Cassazione Penale, 07 marzo 2012, n. 9122 - Installazione di condizionatori e infortunio mortale: responsabilità di un socio e dei proprietari dell'immobile


 

 

Responsabilità per infortunio mortale durante l'installazione di tre condizionatori in un immobile. La vittima, durante le operazioni prodromiche all'installazione stessa, precipitava da circa 7 metri di altezza dal suolo, in totale assenza di adeguate misure anticaduta, essendo la copertura del capannone costituita da lastre di fibrocemento non calpestabili. Di tanto erano risultati al corrente, sia i proprietari del capannone (parzialmente locato alla società M. di cui la vittima ed il F. erano soci ) sia lo stesso socio F., appositamente investito della delega in materia di prevenzione degli infortuni.

A tali assunti motivazionali della sentenza di primo grado - condivisi dalla Corte d'appello di Trieste - ha fatto quindi seguito la conferma dell'affermazione della penale responsabilità, in primo luogo, del F. (che, quale socio di società di persone, aveva assunto la posizione di garanzia tipica del datore di lavoro in relazione agli altri soci, essendo il destinatario degli obblighi in materia di prevenzione antinfortunistica) a lui incombendo l'obbligo di fornire le dotazioni individuali (quali le cinture di sicurezza) atte a garantire al socio l'accesso al tetto, in condizioni di sicurezza.

La Corte d'appello di Trieste, per disattendere i dedotti motivi di gravame, ha altresì ritenuto di confermare la penale responsabilità dei proprietari - locatori dell'immobile: S. ed A. per aver essi omesso colposamente di informare i conduttori (ovverosia i soci della società M.: F. e M.) della non praticabilità della copertura del capannone, addivenendo al convincimento che essi fossero consapevoli del fatto che i soci della M. erano in procinto di compiere operazioni implicanti l’accesso al tetto. Ha invece la Corte distrettuale ritenuto che non avesse avuto alcuna incidenza causale sull'infortunio la decisione dei proprietari del fabbricato di procedere alla copertura con pannelli in fibrocemento (non calpestabili) anziché in monopanel (pur oggetto della contestazione formale).

Ricorrono in Cassazione sia il socio della vittima, F., sia i due proprietari, S. e A. - La Corte dichiara inammissibile il ricorso di F.A. . Annulla senza rinvio la sentenza impugnata ai fini penali nei confronti di A. e di S., perché estinto il reato per prescrizione. Annulla la sentenza impugnata ai fini civili nei confronti degli stessi A. e S.., con rinvio al giudice civile, competente per valore in grado di appello cui demanda anche il regolamento delle spese tra le parti, per questo giudizio.

Quanto al primo ricorso, la Corte afferma che "seguendo un percorso argomentativo lineare e del tutto conforme ai canoni della logica, la Corte distrettuale ha ritenuto il F. responsabile dell'evento a titolo di colpa generica e specifica (in relazione alla violazione espressamente contestatagli, degli artt.
7, 8 e 9 d.P.R. n. 303/1956) siccome investito della posizione di garanzia propria del datore di lavoro nei confronti degli altri soci di società di persone, in materia di prevenzione antinfortunistica, come affermato, con insegnamento prevalente, da questa Corte e siccome titolare, peraltro, nel caso di specie, della delega in materia di prevenzione degli infortuni. I Giudici d'appello hanno poi logicamente evidenziato la colposa omissione del prevenuto di aver consentito al socio M. di salire sul tetto, privo di presidi anticaduta o di altri mezzi antinfortunistici analoghi: ulteriore circostanza fattuale pacificamente accertata, di cui comunque la vittima avrebbe dovuto incondizionatamente esser dotata, a prescindere, com'è ovvio, dal fatto che il F. fosse o meno consapevole della calpestabilità della copertura del capannone."

Quanto al ricorso dei due proprietari, la Corte distrettuale, nel far luogo alla reiezione dei motivi d'appello, ha invero ritenuto di affermare,con motivazione censurabile in termini di carenza, contraddittorietà ed illogicità che la penale responsabilità dell'A. e del S. a titolo di colpa generica in ordine all'evento, in quanto proprietari - locatori dell'immobile, discendesse dal non aver ottemperato all'obbligo di informare la vittima che la copertura dell'edificio non era calpestabile, in quanto non idonea a reggere il peso di un uomo. L'impugnata sentenza deve pertanto essere annullata senza rinvio, ai fini penali, nei confronti dell'A. e del S., perché il reato è estinto per prescrizione.


