Luciano Angelini,

L'applicazione del Decreto Legislativo 626/1994 nell'ambito delle pubbliche amministrazioni. Considerazioni in merito all'individuazione del datore di lavoro.

Corso di formazione per dirigenti delle pubbliche amministrazioni locali, Senigallia (AN), 20 nov. 2001.


Considerazioni introduttive

La tutela della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro nelle attività produttive sia pubbliche che private, è stata certamente rivoluzionata dal d. lgs. 19 settembre 1994, n. 626, che ha dato attuazione alle disposizioni della direttiva quadro comunitaria n. 391/1989 e delle direttive specifiche alla stessa correlate, riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro.

La filosofia che ispira tale decreto è quella di favorire la partecipazione attiva di tutti i soggetti coinvolti nella gestione del sistema integrato di sicurezza destinato alle attività di produzione. In tal senso, il decreto n. 626/1994 - come opportunamente modificato dal d. lgs. 19 marzo 1996, n. 242 – delinea, in modo più completo ed organico rispetto alla disciplina precedente, sia le responsabilità sia le modalità attraverso cui deve esplicarsi tale partecipazione, specificando quali siano le figure coinvolte e per quali ipotesi siano ammesse deroghe alla disciplina generale, avuto riguardo alle particolari esigenze connesse all’attività espletata.

Va ricordato, in premessa, che i due citati decreti legislativi, pur avendo profondamente inciso sulla prospettiva nella quale si deve collocare il rinnovato impegno in tema di prevenzione della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, non hanno abrogato tutta la previgente legislazione, finendo sostanzialmente per aggiungere nuove disposizioni alle precedenti e rendendone particolarmente difficoltosa l’integrazione.

Dato incontestabile ed ineliminabile della disciplina è la disposizione dettata dall’art. 2087 c.c. Essa conserva il ruolo di architrave su cui continua a reggersi il nostro sistema prevenzionale, assolvendo la funzione di norma di chiusura: ai fini della tutela delle condizioni di lavoro, l’imprenditore deve adottare tutte le misure necessarie per la sicurezza, tenuto conto della particolarità dell’attività lavorativa, dell’esperienza del lavoratore e del patrimonio tecnologico in uso nel settore di riferimento. Il limite dell’art. 2087 c.c. è, ovviamente, quello di prevedere un rimedio di tipo risarcitorio, successivo rispetto al verificarsi dell’evento lesivo, che non offre alcuno strumento che consenta di rifiutare la propria prestazione o di adire l’autorità giudiziaria.

Nulla d’altro sembra opportuno aggiungere qui né sulla disciplina dei d.P.R. del 1955 e del 1956 [nota 1] né  sull’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, in osservanza del quale erano state costituite. delle specifiche rappresentanze collettive dei lavoratori nell’ambito delle unità produttive con più di 15 dipendenti in materia di salute e sicurezza, né sulla Riforma del servizio sanitario nazionale del 1978, che ha introdotto importanti disposizioni in materia di sicurezza nell’ambiente di lavoro.

Per quanto riguarda specificamente il rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni, è nota l’ampiezza e la rilevanza dell’ininterrotto processo di riforma, che ha preso le mosse  con la legge delega n. 421/1992 ed il d. lgs. n. 29/1993 per proseguire con le leggi delega Bassanini n. 59/1992 e n. 127/1997, unitamente ai decreti delegati n. 396/1997 e n. 80/1998. Questo complesso quadro normativo ha avuto immediate ripercussioni anche in tema di sicurezza del lavoro: esso, infatti, ha imposto un’adeguata azione di coordinamento tra la legislazione più recente sul rapporto di lavoro pubblico e quella specificamente dedicata alla tutela delle condizioni di lavoro.

Già al momento dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 626/1994, si erano manifestate non poche difficoltà applicative per i datori di lavoro pubblici: a queste si è cercato di porre rimedio con il d. lgs. n. 242 del 1996, il quale ha altresì previsto l’emanazione di specifiche disposizioni derogatorie in relazione a quelle Amministrazioni nelle quali l’integrale attuazione del decreto n. 626/1994 avrebbe potuto creare seri ostacoli alla funzionalità del servizio reso alla comunità. Ora, dal combinato disposto degli artt. 1 e 2 del decreto n. 626/1994 - così come emendati dal decreto n. 242/1996 - e degli artt. 2 co. 2, 4 co. 2 del d. lgs. n. 29/1993 (come sul punto modificati dal d. lgs. n. 80/1998), non è più possibile avanzare dubbi né sull’applicabilità alle Pubbliche Amministrazioni della normativa generale di sicurezza né tanto meno sulla sussistenza, in capo al datore di lavoro pubblico, di tutti i doveri e di tutti gli adempimenti che spettano all’imprenditore privato.

La conferma della necessaria applicabilità del d. lgs. n. 626/1994 anche al lavoro pubblico si rinviene nell’art. 2 dello stesso decreto e, precisamente, nella definizione di datore di lavoro. Nella sua originaria stesura, recuperata letteralmente dalle disposizioni della direttiva-quadro, tale definizione ha dato adito a numerose incongruenze. La nuova versione, quella introdotta con il d.lgs. n. 242/1996, ha dedicato un’intera parte della disposizione proprio all’esatta identificazione del titolare del rapporto di lavoro con il pubblico dipendente, che ben può rientrare nell’ambito disciplinato dall’art. 2, lett. a) quando fa riferimento ai rapporti di lavoro subordinato anche speciali. La specialità del rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni può, infatti, risiedere nella circostanza che, essendo l’attività lavorativa del dipendente rivolta al perseguimento del fine pubblico dell’ente di appartenenza, tale finalità non può non incidere sulla stessa struttura causale del rapporto.

 

2. Sul campo di applicazione del d. lgs. n. 626/1994. Sua derogabilità e specifici decreti interministeriali.

Relativamente alla tutela e sicurezza, dunque, il decreto n. 626/1994 consente che il rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni sia regolato in modo parzialmente divergente da quello privatistico. Già nella prima stesura dell’art. 1 co. 2, si affermava che l’applicabilità delle disposizioni del decreto n. 626/1994 alle Forze Armate e di Polizia ed ai servizi di Protezione Civile doveva intendersi condizionata al rispetto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato e delle attribuzioni proprie delle relative strutture, l’apprezzamento delle quali dovrà avvenire con l’emanazione di un apposito decreto interministeriale. La ratio della disposizione risiede nella particolare natura del servizio prestato, rispetto al quale l’elevata pericolosità dell’attività può rendere inutili, se non addirittura pregiudizievoli per l’efficienza del servizio, le ordinarie misure antinfortunistiche, o piuttosto richiedere specifici interventi in materia di sicurezza che sarebbero superflui o eccessivi per la generalità dei lavoratori dipendenti.

