3. Gli approfondimenti su temi particolari
3.1. Gli infortuni legati alle macchine e attrezzature da lavoro. Il problema del settore agricolo-forestale
Già negli anni passati (si vedano le precedenti relazioni intermedie) la Commissione si era occupata attivamente della questione degli infortuni legati all’uso di macchine e attrezzature da lavoro. Com’è noto, alcune macchine e attrezzature non dispongono di tutti i necessari dispositivi atti a garantire la sicurezza degli operatori, perché troppo vecchie (e quindi tecnologicamente superate) o perché presentano difetti di progettazione che non tengono conto delle effettive esigenze di tutela degli utilizzatori.
Il problema non riguarda pertanto solo le macchine più obsolete, ma talvolta anche quelle di nuova immissione sul mercato che, benché formalmente in regola con le prescrizioni vigenti (ad esempio con la marcatura CE), possono però all’atto pratico risultare prive delle dotazioni che sarebbero più adeguate rispetto alle condizioni concrete in cui si svolge un certo tipo di lavoro.
La conseguenza di tale situazione è che ogni anno si verificano numerosi e gravi incidenti, spesso mortali, derivanti dall’utilizzo di macchine e attrezzature da lavoro non idonee. I settori più colpiti sono, statisticamente, quello agricolo-forestale e quello edile, che fanno ampio uso di macchinari e attrezzi in spazi aperti e in condizioni di lavoro spesso variabili e quindi meno controllabili. In particolare, in agricoltura è drammaticamente frequente il caso del ribaltamento dei trattori e del conseguente schiacciamento dei conducenti, legato alle condizioni orografiche del territorio agricolo italiano (in gran parte collinare o montuoso) e all’assenza, su molte macchine, dei dispositivi di sicurezza (barra antiribaltamento, cinture di sicurezze, cabina antischiacciamento).
Al riguardo, la Commissione nei due anni passati ha svolto un intenso lavoro di approfondimento del problema, interpellando sia i rappresentanti delle categorie coinvolte che i vari enti e ministeri competenti. La Commissione ha altresì promosso una serie di atti d’indirizzo, contenuti in vari ordini del giorno nonché nelle risoluzioni approvate dall’Assemblea del Senato il 21 ottobre 2009 e il 12 gennaio 2011, per impegnare il Governo a promuovere iniziative legislative, volte a istituire incentivi economico- fiscali per favorire la rottamazione e la messa in sicurezza delle macchine ed attrezzature agricole, forestali ed edili.
Un primo segnale in questa direzione è giunto con gli incentivi introdotti dal Governo con l’articolo 4 del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, per favorire la sostituzione di macchine o attrezzature agricole e per il movimento terra di fabbricazione anteriore al 31 dicembre 1999, nonché la rottamazione delle gru a torre per l’edilizia messe in esercizio prima del 1º gennaio 1980. Altri fondi ad hoc sono poi disponibili in altri ambiti: ad esempio, come ricordato nel paragrafo 2.4, tra le risorse per le azioni promozionali previste dall’articolo 11 del decreto legislativo n. 81 del 2008 trasferite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali all’INAIL oppure stanziate direttamente dall’INAIL stesso, una quota è riservata specificamente a progetti d’investimento volti a favorire la sostituzione o l’ammodernamento di attrezzature di lavoro non a norma.
Tali interventi possono però risolvere il problema solo in minima parte, anzitutto in quanto i fondi a disposizione (necessariamente limitati per i pressanti vincoli di bilancio imposti dall’attuale crisi economica) non coprono le effettive esigenze di ammodernamento del parco macchine. In secondo luogo, nel settore agricolo-forestale – il più colpito da questo tipo di incidenti – all’obsolescenza o all’inadeguatezza dei macchinari si sommano una serie di problemi strutturali e di lacune legislative e amministrative, che devono essere parimenti affrontati.
Nel corso dell’inchiesta, la Commissione ha ricevuto molte sollecitazioni al riguardo, ad esempio durante le missioni svolte in Regioni a forte vocazione agricola, dove naturalmente il problema è particolarmente sentito, specie nelle zone montuose o collinari. Si tratta però di una situazione molto diffusa, sulla quale una denuncia molto circostanziata è giunta anche dall’Associazione nazionale fra lavoratori mutilati ed invalidi del lavoro (ANMIL), il cui direttore generale, dottor Stefano Giovannelli, è stato audito dalla Commissione il 9 febbraio 2011. Nei giorni precedenti, l’ANMIL aveva infatti richiamato con forza l’attenzione sull’alto numero di infortuni che continuano a funestare il settore agricolo, soprattutto con il ribaltamento dei trattori.
Il dottor Giovannelli ha confermato la gravità del fenomeno, evidenziando come il settore agricolo sconti una serie di problemi strutturali che incidono sugli aspetti della sicurezza: l’alto numero di lavoratori autonomi, l’età elevata di molti addetti, la forte presenza di lavoratori stranieri (regolari o irregolari) e di lavoratori occasionali non esperti, nonché l’elevata polverizzazione delle aziende, la ridotta disponibilità di capitali e la bassa redditività. Tutto ciò rende difficile fare prevenzione e attività di controllo e il numero degli infortuni, anche mortali, resta alto.
Gli incidenti più preoccupanti sono i ribaltamenti dei trattori, causati dall’elevata obsolescenza delle macchine e dalla difficoltà delle aziende di procedere ad una loro sostituzione per i fattori economici prima indicati.
Secondo l’ANMIL, il supporto pubblico con incentivi per la sostituzione o la rottamazione delle macchine, pur utile, non è però risolutivo, mentre andrebbe favorita la manutenzione programmata e potenziati i controlli, nonché avviata un’azione capillare di formazione e informazione a tutti gli addetti, coinvolgendo associazioni ed esperti del settore. L’ANMIL è fortemente impegnata a contribuire a tale azione, ma serve naturalmente un più ampio coinvolgimento delle istituzioni. Rispondendo ad alcune richieste di chiarimento della Commissione, il dottor Giovannelli ha poi confermato che l’utilizzo combinato dei dispositivi di sicurezza oggi presenti sul mercato (cinture di sicurezza, cellula antischiacciamento e strutture antiribaltamento) può effettivamente prevenire gli incidenti, anche se questi supporti da soli non sono risolutivi, come dimostra il fatto che negli ultimi anni si sia determinata grazie ad essi una riduzione degli infortuni in termini relativi ma non assoluti. Serve soprattutto una forte presa di coscienza degli operatori, ma il problema resta complesso, proprio per l’esistenza di molte categorie di addetti difficili da raggiungere ai fini di una specifica formazione.
Nel dibattito è quindi emersa chiaramente la necessità di misure incisive, anche di tipo normativo, che rendano obbligatori gli adeguamenti delle macchine, i controlli e che sanciscano precisi requisiti di età e di capacità per gli operatori che usano le macchine stesse, al fine di ridurre l’alto numero di incidenti. Nelle campagne, infatti, molte macchine sono spesso condotte da persone anziane, ormai in pensione, o da lavoratori occasionali (cosiddetti «hobbisti») che svolgono normalmente altre attività e lavorano nei campi solo nel tempo libero. Si tratta comunque di soggetti che probabilmente non avrebbero, per l’età avanzata o per la mancanza di esperienza, caratteristiche idonee a usare quelle macchine. In questo senso fondamentale appare il coinvolgimento delle istituzioni, non solo centrali ma soprattutto regionali, in quanto specificamente preposte al governo dei territori locali.
Partendo dalle indicazioni emerse da tale confronto, la Commissione ha dunque avviato una serie di ulteriori approfondimenti sul tema, interpellando in primo luogo gli esperti dell’INAIL, tra i quali (a seguito dell’accorpamento tra i due istituti) rientrano ora anche i tecnici dell’ex ISPESL (attuale Dipartimento delle tecnologie di sicurezza), che hanno un’esperienza consolidata sull’argomento delle macchine agricole, in quanto svolgono anche la sorveglianza di mercato per conto del Ministero dello sviluppo economico e, in tale veste, erano già stati sentiti in passato dalla Commissione.
Nel corso dell’audizione, il dottor Vincenzo Laurendi, del Dipartimento tecnologie per la sicurezza, ha anzitutto confermato la gravità di questo fenomeno infortunistico, segnalando che ogni anno muoiono mediamente in Italia circa 160 lavoratori per incidenti legati a macchinari agricoli, specificamente trattori. La causa principale è il ribaltamento orizzontale e trasversale: la legge prevede la presenza di appositi dispositivi di sicurezza, quali l’abitacolo rinforzato e le cinture di sicurezza per la trattenuta dell’operatore, ma su circa 1.600.000 trattori circolanti, circa 800.000 non risultano dotati di questi dispositivi di protezione e circa 1.300.000 non sono dotati di sistemi di ritenuta del conducente.
Il problema è determinato principalmente dall’alto grado di obsolescenza del parco trattori attualmente circolante in Italia. Occorre quindi anzitutto procedere all’adeguamento dei trattori più vecchi, che può avvenire secondo le informazioni tecniche messe a disposizione dall’Istituto già da diverso tempo, che permettono alle officine meccaniche di installare in maniera più o meno semplice detti dispositivi a costi contenuti (circa 2.000-3.000 euro). Il dottor Laurendi ha però anche ricordato che a volte anche i trattori di nuova immissione sul mercato, pur formalmente in regola, possono di fatto non essere dotati di idonei dispositivi di sicurezza per la tutela degli operatori. Si tratta in particolare dei trattori dotati di telai di protezione abbattibili, cioè leggermente pieghevoli in avanti, per garantire all’operatore di lavorare anche nelle operazioni sotto chioma.
Nel 2010 in Italia ci sono stati 15 morti su trattori dotati di telai di protezione tenuti abbattuti. Questo è un problema che deve essere affrontato e risolto a livello normativo e per il quale l’INAIL ha già studiato delle soluzioni di tipo tecnico.
Servono dunque norme che da un lato incentivino la messa in sicurezza dei trattori e ne rendano obbligatoria la revisione periodica (oggi di fatto non prevista dal codice della strada) e che dall’altro prevedano un’adeguata formazione dei conducenti, con patenti specifiche, posto che oggi un qualsiasi giovane neopatentato può guidare trattori agricoli, anche grandi, su strada. Si tratta di una serie di carenze a livello normativo che non fanno che aggravare il già elevato numero di infortuni mortali determinato dai trattori. Il discorso va poi esteso ad altre tipologie di macchine agricole che vengono purtroppo immesse sul mercato e che, pur essendo formalmente in regola con le vigenti disposizioni, risultano inadeguate sotto il profilo della sicurezza.
Il dottor Flaminio Galli, direttore centrale prevenzione dell’INAIL, ha poi ricordato che l’INAIL ha stanziato a favore delle imprese che investono in sicurezza circa 745.000.000 di euro nel quadriennio 2010-2013, di cui 60 milioni nel 2010, 180 milioni di 2011, 225 milioni nel 2012 e 280 milioni nel 2013. La prima quota è stata erogata tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, con un’apposita procedura informatica8. A tali fondi possono naturalmente accedere anche le imprese agricole che intendono, ad esempio, adeguare o sostituire i macchinari. Purtroppo, per il settore agricolo a livello comunitario vige il limite «de minimis» che stabilisce un tetto massimo complessivo per gli aiuti pubblici. Dal 1º aprile 2011, tale soglia è passata da 15.000 a 7.500 euro ed è troppo bassa per consentire un contributo significativo a favore delle imprese. Servirebbe quindi una deroga in sede europea.
Il dottor Galli si è quindi soffermato sul tema dei controlli, richiamando il piano nazionale della prevenzione avviato dall’INAIL, che prevede un’intensa azione anche in agricoltura, con attività di formazione agli operatori e 10.000 ispezioni all’anno in tutta Italia, ad opera dei tecnici delle ASL locali. La recente unificazione dell’ex ISPESL e dell’ex IPSEMA all’interno dell’INAIL consente importanti sinergie anche in questo campo, che cominciano a dare i primi frutti.
La Commissione ha osservato in proposito che, essendo l’agricoltura materia di competenza regionale, occorre elaborare linee guida omogenee a livello nazionale, per assicurare che i piani di prevenzione regionali e in particolare le ispezioni, avvengano secondo modalità uniformi, tenuto conto anche dei problemi di organico delle ASL. Si tratta di temi che sono emersi frequentemente nell’inchiesta, anche durante i numerosi sopralluoghi sul territorio.
Il dottor Laurendi ha fatto presente che i tecnici delle ASL incaricati dei controlli in agricoltura sono stati tutti appositamente formati a livello nazionale. Purtroppo, finora si è riusciti a fare solo il 60-70 per cento delle ispezioni programmate. Occorre quindi soprattutto rendere obbligatoria la revisione periodica e puntare sulla messa a norma delle macchine, molto meno onerosa e più efficace della sostituzione completa. Un contributo importante può venire anche dall’azione di verifica preventiva sui macchinari di nuove immissione sul mercato, come testimoniato dai successi ottenuti dall’ex ISPESL in questo campo. Un altro elemento fondamentale è quello della modifica del codice della strada per quanto riguarda i requisiti dei conducenti e le patenti di abilitazione alla guida dei mezzi, che andrebbero completamente rivisti.
Nel dibattito, è stata comunque sottolineata, da parte dei componenti della Commissione, la necessità che le azioni di prevenzione degli incidenti legati alle macchine agricole, pur condivisibili e necessarie, siano però studiate in modo da non imporre nuovi ed eccessivi costi ai lavoratori agricoli, che già versano in gravi difficoltà. Si è inoltre richiamato con particolare preoccupazione un altro aspetto del problema, che riguarda quei soggetti che pur non avendo, o non avendo più, i requisiti per essere coltivatori diretti, possiedono però appezzamenti di terreno, in genere piccoli, che lavorano per proprio conto con l’ausilio di trattori e altri macchinari.
Si tratta spesso anche di persone anziane, ormai in pensione, una realtà assai diffusa sul territorio nazionale, cui si aggiungono coloro che svolgono normalmente altre attività, coltivando la terra per sé stessi, magari nel tempo libero.
Il dottor Laurendi ha fatto presente che, in base a una recente sentenza della Corte di Cassazione, possono configurarsi come coltivatori diretti (e dunque quindi accedere ai contributi pubblici) anche altre figure che, pur non avendo tutti i requisiti formali di reddito e di mezzi previsti dalla legge, svolgono comunque attività agricola. Dai dati in possesso dell’ex ISPESL e ferma restando l’esigenza di ulteriori approfondimenti, non sembra però esservi una incidenza elevata di queste figure non professionali sul totale degli incidenti legati ai mezzi agricoli. Il vero problema, come evidenziato dal dottor Galli, è che i fondi INAIL, per la natura assicurativa dell’Istituto, sono riservati necessariamente alle imprese e ai lavoratori agricoli professionali, per cui appare difficile un’estensione anche a figure di agricoltori «privati». L’INAIL svolge comunque una serie di attività di formazione/informazione su queste materie che possono beneficiare anche i lavoratori non professionali.
L’ingegner Gabriella Mancini, del settore Consulenza tecnica accertamenti rischi e prevenzione dell’INAIL, si è soffermata sui problemi di rilevazione statistica degli incidenti in esame. Secondo i dati INAIL, nel 2009 vi sono stati solo 20 morti per ribaltamento del trattore: questa evidente sottostima rispetto ai 160 morti registrati in totale – che peraltro si riferiscono solo agli incidenti avvenuti nei campi e non tengono conto degli incidenti legati alla circolazione stradale – deriva dal fatto che l’Istituto registra solo i lavoratori iscritti, ossia quelli di tipo professionale, mentre, come si è detto, gli infortuni coinvolgono anche molti lavoratori non professionali. In relazione al possesso dei requisiti per i conducenti dei mezzi, una soluzione potrebbe senz’altro essere quella di introdurre un’apposita abilitazione. In merito l’ingegner Mancini ha ricordato che, nell’ambito del completamento dell’attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, esiste un apposito comitato presso la Commissione consultiva permanente del Ministero del lavoro e delle politiche sociali che sta ultimando il confronto per definire appunto una specifica patente per l’uso di determinati macchinari, tra cui anche i trattori e le macchine agricole. Sarebbe dunque opportuno cogliere l’occasione per adeguare finalmente la normativa in questo settore.
Gli approfondimenti condotti dalla Commissione hanno dunque evidenziato come il tema degli incidenti sul lavoro legati all’utilizzo di macchinari agricoli, con particolare riguardo al ribaltamento dei trattori, sia di per sé estremamente complesso, coinvolgendo anche problemi di carattere legislativo, ad esempio per i requisiti dei conducenti, per gli obblighi delle dotazioni di sicurezza e delle revisioni periodiche dei mezzi. In ordine a tali aspetti, la Commissione ha quindi ritenuto necessario ascoltare gli esperti del competente Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, per fare il punto sulla vigente normativa di settore e sugli eventuali miglioramenti da apportare.
L’audizione ha avuto luogo il 6 luglio 2011 e ha visto la partecipazione dei rappresentanti della Direzione generale per la motorizzazione. Il Direttore generale, architetto Maurizio Vitelli, ha anzitutto riepilogato i dati statistici del settore: attualmente in Italia circolano 1.600.000 mezzi agricoli, con una età mediamente assai elevata e che, in taluni casi, raggiunge addirittura i cinquant’anni. Si tratta spesso di veicoli i cui intestatari originali sono morti e che sono poi passati ai loro eredi, i quali continuano a utilizzarli. Secondo le statistiche, ogni anno avvengono sulla strada circa 200-300 incidenti che coinvolgono tali mezzi, di cui 10-15 mortali. Gli incidenti e le morti più numerose, che sfuggono alla rilevazione puntuale, sono però quelli che avvengono nei lavori agricoli dei campi. Anche se non sempre tali infortuni sono imputabili a carenze nei requisiti dei guidatori o dei mezzi, essendo in genere legati al ribaltamento, è comunque vero che l’attuale normativa prevista dal codice della strada presenta alcune lacune da colmare.
In particolare, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti sta da tempo cercando di dare corso all’obbligo di revisione periodica anche per i veicoli agricoli, previsto dall’articolo 111 del codice della strada fin dalla sua approvazione con il decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, ma di fatto mai attivato in Italia. Ciò richiederebbe un grosso sforzo organizzativo, dovendo fare i controlli direttamente presso i possessori dei veicoli, sparsi su tutto il territorio nazionale. I veicoli agricoli che circolano su strada sono controllati in maniera efficace dalla polizia stradale: ad esempio, dal 1º gennaio al 30 settembre 2009 sono state rilevate 3.580 infrazioni, mentre dal 1º gennaio al 30 settembre dell’anno successivo le infrazioni rilevate sono state 2.910. Assai più complesso è invece il discorso per i mezzi che lavorano nei campi, che di fatto non vengono mai controllati.