 

Fatto





Con sentenza in data 17 febbraio 2009, il Tribunale di Pordenone, giudicava: S.A., A.R., P.R. e F.A. responsabili del delitto di cui all'art. 589 cod. pen. commesso in Sacile, il 2 agosto 2003, in danno di M.M. (che, a causa di condotte od omissioni risalenti agli imputati e connotate da colpa generica e specifica, in relazione alle rispettive qualità dagli stessi rivestite, era deceduto precipitando dal tetto dell'immobile di proprietà del S. e dell'A. - realizzato, sotto la direzione dei lavori affidata al P., con copertura non calpestabile, contrariamente a quanto risultante dal progetto - ove era intento a predisporre quanto necessario alla installazione di tre condizionatori, in assenza di adeguate attrezzature anticaduta e di idonee protezioni, non apprestate dal socio F. che non gli aveva impedito di salire sulla copertura non calpestabile del capannone ). Per l'effetto, concesse a tutti gli imputati le attenuanti generiche, venivano condannati alle pene ritenute di giustizia (condizionalmente sospese e contestualmente dichiarate interamente condonate) nonché al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili da liquidarsi in separata sede.

Con sentenza pronunziata in data 12 maggio 2010, la Corte d'appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di primo grado, assolveva il P. dal predetto addebito, per non aver commesso il fatto; sostituiva la pena detentiva inflitta al S. ed all'A., con quella di euro 4.500,00 di multa, revocando il beneficio della sospensione condizionale della pena. Confermava le restanti statuizioni, anche di natura risarcitoria, della sentenza di primo grado in ordine, quindi, alla penale responsabilità del F., del S. e dell'A. quanto all'imputazione loro ascritta.

In punto di fatto, in esito all'attività istruttoria espletata nel giudizio di primo grado, era possibile ricostruire l'infortunio, nei seguenti termini.

Al momento dell'infortunio, il M. era intento ad effettuare, le operazioni prodromiche all'installazione dei condizionatori. Egli era salito sulla copertura del capannone - a circa sette metri di altezza dal suolo - senza far uso di idonei mezzi antinfortunistici. La precipitazione al suolo, con esiti letali, era dovuta al fatto che le lastre di fibrocemento che fungevano da copertura non erano calpestabili. Di tanto erano risultati al corrente, sia i proprietari del capannone (parzialmente locato alla società M. di cui la vittima ed il F. erano soci ) sia lo stesso socio F., appositamente investito della delega in materia di prevenzione degli infortuni. A tali assunti motivazionali della sentenza di primo grado -condivisi dalla Corte d'appello di Trieste - ha fatto quindi seguito la conferma dell'affermazione della penale responsabilità, in primo luogo, del F. (che, quale socio di società di persone, aveva assunto la posizione di garanzia tipica del datore di lavoro in relazione agli altri soci, essendo il destinatario degli obblighi in materia di prevenzione antinfortunistica) a lui incombendo l'obbligo di fornire le dotazioni individuali (quali le cinture di sicurezza) atte a garantire al socio l'accesso al tetto, in condizioni di sicurezza. Questi era invece salito ad un'altezza di circa sette metri dal suolo servendosi di una scala di alluminio allungabile, privo di cinture di sicurezza ed all'oscuro della esistenza o meno di percorsi calpestagli. La Corte d'appello di Trieste, per disattendere i dedotti motivi di gravame, ha altresì ritenuto di confermare la penale responsabilità dei proprietari - locatori dell'immobile: S. ed A. per aver essi omesso colposamente di informare i conduttori (ovverosia i soci della società M.: F. e M.) della non praticabilità della copertura del capannone, addivenendo al convincimento che essi fossero consapevoli del fatto che i soci della M. erano in procinto di compiere operazioni implicanti l’accesso al tetto. Ha invece la Corte distrettuale ritenuto che non avesse avuto alcuna incidenza causale sull'infortunio la decisione dei proprietari del fabbricato di procedere alla copertura con pannelli in fibrocemento (non calpestabili) anziché in monopanel (pur oggetto della contestazione formale).

Ed ha la Corte distrettuale del pari ritenuto di escludere che fosse incorso il Tribunale nella violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., come eccepito dagli appellanti, posto che gli imputati erano stati posti comunque in grado di difendersi, dall'accusa di aver cagionato l'evento per la colpa generica insita nell'inadempienza, in qualità di locatori, all'obbligazione di rendere edotto il conduttore delle insidie dovute alla salita su di una copertura realizzata in materiale non idoneo a sostenere il peso di un uomo, giacché tale questione di fatto era stata ampiamente dibattuta nel corso del giudizio di primo grado.