La stessa ratio è alla base di alcune disposizioni derogatorie sul punto introdotte dal decreto legislativo correttivo n. 242/1996, in particolare all’art. 1 co. 2, che fa esplicito riferimento alle strutture istituzionalmente destinate alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica; allo stesso modo, la deroga si giustifica per le strutture giudiziarie e penitenziarie e per le rappresentanze diplomatiche o consolari.

Apparentemente diversa è, invece, la ragione che ha indotto il legislatore ad inserire, tra le Amministrazioni sottoposte ad un regime speciale in materia di sicurezza, le università e le scuole di ogni ordine e grado: anche a fondamento di tale deroga, tuttavia, deve porsi sempre la particolare natura del servizio reso da tali istituzioni. Ciò è quanto espressamente risulta dalle disposizioni del decreto interministeriale 5 agosto 1998 n. 363, dedicato ad adattare i principi della sicurezza del lavoro in ambito universitario: pur avendo esteso la normativa di sicurezza anche a tali Enti, il decreto ha dovuto tener conto della presenza di speciali figure di obbligati alla sicurezza, quali docenti ed allievi, non potendosi risolvere la questione con una mera e formale equiparazione. In particolare, tale decreto delinea una nuova figura - quella del responsabile delle attività didattiche o di ricerca in laboratorio - che è colui  il quale, individualmente o come coordinatore di un gruppo, svolge attività didattiche o di ricerca in laboratorio. E’ evidente come di questa nuova figura di responsabile di sicurezza vengano indicati con chiarezza i limiti della responsabilità attribuita, così da non sovrapporsi inutilmente alle tipiche posizioni debitorie di datore di lavoro, dirigente e preposto.

E’, altresì, necessario ricordare che la deroga circa l’integrale applicazione della disciplina di sicurezza all’insieme delle Pubbliche Amministrazioni non comporta esoneri di responsabilità dell’individuando datore di lavoro: la responsabilità civile, penale ed amministrativa prevista permane infatti immutata.

 

3. L’individuazione del “datore di lavoro per la sicurezza”

Si è opportunamente rilevato come non sia agevole adattare alle particolari caratteristiche del lavoro pubblico le norme relative alle responsabilità dei soggetti  obbligati alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Per quanto specificamente concerne l’individuazione del datore di lavoro, ad esempio, il d. lgs. n. 626/1994 rappresenta una sorta di “spartiacque”.

Prima del decreto legislativo, infatti, l’individuazione del datore di lavoro per la sicurezza nel settore pubblico era stata condotta dalla giurisprudenza utilizzando il tradizionale criterio basato sull’effettività dei poteri e delle funzioni esercitate: piuttosto che alla qualifica formale attribuita a coloro che compongono l’organigramma aziendale, si deve far riferimento alle mansioni in concreto svolte ed ai livelli di responsabilità che queste comportano. Un criterio che non sempre consente di esimere l’organo di vertice dell’Ente dalla massima delle responsabilità: come nelle aziende private, la responsabilità della posizione apicale non viene esclusa, ma piuttosto aggiunta, a quella dei sotto ordinati.

Questo principio va ora utilmente coordinato con le norme dettate dall’art. art. 2, lett. b) del decreto n. 626/1994,  così come sul punto modificato dal successivo decreto legislativo n. 242/1996,  il quale - dopo aver definito come datore di lavoro ai fini della sicurezza il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa  - precisa che, nelle Pubbliche Amministrazioni, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, nei soli casi in cui sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale. Inoltre, ai sensi e per gli effetti dell’art. 30 del d. lgs. n. 242/1996, all’individuazione del datore di lavoro nelle diverse Amministrazioni devono provvedere gli organi di direzione politica o di vertice delle Amministrazioni Pubbliche, tenendo conto dell’ubicazione e del livello funzionale degli uffici.

Come appare subito evidente, la tecnica d’individuazione del datore di lavoro pubblico è, pertanto, rimessa alle deliberazioni della “gerarchia amministrativa” e soltanto in via interpretativa alla definizione autentica data dal legislatore. Tuttavia, per quanto interpretativamente è deducibile dal dettato dell’intera norma, è impossibile non vedere come la modifica investa la definizione generale di datore di lavoro perché viene ora posta la disgiuntiva tra i due criteri (prima indicati cumulativamente): titolarità del rapporto e la responsabilità dell’impresa o dello stabilimento).  Inoltre, la definizione che identifica il datore di lavoro pubblico con il dirigente responsabile di un ufficio autonomo è da intendersi estesa anche a quelle Amministrazioni, come scuola ed università, per le quali è espressamente prevista l’applicazione di un regime derogatorio in tema di sicurezza.

La soluzione adottata non appare certo rivoluzionaria: già sulla base del decreto n. 29/1993, infatti, la maggior parte della dottrina aveva identificato la figura datoriale con gli appartenenti ai ruoli dirigenziali dello stato e delle Pubbliche Amministrazioni in genere. Il recente d. lgs. n. 80/1998 ha fornito ulteriore sostegno a questa tesi, mettendo ancora più in evidenza l’autonomia di poteri che contraddistinguono il dirigente pubblico rispetto all’organo politico di governo dell’ente.

Ai sensi delle norme considerate, la tutela della salute e della sicurezza dei dipendenti dell’Ente pubblico nei luoghi di lavoro che a questo fanno capo rientra indubbiamente nell’ambito dei poteri gestionali assegnati al dirigente il quale, avendone ricevuto l’incarico, assume la veste di datore di lavoro a fini prevenzionali.

Tale attribuzione si configura come un vero e proprio atto dovuto per gli organi di governo dell’Ente. Se in pianta organica esiste un dirigente o un funzionario responsabile per ciascuna unità autonoma, la scelta del datore di lavoro ai fini della sicurezza non può non cadere su uno dei due o, eventualmente, su entrambi, non essendo consentito, almeno formalmente, provvedere a nomine alternative rispetto a queste. La legge non pone alcun divieto in merito all’individuazione di più “datori di lavoro per la sicurezza” nell’ambito della medesima struttura organizzativa. E’ evidente come questa soluzione possa vanificare quella reductio ad unum delle competenze prevenzionali che costituisce una delle ragioni dominanti che hanno indotto il legislatore comunitario ad approvare il “pacchetto” di direttive in materia.