Altro problema, segnalato anche dall’ex ISPESL (ora Dipartimento delle tecnologie per la sicurezza dell’INAIL), è quello di dotare i mezzi agricoli inferiori ai 600 chilogrammi di massa a vuoto di strutture di protezione antiribaltamento e antischiacciamento. Poiché la normativa attuale non prevede questo obbligo, occorrerebbe una apposita modifica dei regolamenti comunitari. Il Ministero ha già dal 2009 iniziato il relativo iter presso la Commissione europea, che ha però chiesto di avere dati statistici sul fenomeno per poter valutare l’impatto di tale modifica legislativa, dati in possesso proprio dell’ex ISPESL.
Due degli altri esperti del Ministero presenti all’audizione, l’ingegner Salvatore Napolitano e l’ingegner Antonio Erario, hanno precisato che l’obbligo in questione sussiste già per i veicoli di massa superiore ai 600 chilogrammi. Viceversa, il problema si pone per i macchinari più piccoli, denominati «T30» e che comprendono sia trattori che motrici, motozappe e altri veicoli minori. C’è il progetto di un apposito regolamento comunitario che introdurrebbe l’obbligo a partire dal 2014, presumibilmente per i veicoli di massa compresa tra i 400 e i 600 chilogrammi, mentre per quelli di massa inferiore sono in corso i negoziati in sede OCSE per un apposito accordo tecnico.
Una volta stabilito l’obbligo per legge, i veicoli di nuova costruzione avrebbero tutti i nuovi dispositivi di protezione, mentre quelli già circolanti dovrebbero essere adeguati. Al riguardo, si è ricordato che l’ex ISPESL, in collaborazione con il Ministero, ha già definito le apposite linee guida per gli adeguamenti e che, come confermato alla Commissione anche in altre occasioni, tali interventi tecnici sui vecchi mezzi sono abbastanza semplici e di costo limitato, pari a circa 2.000-3.000 euro.
Come sottolineato dall’architetto Vitelli, il Ministero e l’ex ISPESL collaborano attivamente, anche se occorrerebbe uno sforzo maggiore per accelerare l’iter di modifica dei regolamenti comunitari. Una volta ottenute le modifiche normative, resterebbe però il vero problema, ossia quello di controllare in maniera capillare che tutti i mezzi esistenti si conformino alla nuova normativa.
Un altro tema affrontato nel corso dell’audizione è stato poi quello delle abilitazioni per la guida dei mezzi: attualmente, infatti, i requisiti dei conducenti sono gli stessi previsti per la guida degli altri automezzi, posto che non esistono patenti specifiche per l’utilizzo dei veicoli agricoli9. Sul tema, come si è visto nel paragrafo 2.3, uno dei comitati della Commissione consultiva permanente in seno al Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha messo a punto una prima bozza di decreto che individua le modalità della formazione richiesta per determinate attrezzature di lavoro, tra le quali appunto le macchine agricole. Ciò potrebbe senz’altro contribuire ad agevolare la risoluzione del problema, ma, per le ragioni già dette, è certamente necessaria anche un’ampia riforma del codice della strada. Servirebbe inoltre una formazione ad hoc per chi utilizza questi mezzi, tenuto conto che essi operano spesso su terreni impervi e scoscesi e hanno notevoli difficoltà di manovra. Questo intervento richiederebbe la collaborazione delle regioni. D’altra parte, mentre per i mezzi che vanno su strada esistono dei controlli capillari, quelli che sono usati solo nei campi sfuggono alle rilevazioni e sono talvolta guidati anche da persone molto anziane, o addirittura giovanissime o sprovviste di patente.
Un punto cruciale emerso nel dibattito è infine che le modifiche legislative in questo settore, sui requisiti dei conducenti o dei mezzi, richiedono comunque una forte volontà politica, in quanto molti mezzi ora circolanti diventerebbero immediatamente inutilizzabili, con un pesante impatto sugli agricoltori, che produrrebbe difficoltà e malcontenti.
La Commissione ha confermato la propria volontà di contribuire, nell’ambito delle proprie competenze, a definire gli interventi più appropriati per ridurre la grave piaga degli incidenti nel settore agricolo legati all’uso dei macchinari. Come risulta dall’inchiesta, le soluzioni dovrebbero concentrarsi su due direttrici: la prima è quella degli adeguamenti normativi per quanto concerne soprattutto i requisiti dei conducenti e dei mezzi agricoli, la seconda è quella delle agevolazioni per la sostituzione e, soprattutto, per la messa in sicurezza dei mezzi stessi. In merito al primo aspetto, la Commissione si è fatta parte attiva per favorire il dialogo e la collaborazione delle amministrazioni competenti, affinché possano essere identificate le modifiche più idonee ed equilibrate da apportare alla legislazione vigente, cercando di non penalizzare eccessivamente le categorie interessate ma, al tempo stesso, di mettere ordine in un settore dove sono emerse gravi lacune. Questa attività si dovrà poi naturalmente accompagnare anche con una campagna mirata di formazione e informazione rivolta agli utilizzatori dei mezzi agricoli, di tipo professionale e non, al fine di accrescerne il livello di consapevolezza e attenzione.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello delle agevolazioni, la situazione è certamente più complessa: i vincoli di bilancio, sempre più pressanti e ineludibili, rendono infatti molto difficile ipotizzare la possibilità di stanziare ulteriori risorse pubbliche per questa finalità, per lo meno nella dimensione che sarebbe effettivamente necessaria. Occorre allora garantire un uso più efficiente e mirato delle risorse già disponibili, che però, come si è visto, nel settore agricolo si scontra con i forti vincoli imposti dal meccanismo comunitario del «de minimis» relativo ai limiti degli aiuti di Stato.
Per risolvere il problema alla radice, la Commissione d’inchiesta ha allora messo a punto una specifica proposta normativa da sottoporre agli organismi della Comunità europea. La proposta è stata elaborata congiuntamente al Dipartimento delle politiche comunitarie della Presidenza del Consiglio dei Ministri e inviata anche ai ministeri e alle commissioni parlamentari del Senato competenti per materia. Sulla scorta di analoghi provvedimenti del passato, il testo si pone come una «misura quadro» che non mira quindi a introdurre nuove agevolazioni o a mobilitare nuove risorse, ma bensì intende disegnare un regime giuridico che permetta di non considerare aiuti di Stato (e come tali soggette ai relativi limiti di utilizzo) tutte le agevolazioni finalizzate a elevare il livello di sicurezza delle macchine e delle attrezzature di lavoro, migliorandone le dotazioni e aggiornandone i requisiti rispetto all’evoluzione delle tecnologie di prevenzione e di protezione.
Le agevolazioni ammissibili sono di qualsiasi tipo, già esistenti o di futura introduzione, erogate da pubbliche amministrazioni centrali o periferiche, purché finalizzate specificamente allo scopo suddetto. Non solo quindi contributi finanziari diretti per le spese di sostituzione o adeguamento dei macchinari, ma anche sgravi fiscali, sovvenzioni per prestiti, ecc. Esse devono porsi in maniera «neutrale» nei confronti delle varie tipologie di intervento e dei vari settori economici, proprio per non introdurre distorsioni al regime delle concorrenza che contrasterebbero con le disposizioni comunitarie. Di conseguenza, la norma non avrebbe potuto essere indirizzata specificamente al settore agricolo, ma è stata studiata in modo da rivolgersi indistintamente a tutti i settori e a tutte le categorie di operatori, semplificando al massimo le procedure di concessione delle agevolazioni per escludere qualsiasi valutazione discrezionale (e quindi qualsiasi possibile discriminazione) da parte delle pubbliche amministrazioni concedenti.
Naturalmente, il progetto è ancora in una fase preliminare e si dovrà, d’accordo con le autorità comunitarie e con i ministeri competenti, precisare meglio i dettagli della misura, ad esempio le condizioni in base alle quali i richiedenti possono accedere e il meccanismo di concessione. Si tratta quindi di creare un procedimento semplice, ma rigoroso, che consenta anche di effettuare controlli atti a scoraggiare frodi o abusi. A tal fine, la proposta è già stata inviata, tramite il Dipartimento per le politiche europee, ai competenti uffici della Commissione europea per una prima istruttoria informale, anche mediante una interlocuzione diretta con la Commissione d’inchiesta, che ha già fornito una serie di chiarimenti e integrazioni.
L’obiettivo è quindi quello di arrivare in tempi rapidi a un testo consolidato che possa poi essere trasfuso in un disegno di legge formale, da sottoporre all’esame delle Commissioni parlamentari di merito. Se si riuscirà a raggiungere tale risultato, si potrà certamente facilitare l’accesso delle imprese alle risorse finanziarie disponibili per la sostituzione e la messa in sicurezza delle macchine e attrezzature da lavoro, soprattutto in settori come quello agricolo finora maggiormente penalizzati dai vincoli comunitari degli aiuti di Stato. La norma, tuttavia, ha una valenza generale e potrebbe essere ugualmente utile anche in molti altri settori produttivi che abbiano esigenze analoghe di elevare il livello di sicurezza di macchinari e attrezzature.
Naturalmente, resta il problema della limitatezza dei fondi attualmente esistenti, ma se si introdurrà questo nuovo regime, essi potranno essere utilizzati in maniera più efficiente e proficua, contribuendo per questa via a migliorare i livelli di sicurezza dei lavoratori addetti alle macchine e alle attrezzature e, quindi, a ridurre anche il numero degli infortuni. La misura quadro, del resto, è stata volutamente concepita «a costo zero», senza prevedere nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ma consente una gestione migliore più efficiente anche di risorse o agevolazioni che si dovesse, auspicabilmente, riuscire a reperire in futuro.
La Commissione continuerà a seguire in modo assiduo tale questione, per favorire una positiva conclusione dell’iter, nell’interesse generale e al fine di tutelare sempre meglio la salute e la sicurezza dei lavoratori.

3.2. I problemi della sicurezza sul lavoro nel settore delle attività pirotecniche
Il 12 settembre 2011 in località Carnello, una frazione di Arpino (in provincia di Frosinone), un’esplosione ha distrutto la fabbrica di fuochi artificiali Pirotecnica Arpinate s.r.l., causando la morte di sei persone. Il successivo 19 settembre una delegazione della Commissione ha svolto un sopralluogo sul posto, al fine di acquisire informazioni in merito. Delle risultanze della missione si darà conto in dettaglio più avanti, nel paragrafo 4.9: in questa sede si intendono illustrare le successive iniziative assunte dalla Commissione per approfondire in senso più generale i problemi della sicurezza sul lavoro nel settore delle attività pirotecniche.
L’incidente di Arpino, infatti, è stato solo l’ennesimo di una lunga serie, dato che le fabbriche di fuochi d’artificio sono purtroppo tra i luoghi di lavoro più pericolosi. Secondo le rilevazioni della Consulenza statistico-attuariale dell’INAIL, solo nel periodo 2007-2010 ci sono stati 66 infortuni sul lavoro – 11 dei quali mortali – verificatisi in Italia nel settore della pirotecnia (in media, dunque, ogni anno ha registrato 17 incidenti, con 3 dall’esito letale). Il comparto vede impegnate 277 aziende, per un totale di 564 addetti.
Se poi si considera che molti incidenti riguardano fabbriche abusive o semiabusive, che non rientrano nelle statistiche ufficiali, il bilancio sale drammaticamente. Ad essere colpite sono soprattutto le regioni del Centro- Sud, dove l’uso di botti e fuochi d’artificio è particolarmente diffuso.
E infatti, nel periodo 2007-2010, in queste regioni si è verificato il 70 per cento degli infortuni (45 casi) e il 90 per cento delle morti (10 episodi, a fronte di un solo caso nell’area del Nord, in particolare nel Nord-Est).
Come rileva l’INAIL, il settore è caratterizzato da una struttura molto precaria e frammentata, con una media di meno di 2 addetti per azienda, e da un tipo di lavorazione prevalentemente artigianale e manuale. Il che rende estremamente pericoloso per gli operai manipolare quelle che spesso sono vere e proprie bombe pronte a esplodere.
Nel corso del sopralluogo ad Arpino, inoltre, alla Commissione sono state segnalate da parte dei competenti organismi di controllo una serie di lacune e incongruenze di carattere normativo e amministrativo nella regolamentazione del settore, sia in relazione alle verifiche preliminari tese al rilascio della licenza di esercizio dell’attività, sia per quanto concerne le condizioni degli ambienti di lavorazione e il regime dei controlli. Per tali ragioni, la Commissione ha proceduto a una serie di approfondimenti in materia, cominciando con l’audire nella seduta del 4 ottobre 2011 il capitano Paride Minervini, un esperto di balistica che ha avuto occasione di esaminare la dinamica di alcuni degli incidenti occorsi in fabbriche di fuochi d’artificio, anche come perito della magistratura.
Il capitano Minervini ha dato anzitutto conto di alcuni risultati degli accertamenti da lui effettuati per conto della magistratura in relazione a recenti esplosioni di opifici pirotecnici che hanno portato al decesso di alcuni operatori e alla distruzione di edifici. Soffermandosi in particolare sull’incidente mortale occorso l’11 maggio 2007 nella fabbrica situata a Piane di Montegiorgio, in provincia di Fermo, ha sottolineato che, nella valutazione di tali eventi, occorre considerare anche gli elementi meno noti della loro dinamica, come ad esempio la provenienza del materiale utilizzato, nel caso di specie importato in larga misura dalla Cina.
Per quanto concerne poi la frequenza delle esplosioni, i dati statistici di fonte pubblica segnalano una notevole differenza tra gli stabilimenti militari e quelli civili. Dal dopoguerra ad oggi, si riscontra un solo caso di esplosione in uno stabilimento militare, a Baiano di Spoleto, mentre dal maggio 2000 si sono verificati ben 18 eventi di questo tipo negli stabilimenti civili, quasi tutti mortali e con numerosi feriti e danni di varia natura a persone e a cose. L’episodio di Piane di Montegiorgio, dove si sono verificati 3 decessi e sono rimaste ferite 30 persone, è emblematico di molte criticità che si riscontrano troppo spesso nel settore. Ad esempio, l’elevato numero di feriti è dovuto anche al fatto che non erano state osservate le disposizioni riguardanti le distanze di sicurezza, cosicché l’onda d’urto dell’esplosione ha raggiunto gli edifici dell’insediamento urbano vicino alla fabbrica.
L’inchiesta della magistratura ha poi messo in luce varie irregolarità amministrative, che rivelano l’esigenza di controlli più rigorosi e severi nel settore, e non semplicemente burocratico-formali. In particolare, dal 1987 al 2007 si erano verificati dei passaggi di proprietà a persone che avevano precedenti penali specifici per abusi compiuti su licenze di esercizio dell’attività di produzione di fuochi d’artificio. In alcuni casi, la licenza è stata sospesa, per essere però trasferita a parenti del precedente titolare, spesso privi delle capacità tecniche richieste. Si è anche verificato il caso di tre licenze rilasciate dalla medesima Prefettura e intestate alla stessa persona, il che non dovrebbe avvenire, considerato che il titolare della licenza stessa è obbligato ad essere presente sul luogo di lavoro e, pertanto, non può presidiare contemporaneamente tre luoghi diversi.
Altro aspetto emblematico riguarda la preparazione delle maestranze utilizzate. Nella fabbrica di Piane di Montegiorgio ad esempio risulta la presenza, al momento dell’incidente, di quattro operatori privi della capacità tecnica accertata per la fabbricazione di fuochi d’artificio e di un solo operatore con capacità tecnica accertata, ma non regolarmente assunto: si trattava infatti del precedente titolare della licenza. Era invece assente, malgrado la contraria prescrizione normativa, l’intestataria della licenza stessa, formalmente in possesso di capacità tecnica accertata per la fabbricazione.
L’audizione si è quindi incentrata sulla capacità tecnica richiesta agli operatori che, sia dalle informazioni raccolte nel sopralluogo ad Arpino che dall’esposizione del capitano Minervini, risulta essere spesso assai carente.
Il capitano Minervini ha confermato che chi lavora all’interno degli stabilimenti per la produzione di fuochi d’artificio deve essere in possesso di una capacità tecnica accertata attraverso un esame che lo autorizza al maneggio e alla gestione del materiale ivi trattato. A tal fine, presso ogni Prefettura è istituita un’apposita commissione che rilascia una certificazione all’esito di un esame.
Tuttavia, nel corso del sopralluogo ad Arpino è emerso che tale esame non offre spesso le necessarie garanzie di rigore e di approfondimento per valutare gli operatori di un settore così delicato, che dovrebbero possedere adeguate nozioni teoriche e pratiche (ad esempio di chimica e di fisica) in ordine alle sostanze che manipolano. Viceversa, il concetto di capacità tecnica è definito in maniera vaga e le commissioni prefettizie si limitano ad effettuare un esame attitudinale di carattere generico e, in assenza di specifici argomenti oggetto di esame, devono procedere ad una valutazione empirica.
La genericità e l’inadeguatezza delle modalità di accertamento delle capacità tecniche per il personale civile contrastano del resto con la complessa e specifica formazione degli artificieri delle Forze Armate che, oltre a seguire corsi di formazione di notevole durata, sono destinatari di aggiornamenti periodici, indispensabili per essere al passo con l’evoluzione tecnologica del settore, anche in relazione alle finalità di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro. Peraltro, al di là dell’aspetto specialistico, nel confronto tra la manipolazione delle polveri per il caricamento di munizioni e la lavorazione delle stesse per il confezionamento di fuochi d’artificio, la produzione di fuochi d’artificio presenta comparativamente caratteri di maggiore pericolosità.
In relazione a tali aspetti, si pone anche il problema di assicurare la competenza e la continuità delle persone chiamate a fare parte delle commissioni istituite presso le prefetture. Se l’istituzione, come avveniva un tempo, di una commissione unica a livello centrale potrebbe produrre effetti indesiderati di appesantimento burocratico delle procedure di esame e di autorizzazione all’attività, appare però importante che le commissioni locali abbiano una composizione tecnica adeguata e applichino regole di valutazione uniformi su tutto il territorio nazionale.
Nell’incidente di Arpino, come in altri casi, si è poi avuto sfortunatamente anche il decesso di un cliente presente all’interno della fabbrica al momento della deflagrazione, il che pone l’ulteriore problema della mancata osservanza delle disposizioni che vietano l’accesso ai non addetti in determinati punti dell’opificio. Inoltre, mentre per i depositi del materiale pirotecnico sono previste specifiche autorizzazioni in relazione alla capienza, si registrano lacune nella disciplina relativa alle quantità di materiale che può essere manipolato nel luogo di produzione, dovute anche al fatto che la regolazione in materia risale ormai a ottant’anni fa, essendo contenuta nel regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 («testo unico delle leggi di pubblica sicurezza» o TULPS).
Più in generale, atteso che, come precisato dal capitano Minervini alla Commissione, alcuni miscugli, per le loro caratteristiche chimiche, sono suscettibili di aumentare la propria temperatura e, con essa, il rischio di esplosione, risulta particolarmente preoccupante l’assenza di una disciplina precisa che obblighi a climatizzare i luoghi di lavoro o quanto meno a installare misuratori in grado di rilevare le condizioni microclimatiche esistenti (temperatura, umidità, ventilazione). Ciò anche in considerazione del fatto che, pur essendo nelle fabbriche pirotecniche le prescrizioni di sicurezza di base sempre le stesse, possono però essere introdotte delle varianti in relazione alle diverse di categorie di materiale esplodente lavorato.