Avverso la sentenza ricorre per cassazione, per tramite del difensore, F.A., articolando un unico motivo per difetto, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, che così può sintetizzarsi.

La Corte distrettuale avrebbe omesso di esplicitare le ragioni che l'hanno indotta a disattendere gli elementi indotti dalla difesa a discolpa dell'imputato. Con assunti contradditori, avrebbe travisato i risultati probatori acquisiti (ovvero le deposizioni testimoniali di F.D., C.Z., G.P. e di R.M.) ponendo alla base della decisione circostanze di fatto inesistenti e/o non provate, in riferimento al fatto che il F. fosse presente al momento dell'infortunio; che egli fosse a conoscenza dell'intenzione del M. di salire sul tetto nonché dello stato di non calpestabilità della copertura per averla preventivamente ispezionata.

Ricorrono altresì per cassazione, a mezzo del comune difensore, gli imputati A.R. e S.A. articolando, con distinti ricorsi di identico contenuto, plurime censure per vizi di violazione di legge e di difetto e contraddittorietà della motivazione, così sintetizzati.

Lamentano, con una prima doglianza i ricorrenti, l'inosservanza degli artt. 516, 521, comma 2° e 522, comma 1° cod.proc. pen. per avere la Corte distrettuale disatteso l'eccezione di nullità della sentenza di primo grado, sollevata con l'atto di gravame, per immutazione del fatto contestato relativo a condotta commissiva: per aver essi concorso alla realizzazione del tetto dello stesso immobile con materiale non calpestarle, contrariamente a quanto attestato dal progetto depositato ai fini del rilascio della concessione edilizia. Mentre invece entrambi gli imputati erano stati condannati per aver omesso colposamente di avvertire i conduttori dell'immobile della condizione di non calpestabilità del tetto del capannone.

In secondo luogo, i Giudici d'appello sarebbero incorsi nel vizio di inosservanza od erronea applicazione dell'art. 589 cod. pen. in combinato disposto con l'art. 40, comma 2° cod. pen. - dandone poi atto con motivazione illogica - poiché, pur potendo sorgere in teoria la posizione di garanzia del locatore nei confronti del conduttore anche ex contractu, nessun obbligo i proprietari - locatori avevano in realtà violato, dal momento che la stessa Corte distrettuale aveva loro riconosciuto che avevano consegnato l'immobile locato in buono stato locativo, in conformità alla normativa vigente e che del tutto legittima appariva la realizzazione della copertura in materiale non calpestarle.

Con un terzo ordine di motivi, denunziano i ricorrenti la sussistenza del medesimo vizio motivazionale laddove la sentenza impugnata ha omesso di considerare che la vittima rivestiva la qualifica di operatore professionale e di socio della M. s.n.c., il cui oggetto sociale concerneva proprio l'installazione di condizionatori esterni. Sarebbe stato quindi del tutto inutile fornire al predetto M. informazioni sui rischi insiti nello svolgimento della propria attività professionale, ascrivendone la colposa omissione al proprietario - locatore dell'immobile, così "trasformato " in un responsabile alla sicurezza, benché privo di qualsivoglia competenza in materia.

Con il quarto ordine di censure, si dolgono i ricorrenti, in riferimento al tema della sussistenza del nesso di causa e dei profili di colpa loro addebitati in veste di proprietari - locatori, del fatto che la Corte distrettuale abbia omesso di considerare, da un lato, che la vittima, quale installatore professionale di condizionatori d'aria, aveva le cognizioni tecniche per affrontare ed evitare i rischi connessi all'operazione che si accingeva a compiere e, dall'altro, che l'attività di informazione, omessa dagli imputati, non sarebbe stata idonea, con elevata probabilità, ad impedire l'evento, non essendo invero prevedibile che, se l'operatore (poi deceduto) fosse stato informato della non calpestabilità della copertura, non vi sarebbe salito o vi sarebbe salito, egualmente non utilizzando i presidi di sicurezza, obbligatori anche in caso di tetto calpestarle. Sicché alla condotta della vittima risaliva la causa unica ed esclusiva del tragico evento.