E’ necessario ricordare che la necessaria identificazione tra datore di lavoro per la sicurezza e dirigente non è stata considerata in dottrina pienamente convincente, soprattutto perché sembra porsi in contrasto con il prevalente orientamento giurisprudenziale propenso ad esonerare l’organo di vertice dalle responsabilità connesse al verificarsi di un evento lesivo della salute di un dipendente. Anche dopo l’emanazione del d. lgs. n. 626/1994, infatti, la giurisprudenza, in applicazione del principio di effettività, tende piuttosto a sommare le responsabilità di tutti i livelli, sia politici che dirigenziali. Le perplessità sembrano aumentare soprattutto quanto si tratta di Amministrazioni autonome, in particolare negli Enti Locali o nelle Amministrazioni universitarie (ma qui la disciplina è derogatoria, v. infra): l’ oggettiva contiguità fra organo politico e strutture lavorative difficilmente può avvalorare – e ciò contrariamente alla scelta manifestata dal legislatore con il decreto n. 242/1996 - una totale esclusione del vertice dell’Ente dalle responsabilità derivanti dall’assunzioni degli obblighi connessi alla sicurezza sul lavoro.

Un forte chiarimento interpretativo è stato fornito sul punto da Cassazione pen. 27 settembre 1997, n. 8678, che ha ritenuto che il Presidente dell’ Ente (nel caso la Provincia), fosse da considerarsi responsabile, unitamente all’ingegnere capo, sulla base della stretta connessione esistente tra responsabilità del dirigente e possesso di autonomia gestionale. Per la Cassazione, infatti, è necessario che alle specifiche competenze del dirigente-datore di lavoro corrispondano attribuzioni gestionali con particolare riguardo alle capacità di assumere iniziative contrattuali ed impegni di spesa ai fini della conservazione e manutenzione dei beni. Poiché dagli atti non emerge il riconoscimento di tale iniziativa gestionale in capo all’ingegnere, in mancanza, permane in capo al rappresentante legale dell’Ente territoriale il generale obbligo di vigilare sulla concreta osservanza delle misure antinfortunistiche. Sul punto, occorre richiamare Cassazione pen. 19 maggio 1998, secondo cui anche successivamente all’emanazione del d. lgs. 242/1994, nell’ambito degli Enti Locali, il datore di lavoro non è sempre e comunque il Sindaco o il Presidente.

Detto in altri termini, il datore di lavoro può essere anche individuato nel sindaco o nel Presidente, come di fatto avviene in molti Enti Locali - specie in quelli di minori dimensioni - ma questa non è regola assoluta (così Pret. Agrigento 14 maggio 1997). Per la verità, è giusto qui richiamare una specifica circolare del Ministero dell’Interno (17 dicembre 1996, n. 3/96), nella quale una scelta del genere viene considerata non illegittima ma assolutamente residuale, anche in considerazione della disposizione dell’art. 19 co. 2 d.lgs. n. 336/1996, ai sensi del quale soltanto nei Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, l’organo esecutivo può, con delibera motivata - che riscontri in concreto la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee - affidare ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità dei servizi o di parte di essi, unitamente al potere di assumere gli atti di gestione. Per quanto qui interessa, dunque, il datore di lavoro per la sicurezza dovrebbe essere individuato essenzialmente nel funzionario cui è affidata la responsabilità del servizio: soltanto quando tale figura non sia presente nei Comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti, sarebbe consentito indicarlo nell’ Assessore competente o nell’intera Giunta.

Peraltro, non si deve dimenticare come, in virtù dell’art. 51 co. 3 bis della legge n. 142/1990 - modificato dalla legge n. 127/1997 e dalla legge n. 191/1998 (e confermato dalla riforma dell’ordinamento degli Enti Locali attuata con legge n. 265/1999) - si stabilisce che, nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale, le funzioni relative (in particolare) agli atti di gestione finanziaria ed all’assunzione degli impegni di spesa, possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco,  ai responsabili degli uffici e dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga ad ogni diversa disposizione (sul punto v. ora gli artt. 107 e 109 del d. lgs. n. 267/2000, T.U. delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali). Inoltre, poiché l’art. 51 co. 3 bis fa salva l’applicazione dell’art. 17 co. 68, lett. c) della legge n. 127/1997, è possibile che la funzione sia attribuita al segretario comunale il quale, com’è noto, esercita ogni funzione attribuitagli dallo Statuto o dai Regolamenti o conferitagli dal sindaco o dal presidente della Provincia (art. 97 co. 4, lett. d), d. lgs. n. 267/2000).

E’ evidente che il dirigente-funzionario destinatario della nomina a datore di sicurezza dall’organo di vertice dell’Ente in considerazione della posizione ricoperta, non potrà rifiutare l’incarico. Sotto il profilo funzionale, tuttavia, occorre ribadire come la mera attribuzione formale della qualifica di datore di lavoro serve a ben poco se non è accompagnata dal conferimento di adeguati poteri gestionali, la cui ampiezza segnerà esattamente il livello delle responsabilità penali del soggetto al quale è stato assegnato l’incarico. In tal senso, si pronuncia chiaramente Cassazione pen. 29 maggio 2000, n. 6176, affermando che, nel settore pubblico, il datore di lavoro a fini previdenziali si caratterizza non tanto per la titolarità di poteri decisionali e di spesa, quanto piuttosto per i concreti poteri di gestione in ordine all’attività ed all’ufficio cui è preposto. Nell’adempimento di tali obblighi, il datore di lavoro non ha vincoli di subordinazione gerarchica e funzionale da rispettare, né deve sottostare alle decisioni dei soggetti preposti agli organi di governo e di vertice degli enti pubblici, pur restando comunque fermo il potere di controllo sul suo operato, che discende direttamente dal rapporto di servizio che lo lega all’ente medesimo.