Molti incidenti nelle fabbriche di fuochi d’artificio (tra cui forse, se verranno confermate alcune ipotesi investigative, anche quello di Arpino) sono stati causati proprio da lavorazioni effettuate in ambienti con condizioni climatiche sbagliate.
Nell’incidente di Arpino uno dei capannoni esplosi aveva la tettoia in eternit (ossia cemento amianto), che l’esplosione ha scagliato a centinaia di metri di distanza. La tettoia era incapsulata e mantenuta in buono stato di conservazione e quindi, secondo le norme vigenti (articolo 249, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 81 del 2008), poteva essere utilizzata nella fabbrica. In presenza di lavorazioni così pericolose, sembra però opportuno che manufatti di qualsiasi natura contenenti amianto vengano rimossi e bonificati, per evitare che, nel malaugurato caso di esplosioni, vi possa essere una dispersione dell’amianto stesso nell’ambiente e conseguenti rischi per la salute umana. Anche su tale aspetto è quindi necessaria una modifica legislativa.
Le numerose criticità, soprattutto di carattere normativo e amministrativo, emerse nella regolamentazione del settore pirotecnico hanno indotto la Commissione ad investire della questione, ciascuno per la propria competenza, sia il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sia quello dell’interno.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha avviato una verifica sul tema, attraverso uno dei gruppi tecnici insediati all’interno della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro.
Nel contempo, ha fornito una serie di dettagliate risposte alla Commissione d’inchiesta, chiarendo il contenuto della normativa di riferimento vigente, la cui applicazione è di competenza del Ministero dell’interno. Tale normativa. assai complessa, è costituita dal citato testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e dal relativo regolamento di attuazione, approvato con il regio decreto 6 maggio 1940, n. 635; accanto a tali norme, nel tempo, si sono succedute diverse disposizioni, che hanno preso in esame, di volta in volta, varie problematiche.
Nel citato regio decreto n. 773 del 1931, al Capo V, intitolato: «Della prevenzione di infortuni e disastri», dall’articolo 46 all’articolo 57, viene disciplinata l’attività di produzione, il deposito e la vendita di sostanze esplodenti. In sostanza, le disposizione vigenti vietano lo svolgimento di tali attività senza una specifica licenza del Ministro dell’interno per gli esplosivi più pericolosi (articolo 46) e senza la licenza del Prefetto per tutti gli altri (articolo 47), tra i quali i fuochi artificiali e i prodotti affini, ovvero materie e sostanze atte alla composizione o fabbricazione di prodotti esplodenti.
È previsto, inoltre, che chi fabbrica o accende fuochi artificiali deve dimostrare la propria capacità tecnica (articolo 48), attestata da un certificato di idoneità in base ad una prova di contenuto essenzialmente pratico.
Una Commissione tecnica provinciale, nominata dal prefetto, ha il compito di determinare le condizioni dei locali destinati alla fabbricazione o al deposito di materie esplodenti (articolo 49). In aggiunta, il regolamento (articoli dall’81 al 110) dispone per quale quantità dei prodotti e delle materie, indicate nell’articolo 46, le licenze di deposito e di trasporto possono essere rilasciate dal Prefetto. Sono poi previsti controlli al fine di ottenere sia le prescritte licenze da parte della citata Commissione tecnica provinciale per gli esplosivi che fa capo agli Uffici territoriali del Governo (UTG), sia il certificato di prevenzione incendi da parte del Comando provinciale dei Vigili del fuoco, il cui rilascio è propedeutico all’ottenimento della licenza da parte dell’UTG.
Per quanto riguarda la legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, il decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede numerosi obblighi a carico del datore di lavoro, alcuni dei quali sono penalmente sanciti. Ad esempio, tale provvedimento prevede (articolo 18) l’obbligo di valutare i rischi attinenti alla attività lavorativa svolta con la conseguente elaborazione del documento di valutazione del rischio (DVR) previsto dall’articolo 28; la sorveglianza sanitaria (articoli 38-42); la gestione delle emergenze (articoli 43-46); l’informazione e la formazione dei lavoratori (articoli 36 e 37); la fornitura di adeguati dispositivi di protezione individuali (DPI); in generale, l’adozione di appropriati processi lavorativi, controlli tecnici e misure organizzative e protettive per limitare i rischi (articolo 225).
In sostanza, dall’esame delle normative vigenti si ricava come negli opifici pirotecnici o esplosivi in genere alcuni aspetti dell’attività produttiva, quali la determinazione dei processi lavorativi (in particolare la miscelazione e la colorazione dei materiali esplodenti), la formazione dei lavoratori e la regolazione delle condizioni microclimatiche all’interno degli ambienti, siano rimessi essenzialmente alla valutazione e all’esperienza dei titolari degli impianti. Così, poiché la competenza principale in materia di autorizzazioni e di vigilanza su tali opifici spetta al Ministero dell’interno (sia pure congiuntamente alle ASL per quanto attiene specificamente alla materia della salute e sicurezza sul lavoro), la Commissione, in data 25 ottobre 2011 ha ritenuto opportuno audire gli esperti del competente Ufficio per gli affari della polizia amministrativa e sociale, Dipartimento della pubblica sicurezza.
In risposta ai quesiti sollevati dalla Commissione, il vice prefetto dottoressa Paola Giovanna Mureddu, direttore dell’Ufficio, ha anzitutto illustrato le già citate norme del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza che regolano la materia, soffermandosi in particolare sul Capo V, intitolato alla prevenzione di infortuni e disastri, nel quale si prevede che la fabbricazione, il deposito, la vendita ed il trasporto di alcuni tipi di sostanze esplosive non possano essere effettuati senza la licenza rilasciata dal Ministro dell’interno, mentre per altre sostanze, ivi compresi i fuochi artificiali e i prodotti affini, è richiesta la licenza del prefetto.
Altri aspetti basilari della disciplina sono contenuti nelle norme del regolamento di attuazione del testo unico che provvedono alla classificazione dei prodotti esplosivi, nonché nell’allegato B di detto regolamento, contenente le prescrizioni tecniche per la costruzione degli impianti di produzione. In particolare, a fini di prevenzione, sono dettate regole specifiche per le caratteristiche degli ambienti dove viene effettuata la produzione di prodotti esplodenti, per le distanze da osservare e per i quantitativi massimi di materiale esplosivo lavorabile. Queste prescrizioni dovrebbero consentire di limitare gli effetti di eventuali esplosioni ai soli locali interessati e contenere conseguentemente il possibile danno alle persone, che devono essere distribuite nei luoghi di fabbricazione in modo tale da trovarsi quanto più possibile distanti dai punti critici, e comunque devono essere escluse da luoghi dove la lavorazione è effettuata da macchinari.
Norme specifiche sono inoltre dettate per la disciplina dei marchi e delle etichette che, recependo la normativa comunitaria, devono contenere tutti gli elementi utili a consentire la tracciabilità del materiale.
Per quanto riguarda la concessione della licenza, essa è subordinata all’accertamento del possesso di specifici requisiti di idoneità tecnica da parte del titolare dell’azienda. Tale accertamento è affidato ad una commissione di nomina prefettizia che sottopone il candidato ad un esame pratico e verifica anche il possesso dei requisiti morali indicati dalla legge. È altresì obbligo del titolare provvedere alla stipula di un’assicurazione in favore degli operai e dei guardiani che operano nello stabilimento. La licenza ha carattere permanente e comporta l’obbligo di tenere un registro giornaliero delle operazioni, sottoposto mensilmente al controllo dell’autorità di pubblica sicurezza e conservato obbligatoriamente fino a cinque anni dopo la cessazione dell’attività. La normativa vigente pone poi alcune limitazioni, tra le quali vanno ricordate quelle relative al divieto di lavoro notturno e di utilizzo di alcune tipologie di illuminazioni e fuochi, e detta norme molto stringenti relative all’obbligo di trasferimento nei depositi del materiale non manipolato.
Mentre la licenza per la gestione dei depositi è permanente, la licenza per la vendita è temporanea e, secondo la normativa vigente, scade il 31 dicembre di ogni anno. Anche la licenza per il trasporto di esplosivi è temporanea ed ha la durata massima di un anno: peraltro, è allo studio la proposta di rendere biennali tali licenze, con decorrenza dalla data di rilascio dell’autorizzazione. Specifiche normative disciplinano inoltre l’autorizzazione alla movimentazione, all’esportazione ed all’importazione degli esplosivi.
La Commissione ha osservato che, in base a quanto emerso dalle verifiche condotte, coloro i quali manipolano e confezionano le polveri esplodenti non sono attualmente soggetti ad adeguate procedure di verifica dell’idoneità tecnica, né è previsto, al di là della certificazione attitudinale, limitata peraltro al titolare dell’impresa, alcun tipo di autorizzazione amministrativa a svolgere la predetta attività.
Il dottor Gianni Giulio Vadalà, esperto di esplosivi in seno alla Commissione consultiva centrale per il controllo delle armi, ha confermato che nelle fabbriche dove sono prodotti materiali esplodenti e fuochi d’artificio, il titolare è il depositario delle modalità tecniche di fabbricazione e provvede all’addestramento dei suoi dipendenti, per i quali, in effetti, la disciplina vigente non prevede il rilascio di una specifica autorizzazione. Peraltro, attualmente anche l’esame di accertamento delle capacità tecniche del titolare ha effettivamente un carattere cartolare, il che lo rende poco idoneo a realizzare un efficace accertamento delle reali capacità tecniche.
Vi è poi l’esigenza di migliorare anche l’attività di controllo svolta dal Ministero dell’interno, essenziale se si considera il carattere ripetitivo della maggior parte degli incidenti, che riguardano fabbriche molto piccole, con pochissimi dipendenti spesso imparentati tra loro e ancora più spesso deceduti tutti nello stesso posto, tipicamente il reparto per la miscelazione e colorazione delle polveri. Purtroppo – come confermato anche da un altro degli esperti presenti all’audizione, la dottoressa Maria Filomena Martino, vice questore aggiunto della Polizia di Stato, responsabile del settore fabbriche e deposito esplosivi – attualmente le ispezioni sono svolte da personale privo delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie ad individuare correttamente le situazioni di criticità.
In merito alle licenze di esercizio, la dottoressa Maria Paravati, primo dirigente della Polizia di Stato, direttore dell’area armi ed esplosivi, ha precisato che il decreto legislativo 4 aprile 2010, n. 58, che ha recepito la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2007/23/CE relativa all’immissione sul mercato di prodotti pirotecnici, all’articolo 4 ha disciplinato il regime delle autorizzazioni all’esercizio dell’attività di utilizzo, a qualsiasi titolo, degli articoli pirotecnici, precisando che esse possono essere rilasciate solo ai soggetti in possesso delle abilitazioni di cui all’articolo 101 del regio decreto n. 635 del 1940 (regolante appunto le modalità di rilascio delle suddette licenze), i quali abbiano superato corsi di formazione nelle materie del settore della pirotecnica. Poiché le modalità di attuazione di tale norma sono demandate a un decreto del Ministero dell’interno, in quest’ambito si potrebbe prevedere anche la programmazione delle attività formative, da attuare eventualmente in concorso con gli enti locali. Occorre quindi prevedere una disciplina più puntuale per l’accertamento dell’idoneità tecnica degli operatori, concentrando l’attenzione soprattutto sul contenuto e sullo svolgimento delle prove pratiche.
La Commissione ha sottolineato al riguardo che per i lavoratori del settore pirotecnico si dovrebbe pervenire ad una licenza obbligatoria, previo accertamento del possesso di idonee cognizioni teoriche e pratiche. Si tratta quindi di intervenire su una normativa inadeguata su questi profili, e di valutare la possibilità di introdurre forme obbligatorie di formazione professionale rivolte a tutti gli addetti e non solo ai titolari. La formazione dei lavoratori di un settore così delicato non può infatti essere affidata alla buona volontà dei datori di lavoro. In base a quanto emerso nell’audizione, occorre poi migliorare la qualità della attività ispettiva, rendere più rigorosa la prova per l’accertamento della sussistenza dei requisiti tecnici del titolare e più stringente l’obbligo posto a carico di quest’ultimo di essere presente sul luogo di produzione, al fine di evitare che possano riprodursi anomalie sostanziali come quelle che sono state accertate ad Arpino.
Per quanto riguarda il problema dell’assenza di obblighi di installare rilevatori di temperatura ed umidità nei locali dove si svolge la manipolazione dei materiali esplodenti e, più in generale, della climatizzazione degli ambienti di lavoro, il dottor Vadalà, richiamando anche le dinamiche di precedenti incidenti, ha evidenziato che la climatizzazione dei locali dove si effettuano le attività di miscelazione e colorazione comporta benefì ci limitati e scarsi vantaggi, mentre, sul piano della sicurezza, è preferibile compartimentare il lavoro e assicurare che le attività più pericolose siano svolte in una zona blinda, dotata cioè di aree di sfogo. Pur prendendo atto di tali precisazioni, la Commissione ha rilevato le conseguenze negative della mancanza di normative più precise circa le caratteristiche degli ambienti di lavorazione dei materiali pirotecnici, la cui regolamentazione spetta al Ministero dell’interno, che esercita funzioni essenziali in questo campo. Altro tema sensibile è quello delle ispezioni degli opifici pirotecnici, che sembrano avere un carattere troppo saltuario. In merito, la dottoressa Mureddu ha ricordato che il Dipartimento di pubblica sicurezza predispone attività di monitoraggio periodiche delle aziende produttrici di fuochi d’artificio, d’intesa con le commissioni consultive provinciali, la cui composizione, peraltro, potrebbe forse essere resa più aderente alle problematiche della prevenzione. Dopo l’incidente verificatosi ad Arpino, gli organi periferici dell’amministrazione dell’interno sono stati sollecitati a svolgere ispezioni tecniche più puntuali e, per questo aspetto, è senz’altro essenziale che esse siano effettuate da personale adeguatamente preparato.
Peraltro, occorre tenere presente che la produzione di fuochi d’artificio è esclusa dall’ambito di applicazione del citato decreto legislativo n. 58 del 2010: tale circostanza potrebbe comportare qualche problema quanto al complessivo miglioramento delle normative di sicurezza, miglioramento che, peraltro, deve essere realizzato tenendo conto anche delle esigenze dei produttori in un contesto di crisi economica. D’altra parte, proprio in sede di attuazione dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 58 del 2010 potrebbero essere introdotte disposizioni in materia di formazione professionale obbligatoria e di accertamento dell’idoneità tecnica dei lavoratori del comparto pirotecnico.
Un altro quesito sollevato dalla Commissione riguardava la regolamentazione dell’accesso degli estranei negli impianti in attività, che ad Arpino ha causato la morte di un acquirente che si trovava in una zona non consentita. Le norme di sicurezza devono invece essere applicate in modo specifico e tassativo e quelle dettate per la fabbricazione di armi ed esplosivi devono essere estese alla produzione di articoli pirotecnici, a maggior ragione in quanto essa si svolge in aziende di piccole dimensioni.
Vanno poi considerati gli effetti delle esplosioni: ad Arpino, l’uso di eternit, frantumatosi a seguito della deflagrazione, ha prodotto altri rischi connessi all’inquinamento da amianto.
Si pone quindi, in generale, l’esigenza di valutare l’estendibilità della «direttiva Seveso» sui grandi rischi alla produzione di fuochi artificiali. Si tratta infatti della normativa contenuta nel decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, che ha recepito in Italia la direttiva del Consiglio 96/82/ CE relativa al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose (detta appunto «direttiva Seveso», dal tragico incidente industriale avvenuto a Seveso nel 1976). La normativa prevede una serie di prescrizioni e di controlli particolarmente severi e rafforzati per quei siti produttivi suscettibili di determinare incidenti di grandi proporzioni in relazione alla lavorazione o alla presenza di sostanze pericolose. In risposta ai suddetti quesiti, il dottor Vadalà ha precisato che la legislazione vigente vieta espressamente l’accesso di estranei negli impianti (Capo VI, allegato B, del regolamento di esecuzione del TULPS), pertanto la morte dell’acquirente recatosi presso lo stabilimento di Arpino sarebbe solo il tragico effetto di una violazione delle regole. Per quanto riguarda l’applicazione della «normativa Seveso» alle aziende che producono esplosivi, questa è legata alla quantità del materiale trattato, tanto è vero che molte aziende riducono le quantità di esplosivo proprio al fine di essere escluse da tale disciplina.
La Commissione ha obiettato che ad Arpino i depositi contenevano sette tonnellate di materiale, senza considerare la presenza di un deposito giudiziario di notevoli proporzioni. Ciò è sintomatico di una grave incongruenza, e ha richiamato l’attenzione sulla inadeguatezza dei criteri con cui viene effettuata la localizzazione dei depositi giudiziari di materiale esplosivo.
Conclusivamente, l’inchiesta della Commissione ha confermato le preoccupanti lacune esistenti nella normativa del settore delle attività pirotecniche.
Esse riguardano in particolare l’accertamento dell’idoneità tecnica degli operatori ed il relativo regime di autorizzazione; la sicurezza dei luoghi e degli ambienti di lavoro; l’iscrizione degli impianti per la produzione di fuochi d’artificio in una adeguata categoria di rischio; l’obbligatorietà della formazione e dell’aggiornamento professionale che, ovviamente, dovrebbe comunque essere svolta a cura e a spese dei titolari delle aziende senza oneri per l’amministrazione. Ancora, vi è il problema dell’osservanza del divieto di accesso agli impianti per i non addetti ai lavori; dell’obbligo di bonifica e rimozione di tutti i manufatti contenenti amianto; e dello svolgimento di controlli periodici degli stabilimenti più severi e approfonditi. Si tratta di questioni essenziali per tutelare la salute e la sicurezza delle persone, che sollecitano l’adozione di misure conseguenti, la cui compatibilità con l’esigenza di assicurare la competitività e l’efficienza delle aziende non deve essere messa in dubbio. L’inchiesta parlamentare in corso, infatti, muove dal presupposto che la sicurezza non è un costo, ma un valore da promuovere in ogni ambito produttivo.
A tal fine, la Commissione ha rivolto un forte invito agli uffici competenti del Ministero dell’interno per avere un supporto ed un’indicazione per il miglioramento della normativa di sicurezza e prevenzione in questo settore, particolarmente esposto a gravi rischi e dove il tasso di mortalità per incidenti è intollerabilmente elevato.
Raccogliendo tali sollecitazioni, gli uffici del Ministero hanno svolto un’ampia istruttoria sulle questioni segnalate, svolgendo accurati approfondimenti e consultando in proposito gli organismi competenti in materia nonché gli esperti di settore. Come comunicato alla Commissione alla fine di dicembre 2011, tale intenso lavoro ha condotto a elaborare una serie di ipotesi di modifica ed integrazione delle norme vigenti che tengono conto delle esigenze emerse e che, una volta valutate dagli organi ministeriali competenti, potranno essere trasfuse in una proposta di legge formale.