Con l'ultimo motivo di ricorso, lamentano infine i ricorrenti che, con argomentazioni incongrue ed illogiche, i Giudici d'appello abbiano ritenuto che i gli stessi, al momento dell'incidente, avessero già autorizzato i conduttori alla posa in opera dei condizionatori, pur avendo rilevato che, per espressa previsione contrattuale, siffatta autorizzazione avrebbe dovuto rivestire la forma scritta, senzachè fosse stata acquisita, alcuna prova al riguardo.

Con motivi aggiunti depositati in cancelleria nell'imminenza dell'odierna udienza, il difensore degli stessi ricorrenti S. ed A., previa ulteriore illustrazione di talune delle censure già dedotte, ha insistito per l'accoglimento dei ricorsi.


Diritto





Ricorso di F.A.:

Il ricorso, come osservato quest'oggi anche dal Procuratore Generale, non si sottrae alla declaratoria di inammissibilità in quanto attinente a censure di merito, non consentite nel giudizio di legittimità.

Giova innanzitutto ricordare che, per consolidato, pacifico e risalente assunto giurisprudenziale di questa Corte, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione; se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti e se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996; id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12).

Il vizio di motivazione, deducibile in sede di legittimità deve risultare, per espressa previsione normativa, dal testo del provvedimento impugnato, ovvero - a seguito della modifica apportata all'art. 606.1, lett. e), cod.proc.pen. dall'art. 8 della L. 20.2.2006, n. 46 - da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame"; il che vuol dire - quanto al vizio di manifesta illogicità -, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché, in tesi, munite di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30). Sicché, esulando dai poteri della Corte di cassazione quello di ' rilettura " degli elementi di fatto, sui quali è basata la decisione impugnata -il cui apprezzamento resta riservato in via esclusiva al giudice di merito -non integra vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa - e per il ricorrente - più adeguata valutazione delle risultanze processuali (cfr. S.U. n.6402/1997).

Nella concreta fattispecie, la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali forniscono, con argomentazioni basate su di una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti la vicenda oggetto del processo. Ed invero la Corte d'appello ha tratto il proprio convincimento circa la colpevolezza del F. presente in azienda all'atto dell'infortunio ed intento a collaborare nelle operazioni de quibus, con il socio - coerentemente e congruamente valutando le dichiarazioni, in tal senso rese, dalla teste C.Z. (impiegata della ditta) e dal teste D.F., Ispettore ASL del Friuli Occidentale, sia le ulteriori incontestabili emergenze cd. di prova logica, desumibili dalle ridotte dimensioni della impresa tali da indurre ragionevolmente ad escludere che delle scelte operative uno dei due soci "d'industria" fosse tenuto all'oscuro. Attesa siffatta, acclarata consapevolezza, seguendo un percorso argomentativo lineare e del tutto conforme ai canoni della logica, la Corte distrettuale ha ritenuto il F. responsabile dell'evento a titolo di colpa generica e specifica (in relazione alla violazione espressamente contestatagli, degli artt. 7, 8 e 9 d.P.R. n. 303/1956) siccome investito della posizione di garanzia propria del datore di lavoro nei confronti degli altri soci di società di persone, in materia di prevenzione antinfortunistica, come affermato, con insegnamento prevalente, da questa Corte e siccome titolare, peraltro, nel caso di specie, della delega in materia di prevenzione degli infortuni. I Giudici d'appello hanno poi logicamente evidenziato la colposa omissione del prevenuto di aver consentito al socio M. di salire sul tetto, privo di presidi anticaduta o di altri mezzi antinfortunistici analoghi: ulteriore circostanza fattuale pacificamente accertata, di cui comunque la vittima avrebbe dovuto incondizionatamente esser dotata, a prescindere, com'è ovvio, dal fatto che il F. fosse o meno consapevole della calpestabilità della copertura del capannone. Siffatta condizione del tetto, quale superficie naturalmente "non pedonabile" , risulta altresì congruamente valorizzata dalla stessa Corte distrettuale laddove ha sottolineato che, nel caso specifico, non risultavano realizzati accessi dall'interno al tetto (il che conduceva ragionevolmente ed ulteriormente ad escluderne la praticabilità) tant'è vero che l'ispettore D. (come rimarcato nella motivazione della sentenza impugnata) accertò, in sede di rilievi preliminari, che il M. si era servito di una scala per salire, dall'esterno, sulla copertura del capannone; scala appunto rinvenuta in loco dall'U.P.G..