A conferma di ciò, può citarsi una decisione dell’Ufficio indagini preliminari di Milano del 21 gennaio 1998, nella quale, relativamente al decreto del Ministero di Grazia e Giustizia del 18 novembre 1996 che individuava nei capi degli uffici giudiziari l’attribuzione del ruolo del datore di lavoro per la sicurezza (sul punto v. anche Cassazione pen. 16 dicembre 1999, n. 4263 che indica nel Presidente del Tribunale il datore di lavoro per la sicurezza), valuta come inefficace tale individuazione, non essendo stati trasferiti agli stessi capi degli uffici i poteri di spesa necessari ad assicurare il rispetto della normativa prevenzionale. Come può facilmente evincersi, in entrambe le decisioni è la rilevanza attribuita al criterio sostanziale dei poteri l’unico vero parametro valido, sia nel pubblico che nel privato, per la corretta individuazione di chi dovrà rispondere delle eventuali violazioni di legge, evitando ogni possibile tentativo diretto ad esonerare i vertici dell’Ente dall’osservanza degli obblighi prevenzionali più rilevanti, trasferendoli a valle, sulla base di indicazioni nominali ed in difetto dell’attribuzione di corrispondenti poteri effettivi di gestione.

La conseguenza di quanto argomentato è che, in buona parte delle Amministrazioni Pubbliche, la responsabilità ai fini della sicurezza dell’organo politico o di vertice, quantomeno in termini di concorso, non è detto che sia automaticamente da escludersi. In tal senso, si esprime con sufficiente chiarezza il decreto interministeriale n. 633 del 5 agosto 1998 relativo alla sicurezza del lavoro in ambito universitario (ma trattasi di disciplina speciale), il quale identifica senz’altro il datore di lavoro nell’organo di governo dell’ente, cioè nel Rettore, o nei soggetti di vertice delle strutture autonome nelle quali si articola l’Amministrazione universitaria (Presidenze di Facoltà, dipartimenti, istituti, centri di servizio o di assistenza, aziende universitarie, ogni altra struttura singola o aggregazione di strutture omogenee dotate di poteri di spesa e di gestione, istituite dalle università ed individuate negli atti generale di ateneo). Per quanto riguarda, invece, gli istituti di istruzione e di educazione, relativamente ai quali è stato emanato il decreto interministeriale 29 settembre 1998, n. 382 [nota 2], tale normativa individua nei presidi e nei direttori didattici i datori di lavoro per la sicurezza.

Altra importante indicazione interpretativa proviene dall’art. 3 del d.lgs. n. 80/1998, il quale, sostituendo l’art. 3 del d.lgs. n. 29/1993, ha ribadito la netta separazione tra funzione politica dell’organo di governo e funzione amministrativa e gestionale dei dirigenti, precisandone le rispettive competenze. La norma in questione afferma che competono agli organi di governo le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo (art. 3 lett. a) nonché l’individuazione delle risorse umane, materiali ed economico- finanziarie da destinare alle diverse finalità. Dalla lettura di questa norma sembrerebbe spettare all’Organo di vertice dell’Ente il compito di dare concreta attuazione alla normativa prevenzionistica, individuando, ad esempio, la struttura del servizio di prevenzione e nominandone il responsabile. Allo stesso modo, parrebbe competere allo stesso organo di vertice dell’ente mettere il dirigente in condizione di beneficiare di quell’autonomia finanziaria e di spesa senza la quale nessuna responsabilità in materia di sicurezza può legittimamente essergli addossata.

Ai fini di una corretta interpretazione di tali disposizioni, una parte della dottrina ha ritenuto opportuno richiamare la nozione di datore di lavoro espressamente dettata dall’art. 2, lett. b), prima parte – quella destinata alle aziende private -  attribuendole valore di definizione generale valevole per il privato come per il pubblico. Ai sensi di questa nozione, l’organo politico potrebbe identificarsi con il datore di lavoro per la sicurezza, quando, secondo il tipo e l’organizzazione che l’Ente si è dato per Statuto e Regolamento, esso sia titolare dei poteri decisionali e di spesa. In ragione di ciò, l’incertezza qualificatoria su chi sia il datore di lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, almeno per l’interprete rigoroso, resta.

Altrettanto forti sembrano essere poi i dubbi relativi alla possibilità di attribuire una “delega di responsabilità” interna all’organo di vertice dell’Ente. La giurisprudenza precedente all’emanazione del d. lgs. n.  626/1994 aveva, ad esempio, ritenuto che il conferimento della delega ad un assessore varrebbe a liberare da responsabilità il capo dell’ente (Cass. 3 aprile 1992, n. 3840). Secondo un indirizzo decisamente più rigoroso si era, tuttavia, ritenuto che il Sindaco avrebbe dovuto essere considerato comunque responsabile tutte le volte in cui, personalmente sollecitato circa i pericoli che sarebbero derivati agli interessati dalla mancata adozione delle misure di prevenzione degli infortuni, avesse omesso di esercitare i poteri del delegante o di intervenire per porre rimedio alla situazione di pericolo.

La questione dell’identificazione “formalmente necessaria” della figura del datore di lavoro per la sicurezza nel dirigente dell’ufficio autonomo merita un’ultima riflessione. Al di là del vero e proprio dirigente [nota 3], l’art. 2, lett. b) prevede che, nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni, possa essere considerato datore di lavoro per la sicurezza il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nella sua qualità di preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale.

La norma trova conferma nella disposizione dell’art. 6 co. 3 della legge 15 maggio 1997, n. 127, come modificata dalla legge 16 giugno 1998, n. 191, con la quale si è stabilito che, negli Enti Locali minori privi di personale dirigente, le funzioni proprie dei dirigenti sono esercitate dai responsabili degli uffici o dei servizi. Ne consegue che anche il semplice capo ufficio potrebbe essere legittimamente gravato della responsabilità datoriale in relazione alla sicurezza nell’ambito dell’ente cui appartiene.

 

4. La delega di funzioni. Condizioni di ammissibilità e di legittimità

 

Connesso al tema dell’individuazione del datore di lavoro per la sicurezza è quello delle caratteristiche e dei limiti della c.d. delega di funzioni.

Si è visto come l’insieme dei precetti posti a tutela della salute e dell’incolumità dei lavoratori è prioritariamente destinato al titolare o legale rappresentante dell’Ente, che, in quanto tale, non dovrebbe sottrarsi all’imprescindibile dovere che ne consegue.  Detto altrimenti, il datore di lavoro si trova responsabile di una posizione di garanzia, per sua natura inderogabile.