La Commissione continuerà a seguire attentamente questo processo, al fine di contribuire, nel rispetto delle reciproche competenze, a una positiva soluzione del problema.

3.3. La qualificazione dei formatori per la sicurezza sul lavoro
Il decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede espressamente all’articolo 37 tra gli obblighi che competono al datore di lavoro anche quello di formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, nonché dei dirigenti e dei preposti in materia di sicurezza sul lavoro. L’articolo 34 prevede inoltre che lo stesso datore di lavoro debba ricevere una specifica formazione, qualora intenda svolgere direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Come già indicato nel paragrafo 2.3, è opportuno ricordare che finalmente, dopo un laborioso iter, sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’11 gennaio 2012 gli accordi del 21 dicembre 2011 approvati dalla Conferenza Stato-Regioni che fissano le modalità e i contenuti dei due tipi di formazione.
Si tratta di un fatto molto positivo: la formazione, infatti, rappresenta uno strumento essenziale ai fini di una corretta prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, in quanto è il primo strumento attraverso il quale creare una consapevolezza sempre più diffusa sul valore della sicurezza nei luoghi di lavoro, sia da parte dei datori di lavoro (che considerano spesso la sicurezza come un costo aggiuntivo o comunque come un aggravio) che degli stessi lavoratori (che la interpretano a volte in maniera meramente formale). La formazione si pone quindi anche come veicolo di crescita e di cambiamento culturale: non a caso il testo unico all’articolo 2, con una forte innovazione rispetto al passato, la definisce esplicitamente come «processo educativo», attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili ad accrescere la sicurezza e a ridurre i rischi.
Un problema concreto che si pone nelle attività di formazione è però quello della qualificazione dei formatori, ossia degli esperti chiamati a erogare gli insegnamenti e le nozioni in materia di sicurezza sul lavoro.
I datori di lavoro che intendono realizzare interventi di formazione per il personale, specie nelle piccole o piccolissime imprese, non sono sempre in grado di valutare i contenuti e le modalità della formazione più appropriati per le loro specifiche esigenze. Essi tendono quindi ad affidarsi ad esperti e consulenti esterni, che dovrebbero possedere un’adeguata preparazione, per la cui attestazione non esiste però al momento una regolamentazione specifica. Ciò crea spesso situazioni confuse o addirittura ambigue, in cui si inseriscono a volte soggetti inadeguati e inaffidabili che offrono i loro servizi alle aziende, magari a tariffe concorrenziali, danneggiando sia i clienti che i professionisti più seri e qualificati.
Occorre dunque introdurre delle norme che, al pari di quanto già avviene per altre figure specializzate, stabiliscano i requisiti di competenza e professionalità necessari per l’esercizio dell’attività di formatori per la sicurezza, evitando di creare inutili appesantimenti burocratici e ostacoli alla libera iniziativa imprenditoriale, ma garantendo comunque la qualità di queste prestazioni, a tutela sia della professionalità dei veri formatori, sia delle aziende e dei lavoratori ai quali la formazione è rivolta.
Si tratta di una situazione che è stata più volte segnalata alla Commissione da enti istituzionali e parti sociali, anche nel corso delle numerose missioni svolte sul territorio. Per approfondire la questione e verificare gli opportuni rimedi, la Commissione ha quindi iniziato un percorso d’indagine, chiamando anzitutto a riferire sul tema, nella seduta del 15 giugno 2011, gli esperti della Consulta interassociativa italiana per la prevenzione (CIIP), un organismo che raggruppa importanti associazioni di categoria degli esperti del settore della prevenzione e che era già stata sentita più volte in passato dalla Commissione.
Il dottor Rino Pavanello, in qualità di presidente della CIIP, ha illustrato sinteticamente il quadro normativo vigente in materia di formazione per la salute e la sicurezza del lavoro, imperniato sul decreto legislativo n. 81 del 2008. Egli ha confermato come tale normativa definisca compiutamente, all’articolo 2, il concetto di «formazione», senza però specificare i requisiti professionali che devono possedere coloro che svolgono tale attività.
La definizione di questi requisiti è infatti demandata alla Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, attraverso uno dei suoi comitati tecnici.
La Commissione consultiva sta ancora lavorando sul punto, stante la complessità della materia e considerando anche il fatto che, come altri aspetti di dettaglio dell’attuazione del testo unico, la sua definizione deve essere concordata fra tre soggetti diversi (Stato, regioni e parti sociali) che non hanno spesso visioni coincidenti sulla questione. D’altra parte, quand’anche i criteri di qualificazione dei formatori della sicurezza fossero stati già definiti dalla Commissione, sarebbe comunque sempre necessario un intervento legislativo per istituire un sistema di assistenza e controllo che garantisca concretamente l’applicazione e il rispetto di tali criteri, a beneficio degli operatori e delle imprese. La mancanza di una normativa specifica ha infatti creato una situazione di grande incertezza, favorendo un mercato parallelo delle consulenze e degli attestati di sedicenti formatori della sicurezza, privi delle necessarie qualifiche e che danneggiano le aziende che si affidano a loro.
Il dottor Pavanello ha ricordato in proposito una serie di normative di rango secondario che debbono essere ancora emanate per completare l’attuazione del decreto legislativo n. 81 del 2008, soffermandosi in particolare sui criteri di qualificazione dei formatori e sul libretto formativo dei lavoratori. Vi è inoltre l’imminente scadenza del termine per i criteri di aggiornamento professionale dei responsabili del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) e degli addetti al servizio di prevenzione e protezione (ASPP).
In termini concreti, la CIIP ha quindi illustrato alla Commissione una serie di proposte per definire la figura del formatore professionale, sulla base dell’esperienza della propria esperienza. In primo luogo, poiché all’interno di un’azienda accanto ai lavoratori esiste una pluralità di soggetti che debbono ricevere formazione per la salute e la sicurezza sul lavoro, ciascuno con le proprie specifiche esigenze, sarebbe opportuno distinguere tra «formatori qualificati», che svolgono attività formativa in via prevalente o esclusiva, e «operatori formati», che esercitano altre mansioni ma erogano comunque formazione ad altre persone. Per ciascun tipo di formatore è possibile identificare una serie di requisiti di competenza, a seconda dell’area di specializzazione, basati su titoli di studio o su specifiche esperienze professionali e di docenza maturate.
Il sistema proposto dalla CIIP è molto articolato: ad esempio, esso individua quattro aree di specializzazione didattico-formativa (normativo- giuridica, politecnica, igienico-sanitaria e formativo-relazionale-comportamentale) e distingue tra formatori qualificati senior (più esperti) e junior (che devono maturare una specifica esperienza), nonché tra operatori formati interni all’azienda (ad esempio dirigenti o preposti chiamati ad addestrare alcuni lavoratori) ed esterni alla stessa (per esempio installatori di macchinari che forniscono anche addestramento per il loro utilizzo). Inoltre è previsto un sistema di accreditamento per la valutazione dei titoli di studio e delle esperienze professionali e didattiche, volendo consentire anche ai formatori già in attività di rientrare in questa nuova e più rigorosa impostazione, previa verifica dei requisiti posseduti.
Il punto sostanziale, sul quale i rappresentanti della Consulta hanno molto insistito, è però che la definizione dei requisiti professionali specifici è solo il primo passo per la regolamentazione dei formatori della sicurezza.
Occorre infatti anche individuare forme di pubblicità che possano dare pubblica evidenza alle persone effettivamente in possesso dei suddetti requisiti, come già previsto, del resto, per altre figure del sistema di prevenzione e protezione individuate dalle disposizioni vigenti, quali gli RSPP e gli ASPP, i medici competenti ecc. Senza entrare nel merito specifico delle modalità più corrette per realizzare questa pubblicità, la cui scelta spetta necessariamente al legislatore, la CIIP ha sottolineato con forza tale esigenza, che non vuole precostituire barriere all’entrata o altre limitazioni all’esercizio dell’attività, ma solo fornire garanzie circa la qualità delle prestazioni, a tutela degli stessi professionisti, delle imprese e dei lavoratori che riceveranno la formazione. A ciò si deve poi accompagnare un sistema premiale e di controllo (di tipo evidentemente pubblicistico) che garantisca l’effettività dei requisiti e il loro rispetto.
Un altro interessante contributo sul tema della qualificazione dei formatori della sicurezza sul lavoro è venuto poi dalla CEPAS - Certificazione delle professionalità e della formazione, un organismo specializzato nella certificazione dei formatori e che è stato audito dalla Commissione il 30 novembre 2011.
Come ha precisato il presidente, dottor Giancarlo Colferai, la CEPAS è un’associazione riconosciuta senza scopo di lucro che si occupa specificamente di verificare e certificare la qualità dell’attività svolta dai formatori che operano nei vari settori, al fine di tutelare i professionisti e i clienti, anche contro la concorrenza sleale di soggetti inadeguati e improvvisati che si offrono purtroppo sul mercato. L’attività si svolge in conformità alla norma ISO/IEC 17024, che prescrive come definire gli schemi di certificazione e di valutazione per ogni figura professionale e si configura come una «attestazione di parte terza» (cioè di un organismo indipendente e accreditato).
La CEPAS inoltre non svolge attività diretta di formazione, per evitare conflitti d’interesse. Essa verifica se i requisiti dei formatori sono conformi agli standard professionali, secondo le regole dell’EQF (European Qualifications Framework, Quadro europeo delle qualifiche). È poi accreditata dall’ente nazionale di accreditamento ACCREDIA e membro ufficiale delle principali organizzazioni internazionali di settore quali l’IPC (International personnel certification association) e l’IAF (International accreditation forum), il che favorisce importanti scambi di esperienze.
Per accedere alla certificazione, i professionisti debbono anzitutto possedere specifiche competenze tecniche, didattiche ed adeguata esperienza lavorativa e sostenere uno specifico esame. Superato l’esame, ricevono il certificato di docenti della formazione, che ha validità triennale ed è rinnovato solo se il professionista dimostra di aver curato l’aggiornamento professionale, di aver svolto in maniera corretta la sua attività e aver rispettato il codice deontologico dell’associazione.
Da molti anni la CEPAS si occupa della certificazione dei formatori della sicurezza sul lavoro, per cui ha elaborato specifici schemi con i requisiti e le competenze necessarie. Ad esempio, molti formatori aderenti all’AIFOS (Associazione italiana formatori della sicurezza sul lavoro) sono stati certificati con tale modalità10. Il sistema di certificazione illustrato può quindi dare ottimi risultati anche in questo campo, consentendo di valutare e selezionare in modo mirato diverse tipologie di formatori a seconda delle specializzazioni richieste. L’esperienza dimostra infatti che la formazione della sicurezza sul lavoro necessita di figure non generiche ma specifiche, troppo diverse essendo le esigenze di ogni settore produttivo.
Se dunque è possibile ipotizzare, sulla base di esperienze già presenti sul mercato, modalità di certificazione «privatistica» della qualità dei formatori, si tratta pur sempre di un’attestazione che interviene a posteriori, mentre resta aperto il problema di definire preliminarmente le competenze e quindi il percorso di studi e di esperienze che dovrebbero compiere i soggetti che intendono svolgere l’attività di formatori della sicurezza sul lavoro. Anche i vari corsi di specializzazione attivati ad esempio nelle università italiane – alcuni dei quali verranno illustrati nel paragrafo successivo –, pur prestigiosi non risolvono direttamente la questione, proprio perché manca attualmente una regolamentazione univoca della materia, come accade invece per altre figure professionali. La Commissione intende allora farsi parte attiva per mettere a punto una specifica proposta normativa in materia, con il concorso degli organismi di settore e previo confronto con i ministeri competenti e con la Conferenza delle regioni e delle province autonome. A tal fine, si riserva quindi di approfondire ulteriormente la questione, certamente assai complessa dal punto di vista tecnico, per poter studiare una soluzione adeguata.

3.4. La ricerca e l’alta formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro
Nell’ambito della sua indagine, la Commissione ha voluto dedicare attenzione anche agli aspetti della ricerca scientifica e dell’alta formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, attraverso un confronto con importanti atenei universitari e associazioni professionali nell’intento di raccogliere suggerimenti e indicazioni utili a migliorare le azioni di prevenzione.
Ai suddetti temi, la Commissione ha inoltre dedicato un apposito gruppo di lavoro sulla prevenzione e sulla formazione, coordinato dalla senatrice Bugnano, che ha promosso alcuni degli approfondimenti di cui si darà conto in questo paragrafo.
Il 23 marzo 2011 la Commissione ha incontrato i rappresentanti dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna e della regione Emilia-Romagna, che hanno voluto presentare un importante progetto di ricerca.
Come illustrato dal professor Francesco Saverio Violante, direttore dell’Unità operativa medicina del lavoro, che ha inteso ringraziare la Commissione per l’attenzione, il progetto è finalizzato a costruire un centro di ricerca dedicato ai temi della salute e della sicurezza sul lavoro, in collaborazione tra l’Università di Bologna e la regione Emilia-Romagna.
Oltre all’aspetto della ricerca scientifica, l’iniziativa intende individuare i fattori di maggior rischio per i lavoratori, soprattutto per quanto riguarda le malattie professionali, spesso meno considerate rispetto agli infortuni, per contribuire a delineare più efficaci strategie di prevenzione. Al riguardo, una particolare attenzione dovrà essere rivolta alle malattie muscolo- scheletriche e allo stress lavoro-correlato che, secondo i dati recentemente pubblicati nell’ultima indagine (2010) della «Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro» di Dublino, sono al primo posto tra i problemi di salute denunciati dai lavoratori europei.
Il dottor Carlo Lusenti, assessore alle politiche per la salute della regione Emilia-Romagna, ha sottolineato come il progetto in discorso costituisca un esempio di positiva sinergia tra il mondo della ricerca universitaria e quello delle istituzioni locali. L’istituendo centro di ricerca, che la regione Emilia-Romagna sosterrà attivamente, intende porsi come centro di eccellenza per sviluppare conoscenze sul tema degli infortuni e delle malattie professionali, formare gli operatori e definire strategie di intervento.
A tal fine, la delibera istitutiva del progetto ha già individuato specifici settori di approfondimento e di intervento, che fanno riferimento ai temi già citati: le condizioni di stress lavoro-correlato e le malattie muscolo- scheletriche (ovvero le condizioni più frequentemente legate all’attività lavorativa), le problematiche assicurative, connesse alla tutela dei lavoratori e concernenti la gestione amministrativa, per quanto riguarda la standardizzazione e la semplificazione delle procedure.
Il professor Stefano Mattioli, professore associato di medicina del lavoro, ha confermato il ruolo estremamente importante della Commissione d’inchiesta parlamentare nello stimolare e ispirare l’attenzione a tali problemi, incoraggiando questa iniziativa di collaborazione interistituzionale.
La Commissione ha espresso il proprio apprezzamento per l’iniziativa e confermato l’interesse a conoscere gli ulteriori sviluppi della stessa, ricordando che proprio sul tema delle malattie professionali essa ha costituito un apposito gruppo di lavoro. L’auspicio è naturalmente che il progetto possa fungere da modello per analoghe esperienze in altre parti del Paese, nel quadro della creazione di sistemi territoriali di tutela della salute e sicurezza sul lavoro sempre più efficienti e avanzati.
Un altro interessante contributo sul tema delle attività di ricerca e formazione è venuto dall’audizione svolta il 4 maggio 2011 con l’Associazione nazionale formatori della sicurezza sul lavoro (ANFOS), che ha chiesto alla Commissione di poter illustrare alcune esperienze di formazione a distanza in materia di sicurezza sul lavoro, nonché alcune riflessioni sui rischi dello stress-lavoro correlato.
Il dottor Rolando Morelli, presidente dell’ANFOS, ha illustrato l’attività pluriennale svolta dall’ANFOS nel campo della formazione a distanza (FAD) sui temi della sicurezza sul lavoro, attraverso una rete di 800 soci e 300 centri convenzionati in tutta Italia. La formazione a distanza è rivolta in particolare ai lavoratori e ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS) avvalendosi delle moderne tecnologie informatiche, e presenta una serie di vantaggi rispetto ai tradizionali corsi di tipo frontale, potendo essere svolta direttamente presso il luogo di lavoro con orari flessibili, eliminando così gli inconvenienti, i tempi morti e i costi legati agli spostamenti dei dipendenti. Consente inoltre di instaurare un dialogo a distanza tra docenti e discenti e di realizzare corsi ad hoc in lingua per lavoratori stranieri, che sarebbero altrimenti molto difficili da fare, soprattutto prima dell’inserimento nel mondo del lavoro.
Complessivamente, la FAD ha un costo più basso rispetto ai corsi di tipo tradizionale e risulta indicata soprattutto per le piccole e piccolissime imprese (fino a dieci lavoratori). C’è da dire infatti che mentre gli obblighi formativi scaturenti dalla normativa vigente sono praticamente gli stessi sia per le piccole che per le grandi aziende, l’impegno naturalmente è diverso. Si parla però soprattutto di piccole e piccolissime aziende a basso rischio, che abbiano cicli di attività non particolarmente complessi, posto che imprese più grandi e con rischi più elevati hanno esigenze più gravose, che non possono essere soddisfatte con la formazione on line. Viceversa, la FAD potrebbe aiutare le imprese minori con esigenze meno complesse ad adempiere agli obblighi di formazione e informazione dei lavoratori previsti per legge, riducendo anche i costi degli spostamenti, visto che le persone possono fruire dei corsi direttamente dal loro posto di lavoro con un semplice computer. La FAD consente infine un approccio di tipo mirato, con programmi dedicati: i corsi possono inoltre essere rivisti più volte e strutturati in modo che ogni studente sia periodicamente seguito da un tutore, con una serie di prove alla fine del corso.
La Commissione ha confermato il proprio interesse ad approfondire l’applicazione di tale modalità di insegnamento a distanza ai temi della formazione nella sicurezza sul lavoro, sottolineando però la necessità di valutare caso per caso l’idoneità di tale soluzione, al fine di evitare semplificazioni eccessive che possano tradursi in azioni formative di scarso impatto e utilità nei confronti dei lavoratori e delle imprese.
Il dottor Morelli ha quindi colto l’occasione per denunciare l’assenza di una normativa precisa che definisca caratteristiche e requisiti professionali dei soggetti abilitati a svolgere l’attività di formatori. Il decreto legislativo n. 81 del 2008 detta infatti i criteri per l’accreditamento delle strutture che possono erogare la formazione (enti pubblici, università, enti paritetici), ma non definisce le relative figure professionali. Attualmente si sta parlando di certificazione delle professionalità secondo la norma ISO/IEC 17024, ma l’ANFOS ritiene che sia un sistema per eludere il problema, perché non si garantisce l’efficienza e l’efficacia della formazione impartita da chi ottiene questo tipo di certificazione. Bisogna prendere in considerazione anche il curriculum di studi e professionale di queste persone.
Si tratta di un’oggettiva carenza della legislazione, lamentata da molti professionisti del settore e della quale anche la Commissione si sta attivamente interessando, come documentato nel paragrafo precedente.