In conclusione deve affermarsi che la deduzione dei vizi motivazionali è solo apparente intendendo in realtà il ricorrente, attraverso le doglianze in sintesi riportate in narrativa, indurre questa Corte ad una non consentita "rilettura" delle risultanze istruttorie poste a fondamento della impugnata sentenza. Posta l'evidenziata inammissibilità del ricorso, resta pacificamente precluso - pare opportuno in questa sede evidenziarlo ancor prima di quanto in appresso si rileverà in relazione alle posizioni degli altri imputati S. ed A.- il rilievo della sopravvenuta estinzione del reato per maturata prescrizione in data 2 febbraio 2011, in difetto di cause di sospensione del suo decorso, compiutosi, successivamente alla pronunzia della sentenza d'appello, il termine massimo di anni sette e mesi sei. Va al riguardo considerato il tempus commissi delicti: 2 agosto 2003; il titolo del reato: omicidio colposo contestato al solo F., ex art. 589, comma 2° cod. pen. (nel testo vigente all'epoca del fatto) nella forma aggravata dalla specifica violazione della normativa antinfortunistica; la pena edittale in concreto applicata al reato dal Tribunale - e confermata in grado d'appello - all'esito del riconoscimento all'imputato delle attenuanti generiche implicitamente ritenute prevalenti sulla contestata aggravante in conseguenza della riduzione di un terzo, apportata alla pena base di un anno fino a quella definitiva di mesi otto di reclusione, fermo, ex art. 10, comma 3° della legge n. 251/2005, il più favorevole trattamento previsto dagli artt. 157, commi 1° n. 4 e comma 2° e 160 cod. pen., nella formulazione previgente.

Alla stregua del consolidato e prevalente insegnamento della giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex multis: S.U. n.32/2000; Sez. 4 n. 18641/2004; S.U. n. 23428/2001), "l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen."

Segue, per legge, la condanna del ricorrente F.A., anche al versamento di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, trattandosi di inammissibilità per causa riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 186 del 7-13 giugno 2000).

Attesa la soccombenza, lo stesso F. deve altresì esser condannato a rifondere alle parti civili le spese di questo giudizio, liquidate unitariamente e complessivamente in euro 3.500,00 oltre IVA, CPA e spese generali, come per legge.

Ricorsi di A.R. e di S.A.:

Deve preliminarmente rilevarsi che il reato di omicidio colposo - contestato agli imputati S. ed A. nella forma non aggravata, di cui all'art. 589 cod.pen., 1° comma - è, alla data odierna, egualmente estinto per il definitivo compimento del termine massimo di anni sette e mesi sei.

Richiamate le relative considerazioni che precedono, deve anche a tale riguardo tenersi conto della pena edittale in concreto applicabile all'esito della diminuzione della pena conseguente al del riconoscimento ai predetti imputati delle attenuanti generiche e quindi, ex art. 10, comma 3° della legge n. 251/2005, al più favorevole trattamento previsto dagli artt. 157, commi 1° n. 4 e comma 2° e 160 cod. pen., nella formulazione anteriore all'entrata in vigore della citata novella.

Detto termine si è definitivamente compiuto in data 2 febbraio 2011, in difetto di cause di sospensione del suo decorso.

Ex art. 129 cod. proc. pen. deve farsi luogo a conforme declaratoria di estinzione del reato per la sopravvenuta prescrizione. Né presentano i ricorsi - di identico contenuto e proposti dal comune difensore degli imputati - profili di inammissibilità a tanto ostativi (posto che la prescrizione integrerebbe causa originaria di inammissibilità) come già emerge dai motivi dedotti dai ricorrenti e riassunti in narrativa (cui si rinvia) in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte d'Appello di Trieste nell'impugnata sentenza, prospettando invero i gravami doglianze concernenti tematiche non solo relative a vizi motivazionali ma anche a vizi di erronea interpretazione od applicazione della legge penale e civile, in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso eziologico ed ai profili di colpa contestati.

Né sussistono, peraltro, le condizioni di legge per la sussumibilità del caso nella previsione dell'art. 129, 2° comma cod. proc. pen. Il sindacato di legittimità ai fini dell'eventuale applicazione dell'art. 129, secondo comma cod.proc. pen. resta invero circoscritto all'accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'imputato risulti, ictu oculi, evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l'operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall'art. 129 cod. proc. pen., l'esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all'imputato, prevale l'esigenza della definizione immediata del processo. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel caso in cui già risulti una causa di estinzione del reato, financo la sussistenza di una nullità (pur se di ordine generale) non è rilevabile nel giudizio di cassazione, "in quanto l'inevitabile rinvio al giudice di merito è incompatibile con il principio dell'immediata applicabilità della causa estintiva" (in tal senso, ex plurimis: S.U. n. 1021/2001; S.U. n. 35490/2009).