La ripartizione degli obblighi di sicurezza tra datori di lavoro, dirigenti e preposti ha la propria fonte direttamente nella legge (c.d. imputazione originaria degli obblighi); da questa, si distingue l’ipotesi della delega di funzioni (c.d. imputazione derivata degli obblighi). La seconda delle tue tipologie di imputazione non è oggettivamente necessaria, almeno sotto un primo profilo di indagine: l’imputazione originaria è sufficiente a stabilire doveri e responsabilità per tutti i soggetti tenuti ad assicurare la salute e la sicurezza nell’ambiente di lavoro.

Tuttavia - come ben ricorda Cass. Pen. 27 marzo 1998, n. 5889 - soprattutto quando si tratta di un Ente pubblico, l’attività funzionale richiede, attraverso l’approvazione di propri atti di autoregolamentazione, di essere organizzata in settori, rami o servizi e che a ciascuno di essi siano preposti, in concreto, soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione completa degli affari di quel servizio. Così, l’imputazione originaria degli obblighi può risultare insufficiente a dar conto delle dinamiche organizzative delle strutture più complesse.

Sul punto, prima dell’emanazione del d. lgs. n. 626/1994, la giurisprudenza aveva attribuito valore determinante al già citato criterio dell’effettività, sia per l’individuazione della persona fisica che nell’ambito di una struttura organizzativa complessa possa ritenersi destinataria principale degli obblighi posti dalla legge a carico del datore di lavoro, sia per l’accertamento delle eventuali responsabilità di altri soggetti – dirigenti e preposti – ai quali, in forza di una espressa delega fosse stato trasferito il compito di provvedere all’adempimento di alcuni di tali obblighi.

Per dirla altrimenti, l’imputabilità per le contravvenzioni prevenzionali viene acclarata non in ragione della “carica” ricoperta ma facendo piuttosto riferimento al livello di autonomia decisionale e finanziaria realmente attribuita in corrispondenza della posizione occupata. Ognuno risponderà solo per ciò che è in grado di fare o non fare, tanto sul piano di una distribuzione “orizzontale” delle incombenze che sul piano “verticale” della scala gerarchica predisposta per attuare, specie nel pubblico, il decentramento operativo e gestionale tipico delle moderne strutture amministrative.

Nessun ordinamento giuridico potrà mai consentire il trasferimento di responsabilità penali da un soggetto ad un altro per effetto di semplici atti di determinazione privata; tuttavia, nulla impedisce – anzi, in molti casi, ciò si rende necessario proprio per assicurare il puntuale rispetto degli obblighi imposti dalla legge – di procedere ad un’adeguata ripartizione di funzioni e poteri dei quali l’originario titolare deve inevitabilmente spogliarsi, affidandole interamente a collaboratori capaci e competenti. La delega di funzioni avrà, pertanto, efficacia liberatoria per il delegante nell’esatta misura in cui l’autonomia decisionale e di spesa sarà stata dal medesimo concretamente trasferita al delegato, con esclusione di qualsiasi successiva forma di ingerenza operativa.

Secondo gli orientamenti prevalenti di dottrina e giurisprudenza, perché la delega in ambito prevenzionale sia considerata ammissibile e legittima occorre: che il delegato sia persona provvista di capacità tecnico- professionali adeguate; che egli abbia liberamente accettato l’incarico; che si provveda ad una specificazione dei compiti; che abbia ampia autonomia decisionale; che sia esclusa qualsiasi forma di ingerenza del delegante; che sia attivato un sistema di controllo dell’operato del delegato (nel caso il delegante venga a conoscenza del mancato rispetto della legge da parte del delegato e non intervenga, l’efficacia liberatoria della stessa può venir meno); che risulti, unitamente alla sua accettazione, da atti inequivoci o da fatti concludenti (in alcuni casi si pretende l’atto scritto); che le dimensioni aziendali ne giustifichino l’utilizzazione, vale a dire si sia in presenza di inderogabili esigenze organizzative che più raramente sono riscontrabili nelle piccole e medie strutture.

Con l’emanazione del d. lgs. n. 626/1994, sul descritto quadro normativo di legittimità della delega si è inciso profondamente. I primi commentatori del decreto si sono fin da subito interrogati sulle ragioni della scelta, compiuta dal legislatore del 1994, di distinguere fra obblighi posti a carico indistintamente del datore di lavoro, del dirigente e del preposto ed obblighi posti a carico del solo datore; una distinzione ribadita anche a livello sanzionatorio, con la comminazione di pene diverse a seconda di chi fosse  il destinatario dell’obbligo che non lo avesse ritualmente osservato. A quanti ritenevano tale scelta priva di conseguenze in merito al regime della delega, altri contestavano che la scelta del legislatore aveva reso intrasferibili per delega gli obblighi posti unicamente a carico del datore di lavoro, nel senso che quest’ultimo avrebbe comunque dovuto essere considerato responsabile per la loro violazione, anche nel caso avesse conferito apposita delega per la loro esecuzione. A queste due tesi se ne era aggiunta una terza, la quale sosteneva doversi mantenere, in capo ai ruoli piramidali delle aziende, la responsabilità per l’osservanza dei precetti prevenzionali di maggior rilievo, consentendone la delega, con effetti liberatori, limitatamente agli aspetti attuativi del programma di apprestamento delle misure.

Purtroppo, nessuna delle tre argomentazioni risultava pienamente appagante. E’ stato così necessario l’intervento chiarificatore del legislatore: il decreto legislativo n. 242 del 1996, infatti, oltre alla modifica inerente l’individuazione del datore di lavoro di cui abbiamo parlato, si è impegnato a ripensare il meccanismo delle deleghe. Nell’art. 1 co. 4 ter, infatti, si stabiliscono i casi in cui la delega deve ritenersi inammissibile – valutazione dei rischi (nelle diverse forme consentite), aggiornamento di tale valutazione, organizzazione e aggiornamento di una adeguato servizio di prevenzione e protezione e nomina del suo responsabile -  così da doversi riconoscere, per converso, la legittimità e la validità in tutte le numerosissime altre ipotesi di delega non espressamente colpite dal divieto.