Per quanto riguarda lo stress-lavoro correlato, dopo aver ricordato le gravi patologie che possono derivare da tale condizione, il dottor Morelli ha illustrato una ricerca svolta nel dicembre 2010 presso 12 grandi aziende del settore informatico (settore che impiega complessivamente 1.300.000 lavoratori), immediatamente dopo l’emanazione delle linee guida per la valutazione dei relativi rischi11. Lo stress-lavoro correlato, infatti, è molto avvertito nelle attività legate all’uso delle tecnologie informatiche (cosiddetto «tecno-stress»). La ricerca ha mostrato che solo 7 aziende su 12 si erano preparate per la valutazione di questi rischi, di cui 2 già autonomamente e 5 solo in seguito all’entrata in vigore della nuova disciplina. Peraltro, i vari soggetti sembrano più preoccupati di curare gli adempimenti di tipo formale, senza avere ancora realmente elaborato un piano di intervento che, ove necessario, possa eliminare i fattori che causano l’eventuale rischio di stress.
Il dottor Morelli ha precisato poi di non avere al momento soluzioni concrete da offrire per tale problema, troppo recente essendo la nuova normativa e necessitando ancora di tempo per valutare le prime esperienze. In termini generali, il rischio di stress-lavoro correlato riguarda soprattutto le grandi realtà lavorative e certi tipi di lavoro (ad esempio quello notturno o in luoghi confinati), mentre è molto meno presente nelle piccole aziende.
Ferma restando l’attività informativa di base prevista per i lavoratori, svolta anche dall’ANFOS, gli interventi concreti dovrebbero coinvolgere i medici competenti, che però possono solo curare una eventuale patologia, mentre la rimozione delle cause, cioè dei fattori di rischio, passa necessariamente attraverso modifiche dell’organizzazione del lavoro, che in certi casi possono essere difficili da realizzare.
Nella seduta del 20 luglio 2011 la Commissione ha audito alcuni docenti universitari, cha hanno attivato nei loro Atenei dei corsi di alta formazione sui temi della salute e sicurezza sul lavoro. Le audizioni, promosse dal gruppo di lavoro sulla prevenzione e formazione coordinato dalla senatrice Bugnano, si inserivano appunto in un percorso di indagine volto a verificare l’offerta formativa in Italia di livello universitario per la preparazione di figure specializzate nel settore della prevenzione.
La prima audizione è stata quella dei docenti della facoltà d’ingegneria del Politecnico di Torino. Il professor Mario Patrucco, docente di sicurezza e igiene del lavoro, ha illustrato i corsi di formazione in materia di cultura della sicurezza occupazionale attivati presso il Politecnico di Torino, che mirano a creare analisti di rischio, ossia esperti in grado di valutare i rischi per la sicurezza presenti all’interno delle aziende. La scelta di attivare un corso di questo tipo nasce dalla constatazione che, come dimostrano i dati, all’origine della maggior parte degli infortuni vi è spesso una mancata o errata valutazione del rischio, ovvero una gestione scorretta dello stesso, sia in fase preliminare che in fase successiva (interventi di manutenzione). Troppo spesso, infatti, i documenti di valutazione privilegiano l’aspetto burocratico anziché quello sostanziale. In questo senso, assumono una valenza essenziale sia le figure di verifica interna, a cominciare dai datori di lavoro e dai responsabili del servizio di protezione e prevenzione (RSPP), sia quelle di verifica esterna, cioè i funzionari degli enti di controllo come i Servizi di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPRESAL).
Proprio per formare al meglio queste figure, insegnamenti sull’analisi dei rischi sono ricompresi in tutti i corsi d’ingegneria attivati presso il Politecnico di Torino, tanto per la laurea triennale quanto per quella magistrale, oltre che nel corso di laurea in tecniche della prevenzione. Il corso più importante è però il «master in ingegneria della sicurezza ed analisi dei rischi», ormai giunto alla sedicesima edizione, che forma personale altamente qualificato con un approccio multidisciplinare, in cui si evidenziano sia gli aspetti teorici che pratici della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, anche attraverso tirocini in azienda. Il master è articolato in sette macromoduli, per un totale di 500 ore all’anno, tre mesi di stage, corrispondenti a 70 crediti formativi e vanta importanti patrocini, tra i quali quello dell’INAIL, collaborazioni con l’Agenzia regionale per la protezione ambientale (ARPA) e i Vigili del fuoco, nonché sponsorizzazioni di aziende private. L’esito del master, in termini occupazionali, è stato finora lusinghiero, in quanto quasi tutti gli studenti usciti hanno trovato lavoro.
Il professor Patrucco ha poi citato altresì i dottorati di ricerca attivati sulle medesime materie e si è soffermato infine sull’attività di studio e ricerca del Politecnico, che ha portato all’attivazione di collaborazioni con enti, istituzioni e aziende, nonché allo sviluppo di modelli per analisi avanzate di tipo preventivo e pre-normativo. Ancora, è stata creata un’applicazione informatica per l’analisi critica successiva degli eventi infortunistici, specificamente mirata all’individuazione delle cause.
Il professor Riccardo Tommasini, docente di ingegneria della sicurezza elettrica, si è quindi soffermato sulle analisi a fini pre-normativi, ossia di ausilio all’elaborazione dei testi di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che richiedono uno specifico approccio. Se infatti per elaborare un certo tipo di statistica sugli infortuni i dati dell’ISTAT e dell’INAIL sono sufficienti e utilissimi (anche per avere contezza della situazione generale), quando si deve approfondire la ricerca e fare un’analisi di rischio che serve per individuare le cause e quindi per poter organizzare dei provvedimenti da inserire nei documenti normativi, bisogna avere dei data base molto più ricchi.
Un lavoro di questo tipo è stato condotto anni fa nel campo della prevenzione dei rischi elettrici, analizzando circa un terzo degli infortuni elettrici avvenuti in Italia tra il 1960 e il 1987 (la ricerca è stata poi pubblicata nel 1988), per un totale di 5.500 eventi e oltre 200.000 dati tecnici.
Tale analisi ha consentito di mettere a punto le norme di regolamentazione del settore elettrico con assoluta cognizione di causa. Il professor Tommasini ha sottolineato come, in prospettiva, un simile approccio potrebbe essere adottato per creare un osservatorio sugli infortuni, dove anziché cercare i dati sugli infortuni passati, si registrino, attraverso un sistema di filtro, i dati sugli infortuni mano a mano che si verificano, magari per un certo periodo. Solamente attraverso uno strumento di questo genere si può poi fare della ricerca sulla sicurezza, in alternativa ad una semplice statistica sugli aspetti più generali.
La seconda audizione si è svolta con i docenti della facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Urbino «Carlo Bo». Il professor Paolo Pascucci, ordinario di diritto di lavoro, ha illustrato il corso di laurea triennale in «Scienze giuridiche per la consulenza del lavoro e la sicurezza dei lavoratori», attivato presso la facoltà di giurisprudenza. Il corso ha un contenuto specificamente giuridico, in quanto volto a creare una specifica competenza normativa in tema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
Al riguardo, il professor Pascucci ha sottolineato l’importanza dell’approccio giuridico come linguaggio comune ai diversi operatori, giacché anche gli aspetti tecnici della prevenzione (medici o ingegneristici) sono alla fine introiettati in norme giuridiche, secondo l’impostazione introdotta dal decreto legislativo n. 81 del 2008, che ha per la prima volta definito con precisione istituti e figure prima solo vagamente tratteggiate.
La materia della salute e sicurezza del lavoro è d’altra parte per sua stessa natura fortemente interdisciplinare, sia all’esterno che all’interno del diritto, il che giustifica la necessità di un codice linguistico comune per interpretare e far «dialogare» le diverse scienze, giuridiche e non giuridiche.
Il corso è mirato a creare figure di consulenti qualificati, con possibilità di acquisire anche il titolo di responsabile o di addetto dei servizi di prevenzione e protezione. Inoltre, altri possibili destinatari del corso sono i datori di lavoro, nonché gli ispettori del lavoro o delle ASL, a ciascuno dei quali la legge impone un’adeguata cultura giuridica, nelle loro diverse competenze. Il corso è focalizzato sulla prevenzione, intesa, secondo il nuovo approccio introdotto dal decreto legislativo n. 81, come «prevenzione partecipata e organizzata», che coinvolge cioè tutte le figure e tutti gli aspetti dell’organizzazione aziendale.
Infine, il professor Pascucci ha illustrato il progetto «Olympus», nato in collaborazione tra l’Università «Carlo Bo», la regione Marche e la direzione regionale INAIL delle Marche. Si tratta di un sito Internet specializzato, che contiene banche dati con tutta la documentazione normativa (leggi, sentenze ecc.), italiana e internazionale, prodotta in materia di salute e sicurezza sul lavoro, liberamente consultabile da chiunque. Ci sono più di 5.100 documenti inseriti, che fanno sì che il sito abbia fino adesso raggiunto la ragguardevole cifra di 3,8 milioni di visitatori, con una media negli ultimi mesi di oltre 10.000 accessi giornalieri. L’opera è continuamente aggiornata e ospita anche numerosi articoli di dottrina nonché «I Working papers di Olympus», una rivista scientifica on-line con saggi specializzati.
La Commissione, e in particolare il gruppo di lavoro sulla prevenzione e formazione, nel ringraziare gli auditi per il loro intervento, hanno espresso la loro soddisfazione per un aspetto, ossia il fatto che si tenda a favorire la partecipazione ai vari corsi (soprattutto a quelli per l’analisi dei rischi) anche per i datori di lavoro. Infatti, come è stato rilevato, la capacità di individuare il rischio per prevenirlo è fondamentale per un datore di lavoro, ma per farlo deve possedere delle conoscenze adatte: si tratta di un aspetto particolarmente importante, emerso ed evidenziato anche in altre audizioni.
Un ulteriore approfondimento sui temi della ricerca finalizzata all’innalzamento della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro è stato fornito alla Commissione dall’audizione dei rappresentanti della Fondazione nazionale C.S.R. (Centro studi nazionale per il controllo e la gestione dei rischi aziendali), svolta il 27 settembre 2011.
Il direttore generale, professor Paolo Prandi, ha illustrato brevemente l’attività della Fondazione, che è nata dalle conclusioni di una ricerca sulla gestione del rischio, avviata nel 2008 e pubblicata quest’anno, con la quale si è cercato di dare vita ad un sistema integrato nel territorio della provincia di Brescia, attraverso l’interlocuzione tra ricercatori, enti pubblici e soggetti imprenditoriali, con l’obiettivo di rilevare le principali aree dei rischi di varia natura cui sono sottoposte le aziende, identificare il loro grado di copertura, i principali presidi e le modalità di trasferimento, nonché di offrire un quadro di possibili interventi migliorativi.
Il lavoro di indagine si è sviluppato su quattro aree fondamentali: l’esame delle best practices; l’analisi delle aziende dal lato della domanda di sicurezza; il punto di vista degli stakeholders e quello delle aziende che operano sul versante della copertura del rischio, come ad esempio le società di assicurazioni. Sono state prese in considerazione anche le imprese straniere, soprattutto nell’area anglosassone, per le quali è stata constatata l’esistenza di una situazione molto più avanzata di quella esaminata, dal punto di vista dell’integrazione della gestione nel rischio nell’ambito della più complessiva pianificazione aziendale. Per quanto riguarda gli interlocutori, sono state intervistate aziende al di sopra dei 50 dipendenti, che si sono già dotate di un sistema di copertura dei rischi.
L’applicazione del modello adottato per la ricerca, che ha distinto tra rischio imprenditoriale e rischi associati di varia natura – quali ad esempio quelli ambientali, patrimoniali o finanziari –, ha consentito di verificare che gli imprenditori sono perfettamente al corrente degli aspetti della realtà industriale riguardanti più direttamente la produzione e la commercializzazione del prodotto, mentre sono meno consapevoli per quello che riguarda altre aree, come appunto quella del rischio, rese più opache anche dalla crescente complessità dell’ambiente competitivo.
La gestione globale del rischio, secondo quanto illustrato dal professor Prandi, comporta in primo luogo l’esame dell’importanza strategica dell’attività di rischio, al fine di decidere l’eliminazione o il mantenimento dell’attività stessa; in secondo luogo, l’adozione di idonee misure di sicurezza fisiche e procedurali, necessarie al contenimento dei rischio – valutando il ricorso a presidi specifici e a modalità di trasferimento – e, infine, la rivalutazione dell’esposizione aziendale al rischio residuale, contemplando un incremento dei presidi o delle modalità di trasferimento, qualora esso risultasse non tollerabile.
Passando ad esaminare le cause più frequenti di incidente, il professor Prandi ha osservato che esse sono dovute all’erroneo utilizzo dei macchinari, derivante a sua volta da scarsa perizia, imputabile ad una formazione incompleta, da disattenzione spesso frutto di un’eccessiva sicurezza nella ripetizione delle mansioni, nonché dalla ricerca di maggiore efficienza e da una sottovalutazione dell’importanza dei presidi predisposti dall’azienda. L’attività di prevenzione dovrebbe pertanto concentrarsi sulla formazione dei dipendenti nell’utilizzo dei macchinari, sull’attribuzione delle relative responsabilità e su programmi di manutenzione dei macchinari stessi.
Il dottor Antonino Girelli, consigliere della Fondazione, ha ricordato preliminarmente che nel corso della sua attività di revisore si è sovente imbattuto nella problematica della gestione del rischio, sia dal punto di vista dell’approccio scientifico, sia da quello delle concrete procedure da adottare. Soprattutto sotto quest’ultimo aspetto, il risultato della ricerca illustrata dal professor Prandi ha fornito molti spunti di riflessione, inducendo i promotori a dare vita alla Fondazione C.S.R., secondo una linea di continuità con l’attività svolta e come volano per la crescita del confronto e della riflessione su argomenti di grande rilievo, con un’impostazione in grado di coniugare l’esigenza di diffondere una cultura della prevenzione con quella di assicurare l’operatività delle aziende, migliorando la loro capacità di analizzare e risolvere i propri problemi.
In assenza di rilevazioni dettagliate sui costi sostenuti dalle imprese, gli approfondimenti effettuati in occasione delle interviste hanno condotto a stimare la spesa per la gestione dei rischi tra l’1 e l’1,5 per cento del fatturato lordo aziendale, con un’incidenza simile, ad esempio, al costo degli interessi bancari in un’azienda con un indebitamento fisiologico.
Considerando che sono state prese in esame realtà caratterizzate da fatturati annuali rilevanti, si tratta di importi certamente significativi ma, al di là del dato quantitativo, la ricerca ha evidenziato una scarsa integrazione della gestione del rischio, anche perché nel sistema organizzativo aziendale la fase di controllo e valutazione del rischio medesimo non fa capo ad una funzione unitaria e chiaramente individuata.
In ogni caso, nel campione esaminato il numero medio di incidenti è pari a 3 all’anno, nessuno grave, e non si riscontrano malattie professionali.
Questo dato è in qualche modo indicativo del tipo di aziende considerato e sarebbe interessante capire meglio che cosa accade in aziende con un numero di dipendenti inferiore a 50 e con un budget per la sicurezza più limitato. Di certo, la prevenzione delle cause più frequenti di incidente sul lavoro comporta la diffusione di una cultura della sicurezza. Inoltre, se le risorse destinate dalle aziende a tale finalità venissero portate all’attenzione del management al fine di dare vita a figure specificamente preposte alla valutazione e al controllo del rischio, si arriverebbe molto probabilmente ad una significativa riduzione dei costi, e si conseguirebbe una visione più unitaria, con una migliore individuazione degli ambiti di attività bisognosi di maggiori presidi di protezione.
In merito ai criteri di composizione del campione e alla tipologia delle aziende esaminate, il professor Prandi ha poi precisato che vi è stata una preselezione per individuare le 80 aziende intervistate. L’intenzione era quella di dialogare con imprenditori già positivamente predisposti in tal senso, considerata anche l’assenza di un unico interlocutore sul tema della gestione del rischio. Questa figura potrebbe essere individuata nel responsabile dei servizi di prevenzione e sicurezza: tuttavia, anche nei casi in cui quest’ultimo è presente in azienda – e non sempre lo è – i vertici aziendali non riescono ad avere un approccio globale alle problematiche della gestione del rischio e ad essere pienamente coinvolti in esse, anche a causa di una legislazione che pone numerosi obblighi, responsabilità, doveri di natura documentale e regola le diverse situazioni in modo estremamente dettagliato. La Fondazione nazionale C.S.R. intende considerare l’azienda come un’entità unitaria, che deve gestire numerose tipologie di rischio, ma la gestione di quello specificamente riferito agli infortuni sul lavoro non è facilitata da una regolazione così complessa, e ciò rende particolarmente urgente un’opera di semplificazione legislativa, suscettibile di tradursi in un maggiore coinvolgimento degli imprenditori, come peraltro è nell’auspicio di alcuni di essi.
Il professor Prandi ha ulteriormente osservato che la quota di risorse destinate alla gestione del rischio, calcolata in percentuale sul fatturato lordo, potrebbe anche risultare sottostimata: quello che è certo è che essa è finalizzata alla gestione, mentre è assente un’analisi preventiva che consenta di individuare le maggiori criticità. In altri termini, l’insieme della spesa per la gestione del rischio, non sempre percepita con chiarezza dai vertici aziendali, non discende da un’analisi delle necessità oggettive e, inoltre, manca sovente una valutazione sui suoi effetti, in particolare per quanto attiene alla capacità di ridurre il rischio e di far decrescere il rischio residuo, capacità che dovrebbe essere assunta come obiettivo strategico dell’azienda.
Un contributo al dibattito è poi venuto dal dottor Gilberto Franchini, altro consigliere della Fondazione, che ha portato la sua esperienza di imprenditore siderurgico meccanico, sottolineando che nella sua azienda non si sono verificati infortuni sul lavoro e che la formazione per la prevenzione si svolge regolarmente, per quattro ore a settimana, mentre l’opera concreta di prevenzione poggia soprattutto sui responsabili dei reparti di produzione, la cui attività, peraltro, non è sempre adeguatamente apprezzata dai lavoratori. Come è stato accennato anche nell’introduzione del professor Prandi, l’azienda è chiamata a gestire rischi numerosi e di diversa natura, che si sommano a quelli legati agli infortuni sul lavoro: ad esempio il danno economico derivante da un errore che comporti il danneggiamento di prodotti di grande valore, o quello implicito quando si contratta con aziende multinazionali, che non considerano i costi derivanti dagli obblighi della legislazione nazionale.
Infine, il professor Prandi ha illustrato dettagliatamente l’organizzazione della Fondazione e del Centro studi nazionale per il controllo e la gestione dei rischi aziendali, soffermandosi in particolare sulla tipologia dei partecipanti, sulla forma statutaria e sulle caratteristiche della Fondazione stessa, con particolare riferimento al suo approccio aziendalistico.
Nell’immediato futuro, si intende completare l’assetto dell’ordinamento interno e sviluppare la ricerca su diverse aree, a livello orizzontale, per studiare altre regioni e superare l’attuale dimensione localistica, e a livello verticale, per approfondire il risk management in altri settori e su altre problematiche. Un oggetto specifico di ricerca dovrebbe essere quello relativo alla semplificazione normativa e al cover risk rating.
