), con l'evidente conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, irrilevante essendo, in tal caso, ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso (cfr., in tal senso, CdS, VI, 13.4.2010 n. 2045).

Orbene, sulla base dei principi riassunti così come elaborati dalla giurisprudenza in materia, il Collegio deve valutare se detti elementi identificatori di una condotta mobbizzante si siano configurati nei riguardi del ricorrente, con specifico riferimento agli episodi da questi evidenziati in ricorso, quali profili sintomatici di un atteggiamento persecutorio volutamente e preordinatamene rivolto a suo danno.

Gli episodi si articolano in diverse direzioni, identificandosi nei procedimenti penali avviati nei confronti del ricorrente per le espressioni manifestate nei confronti di superiori soggetti a loro volta a procedimenti penali, ai correlati procedimenti disciplinari, ai rimproveri ricevuti per l'inefficienza dell'attività svolta in qualità di agente di polizia giudiziaria, all'abbassamento delle note caratteristiche, al trasferimento operato durante l'assenza per malattia, alla denuncia alla Procura Militare per simulazione di infermità, diserzione aggravata e truffa militare pluriaggravata, al ripetuto diniego del riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della sindrome depressiva da cui è risultato affetto ed infine all'inidoneità all'avanzamento al grado superiore di Maresciallo Aiutante.

Va preliminarmente osservato come in questa sede non possano essere esaminate nuovamente le doglianze già sviluppate nei precedenti giudizi o ancora in attesa di definizione, pendente il giudizio di appello, circa i conflitti che sono insorti fra il dipendente e l'amministrazione di appartenenza: in buona sostanza, considerato il petitum avanzato dal ricorrente, in questa sede è necessario valutare se l'insieme degli episodi riferiti, indipendentemente dalla legittimità intrinseca degli atti che li hanno determinati, sia riconducibile ad un disegno persecutorio nei confronti del ricorrente.

Orbene, ritiene il Collegio che detta condizione non sia ravvisabile nel caso di specie e che di conseguenza il ricorso non possa trovare accoglimento.

Va in primo luogo ribadito come, ai fini della valutazione della sussistenza dell'intento persecutorio, non possa essere tenuto in considerazione il solo punto di vista del ricorrente, il quale evidentemente assume una visione necessariamente unitaria degli episodi denunciati in quanto trattasi di avvenimenti che lo hanno direttamente interessato, dovendosi esaminare più correttamente da un punto di vista oggettivo se esista il reale collegamento fra i suddetti episodi e quindi il collegamento logico degli stessi nell'ambito di una atteggiamento persecutorio da parte dei superiori.

Orbene, tenuto conto dei singoli avvenimenti, non è possibile rinvenire il richiesto collegamento.

Invero, il ricorrente non fornisce alcuna prova sul piano oggettivo della "condotta persecutoria" contestata - sotto il profilo oggettivo, invero, i denunciati comportamenti posti in essere dall'Amministrazione resistente nei confronti dell'odierno ricorrente non si manifestano con carattere unitariamente persecutorio e discriminante - e sul piano soggettivo dell'intento persecutorio dell'Amministrazione datrice di lavoro.

Invero, trattasi di episodi che si incardinano in una più complessa situazione nella quale sono confluite diverse situazioni di conflittualità con l'amministrazione di appartenenza, generate anche da atteggiamenti tenuti dallo stesso ricorrente, i quali sebbene non abbiano avuto conseguenze in sede penale, sono stati ritenuti rilevanti sul piano disciplinare.

Al contempo si è parallelamente innestata la controversia in ordine al mancato riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della patologia di cui risulta essere affetto il ricorrente, per la quale tuttavia, sebbene abbia dato luogo ai contenziosi instaurati davanti al giudice amministrativo e sfociati in diverse pronunce, non è stata data alcuna prova del collegamento con gli altri episodi denunciati ai fini della dimostrazione dell'intento vessatorio a carico del ricorrente

Infine, con riguardo alla diminuzione delle note caratteristiche e soprattutto al mancato conseguimento dell'idoneità per l'avanzamento nel grado, va ribadito quanto già osservato circa l'irrilevanza ai fini della definizione del presente giudizio della legittimità o meno degli atti assunti dall'amministrazione nei confronti del ricorrente, essendo tali circostanze da valutare unicamente quali episodi rilevanti ex se ed entro i parametri sopra ricordati per l'individuazione della condotta mobbizzante.

Orbene, per le considerazioni già evidenziate, pur rilevando che risulta ancora da definire la reale fondatezza delle pretese avanzate dal ricorrente, trattandosi di questione ancora in via di definizione, ancora una volta non è possibile affermare con certezza che il comportamento tenuto al riguardo dall'amministrazione sia realmente inquadrabile quale espressione di un preciso intento persecutorio nei confronti del proprio dipendente.

Tenuto conto di quanto precede, dunque, il Collegio ritiene che i suesposti episodi di (asserito) conflitto tra il ricorrente e l'Amministrazione militare manchino - ancorchè considerati cumulativamente - di qualsiasi sistematicità e possano essere ricondotti alle possibili situazioni di conflittualità che possono insorgere fra dipendente e datore di lavoro, senza tuttavia costituire necessariamente atteggiamenti vessatori da parte del secondo sul primo: stante quindi l'insussistenza dei presupposti, non essendo in essi ravvisabile alcun intento discriminante nei confronti del ricorrente, il ricorso non risulta meritevole di accoglimento e va respinto.

In considerazione della particolarità delle questioni trattate sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa le spese e competenze del giudizio tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.