In verità, la dottrina ha ulteriormente ampliato il limite dell’indelegabilità degli obblighi di sicurezza (fatta eccezione per la c.d. delega di mera esecuzione, che non realizza alcun “effetto liberatorio” in capo al datore delegante), richiamando espressamente il disposto dell’art. 89 co. 1 del d.lgs. n. 626/1994 in materia di sanzioni previste nel caso di violazioni commesse dal datore di lavoro. Si tratta delle disposizioni di cui agli artt. 63 co. 1,4 e 5 (in materia di valutazione dell’esposizione di lavoratori ad agenti cancerogeni, all’integrazioni dei dati nel documento di valutazione ed all’aggiornamento dello stesso documento), 69 co. 5, lett. a) (in materia di accertamenti sanitari, dopo informativa del medico, il datore provvede a nuova valutazione dei rischi), art. 78 co. 3 e 5 (nuova valutazione del rischio in caso di modifiche dell’attività lavorativa, con integrazione del relativo documento), art. 86 co. 2 ter (nuova valutazione del rischio dopo informazione del medico competente conseguente ad accertamenti sanitari conseguente a lavorazioni sottoposte a sorveglianza). Tale soluzione interpretativa sembra convincente, anche perché tutte le disposizioni richiamate attengono alla valutazione dei rischi ed al relativo documento (che spetta in via esclusiva al datore di lavoro), manifestando quindi una stretta omogeneità qualitativa con quanto disposto espressamente nell’art. 1 co. 4 ter.

La soluzione adottata dal legislatore molto si avvicina al terzo orientamento dottrinale sopra descritto, quello che, all’indomani dell’emanazione del decreto legislativo 626/1994, sosteneva da un lato, l’assoluta intrasferibilità dei compiti primari del datore di lavoro e, dall’altro, la completa delegabilità - con conseguente liberazione da ogni responsabilità di tipo penale - di tutti gli altri adempimenti di natura esecutiva ed attuativa. In tal senso, il decreto correttivo n. 242/1996 non ha fatto che confermare l’apertura di spazi di delegabilità ampi degli obblighi di sicurezza incombenti sul datore di lavoro, una volta definito un numero limitato e tassativo di esclusioni. L’intento perseguito è stato chiaramente quello di rafforzare il processo di responsabilizzazione dei massimi livelli della gerarchia dell’Ente, affinché possa partire dal vertice un forte impulso idoneo ad attivare, nel migliore dei modi possibili, il complesso meccanismo della programmazione prevenzionale.

Rispetto al passato, poi, nel nuovo assetto il ricorso alla delega sembra consentito anche nelle aziende ed organizzazioni di piccole dimensioni. Infatti, ai sensi dell’art. 4 co. 11, del decreto n. 626/1994, anche nelle imprese minori fino a 10 addetti, non è delegabile da parte del datore di lavoro l’autocertificazione di aver provveduto alla valutazione dei rischi.  Una tale disposizione induce l’interprete a ritenere, con ragionamento a contrario, che tutti gli altri adempimenti potranno formare oggetto di delega. Ovviamente, affinché tale delega possa considerarsi validamente conferita, occorrerà - come si è più volte ricordato in precedenza - che sia conferita ad un soggetto tecnicamente capace, disposto ad accettarla e provvisto dei necessari poteri di decisione e di spesa. La responsabilità degli incaricati si potrà evidenziare entro i precisi limiti tracciati dall’organigramma aziendale; qualora i poteri conferiti siano inadeguati o insufficienti rispetto alle responsabilità che ne deriverebbero, le eventuali “mancanze”nell’approntamento delle misure di sicurezza non potranno che continuare a farsi ricadere automaticamente in capo al delegante.

Per quanto specificamente concerne il pubblico impiego, dopo il d. lgs.  n. 80/1998, la delega di sicurezza sembra rientrare tra gli atti indicati dall’art. 4 co. 2 del d. lgs. n. 29/1993, vale a dire nell’ambito delle determinazioni organizzative che vengono assunte dai dirigenti nel rispetto delle leggi e degli atti organizzativi di carattere generale adottati dall’Ente di appartenenza.

Le disposizioni del d. lgs. n. 80/1998 inducono a riflettere anche in merito alla natura giuridica dell’atto di delega. Se si identifica il datore di lavoro ai fini della sicurezza, come pare debba necessariamente farsi, con il dirigente responsabile dell’Ufficio, la delega non può non assumere tutte le caratteristiche di un  atto privatistico di gestione del rapporto di lavoro. Se, invece, il datore dovesse essere individuato nell’organo politico di vertice, la delega dovrebbe rientrare nel novero dei provvedimenti amministrativi.

Com’è facile intuire, la questione della natura giuridica della delega di funzioni non è puramente speculativa, ma presenta importanti riflessi sul piano dei rimedi giurisdizionali, sebbene la qualificazione della delega in termini di provvedimento non sottrarrebbe automaticamente le eventuali controversie da essa nascenti alla cognizione del giudice del lavoro, competente in via generale a conoscere delle controversie di lavoro dei dipendenti. Infatti, la delega potrebbe rientrare tra i c.d. atti presupposti, quelli che possono essere disapplicati dal giudice ordinario: nella competenza del giudice amministrativo rimarrebbero soltanto le controversie aventi ad oggetto i vizi del provvedimento di delega considerato nella sua essenza di atto amministrativo.

 

5. Sul servizio di prevenzione e protezione

E’ necessario dedicare una breve riflessione ad uno degli aspetti più innovativi introdotti dal decreto legislativo n. 626/1994 (art. 8): si tratta del Servizio di prevenzione e protezione, la scelta del cui responsabile – è opportuno rammentarlo - rientra tra gli adempimenti indelegabili del datore di lavoro.

Il Servizio di prevenzione e protezione può essere strutturalmente considerato un “organo tecnico”, dotato di importanti compiti, quali l’individuazione dei fattori di rischio, delle misure per la sicurezza e la salubrità negli ambienti di lavoro. In quanto tale, il Servizio di prevenzione è utilizzato dal datore di lavoro come strumento di ausilio mirato ad agevolare il corretto adempimento dell’obbligo di sicurezza. In una sentenza della Pretura di Trento del 25 gennaio 1999, relativamente al responsabile del Servizio di prevenzione e protezione, si precisa che detto responsabile ha esclusivamente il compito di segnalare la presenza di omissioni in materia, dovendo, poi, il datore di lavoro stesso provvedere all’applicazione delle prescrizioni del caso.

E’ possibile che il Servizio prevenzione e protezione coincida sostanzialmente con strutture già esistenti nell’ambito dell’Ente (ma probabilmente da riqualificare) o essere costituito ex novo, visto che gli uffici tecnici presenti nelle Amministrazioni non sono normalmente in grado di garantire l’esecuzione di tutti i molteplici adempimenti richiesti dal d. lgs. n. 626/1994. In ogni caso, sembra pacifico ritenere che il servizio di prevenzione possa essere integralmente esternalizzato, anche se ciò implica costi abbastanza elevati.