La Commissione ha espresso apprezzamento per il contributo della Fondazione C.S.R., il cui approccio correttamente considera essenziale la problematica delle funzioni e della responsabilità imprenditoriale e, nel rilevare l’importanza della quota di fatturato lordo destinata dalle aziende considerate alla gestione del rischio, sottolinea la centralità di una cultura della prevenzione, per la creazione e diffusione, della quale, peraltro, la legislazione vigente offre importanti indicazioni. L’aspetto pregevole e originale della ricerca sta proprio nell’offrire un criterio atto a realizzare una migliore comprensione della dimensione aziendale e una visione globale della problematica relativa agli infortuni sul lavoro. Dagli interventi svolti nell’incontro è emerso altresì un quadro interessante della mentalità imprenditoriale e la Commissione ha pertanto auspicato che la Fondazione prosegua nel programma da ultimo illustrato dal professor Prandi, offrendo ulteriori approfondimenti sulle problematiche oggetto dell’inchiesta parlamentare in corso.
Infine, l’11 ottobre 2011 la Commissione ha svolto un’audizione dell’Association for the Advancement of Radical Behavior Analysis (AARBA), incentrata sull’applicazione delle metodologie dell’analisi comportamentale ai fini dell’individuazione e della prevenzione dei fattori di rischio per la sicurezza dei lavoratori.
Il presidente, professor Fabio Tosolin, ha fornito preliminarmente alcune informazioni sull’AARBA, illustrandone l’attività scientifica, didattica e di ricerca, il collegamento con alcuni atenei italiani e con le omologhe associazioni internazionali e la collaborazione con enti pubblici e privati, tra cui l’INAIL e, in precedenza, con l’ISPESL. Dopo aver ricordato che il Capo dello Stato ha insignito l’AARBA di importanti riconoscimenti per l’attività svolta, il professor Tosolin ha precisato che la metodologia del Behavior Based Safety (BBS), che trae le sue origini remote dalla psicologia dell’apprendimento, intende costruire comportamenti finalizzati ad ottenere risultati misurabili oggettivamente nel campo della sicurezza sul lavoro. L’applicazione di tale metodo si basa infatti sulla constatazione che circa il 96 per cento degli infortuni che avvengono su base annua sono riconducibili a comportamenti insicuri. L’intervento di BBS richiede ovviamente la presenza di esperti in possesso di una solida preparazione teorica e pratica, quale può derivare dal possesso di una laurea specialistica e da un ulteriore percorso formativo nell’ambito di un dottorato in Behavior Analisys, nonché dal possesso di esperienze specifiche nel campo della ricerca applicata.
È quindi intervenuto il professor Adriano Paolo Bacchetta, direttore area Health & Safety dell’associazione, il quale, nell’esaminare il rapporto tra il BBS e la normativa vigente, ha osservato che nel corso degli anni la legislazione italiana in materia di sicurezza e prevenzione sul lavoro ha fatto registrare notevoli miglioramenti dal punto di vista della definizione di standard di sicurezza e del coinvolgimento dei principali attori nell’attuazione delle politiche prevenzionistiche. Già in passato, in sede di monitoraggio degli effetti del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, si convenne che la diffusione di una cultura della sicurezza tra le figure chiave dell’organizzazione produttiva era suscettibile di produrre risultati più proficui di una impostazione delle problematiche prevenzionistiche basata in prevalenza sull’azione autoritativa della pubblica amministrazione.
Una tale constatazione riconduce direttamente a considerare la rilevanza del comportamento umano che, più della violazione delle prescrizioni legislative, può incidere sul numero e sulla frequenza degli infortuni sul lavoro.
Senza sottovalutare gli effetti positivi che possono derivare dalle misure volte al miglioramento degli impianti e degli ambienti di lavoro, occorre tenere presente che gli interventi in grado di ridurre comportamenti non conformi alle norme di sicurezza possono produrre risultati di grande rilievo, soprattutto nel sistema attuale, nel quale i lavoratori e i datori di lavoro sono destinatari finali di una serie di obblighi legislativi, ma hanno una scarsa abitudine alla cooperazione, al confronto ed alla reciproca assistenza, che il BBS si propone invece di promuovere ed attuare. Esso infatti consente di adottare modalità più efficienti per individuare comportamenti non sicuri e per incentivare la motivazione individuale e collettiva alla sicurezza: in sostanza, l’obiettivo di un processo di sicurezza basato su comportamenti e integrato nel sistema di prevenzione e protezione aziendale, consiste nell’implementazione di un processo di cambiamento culturale che elevi la sicurezza a valore fondamentale per tutti gli attori del processo produttivo. In tal modo, inoltre, si dà specifica attuazione all’articolo 20 del decreto legislativo n. 81 del 2008, che disciplina l’obbligo dei lavoratori a cooperare nella creazione di un sistema di sicurezza.
Il professor Tosolin ha quindi precisato meglio il significato del BBS ricordando in primo luogo che esso può essere definito come un metodo scientifico, cioè un metodo la cui efficacia è sperimentalmente dimostrata, che ha per oggetto l’ambito della sicurezza comportamentale. Infatti, se si considerano anche le trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione economica e produttiva, si può constatare che il comportamento è oggi un contenuto essenziale del processo lavorativo, suscettibile anche di modificare le condizioni della sicurezza. Di qui, l’esigenza di individuare un metodo scientificamente fondato ed i cui risultati possano essere misurati, in base a parametri certi. Una recente ricerca ha individuato circa 300 metodologie finalizzate ad ottenere comportamenti di sicurezza: la maggioranza di esse – molte delle quali sono in realtà soltanto marchi commerciali – presenta caratteristiche diagnostiche, finalizzate all’individuazione delle criticità, e solo 84 forniscono prescrizioni e indicazioni di condotta agli operatori economici. In questo più ristretto gruppo, poi, solo 9 metodologie sono in grado di presentare pubblicazioni scientifiche a sostegno della loro efficacia e solo una, ovvero il BBS, è in grado di fornire nelle proprie pubblicazioni prove cosiddette di terzo livello, ovvero basate sulla sperimentazione scientifica attuata con un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo. Queste prove consentono di affermare che l’applicazione del BBS può portare ad una riduzione degli infortuni nella misura del 65 per cento e, a parità di numero, anche ad una non trascurabile riduzione della gravità degli incidenti medesimi.
Proseguendo nella sua esposizione, il professor Tosolin ha fornito chiarimenti sulle tecniche di misurazione dei comportamenti adottate per i casi specifici, sottolineando come la riduzione dei comportamenti pericolosi conduca costantemente ad una proporzionale riduzione del numero degli infortuni.
Se si esaminano poi le cause di infortunio, la comunità scientifica internazionale è concorde sul fatto che oltre l’80 per cento degli incidenti è determinato da comportamenti insicuri, piuttosto che da fattori tecnici. Basta, a tale proposito, considerare gli incidenti stradali, al 99 per cento causati da comportamento umano. Occorre altresì tenere presente che il comportamento sicuro non è innato: al contrario, esso è condizionato dalle circostanze e dagli stimoli esterni e, per quel che concerne gli ambienti di lavoro, dipende in larga misura da difetti di informazione – e giustamente la legislazione vigente affronta con ampiezza le problematiche dell’informazione e della formazione dei lavoratori – e da difetti di motivazione.
Sin dal secolo scorso, la Behavior Analysis (o analisi comportamentale), che costituisce la base del BBS, ha cercato di definire le numerose variabili di cui il comportamento umano è funzione. Per quanto riguarda i comportamenti di sicurezza, esse sono riconducibili a due grandi categorie: gli stimoli antecedenti, che precedono immediatamente il comportamento, e gli stimoli conseguenti, che altrettanto immediatamente li seguono.
Sono le concrete circostanze che determinano la scelta individuale a favore di un comportamento più o meno sicuro e la base di qualunque intervento di BBS è costituita dall’intervento sugli stimoli antecedenti e su quelli conseguenti, con lo sviluppo di paradigmi e tecniche volti a incentivare una condotta coerente con gli obiettivi di sicurezza.
In particolare, la ricerca ha dimostrato che la frequenza, la resistenza all’estinzione e la qualità dei comportamenti sono funzione del numero di conseguenze positive che il lavoratore riceve nell’unità di tempo in occasione dei comportamenti sicuri: il perseguimento degli obiettivi di sicurezza fondato sui comportamenti contempla la sostituzione del sistema di verifiche ispettive e di sanzioni con un sistema opposto, di misurazione continua e di riconoscimenti o di feedback giornalieri e settimanali contingenti ai comportamenti di sicurezza di ciascun lavoratore. L’esperienza del BBS dimostra che la punizione può inibire il comportamento umano, ma ha carattere effimero, nel senso che la sua irrogazione non può impedire che, in circostanze date, il comportamento sanzionato si riproduca. Solo l’adozione di conseguenze positive, gratificanti per il soggetto, può invece instaurare e stabilizzare nel tempo un comportamento virtuoso. La procedura attraverso la quale si perviene all’aumento della probabilità di ricomparsa del comportamento prende il nome di rinforzo positivo, e costituisce il cuore del BBS, che punta ad agire sulla motivazione del lavoratore per ottenere più sicurezza e, al tempo stesso, a rimuovere gli stimoli a comportamenti insicuri.
Il professor Tosolin ha quindi richiamato l’esigenza di assicurare una formazione adeguata sulla sicurezza, rilevando come attualmente essa venga erogata con modalità scientificamente incerte, nella quasi totale assenza di programmazione didattica, di metodologie di insegnamento e di requisiti e parametri di apprendimento idonei a conseguire i risultati attesi, per cui in molti casi questi ultimi sono molto al di sotto dell’impegno profuso e delle esigenze dei lavoratori e dell’azienda, con conseguenze negative sulla sicurezza.
Il contributo dell’AARBA, che la Commissione ha particolarmente apprezzato, offre l’occasione per alcune considerazioni più ampie. In questo approccio, infatti, si riporta al centro delle politiche di prevenzione e di formazione il ruolo dell’individuo e del contesto ambientale. Ne deriva da un lato l’esigenza di una formazione che sia svolta da professionisti preparati, sia negli aspetti tecnici che in quelli didattici (e ritorna qui il discorso della regolamentazione della figura del formatore), e che sia il più possibile mirata alle specifiche esigenze dell’impresa e dei destinatari, in particolare dei lavoratori. Dall’altro lato, emerge anche l’importanza di un approccio alle regole della sicurezza che non sia meramente prescrittivo o peggio punitivo, ma che sappia motivare adeguatamente gli individui (anche con sistemi di premialità) a valutare i rischi e ad assumere spontaneamente i comportamenti più sicuri.
Volendo estendere la riflessione, anche alla luce di altre indicazioni emerse dall’inchiesta, si può dire che questa impostazione (che è poi quella della «cultura della sicurezza») chiama in causa non solo la capacità dei formatori e la consapevolezza dei lavoratori, ma anche la capacità gestionale e organizzativa dei datori di lavoro. Si tratta in primo luogo di un obbligo giuridico: il decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede espressamente all’articolo 37, tra gli obblighi che competono al datore di lavoro, anche quello di formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, nonché dei dirigenti e dei preposti. L’articolo 34 prevede inoltre che lo stesso datore di lavoro debba ricevere una specifica formazione, qualora intenda svolgere direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.
Entrambe le norme demandano poi ad accordi stipulati in sede di Conferenza Stato-Regioni la definizione della durata, dei contenuti minimi e delle modalità della formazione. Per quanto riguarda tali accordi, vi sono stati purtroppo molti ritardi, per la complessità della materia e per la necessità, secondo le procedure stabilite dal testo unico, di concordare i testi fra tre soggetti distinti, Stato, regioni e parti sociali. Come ricordato nel paragrafo 2.3, gli accordi sono stati finalmente approvati nella Conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’11 gennaio 2012.
A prescindere dagli obblighi di legge, però, la formazione sui temi della salute e della sicurezza dovrebbe comunque rappresentare per il datore di lavoro un passaggio «naturale», un investimento rivolto a migliorare la qualità e l’efficienza della sua azienda. Se un’impresa riduce al minimo i suoi rischi, significa infatti che è in grado di organizzare e controllare in modo corretto l’intero processo produttivo e gestionale, dato che quest’ultimo – come insegna la scienza manageriale – non può essere considerato in modo frammentario e parcellizzato, ma deve essere inserito in una visione d’insieme che abbraccia tutte le sue componenti.
L’inchiesta della Commissione, del resto, muove dal presupposto che la sicurezza non sia un costo, ma un valore da promuovere in ogni ambito produttivo. Il sistema di tutela dei lavoratori disegnato dal decreto legislativo n. 81 del 2008 ha inteso porre le basi giuridico-istituzionali per tradurre tale approccio in azioni concrete, e certamente molto è stato fatto, ma molto rimane ancora da fare. Le attività di prevenzione e in particolare, al loro interno, quelle di formazione, svolgono un ruolo essenziale a tal fine: le varie carenze (normative, regolamentari o di risorse) che ancora esistono in questo campo devono quindi stimolare tutti gli attori del sistema a uno sforzo maggiore, al quale anche la Commissione d’inchiesta intende offrire il proprio contributo.

3.5. Le malattie professionali legate all’esposizione da amianto
Nel corso della sua inchiesta, la Commissione si è occupata anche del fenomeno delle malattie professionali, con particolare riguardo a quelle derivanti dall’esposizione all’amianto. Sebbene l’uso di tale materiale sia ormai bandito da qualsiasi produzione e da qualsiasi luogo di lavoro o abitazione, tuttavia il massiccio utilizzo fatto nei decenni passati ha fatto sì che moltissime persone che erano esposte abbiano contratto gravi e spesso letali patologie le quali, avendo tempi di latenza molto lunghi, anche di vent’anni, si manifestano ancora oggi e continueranno a manifestarsi anche negli anni avvenire. Com’è noto inoltre, le malattie spesso non hanno colpito solo i lavoratori direttamente esposti all’amianto, ma anche i loro familiari o gli abitanti delle zone immediatamente circostanti ai siti in cui si lavorava o si stoccava il materiale.
Si tratta perciò di una vera emergenza sociale, che porta con sé varie conseguenze, dai processi civili e penali contro le ditte che facevano uso di amianto, alla richiesta di norme e procedure più celeri per l’accesso delle vittime o dei loro familiari a indennizzi e benefici vari (soprattutto previdenziali), alla necessità di cure adeguate per i malati e di idonei protocolli di sorveglianza sanitaria per le categorie a rischio degli ex esposti, oltre naturalmente al problema della bonifica e dello smaltimento dei manufatti contenenti amianto, ancora presenti in alcune realtà.
La situazione è stata resa più complessa anche dal ritardo con il quale è stato attivato il Fondo per le vittime dell’amianto, che nell’attuale sistema normativo si configura come la principale fonte dei benefici economici aggiuntivi riconosciuti ai lavoratori ex esposti. Il Fondo, istituito presso l’INAIL con la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) (articolo 1, commi 241-246), è divenuto infatti pienamente operativo solo il 13 aprile 2011 con l’approvazione del relativo regolamento e solo dal settembre 2011 l’INAIL ha potuto cominciare a liquidare le somme agli aventi diritto, a partire da quelle relative agli anni 2008-2009.
Di questi problemi la Commissione si è interessata attivamente in passato, anche nel corso di alcune missioni sul territorio, in particolare in Piemonte, dove si sono concentrate la maggior parte delle vittime dell’amianto (si veda in proposito la precedente relazione intermedia). In questo terzo anno di attività, l’approfondimento è proseguito anche attraverso le audizioni di due associazioni nazionali che da tempo si occupano della tutela delle vittime dell’amianto e che hanno riportato la loro esperienza.
La prima di tali audizioni si è svolta il 20 aprile 2011 con i rappresentanti dell’Associazione italiana esposti amianto (AIEA), sezione Val Basento. Il signor Mario Murgia, presidente dell’Associazione, ha richiamato la vicenda dei lavoratori dell’ex stabilimento EniChem di Pisticci, in provincia di Matera, che sono stati esposti ad amianto e ad altre sostanze tossiche, sviluppando in molti casi patologie tumorali, spesso anche mortali. Nel ripercorrere la dolorosa vicenda, il signor Murgia ha evidenziato come l’accertamento della presenza di amianto nello stabilimento (dove si producevano fibre tessili sintetiche) e della conseguente esposizione dei lavoratori abbia subito negli anni pesanti ritardi. Inoltre, anche una volta accertati i fatti, i lavoratori di Pisticci non sono stati però ricompresi nello specifico atto di indirizzo ministeriale del 2002, diversamente da altri casi analoghi, con la conseguenza di essere stati esclusi dai benefici previdenziali e dai protocolli di sorveglianza sanitaria riservati agli ex esposti.
Dei circa 5.000 dipendenti interessati dal problema, solo 1.850 hanno inoltrato in tempo utile la domanda per il riconoscimento dei benefici previdenziali entro il 15 giugno 2005: 660 di questi lavoratori hanno ottenuto il riconoscimento dei loro diritti a seguito di trattative successive con le organizzazioni sindacali e con le forze sociali, facendo riferimento ad un protocollo simile a quello dello stabilimento di Brindisi. Questi 660 lavoratori sono stati avviati a sorveglianza sanitaria a partire dal 2006. Successivamente l’Associazione e le organizzazioni sindacali, in virtù delle disposizioni del decreto legislativo n. 277 del 1991, hanno fatto in modo, attraverso protocolli d’intesa con la regione Basilicata, che la sorveglianza sanitaria venisse estesa ad altri lavoratori ex esposti, non solo per l’amianto, ma anche per tutte altre sostanze tossiche e nocive.
Ad oggi sono circa 1.700 su 5.000 i lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria. Tra questi, 230 casi sono stati segnalati dalla medicina del lavoro all’INAIL in quanto portatori di patologie sospette da approfondire. Molti casi gravi, in cui sono state riscontrate patologie maligne, vengono segnalati direttamente al centro oncologico di Rionero in Vulture, realizzando così una sorveglianza oncologica preventiva. A questi 230 casi sono da aggiungere i numerosissimi casi che in questi anni l’Associazione ha ricostruito attraverso un proprio lavoro, posto che molte famiglie non avevano ancora coscienza di quello che poteva essere accaduto ai loro familiari.
L’Associazione ha registrato ad oggi, su un totale di 260 casi di patologie tumorali, oltre 160 casi di decesso. La maggior parte delle famiglie dei deceduti non ha ricevuto alcun genere di aiuto, né da parte delle organizzazioni sindacali, né da parte delle istituzioni provinciali e regionali. La vicenda è poi resa ancora più penosa dal fatto che ora si stanno registrando casi di malattie asbesto-correlate anche tra i familiari, in particolare tra le vedove degli ex lavoratori.