Come pure è precluso alla Corte di Cassazione un riesame dei fatti, agli effetti penali, finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione (sia con riferimento alle valutazioni del compendio probatorio, sia con riferimento al vaglio delle altre deduzioni).

Nella concreta fattispecie la Corte distrettuale, nel far luogo alla reiezione dei motivi d'appello, ha invero ritenuto di affermare,con motivazione censurabile in termini di carenza, contraddittorietà ed illogicità (volendo in sintesi anticipare quanto in appresso si preciserà agli effetti del disposto dell'art. 578 cod. proc. pen.) che la penale responsabilità dell'A. e del S. a titolo di colpa generica in ordine all'evento, in quanto proprietari - locatori dell'immobile, discendesse dal non aver ottemperato all'obbligo di informare la vittima che la copertura dell'edificio non era calpestabile, in quanto non idonea a reggere il peso di un uomo. L'impugnata sentenza deve pertanto essere annullata senza rinvio, ai fini penali, nei confronti dell'A. e del S., perché il reato è estinto per prescrizione.

La declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione comporta, ex art. 578 cod.proc.pen. l'obbligo di esaminare compiutamente i motivi di impugnazione, e, di conseguenza, anche il materiale probatorio acquisito, ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (in tal senso, ex plurimis, S.U. n. 35490/2009, Tettamanti). Né può giungersi alla conferma della condanna, anche solo generica, al risarcimento del danno (sancita dal Giudice di prime cure e condivisa dalla Corte d'appello) in ragione della mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato, secondo quanto previsto dall'art. 129, comma 2 cod.proc.pen.

Le censure dedotte con i ricorsi proposti nell'interesse degli imputati A., e S., assumono certamente rilievo per quel che riguarda le statuizioni della Corte d'Appello concernenti gli effetti civili, e si presentano, al riguardo, fondate per le ragioni di seguito indicate. Non si sottrae invero l'impugnata sentenza alla censura di difetto ed incongruità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del profilo di colpa generica ascritta ai prevenuti. La Corte distrettuale ha ritenuto provato che gli imputati, in veste di proprietari - locatori, avessero autorizzato l'installazione dei condizionatori e che quindi, per implicito, essi stessi, essendo loro note modalità ed esatto sito di posizionamento dell'impianto, fossero consapevoli dell'intenzione della vittima di salire sulla copertura del capannone onde provvedere all'incombente. Da qui il profilo di colpa di non aver informato il M. della non calpestabilità della copertura.

La Corte d'appello, pur ricordando che,come stabilito dal contratto d'affitto i conduttori, agli effetti della esecuzione di migliorie od addizioni alla cosa locata, erano obbligati ad ottenere l'autorizzazione scritta dei locatori e pur non dando atto in motivazione dell'esistenza di siffatta autorizzazione scritta, ha, ciononostante, fondato illogicamente il proprio convincimento sull'assunto apodittico che " l'installazione di un impianto di condizionamento sui muri perimetrali di un capannone non possa esser fatto all'insaputa dei proprietari " (ovvero che questi non potessero non sapere quanto il conduttore si accingeva ad eseguire ). Ed ha ancora contraddittoriamente inteso desumere la prova della consapevolezza di tale intenzione della deposizione testimoniale di C.Z. (impiegata della ditta), pur ammettendo che costei non era a conoscenza "con certezza " della circostanza.