Per istituire il servizio di prevenzione e protezione, le Pubbliche Amministrazioni devono adottare un atto di autorganizzazione, di cui non è facile individuare la competenza, visto che l’organizzazione del servizio è atto di natura politica. Sul punto, il decreto interministeriale sulle Università, ad esempio, ricomprende tra gli obblighi del solo Rettore – nonostante, in materia, quest’ultimo condivida il ruolo di datore di lavoro con gli altri soggetti di vertice delle strutture autonome nelle quali si articola l’Università - la nomina del responsabile del servizio: la scelta sembra finalizzata a favorire la creazione di un Servizio unico per l’intera Università, strutturato per sede o polo.

Sempre a proposito del servizio di prevenzione e protezione, il decreto interministeriale 29 agosto 1997 n. 338, destinato all’individuazione delle particolari esigenze delle strutture giudiziarie e penitenziarie - dopo aver precisato che l’applicazione delle disposizioni del d. lgs. n. 626/1994 non può comportare l’eliminazione o la riduzione dei sistemi di controllo, di selezione dell’accesso al pubblico e di difesa necessari, per quanto concerne il servizio di prevenzione e protezione all’art. 6 (relativo al servizio di prevenzione e protezione) - precisa che questo va organizzato necessariamente come servizio interno, composto da personale dipendente, da sottoporre ad apposita attività formativa.

Del Servizio di prevenzione e protezione si interessa specificamente anche l’art. 2 del decreto interministeriale 29 settembre 1998 n. 382, destinato alla sicurezza nelle Istituzioni scolastiche. Nel primo comma, si afferma che il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del responsabile del Servizio di prevenzione e protezione dai rischi nel caso in cui il numero dei dipendenti dell’istituzione scolastica o educativa, con esclusione degli allievi, non superi le 200 unità. Nel diverso caso in cui il datore designi il responsabile del Servizio di prevenzione, deve individuarlo tra le categorie del personale interno all’unità scolastica che possa dimostrare capacità comprovata da iscrizione ad albi professionali, o sia in possesso di attitudini e capacità adeguate e documentate.

Il quarto comma sembra consentire a gruppi di Istituti di avvalersi in comune dell’opera di un unico esperto esterno al fine di integrare l’azione di prevenzione e protezione svolta dai dipendenti individuati dal datore. A tal fine, è possibile stipulare apposita convenzione, prioritariamente con gli Enti Locali competenti per la fornitura degli edifici scolastici e dei relativi interventi in materia di sicurezza.

 

6. Il coordinamento degli Enti Locali in materia di sicurezza

La prima riflessione da farsi in merito al possibile coordinamento fra Enti Locali in tema di sicurezza riguarda l’utilizzazione, da parte di un dato ente, di immobili di proprietà o ceduti in uso da un altro (Ente); a questo proposito, deve essere segnalata un’altra importante innovazione introdotta dal decreto n. 242/1996.

Il decreto n. 626/1994 contiene ora una apposita disposizione (art. 4 co. 12) secondo la quale gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del decreto, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a Pubbliche Amministrazioni o a pubblici uffici, comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell’Amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura o manutenzione. Ciò in considerazione del fatto che gran parte degli interventi prevenzionali di bonifica in settori come gli ospedali, le scuole, le università, le attività giudiziarie richiedono rilevanti modifiche strutturali, riadattamento, manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici in cui sono allocati e che appartengono, o sono concesse in uso, da altri Enti pubblici come il Comune, la Provincia, la Regione o lo stesso Stato.

L’aspetto più rilevante della problematica affrontata riguarda però il modo in cui devono essere assolti gli obblighi di sicurezza relativi ai suddetti interventi; sotto un profilo strettamente giuridico, tali obblighi s’intendono rispettati da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati (nella loro qualità di datori di lavoro), con la richiesta del loro adempimento rivolta all’amministrazione competente o al soggetto che specificamente ne ha assunto l’obbligo giuridico.

E’ evidente che nulla garantisce che l’Amministrazione competente a provvedere, nonostante le sollecitazioni degli uffici interessati, non rimanga inerte. Si potrebbe, dunque, determinare una situazione potenzialmente di pericolo per i fruitori dell’edificio.

Sul punto, nel tentativo di ovviare ad una probabile situazione di pericolo determinata dal mancato assolvimento degli obblighi di sicurezza, l’art. 5 del decreto interministeriale 29 settembre 1998, n. 382 relativo agli Istituti di istruzione ed educazione di ogni ordine e grado - significativamente rubricato Raccordo con gli Enti Locali - stabilisce che il datore di lavoro, dopo aver richiesto agli Enti Locali la realizzazione degli interventi di cui all’art. 4 co. 12 del decreto legislativo n. 242/1996, qualora ravvisi un grave ed immediato pregiudizio alla sicurezza ed alla salute dei lavoratori e degli allievi, sentito l’eventuale responsabile del servizio di prevenzione e protezione, adotta ogni misura idonea a contenere o eliminare lo stato di pregiudizio, informandone contemporaneamente l’Ente Locale per gli adempimenti d’obbligo. Nel terzo comma si ribadisce, inoltre, che l’autorità scolastica competente per territorio promuove ogni altra iniziativa di raccordo e di coordinamento tra le istituzioni scolastiche ed educative e gli Enti Locali ai fini dell’attuazione delle norme del presente decreto.

Le disposizioni relative al coordinamento fra gli Enti Locali contenute nel decreto n. 382/1998 si spingono oltre gli importanti obiettivi individuati nell’art. 5. Nell’art. 3 co. 2, infatti, relativamente alle scuole statali, si stabilisce che il datore di lavoro, al fine di redigere il documento di valutazione dei rischi, può avvalersi della collaborazione degli esperti degli Enti Locali tenuti alla fornitura degli immobili, nonché degli Enti istituzionali preposti alla tutela ed alla sicurezza dei lavoratori (Asl, Direzione provinciale del lavoro, Regioni, Ispel ed Inail). Relativamente all’individuazione del Medico competente, ad esempio - la cui nomina è conseguente all’esistenza di situazioni di esposizione al rischio della salute dei lavoratori tali da rendere obbligatoria la sorveglianza ai sensi dell’art. 4. co. 2 -  va concordata preferibilmente con le aziende sanitarie locali competenti per territorio, o con una diversa struttura pubblica in cui sia disponibile un medico con i requisiti previsti, e il suo servizio va organizzato sulla base di apposite convenzioni.