Secondo l’AIEA tale situazione deriva anche dalle negligenze e inadempienze degli enti locali preposti, tra cui la Direzione regionale INAIL della Basilicata, che a suo avviso avrebbero adottato interpretazioni errate delle norme e delle procedure, a volte addirittura in contrasto con orientamenti consolidati a livello nazionale, escludendo parte delle vittime e dei loro familiari da benefici loro dovuti. L’Associazione ha quindi illustrato le specifiche situazioni oggetto di tale discriminazione, legata essenzialmente al ritardo con il quale sono state denunciate le patologie o avanzate le domande di beneficio, ritardo dovuto alla cattiva informazione fornita ai lavoratori e alle loro famiglie, nonché alla negligenza di molti medici che non hanno diagnosticato per tempo le patologie.
L’AIEA ha sollecitato al riguardo un intervento d’ufficio delle autorità per risolvere tali situazioni, riconoscendo a tutti i lavoratori e alle loro famiglie l’accesso ai benefici previdenziali ed economici e alla sorveglianza sanitaria, tenendo conto che molti soggetti sono nel frattempo deceduti e che molti altri casi stanno emergendo solo ora, per l’interessamento dell’AIEA. Infine è stato ricordato che la situazione di Pisticci è purtroppo molto simile a quella che si registra per gli ex lavoratori di altri stabilimenti dove si lavoravano le fibre di amianto, tra i quali in particolare quello EniChem di Ottana (in provincia di Nuoro) e quelli Montefibre di Acerra e Casoria (in provincia di Napoli).
Rispondendo a un quesito della Commissione, che chiedeva se a fronte dei ritardi e delle negligenze richiamati vi fossero state denunce, anche in sede giudiziaria, considerando che molti di questi casi, anche mortali, risalivano ormai a parecchi anni fa, il signor Murgia ha precisato che l’AIEA ha presentato un esposto-denuncia nel giugno 2010 alla magistratura, del quale – al momento dell’audizione – non erano ancora noti gli esiti. In precedenza, i lavoratori e le loro famiglie erano stati restii a denunciare il problema: inoltre, l’AIEA Val Basento si è costituita solo nel 2009 e ha potuto portare avanti azioni legali solo dopo che uno studio epidemiologico delle Autorità sanitarie le ha consentito di produrre al riguardo documentazione tecnico-legale e sanitaria.
Gli stabilimenti presso i quali lavoravano gli addetti colpiti dalle patologie legate all’amianto sono stati chiusi una decina di anni fa, per motivi industriali. Tuttavia, le società proprietarie sono ancora attive. Occorre però uno studio epidemiologico sulla popolazione degli ex esposti per rilevare le eventuali patologie ancora latenti. Il signor Rocco Regina, segretario dell’Associazione, ha confermato poi che fino a poco tempo fa molti lavoratori e i loro familiari non avevano voluto avanzare denunce per ignoranza, per pressioni ricevute o anche per timore di affrontare lunghe e costose vertenze giudiziarie. D’altra parte, tale resistenza esiste ancora in altri territori interessati dal problema, come in quello dello stabilimento di Ottana in Sardegna.
Infine, la dottoressa Anna Maria Virgili, presidente dell’AIEA del Lazio, ha riportato l’esperienza della sezione laziale dell’Associazione, costituita da pochi mesi, segnalando come anche nel Lazio esista una situazione grave in relazione alle patologie da amianto, anche per la mancanza di un protocollo di sorveglianza sanitaria, alla quale si sta cercando di ovviare promuovendo una specifica legge regionale.
La Commissione ha espresso il proprio sostegno e apprezzamento per l’attività portata avanti dall’AIEA Val Basento, auspicando un intervento legislativo che elimini le discriminazioni tra le diverse categorie di lavoratori interessati dall’esposizione all’amianto e consenta a loro e ai loro familiari di accedere pienamente ai benefici previdenziali ed economici.
Al tempo stesso, nel corso della visita a Potenza dell’11 e 12 settembre 2011 (si veda in proposito il paragrafo 4.8), la Commissione ha affrontato le problematiche e i ritardi segnalati dall’AIEA con le Autorità locali preposte, che hanno assicurato un intervento sollecito per la loro risoluzione.
La seconda audizione sul tema delle patologie da amianto si è svolta il 20 luglio 2011 con i rappresentanti dell’AVANI (Associazione vittime amianto nazionale italiana), su sollecitazione anche del gruppo di lavoro sui temi della formazione e prevenzione, coordinato dalla senatrice Bugnano.
Il presidente, signor Silvio Mingrino, ha illustrato l’attività dell’Associazione, nata per sensibilizzare contro i pericoli dell’esposizione all’amianto e tutelare le vittime, tra le quali ha ricordato i suoi stessi genitori. In particolare, l’Associazione è nata per far fronte al problema delle patologie asbesto correlate sorte nel territorio dell’Oltrepò Pavese in relazione all’attività dell’ex stabilimento Fibronit (dove appunto si lavoravano fibre di amianto) e che dal 1978 ad oggi hanno causato oltre 1.000 morti, sia tra i lavoratori che tra i loro familiari, in particolare nel paese di Broni, che detiene al riguardo un sinistro primato.
Tale situazione è nata dall’incuria e dalla negligenza dell’azienda e delle stesse Autorità che non hanno informato per tempo i soggetti esposti al rischio: per tale ragione, l’AVANI ha assunto varie iniziative per sensibilizzare sul problema e promuovere il miglioramento della legislazione degli indennizzi a favore delle vittime, sollecitando in particolare la piena attivazione del Fondo per le vittime dell’amianto, che ha subito in questi anni forti ritardi con il colpevole disinteresse delle istituzioni.
Sono state altresì richiamate le indagini in corso per accertare le responsabilità per le vittime legate all’attività dell’ex stabilimento Fibronit, lamentando come, a distanza di anni dall’inizio, non sia stata ancora raggiunta alcuna conclusione. L’AVANI sta portando inoltre avanti un progetto sperimentale di sorveglianza sanitaria sui rischi delle patologie legate all’amianto insieme all’ospedale di Pavia, che si vorrebbe estendere quanto più possibile. In particolare, l’attenzione si concentra sul mesotelioma pleurico, la più grave delle suddette patologie.
Il dottor Giovanni Belloni, in qualità di consigliere dell’AVANI e di presidente dell’ordine dei medici della provincia di Pavia, ha poi illustrato il problema delle patologie asbesto correlate della zona dell’Oltrepò pavese, in particolare nel distretto di Broni-Stradella e specificamente nel comune di Broni, dove è ubicato lo stabilimento Fibronit. È un distretto che rappresenta 29 comuni per un totale di 42.000 abitanti, con più di 12.000 abitanti con età maggiore di 65 anni. In questa zona si registra un’altissima incidenza del mesotelioma pleurico, pari a quattro ogni 100.000 abitanti, contro una media di tre ogni 100.000 abitanti negli altri distretti della Lombardia e della provincia di Pavia e di due ogni 100.000 abitanti a livello nazionale.
L’età varia e l’incidenza è intorno ai 65-70 anni perché questa malattia ha una fase di latenza assai lunga, dai 15 ai 30-35 anni. Pertanto, si prevede che vi sarà un picco nel numero delle vittime tra 12-15 anni: purtroppo, questa forma di tumore è incurabile e la sopravvivenza è solo di 4- 12 mesi. L’AVANI quindi, in collaborazione con l’Università di Pavia, sta cercando di promuovere la creazione di una rete di sorveglianza sanitaria a favore della popolazione locale, ai fini di una diagnosi precoce delle malattie.
Purtroppo mancano anche strutture di hospice e di cure palliative in grado di alleviare la sofferenza dei malati.
L’avvocato Ezio Bonanni, quale consulente legale dell’AVANI, ha ripercorso la storia degli studi sugli effetti nefasti dell’amianto, i primi dei quali risalgono addirittura alla fine dell’Ottocento. Ciononostante, il suo utilizzo è stato bandito solo con la legge 27 marzo 1992, n. 257: un colpevole ritardo, dovuto anche alle pressioni di gruppi di interesse economico, come ormai dimostrato anche in sede processuale.
L’avvocato si è quindi soffermato su alcune vicende giudiziarie che sta seguendo per conto dell’AVANI, relative a vittime dell’amianto legate all’ex stabilimento Fibronit, tra le quali quella dei genitori del presidente Mingrino. A suo avviso le procure competenti inspiegabilmente, malgrado la denuncia e le indagini su queste vicende siano partite già da anni, non sono ancora arrivate ad una conclusione, ma anzi in alcuni casi hanno chiesto perfino l’archiviazione (fortunatamente rigettata dal GIP) con la motivazione che non era possibile identificare i responsabili. Sulla questione sono state presentate alcune interrogazioni parlamentari.
L’avvocato Bonanni ha poi ricordato la richiesta dell’AVANI per la verifica e la bonifica del sito dell’ex Fibronit a Broni, ancora a rischio, nonché quella di azzerare la soglia di tolleranza prevista per la presenza delle fibre di amianto (attualmente di 100 fibre/litro, secondo il testo unico), essendo anche una quantità minima potenzialmente cancerogena.
Ciò porterebbe a notevole risparmio in termini di prestazioni previdenziali, di prestazioni mediche e a vantaggi anche per gli stessi imprenditori, che spesso si ritrovano ad essere processati e a dover rispondere di questi decessi.
Infine ha richiamato una recente decisione del Tribunale di Paola che, in un processo relativo al decesso di soggetti esposti all’amianto, ha autorizzato la citazione in giudizio anche dello Stato, per inadempienza rispetto ai doveri di tutela della salute dei lavoratori e dei cittadini. Si tratta di un importante precedente, che ribadisce l’obbligo dello Stato di rispettare prima di tutto esso stesso le norme di tutela della salute dei lavoratori, che esistono addirittura dall’inizio del secolo scorso, assumendosi la conseguente responsabilità qualora ciò non accada.
La Commissione ha confermato la propria attenzione nei confronti del problema delle patologie dell’amianto che, anche se ormai bandito dai luoghi di lavoro, continua a fare vittime non solo tra gli ex lavoratori esposti, ma anche tra i loro familiari o conviventi. La Commissione ha altresì ribadito il suo impegno per contrastare questa vera e propria malattia sociale, ricordando che presso le Commissioni parlamentari di merito sono stati presentati vari disegni di legge che mirano ad estendere anche alle vittime delle patologie diverse dagli ex lavoratori esposti (ad esempio i familiari o conviventi prima ricordati) le tutele e i risarcimenti previsti per questi ultimi.

3.6. I problemi della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti e la qualificazione delle imprese del settore edile
Uno dei temi ricorrenti dell’inchiesta della Commissione è quello della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti. La questione è ormai nota ed è stata già affrontata negli anni passati12: sebbene le disposizioni vigenti proibiscano espressamente di effettuare ribassi sui costi per la sicurezza nelle gare d’appalto, proprio al fine di garantire le massime tutele per i lavoratori, nella pratica questo divieto viene spesso aggirato, soprattutto attraverso la catena dei subappalti, che quanto più si allunga tanto più rende difficili i controlli. Il problema si pone soprattutto negli appalti dell’edilizia privata, dove non esistono procedure di gara o meccanismi di selezione degli appaltatori imposti per legge, essendo tutto rimesso alla libera contrattazione delle parti, per cui in genere i committenti tendono a privilegiare le imprese appaltatrici che offrono i prezzi più competitivi, magari a scapito della qualità o di altri aspetti come le tutele della sicurezza sul lavoro.
Purtroppo, però, l’esperienza ha dimostrato che anche nel settore pubblico, malgrado le procedure e i controlli più severi, le norme sono spesso disattese, con il risultato che per offrire prezzi più bassi nelle gare d’appalto, molte ditte cercano di risparmiare proprio sui costi per la sicurezza, accrescendo i rischi per i lavoratori. Uno dei fattori che alimentano questo meccanismo è il fatto che molte amministrazioni appaltanti utilizzano come criterio di valutazione delle offerte quasi esclusivamente il massimo ribasso d’asta: si tratta ovviamente di una scelta legittima, prevista dalla normativa vigente (che è poi quella comunitaria) e che dovrebbe aiutare le pubbliche amministrazioni a contenere i costi a parità di prestazioni.
Come la stessa Commissione d’inchiesta ha potuto verificare, tuttavia, nella realtà questo si traduce in molti casi in una fortissima compressione dei costi, con ribassi anche superiori al 50 per cento sia nella fase di progettazione che in quella di esecuzione. È chiaro che situazioni di questo tipo compromettono inevitabilmente non solo la qualità del lavoro appaltato, ma anche il rispetto di tutte le procedure e le garanzie, incluse quelle della sicurezza sul lavoro. Ciò è testimoniato drammaticamente dall’alto numero di infortuni, anche mortali, che funestano tale settore e che riguardano più spesso ditte subappaltatrici di piccole o piccolissime dimensioni, che hanno omesso in tutto o in parte le prescritte tutele dei lavoratori per poter risparmiare e spuntare offerte più competitive, in un tragico scambio tra lavoro e sicurezza che non dovrebbe mai verificarsi.
Si tratta di una questione che vari soggetti istituzionali e sociali, in diverse parti del Paese, hanno più volte posto alla Commissione, chiedendo in particolare, nel settore dei contratti pubblici, una modifica delle disposizioni vigenti per abrogare o quanto meno limitare il ricorso al massimo ribasso come criterio di valutazione delle offerte. La Commissione si è impegnata a fondo per approfondire il tema, molto complesso anche dal punto di vista tecnico, interpellando vari esperti e istituzioni. Nel suo terzo anno di attività, essa ha acquisito importanti indicazioni anche dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), nel corso dell’audizione del suo presidente, professor Giuseppe Brienza, tenutasi il 15 dicembre 2011, che ha purtroppo confermato molte delle criticità degli appalti pubblici emerse nell’inchiesta e appena ricordate.
L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sta infatti da tempo seguendo tali problematiche, anche con specifiche indagini svolte nel 2008 e nel 2009. Sono stati così riscontrati casi di infortuni sul lavoro in appalti dove c’erano stati ribassi superiori anche al 50 per cento: formalmente era tutto in regola, ma nella realtà il ribasso finiva per incidere anche sui costi per la sicurezza, oltre a mettere in dubbio la stessa qualità del progetto o del lavoro.
L’aspetto critico è nel rapporto tra appaltatore e subappaltatori: mentre il contratto di appalto tra il committente e l’appaltatore è di solito ben articolato e prevede l’appostamento di somme per la sicurezza con adeguati controlli da parte del committente, i contratti tra l’appaltatore e i successivi affidatari sono spesso meno rigorosi e non prevedono analoghi obblighi e controlli. Vi è quindi un problema di vigilanza: l’80 per cento degli incidenti avviene in cantieri dove mancano spesso i responsabili della sicurezza, ma a ciò va ad aggiungersi la carenza di controlli da parte degli ispettori del lavoro.
Su tali questioni l’AVCP sta lavorando di concerto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed è previsto l’avvio di uno specifico tavolo tecnico. Sui controlli, vi è un numero di ispettori troppo basso nel Nord Italia rispetto al Sud, tenuto conto della maggiore presenza di imprese e di cantieri. Questo dato mette in evidenza come, al di là dell’elemento contrattuale, manchi da parte della pubblica amministrazione un controllo concreto sull’applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro. Inoltre, occorrerebbe un adeguato aggiornamento dei tecnici delle pubbliche amministrazioni (in particolare dei piccoli Comuni), che non sempre hanno la preparazione necessaria per seguire le procedure di gara e per effettuare i controlli, specie nel caso del subappalto, dove ad esempio spesso ci si dimentica di chiedere il DUVRI (documento unico di valutazione dei rischi interferenziali).
In base alle rilevazioni dell’Autorità, i rischi e gli incidenti sul lavoro più gravi si verificano soprattutto negli appalti di servizi: il codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, detta una disciplina dettagliata per i controlli nei lavori, ma non altrettanto fa purtroppo per i servizi. L’Autorità vigila sulla regolarità dei contratti, cercando di applicare in via analogica i controlli previsti per le opere anche alle forniture e ai servizi e contestando le eventuali infrazioni: tali contestazioni sono però sempre impugnabili in via amministrativa e risolvono solo in parte il problema, mentre sarebbe necessaria una espressa previsione normativa. È necessario intervenire sui contratti di subappalto, per consentire un effettivo controllo anche dei subappaltatori, da parte del committente o di un organismo terzo che potrebbe essere la stessa Autorità ovvero un altro soggetto.
Le pubbliche amministrazioni appaltanti spesso non riescono a gestire l’intera filiera e, anche a causa di una insufficiente capacità progettuale, non intervengono per timore di ritardi nell’esecuzione o di contestazioni delle ditte, che riescono spesso a imporre una serie di modifiche che fanno lievitare il costo finale dell’appalto, il che si ripercuote proprio sui costi della sicurezza. Tali problemi sono ancora più gravi nel settore privato, dove di fatto non esistono regole né controlli. In definitiva, la relazione del professor Brienza ha ribadito la necessità di controlli più stringenti per gli appalti di servizi, dove ultimamente si stanno profilando anche casi di inserimenti di imprese straniere non qualificate, con aumento dei rischi per la sicurezza. Analogamente, occorre intervenire nel settore dei subappalti, dove i controlli sono meno rigorosi e più facilmente vengono aggirate le norme vigenti che prevedono l’incomprimibilità dei costi per la sicurezza.
Un altro contributo sul tema, stavolta dalla parte degli operatori economici del settore, è venuto dall’audizione dei rappresentanti della Federazione industrie prodotti impianti e servizi per le costruzioni (FINCO), svolta il 18 gennaio 2011.
La dottoressa Gabriella Gherardi, presidente di AISES (Associazione italiana segnaletica e sicurezza) e consigliere incaricato di FINCO, ha evidenziato come anche i migliori controlli nei luoghi di lavoro non riescano sempre a garantire adeguati livelli di sicurezza, atteso che ormai molte fasi delle attività vengono esternalizzate con varie formule, in maniera a volte eccessiva e abusata. L’esempio classico è quello del subappalto: spesso i lavoratori delle ditte subappaltatrici hanno minori controlli e garanzie rispetto agli altri. Inoltre, con l’affermarsi dei grandi lavori accentrati secondo il modello del general contractor, anche le attività specialistiche delle costruzioni (di cui si occupano le aziende aderenti alla FINCO) finiscono in subappalto. Quest’ultimo va stretto all’azienda specialistica, la quale, per sua natura e per le attrezzature sofisticate di cui dispone, assomma in sé una maggiore pericolosità e quindi va maggiormente controllata, anche sotto il profilo dei lavoratori (ma non solo).
Questo fenomeno di massificazione, che nei lavori pubblici si è assommato negli ultimi sei o sette anni sul general contractor e sulle grandi opere, ha ridotto la qualità e la sicurezza delle opere specialistiche in subappalto, con conseguenti ricadute sulla qualità dei lavori e sulla sicurezza dei lavoratori, degli utenti e di tutti i cittadini. Le imprese più serie spesso hanno difficoltà a partecipare alle gare ovvero non hanno rapporti diretti con il contraente generale ma solo con i subappaltatori. Servono regole precise e una conoscenza più analitica del fenomeno: ad esempio mancano dati INAIL sugli infortuni che indichino se l’azienda coinvolta lavorava o meno in regime di subappalto e che tipo di esternalizzazione hanno avuto determinati dipendenti. Al riguardo la FINCO ha proposto l’inserimento nelle denunce a stampa di un link ove si facesse riferimento alla tipologia del contratto o del subcontratto sotto cui si opera. Basterebbe questo per fornire, in pochi anni, la disponibilità di una prima banca dati su questo aspetto.