Pare altresì illogico e comunque carente l'apparato motivazionale della sentenza impugnata laddove si è inteso trarre la dimostrazione della consapevolezza dell'operazione che la vittima aveva in animo di compiere sulla base della deposizione del padre che, giusta il brano ritrascritto nella motivazione, ebbe a riferire di aver appreso dal figlio che i titolari (rectius: i locatori) gli avevano concesso il permesso di installare la staffa deputata a sorreggere il motore del condizionatore. Ora, posto il pacifico difetto di prova dell'autorizzazione scritta all'installazione dei condizionatori d'aria in un ben preciso sito della copertura del capannone,la Corte distrettuale ha poi omesso di spiegare, anche a voler far salva la mancata verifica dell'attendibilità della deposizione de relato resa da R.M. (padre della vittima) per quali ragioni dalle circostanze riferite dal teste (al quale il figlio, la sera precedente l'incidente, aveva riferito di dover istallare "questa staffa " e che doveva " portare il motore del condizionatore") era possibile necessariamente desumere che i locatori fossero stati informati dell'intenzione della vittima di salire sul tetto del capannone al fine di posizionarvi il motore dei condizionatori o di verificare la fattibilità di una siffatta operazione, quando invece la staffa di sostegno dello stesso avrebbe dovuto esser installata, secondo la comune esperienza, non sulla copertura, ma sulla parete esterna dell'edificio, ciò escludendo logicamente la necessità di salire sulla copertura. La stessa Corte ha peraltro, condiviso, in nome della logica e dei precetti della comune esperienza, una siffatta scelta elettiva del sito di installazione, giacché si è precisato, nello stesso contesto motivazionale, che "è conforme a logica ritenere [che] l'installazione di un impianto di condizionamento, sui muri perimetrali di un capannone ...". Incongruo e non sorretto da logiche argomentazioni, appare quindi, come sostenuto dai ricorrenti, il convincimento espresso dalla Corte d'appello per aver desunto dalla previsione del collocamento unicamente della staffa del motore del condizionatore (anche a voler ammettere la certa acquisizione di tale elemento fattuale) l'intenzione della vittima di salire sulla copertura del capannone per inferirne poi l'omissione colposa degli imputati, dell'obbligo di informarlo della non calpestabilità della stessa.

Come ancora obiettato dai ricorrenti in tema di vizio di motivazione quanto al nesso eziologico, la Corte d'appello di Trieste, una volta condivisi gli assunti del Giudice di prime cure circa l'affermazione della penale responsabilità degli imputati a titolo di colpa generica omissiva, è incorsa nei dedotto vizio omettendo di specificare la natura dell'obbligo gravante ex contractu a carico dei proprietari - locatori e quindi di individuare la specifica posizione di garanzia di cui gli stessi dovevano in concreto ritenersi investiti nei confronti del M., ai sensi dell'art. 40, comma 2° cod. pen., nella cui violazione era insita la stessa affermazione di responsabilità, analogamente a quanto ad esempio statuito dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla posizione del proprietario dell'immobile locato ad uso abitativo in caso di pregiudizi per l'incolumità personale dei conduttori, conseguenti all'omessa manutenzione dell'impianto di riscaldamento (cfr. Sez. 4 n. 34843/2010; Sez. 4 n. 32298/2006). Né pare possa farsi risalire,nella concreta fattispecie, al disposto dell'art. 1575 cod. civile (cui peraltro neppure si accenna nella motivazione della sentenza impugnata) la fonte dell'obbligo di informazione, a carico del locatore, sulla non calpestabilità della copertura del capannone locato: circostanza illogicamente integrante, secondo la Corte d'appello,"insidie legate al posto di lavoro ". Va invece rimarcato che l'oggetto della locazione era costituito dai locali sottostanti " la copertura stessa ", adibiti a sede della azienda commerciale, facente capo alla vittima; copertura della quale - al pari degli altri elementi costitutivi del fabbricato - i locatori erano obbligati a garantire, com'è intuitivo, "il buono stato di manutenzione " affinché la copertura dell'edificio locato potesse assolvere alle sue tipiche naturali funzione e destinazione (che non attengono alla calpestabilità) onde il conduttore potesse fruirne senza subire i pregiudizi in ipotesi derivanti da infiltrazioni di acque meteoriche o da cadute di intonaci od altro. Ovviamente era da escludere una qualsivoglia assimilazione concettuale, ancorché in via di ipotesi, tra la veste di locatore - proprietario e la qualifica di datore di lavoro o di appaltatore ovvero di responsabile della sicurezza nei confronti del conduttore che peraltro esercitava professionalmente, come acclarato nel caso concreto, l'attività di installazione di condizionatori d'aria. Non può invero sfuggire che i Giudici di secondo grado, fatta eccezione per l'accenno minimale al tema centrale del nesso di causa laddove hanno sostenuto che "non è vero che il nesso causale tra la condotta genericamente negligente dei locatori e l'infortunio è spezzato dalla constatazione del fatto che i conduttori potevano rendersi conto che il tetto era in materiale non calpestatile " hanno del tutto omesso di procedere, attraverso il c.d. giudizio controfattuale,alla verifica a tal scopo imposta in materia di reati commissivi mediante omissione.