Infine, per quanto concerne il Servizio di prevenzione e protezione di cui si è già trattato, il quarto comma dell’art. 2 del decreto n. 382/1998 consente che, sulla base di un’apposita convenzione con gli Enti Locali incaricati di fornire edifici scolastici e relativa manutenzione, gruppi di istituti possano avvalersi di un unico esperto esterno convenzionandosi, a tal fine, prioritariamente proprio con i suddetti Enti Locali (in ragione di un efficace coordinamento degli interventi a cui gli stessi Enti sono per legge tenuti ai sensi dell’art. 4 co. 12 d. lgs. n. 626/1994). In via subordinata, la Convenzione può essere stipulata anche con Enti o Istituti specializzati in materia di sicurezza o altro esperto esterno. La suddetta convenzione può essere direttamente stipulata dall’autorità scolastica competente per territorio.

 

7. Cenni sul c.d. “danno di sicurezza risarcibile”

Il danno risarcibile varia in base al diritto leso ed alla condotta tenuta, che può essere variamente apprezzata come illecito extracontrattuale o, piuttosto, inadempimento contrattuale.

Affinché possa aversi risarcimento del danno, occorre che la perdita (subita dal creditore) determinata dall’inottemperanza all’obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro sia conseguenza immediata e diretta del danno ingiusto che ha determinato il pregiudizio patrimoniale. La liquidazione del danno deve avere ad oggetto l’intero pregiudizio patito dal lavoratore a seguito della menomazione della sua integrità psico-fisica.

Il risarcimento del danno deve comprendere tutte le singole voci previste dal Codice Civile. Tra queste rientra il c.d. danno patrimoniale: esso comprende sia il danno emergente (che per la normativa antinfortunistica è costituito dal danno riportato dal lavoratore, eventualmente per spese mediche ed accertamenti diagnostici a seguito dell’infortunio), sia il lucro cessante, vale a dire il mancato guadagno derivante dall’evento e/o anche la riduzione temporanea o permanente della capacità lavorativa. Nel caso di danno derivante da fatto illecito, il danno risarcibile è costituito dall’ammontare di quanto patito dal danneggiato al momento della liquidazione, cui si aggiungono gli effetti economici pregiudizievoli verificabili in futuro quale conseguenza del fatto illecito subito.

Nel caso che all’evento dannoso abbia concorso la condotta colposa del danneggiato, si determinerà una riduzione del risarcimento, ciò in applicazione del principio di causalità, che richiede al danneggiato di adottare un comportamento corretto che possa riuscire a circoscrivere gli effetti del pregiudizio subito ed a impedirne l’aggravamento.

E’, altresì, risarcibile il c.d. danno non patrimoniale, riconducibile al dettato dell’art. 2059 c.c. Esso consiste nel dolore fisico o psichico patito dal lavoratore o da un terzo, in qualità di danneggiati dall’evento considerato. Il danno non patrimoniale - meglio noto come danno morale - si sostanzia in un ingiusto perturbamento dello stato d’animo del soggetto leso determinato dall’offesa ricevuta, ed è risarcibile soltanto nel caso in cui derivi da fatto costituente reato. La Cassazione ha, tuttavia, recentemente ribadito che la sua risarcibilità non richiede che il fatto illecito integri in concreto un evento penalmente perseguibile, essendo sufficiente che sia astrattamente previsto come reato e sia idoneo a ledere il bene tutelato dalla norma.

Altro elemento di danno risarcibile è costituito dal c.d. danno biologico, che costituisce una voce autonoma, liquidabile separatamente o congiuntamente al danno non patrimoniale. Esso identifica una menomazione dell’integrità psico-fisica della persona incidente sul “valore uomo” in tutta la sua dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma è altresì collegata alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita ed aventi rilevanza non soltanto economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica.

Il danno biologico investe l’efficacia lavorativa, la capacità di produrre reddito, la vita di relazione, le patologie psicofisiche, l’aspetto estetico, la sfera sessuale. Detto altrimenti, esso costituisce una menomazione dell’integrità psico-fisica, in quanto il bene della salute rappresenta un vero e proprio diritto soggettivo, primario ed assoluto, pienamente operante nei rapporti interprivati e suscettibile di autonomo apprezzamento, indipendentemente dall’incidenza immediata e diretta in termini di produzione del reddito.

E’, pertanto, corretto considerare il danno biologico come un tertium genus di danno, da liquidare autonomamente come ristoro integrale del danno alla salute dell’individuo. Nel fare ciò, il giudice dovrà indicare con precisione gli estremi logico-giuridici che lo hanno guidato nell’azione di accertamento, azione facilitata dall’utilizzazione di apposite tabelle messe a punto sulla base di parametri oggettivi quali l’età, la capacità lavorativa, l’infermità. L’azione di risarcimento si prescrive in cinque anni, salvo che non derivi da reato.

 


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[nota 1]

Al legislatore degli anni cinquanta si deve la scelta di includere, nel novero dei soggetti gravati dall’obbligo di sicurezza, anche i dirigenti ed i preposti; è questo il contesto che ha consentito a dottrina e giurisprudenza di elaborare più attentamente il concetto di “delega di funzioni”, al fine precipuo di conciliare il principio della responsabilità penale personale con il fenomeno della complessa articolazione organizzativa degli enti collettivi pubblici e privati.



[nota 2]

Il decreto ha equiparato ai lavoratori subordinati il personale docente nonché gli stessi allievi quando i programmi prevedano l’uso di laboratori appositamente attrezzati, con possibile esposizione ad agenti chimici fisici e biologici, o di macchine apparecchi e strumenti di lavoro compresi i videoterminali. L’equiparazione per gli allievi opera soltanto per il periodo in cui siano effettivamente applicati in tali compiti. Inoltre, detti allievi non sono computabili per la determinazione del numero dei lavoratori dal quale il decreto fa discendere l’osservanza di determinati obblighi, vista la natura delle attività svolte.



[nota 3]

Il dirigente è un dipendente che appartiene al ruolo unico della dirigenza istituito dall’art. 23 del decreto n. 29/1993, così come modificato dall’art. 15 del d. lgs. n. 80/1998 e dall’art. 8 del d.lgs. n. 387/1998, nel quale confluiscono, suddivisi in due fasce, i dirigenti addetti ad uffici di livello generale e i dirigenti (di seconda fascia), non addetti a tali uffici e quindi da ritenersi sotto ordinati ai primi.