Altro problema è quello degli infortuni sul lavoro nella circolazione stradale, sia durante l’attività lavorativa che in itinere. Gli infortuni mortali sul lavoro sono più numerosi sulla strada che non nei luoghi di lavoro: la mortalità è del 52 per cento contro il 50 per cento. Per gli infortuni non mortali le percentuali sono diverse, tuttavia si aggirano intorno al 24-25 per cento. È quindi una questione gravissima, che è stata affrontata appieno per la prima volta solo con la recente riforma del codice della strada, operata dalla legge 29 luglio 2010, n. 120, della quale però – al momento dell’audizione – non erano ancora stati emanati i relativi decreti ministeriali. Una proposta della FINCO è di destinare alla sicurezza sul lavoro nel settore stradale i relativi avanzi di gestione dell’INAIL.
Il dottor Angelo Artale, direttore generale di FINCO, ha poi ricordato che la federazione raggruppa tutte le principali associazioni che si occupano di opere specializzate per le costruzioni: in tale settore, infatti, non opera solo la pur fondamentale componente edile, ma anche numerose altre aziende specialiste, che però spesso non sono adeguatamente coinvolte nelle decisioni anche normative del settore al pari delle aziende generaliste.
Nel settore degli appalti, oltre al problema legato al massimo ribasso, c’è quello della qualificazione delle imprese. A suo avviso il nuovo regolamento di esecuzione e attuazione del codice dei contratti pubblici di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207, pur valido e per molti versi apprezzabile, all’articolo 85 estende pericolosamente il subappalto nella realizzazione delle opere specialistiche, eliminando altresì l’obbligo di specifici e rigorosi requisiti di qualificazione per i subappaltatori. Ciò, unitamente all’uso eccessivo dell’istituto dell’avvalimento, consentirebbe l’ingresso di aziende non preparate negli appalti, abbassando quindi la qualità del lavoro e le stesse garanzie di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
La dottoressa Anna Danzi, vice direttore di FINCO, ha analizzato i problemi posti dal nuovo regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici richiamato dal dottor Artale. Anzitutto, alcune lavorazioni specialistiche, riclassificate come generiche, possono ora essere appaltate o subappaltate anche ad imprese non qualificate. Mancano inoltre adeguati controlli sul rispetto delle percentuali dei ribassi nei subappalti, che secondo l’articolo 118 del codice non potrebbero essere superiori al 20 per cento del prezzo di aggiudicazione. Nella realtà, spesso si verifica che tale percentuale non sia rispettata, arrivando talvolta a ribassi enormi con prezzi finali assai inferiori al costo del lavoro, ciò che ne pregiudica la qualità. Infine, spesso manca la certezza dei pagamenti tra appaltatore principale e subappaltatori, rendendo difficile per le aziende lavorare in maniera trasparente.
Secondo la FINCO, ciò danneggia soprattutto le imprese specializzate, che sono dotate di maggiore esperienza, struttura ed organizzazione, e quindi anche dei più alti livelli di sicurezza sul lavoro, come testimonia il ridotto numero di infortuni. L’articolo 85 del nuovo regolamento di attuazione consente all’impresa appaltatrice di acquisire di volta in volta una qualificazione per una quota pari al 10 per cento dei lavori svolti dalle imprese subappaltatrici, così che dopo un certo numero di contratti quell’impresa appaltatrice avrà raggiunto il 100 per cento e potrà chiedere la qualificazione a una SOA (società organismo di attestazione) per determinate lavorazioni. Si tratta di un’attestazione che le consentirà di concorrere anche ad appalti per i quali non possiede direttamente le necessarie competenze.
Il timore è che è che questo tipo di appaltatori, proprio per ovviare alla mancanza di competenze, tendano a subappaltare (o comunque ad esternalizzare) ad altre aziende, magari non qualificate, ciò che andrebbe a scapito della qualità dell’opera e della sicurezza sul lavoro. Infine, un’altra lamentela della FINCO ha riguardato l’eliminazione dell’Allegato A1, previsto nelle prime bozze del regolamento, che eliminando altresì l’elenco dei requisiti che devono avere le imprese per qualificarsi come specialistiche, avrebbe consentito anche ad aziende non qualificate di svolgere questo tipo di lavorazioni.
Il dottor Sergio Pontalto, membro della Giunta di FINCO e presidente di ANNA (Associazione nazionale noleggio autogru e trasporti eccezionali), si è infine soffermato sul settore delle macchine di movimentazione, sollevamento e posa in opera. Anche in questo caso sarebbe auspicabile che le aziende avessero ordini d’appalto diretti da parte del contraente principale e non dei subappaltatori. Inoltre, è essenziale introdurre appositi attestati di qualificazione per gli operatori di queste macchine, spesso molto complesse. Un caso esemplare è quello del patentino per i gruisti, non previsto in Italia, al contrario di altri Paesi europei. Infine, gli organismi di controllo preposti dovrebbero fare in modo puntuale le verifiche periodiche sulle macchine, che non possono altrimenti essere utilizzate nei cantieri.
L’ingegner Paolo Cortesi, vice presidente di AIPAA (Associazione italiana per l’anticaduta e l’infortunistica) ha a sua richiamato il problema delle aziende che lavorano in quota, ad esempio nell’installazione dei dispositivi anticaduta, sottolineando come anche qui occorra introdurre l’obbligo della qualificazione specifica, e una semplificazione delle procedure, laddove attualmente chiunque può svolgere questi lavori, che sono invece assai specializzati.
Sia l’audizione dell’AVCP che quella FINCO hanno quindi riconfermato l’esistenza dei problemi della sicurezza sul lavoro nel settore degli appalti e subappalti che si sono richiamati all’inizio di questo paragrafo e che sono emersi spesso durante l’inchiesta, sia nelle audizioni svolte in Senato che nelle missioni sul territorio. Il punto di maggiore criticità resta, come più volte ricordato, quello del criterio del massimo ribasso per la valutazione delle offerte nelle gare ad evidenza pubblica. Come illustrato nella precedente relazione intermedia, la Commissione ha interpellato più volte anche il Governo per verificare la possibilità di una modifica normativa in merito, che quanto meno riducesse o scoraggiasse presso le pubbliche amministrazioni appaltanti l’adozione sistematica (e talvolta acritica) di tale criterio, a favore di metodologie di valutazione delle offerte di gara più articolate. A tal fine, del resto, il Parlamento ha approvato anche vari atti di indirizzo al Governo, che quest’ultimo ha accolto: da ultimo, la risoluzione approvata il 12 gennaio 2011 dall’Assemblea del Senato dopo il dibattito sulla seconda relazione intermedia della Commissione d’inchiesta.
Si tratta di trovare sistemi (ad esempio il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che la legge già consente in alternativa a quello del massimo ribasso), che valutino l’offerta non solo sulla base di elementi meramente economici, ma anche qualitativi, assicurando quindi pure una selezione delle imprese più qualificate e capaci, che sono in genere anche quelle che rispettano maggiormente le regole, incluse quelle della sicurezza sul lavoro. Tale operazione tuttavia non è facile, per motivi normativi e contingenti: anzitutto, il criterio del massimo ribasso, come tutta l’attuale disciplina in materia di contratti pubblici, è di derivazione comunitaria e non può dunque essere derogata, se non in misura molto limitata. Il criterio del massimo ribasso ha inoltre una serie di indubbi vantaggi, configurandosi come un parametro di valutazione oggettivo, immediatamente misurabile e di facile utilizzo per le gare ad evidenza pubblica: oltre ad essere (in linea di principio) più trasparente, esso consente maggiori risparmi per le pubbliche amministrazioni. L’aspetto negativo sta nella sua applicazione pratica che, in assenza di controlli e di una adeguata selezione delle offerte, porta alle degenerazioni di cui si è parlato, con ribassi abnormi che compromettono la qualità della prestazione e la sicurezza sul lavoro.
D’altra parte, altri criteri di valutazione più articolati che incorporino elementi di tipo qualitativo, se possono consentire una migliore selezione delle imprese appaltatrici, presentano anche una serie di inconvenienti, in quanto rendono più complessa e onerosa da gestire la procedura di gara, accrescono i margini di discrezionalità delle stazioni appaltanti (e dunque il rischio di irregolarità o illeciti) e riducono i margini di risparmio per le stesse. In proposito, occorre considerare le croniche ristrettezze di bilancio di molte pubbliche amministrazioni, che incoraggiano certamente il ricorso a cercare il più alto risparmio possibile e quindi, in definitiva, al criterio del massimo ribasso. Come è emerso nelle due audizioni di cui si è dato conto, inoltre, le stesse amministrazioni spesso non hanno la capacità tecnica per gestire procedure di gara più sofisticate, né per effettuare i controlli che pure sarebbero necessari e affrontare l’eventuale contenzioso con le ditte che partecipano agli appalti (si pensi ad esempio ai piccoli Comuni).
Stante allora la difficoltà di realizzare modifiche normative dirette nei criteri di aggiudicazione dei contratti pubblici previsti dalle attuali disposizioni, si impone in ogni caso la necessità di rafforzare il regime dei controlli da parte delle pubbliche amministrazioni appaltanti, soprattutto nella fase preliminare di valutazione delle eventuali anomalie di offerta. Questo richiede un potenziamento delle strutture amministrative e una maggiore capacità tecnica del personale preposto alla gestione delle gare, che dovrebbe essere adeguatamente formato, ma anche meglio tutelato, per evitare (come accade ora) di essere eccessivamente esposto alle pressioni delle aziende che partecipano alle gare. Il problema si pone soprattutto in quelle decisioni, come l’esclusione per anomalie, che possono dare adito a contenzioso: molti funzionari amministrativi sono restii a fare passi in questo senso anche quando ce ne sarebbero i presupposti, perché non hanno una preparazione idonea o temono di essere poi lasciati soli a fronteggiare certe responsabilità.
Una possibile soluzione potrebbe essere quella di creare stazioni appaltanti uniche per varie amministrazioni pubbliche, ad esempio per i comuni di una stessa provincia, così da poter avere una «massa critica» maggiore e realizzare una gestione centralizzata e più efficiente degli appalti, anche a livello di controlli. Tale modalità operativa è già stata sperimentata con successo in diverse realtà italiane, spesso sotto la gestione delle prefetture, anche per contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata13. Naturalmente si tratta di un modello che non è sempre generalizzabile, ma l’idea di associare più enti nella gestione degli appalti è sicuramente valida, non soltanto nelle gare che hanno per oggetto lavori o forniture ma anche in quelle dei servizi, un settore in cui l’esternalizzazione è sempre più diffusa e dove i problemi della qualità della prestazione e della tutela della sicurezza sul lavoro sono ormai molto sentiti, visto anche l’alto numero di infortuni.
L’altro aspetto è quello del rafforzamento dei poteri di controllo da parte delle stazioni appaltanti nei confronti non solo dell’appaltatore principale, ma anche e soprattutto dei subappaltatori. Non ci si stancherà mai di sottolineare che è proprio nell’allungamento della catena degli affidamenti all’interno dell’appalto che si vengono a creare le maggiori violazioni della sicurezza sul lavoro e i più gravi incidenti, spesso mortali.
La Commissione, nella sua inchiesta, ha avuto indicazione di subappalti stratificati su più livelli, in senso verticale, ma anche orizzontale con i raggruppamenti o i consorzi di imprese.
La perdita di controllo e di coordinamento sulle varie ditte che partecipano al progetto in queste situazioni è molto frequente e sempre foriera di gravi problemi. Infatti, mentre il rapporto tra committente e contraente principale è più controllato e tutelato, quello con i subappaltatori diventa molto più sfumato o a volte perfino inesistente, dato che molte amministrazioni non si pongono l’esigenza di controllare i successivi livelli della lavorazione (gli ultimi anelli della catena, per così dire) e anzi evitano volutamente di farlo, per non avere complicazioni. In molti casi, tuttavia, sono le stesse norme del bando di gara che limitano la capacità di intervento della stazione appaltante nei confronti delle imprese subappaltatrici: a tale situazione occorre dunque porre rimedio, mediante una stesura più attenta dei bandi.
Un ulteriore elemento è quello dell’anomalia di gara, un meccanismo fondamentale per selezionare le offerte e che, se ben applicato, potrebbe evitare anche molte distorsioni del sistema del massimo ribasso. Anche in questo caso, però, occorre una più solida organizzazione da parte delle pubbliche amministrazioni per gestire questi aspetti, che potrebbe essere ottenuta proprio con i meccanismi associativi prima richiamati.
Nell’indicare dunque alcune possibili linee di intervento, la Commissione intende continuare attivamente nella ricerca di una idonea soluzione legislativa e amministrativa, che consenta di ovviare agli inconvenienti e alle distorsioni determinati dall’attuale disciplina dei contratti pubblici in materia di sicurezza e salute sul lavoro, in particolare per quanto riguarda il criterio del massimo ribasso. Pur rispettando le normative comunitarie e tenendo conto delle esigenze generali del sistema, si ritiene infatti che esista comunque lo spazio per azioni migliorative, tese a salvaguardare il bene primario della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Una disamina del problema della sicurezza del lavoro negli appalti non sarebbe completa senza un cenno anche al settore privato. Come si è detto, l’assenza delle procedure e dei controlli più severi previsti per il settore pubblico fa sì che negli appalti privati la violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro sia molto più frequente e difficile da arginare. Il problema riguarda soprattutto l’edilizia e si lega strettamente al tema della regolamentazione della professione di imprenditore edile. Le organizzazioni di categoria (a cominciare dall’Associazione nazionale costruttori edili) hanno infatti più volte segnalato come, attualmente, per l’accesso a tale professione non siano previsti idonei requisiti di esperienza, preparazione tecnica e struttura organizzativa, essendo sufficiente, nella maggior parte dei casi, una semplice iscrizione alla Camera di commercio.
Un fenomeno sempre più diffuso è quello di lavoratori autonomi che si iscrivono come imprenditori edili senza avere intorno a sé alcuna struttura organizzativa stabile e, una volta preso un appalto, eseguono il lavoro avvalendosi di altri lavoratori autonomi reclutati per l’occasione con il meccanismo del subappalto. Spesso sono ex titolari di imprese edili che utilizzano surrettiziamente i loro ex dipendenti (diventati a loro volta liberi professionisti) con una nuova formula organizzativa che consente loro di pagare meno tasse e contributi, ma altre volte si tratta di persone senza esperienza specifica che mettono insieme squadre di lavoranti più o meno raccogliticce.
Il rischio oggettivo è che, in assenza di una regolamentazione specifica, anche imprese o lavoratori autonomi privi di adeguata formazione e organizzazione possano svolgere determinati lavori edili, anche di notevole rilievo, a prezzi assai più bassi delle imprese meglio organizzate, nei cui confronti praticano in taluni casi una concorrenza sleale. Al di là di altre considerazioni, questi soggetti purtroppo in molti casi offrono prestazioni di qualità inferiore e, soprattutto, non adottano tutte le necessarie cautele per garantire la sicurezza dei loro lavoratori, sia perché hanno una formazione inadeguata, sia perché, al fine di spuntare prezzi più bassi, tendono spesso a tagliare proprio le spese per la sicurezza.
D’altra parte, se il problema si pone soprattutto nel settore dell’edilizia privata, come si è visto anche nei contratti pubblici, attraverso il sistema dei subappalti, possono crearsi spazi in cui si inseriscono imprese poco serie e meno qualificate. A ciò si aggiunge la crisi economica che sta attanagliando anche il settore edile e che induce molte imprese a operare con margini economici ridottissimi o addirittura in maniera irregolare o sommersa, azzerando i costi e le tutele per la sicurezza dei lavoratori.
Giova ricordare che, in relazione all’edilizia, l’articolo 27 del decreto legislativo n. 81 del 2008 stabilisce, al comma 1-bis, che il sistema della qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi si realizzi attraverso uno strumento, individuato da uno specifico regolamento, che prevede sostanzialmente l’attribuzione di un punteggio che misura l’idoneità degli operatori sotto il profilo della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, rispetto ad una serie di parametri (livello di formazione, assenza di violazioni di legge, ecc.).
Tale sistema di valutazione è quello della cosiddetta «patente a punti» in edilizia, ed è contenuto in uno schema di decreto del Presidente della Repubblica attualmente in corso di elaborazione nell’ambito di un apposito comitato istituito presso la Commissione consultiva permanente del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Al riguardo, come si è detto nel paragrafo 2.3, il dibattito è ancora aperto e non è facile prevedere quando il relativo iter potrà concludersi: si tratta infatti di una materia complessa e sulla cui regolamentazione esistono opinioni diverse, anche tra le associazioni di categoria.
Contemporaneamente, è da segnalare che sul tema è stato presentato anche un disegno di legge di iniziativa parlamentare, approvato dalla Camera dei deputati e attualmente giacente in Senato (Atto Senato n. 2663, intitolato «Disciplina dell’attività professionale di costruttore edile e delle attività professionali di completamento e finitura edilizia»). Al di là del merito e dell’esito che avrà l’iniziativa, occorre però garantire un adeguato coordinamento, per i profili relativi alla salute e sicurezza sul lavoro, tra le disposizioni che potrebbero essere elaborate dal gruppo di lavoro della Commissione consultiva permanente e quelle che potrebbero invece trovare posto nel disegno di legge, una volta eventualmente approvato.
Quel che è certo è che è quanto mai urgente definire una regolamentazione della figura dell’imprenditore edile: senza voler limitare la libertà d’iniziativa privata o la concorrenza del settore, è comunque necessario assicurare una maggiore qualificazione degli operatori e quindi un maggiore rispetto delle regole e delle procedure della sicurezza sul lavoro.
Malgrado gli innegabili progressi degli ultimi anni, quello edile resta il settore con il più alto numero di incidenti, sia in generale (71.421 nel 2010, 9,2 per cento del totale) sia mortali (115 nel 2010, 11,7 per cento del totale), e con il più alto livello di rischiosità: si consideri, ad esempio, che nel 2010 la frequenza degli infortuni più gravi (quelli che hanno prodotto inabilità permanente) era pari a 4,76 ogni 1.000 occupati, contro una media del comparto industria e servizi pari a 1,78. Ancora, quello edile è anche uno dei settori dove si concentrano le maggiori quote di lavoro irregolare o sommerso.
Serve dunque uno sforzo maggiore per migliorare la regolamentazione del settore: la Commissione d’inchiesta intende naturalmente offrire il suo contributo in questo senso, stimolando il dialogo fra tutti i soggetti istituzionali e sociali competenti e approfondendo ulteriormente gli aspetti tecnici della questione, al fine di addivenire a una proposta normativa che possa contemperare le diverse esigenze e favorire condizioni di lavoro sempre più sicure e dignitose.