Com'è noto, è necessario accertare se il comportamento attivo, colposamente omesso, avrebbe impedito l'evento ovverosia verificare se,nel caso concreto, una volta che il M. fosse stato informato della non calpestabilità della copertura del capannone, per ciò solamente egli non sarebbe salito sul tetto o vi sarebbe salito facendo uso delle precauzioni e dei presidi antinfortunistici, comunque obbligatoriamente impiegabili anche in caso di calpestabilità del tetto, solo per il fatto di dover salire a circa sette metri di altezza dal suolo ove svolgere la suddetta attività verosimilmente prodromica e ricognitiva rispetto alla installazione dei condizionatori. In tal caso, per poter ritenere l'omissione colposa ascritta ai ricorrenti concausa efficiente dell'evento si sarebbe dovuto altresì accertare se, ex ante, fosse stato prevedibile, nella posizione e nell'ottica dei proprietari - locatori, attuali ricorrenti, che il M., benché installatore professionale di condizionatori d'aria anche a notevole altezza dal suolo,non si sarebbe esposto all'evento mortale e quindi al relativo rischio di caduta ove informato della non calpestabilità della copertura del capannone di guisa da doversi giudicare esigibile una siffatta condotta attiva in capo agli imputati quale elemento sicuramente impeditivo dell'evento. Diversamente si sarebbe dovuto concludere, nel caso in cui si fosse accertato che, attesa l'esperienza professionale della vittima, comunque ben nota agli imputati, l'evento si sarebbe egualmente verificato, in ragione della sostanziale superfluità della informazione, facendo questa già parte del patrimonio di conoscenze professionali e dell'esperienza del M., sulla quale gli imputati plausibilmente potevano fare affidamento, con esclusione, in tale ipotesi, di ogni addebito di colpa nei loro confronti.

La sentenza impugnata va, dunque, annullata, relativamente alle posizioni dell'A. e del S., agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello che provvedere al regolamento delle spese tra le parti anche per il presente giudizio.

Appare infine opportuno precisare che, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 35490/2009, non potrebbe in alcun modo pervenirsi all'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, anche ai fini penali per essere stati rilevati vizi nel percorso motivazionale seguito dal giudice dell'appello, all'esito dell'approfondimento probatorio reso indispensabile, pur in presenza della causa estintiva del reato, dalla necessità di pronunciare statuizioni agli effetti civili. Il principio enunciato dalle Sezioni Unite - circa la prevalenza della formula di proscioglimento, per prova insufficiente o contraddittoria, sulla causa di non punibilità -riguarda i casi in cui il giudice dell'appello: a) abbia ritenuto sussistente un compendio probatorio contraddittorio o insufficiente, all'esito di un compiuto esame reso indispensabile dalla necessità di provvedere anche sulle statuizioni civili, in virtù di quanto disposto dall'art. 578 cod.proc.pen.; b) abbia giudicato infondato un appello del P.M. avverso una sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado ai sensi del secondo comma dell'art. 530 cod.proc.pen.. Orbene, in presenza della parte civile e di conseguenti statuizioni agli effetti civili pronunziate dal giudice di appello a conferma della sentenza di condanna di primo grado, ove si faccia luogo, in sede di giudizio di legittimità a declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, come è avvenuto nella concreta fattispecie, eventuali vizi motivazionali non possono che rilevare ai soli effetti civili, dovendo la vicenda penale considerarsi ormai definitivamente conclusa con la declaratoria di estinzione del reato (fatta salva, ovviamente, l'evidenza della prova dell'innocenza: evidenza, di certo non rilevabile nel caso in esame, come già si è detto): e ciò, perché - come chiarito anche con la citata sentenza Tettamanti delle Sezioni Unite di questa Corte (n.35490/2009) - il rinvio del procedimento al nuovo esame del giudice del merito (sul versante penale) risulta del tutto incompatibile con l'obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione del reato.



P.Q.M.





Dichiara inammissibile il ricorso di F.A. che condanna al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende nonché alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese di questo giudizio che, unitariamente e complessivamente, liquida in complessivi euro 3.500,00, oltre IVA, CPA e spese generali, come per legge.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata ai fini penali nei confronti di A.R. e di S.A., perché estinto il reato per prescrizione.

Annulla la sentenza impugnata ai fini civili nei confronti degli stessi A.R. e S.A., con rinvio al giudice civile, competente per valore in grado di appello cui demanda anche il regolamento delle spese tra le parti, per questo giudizio.