L’ERRORE UMANO:
dalla cultura della colpa alla cultura della prevenzione

IL RAPPORTO TRA INCHIESTA GIUDIZIARIA ED INCHIESTA TECNICA

di Beniamino Deidda*
 


* Si pubblica qui la Relazione presentata dal Dott. Beniamino Deidda, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Trieste, in occasione del Convegno “L’errore umano: dalla cultura della colpa alla cultura della prevenzione” tenutosi a Urbino l’11 maggio 2007.
 
 

1. Nella giornata di oggi è diventata quasi una nozione di senso comune la consapevolezza che il c.d. errore umano quasi mai costituisce la causa finale dell'evento dannoso e che, semmai, è la classica goccia che fa “traboccare il vaso”.

Ma abbiamo registrato anche un'altra conclusione, o meglio, altre due.

La prima è che gli infortuni e gli eventi di danno nei luoghi di lavoro sono sempre in generale prevedibili e prevenibili, a meno che non vi giochi il caso fortuito o la forza maggiore che, come si sa, sono evenienze piuttosto rare.

La seconda è che la causa vera degli infortuni, cioè quella che sta a monte e che ne costituisce, per così dire, la spiegazione essenziale, è sempre la carente organizzazione della sicurezza o, come altri amano dire, l'errata predisposizione del sistema di prevenzione dei rischi lavorativi.

In questo senso dunque l'errore umano dovrebbe far parte del quadro prevenzionale, il quale va appunto costruito a prova di errore umano, soprattutto in quelle situazioni di lavoro in solitudine (trasporti, agricoltura, lavoro notturno, ecc.) nelle quali all'errore del singolo non è possibile rimediare se non con un'adeguata predisposizione di misure organizzative.

Queste conclusioni tuttavia non sempre trovano il loro posto nell'inchiesta volta ad accertare le responsabilità, che nel nostro ordinamento inevitabilmente segue criteri penalmente codificati. I quali criteri non sempre coincidono con la spiegazione degli accadimenti che emerge dal punto di vista naturalistico.

E' noto che la cosiddetta causalità naturale segue il percorso causa-effetto studiando la successione dei fenomeni che si sono verificati dal punto di vista naturalistico.

La causalità giuridica invece segue un paradigma che appunta la sua attenzione su indici diversi, che non si identificano con quelli della causalità naturale.

E' anche noto che, a fondamento della responsabilità penale nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, sta il concetto di colpa tradizionalmente intesa come negligenza individuale, imprudenza o violazione di norme o di regolamenti.

Ma la giurisprudenza negli ultimi tempi ha messo in evidenza che per “colpa” non può più intendersi solo l'atteggiamento soggettivo dell'autore del reato, che diversamente che nel delitto doloso, non vuole l'evento nel delitto colposo; ma deve ormai intendersi l'atteggiamento di chi viola una norma destinata a prevenire l'evento dannoso. In questo modo la colpa finisce per coincidere con la violazione della norma di prudenza posta dall'ordinamento per prevenire appunto un evento dannoso.

Si aggiunga inoltre che meno tradizionalmente negli ultimi tempi la colpa è stata vista non solo nell'atteggiamento di negligenza individuale che ignora le norme di prudenza o di esperienza che sono poste a presidio di una determinata operazione rischiosa; ma è stata individuata anche a carico di chi è venuto meno ai propri obblighi di garanzia dell'altrui incolumità consistenti nel predisporre un'organizzazione o un sistema capace di prevenire i danni ai lavoratori. Potremo definire questo tipo di colpa come “colpa organizzativa”, per significare appunto che essa si sostanzia non in un atteggiamento di imprudenza o di omissione di cautele in una singola operazione ma appunto nell'avere omesso di adottare e di predisporre quel complesso di misure che nell'attuale ordinamento prevenzionistico si definiscono appunto come sistema di prevenzione. 

2. Questa necessaria premessa ha inevitabili conseguenze nell'individuazione delle tecniche e delle modalità di conduzione dell'indagine infortunistica o di malattia professionale.

Una volta accertato che costituisce colpa, penalmente sanzionata, l'avere omesso o non esercitato il potere-dovere di adottare un'adeguata organizzazione in materia di sicurezza del lavoro, uno degli obiettivi ineludibili di chi conduce l'inchiesta infortunistica è quello di accertare se sia stato predisposto un adeguato sistema di prevenzione come le leggi impongono. Anzi l'entrata in vigore del decreto legislativo 626/94 incide profondamente proprio sulla modalità di conduzione dell'inchiesta infortuni imponendo agli operatori di polizia giudiziaria, ai pubblici ministeri ed ai giudici vere e proprie priorità nell'accertamento della dinamica infortunistica. Non vi è dubbio infatti che la dinamica dell'infortunio sia caratterizzata da una vasta rete di connessioni e di interrelazioni fra i vari soggetti della prevenzione che spiegano in maniera esauriente “il percorso” dell'infortunio e forniscono indubbi elementi rilevanti per l'accertamento della responsabilità penale.

In particolare la vigenza del decreto legislativo 626/94 ha determinato una svolta netta rispetto a quanto accadeva negli scorsi quarant'anni dominati dai D.P.R. che hanno visto la luce negli anni '50.

Si tratta di una serie di norme il cui contenuto e la cui struttura inevitabilmente hanno comportato l'adozione di modelli di valutazione probatoria e di tecnica investigativa che hanno risentito del carattere di frammentarietà che connota la struttura dei D.P.R. In questi testi di legge una serie di precetti scollegati fra di loro gravano “a pioggia” sul datore di lavoro e i suoi collaboratori, distinguendosi solo per il contenuto tecnico e per la natura delle misure rese obbligatorie: di un certo tipo per le seghe circolari, di un altro per i laminatoi, per i mezzi di sollevamento, per la viabilità etc.

L'inevitabile riflesso giurisprudenziale di questa frammentarietà è stato la separatezza fra gli obblighi dei vari soggetti tenuti a “fare sicurezza”. Ciascuno, alla luce del principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, rispondeva, come è giusto, solo della propria azione od omissione. E così è rimasto in ombra il legame sistematico fra i diversi obblighi dei vari soggetti ed il collegamento fra le azioni di coloro che erano preposti a garantire la sicurezza dei lavoratori.

Troppe volte, fino ad anni recenti, abbiamo visto condannare i preposti o i lavoratori, protagonisti delle negligenze o delle imprudenze che costituivano l'ultimo anello causale dell'infortunio, senza che gli Upg dei servizi o il pubblico ministero indagassero sulla complessiva organizzazione di lavoro che aveva reso possibili quelle negligenze e quelle imprudenze. E quante volte sono stati assolti i datori di lavoro o i dirigenti tenuti a garantire la sicurezza con la motivazione che al momento dell'infortunio “non erano sul posto”?

Mentre inevitabilmente erano sul posto il compagno di lavoro che aveva investito l'infortunato o il preposto che non aveva sorvegliato, che non aveva adottato precauzioni, che non era intervenuto per impedire una manovra imprudente.
 

3. Ebbene è mia ferma convinzione che le nostre tecniche di indagine durante l'inchiesta infortuni e anche durante il dibattimento penale debbano tener conto di quell'autentica rivoluzione normativa apportata dal decreto 626/94 il quale, come è noto, non ha dettato nuovi precetti tecnici di prevenzione, ma ha mutato il modo stesso di concepire la prevenzione.

Il Decreto 626 ha infatti introdotto il carattere sistematico degli adempimenti di prevenzione, rendendo necessario non solo il rispetto dei precetti tecnici, ma anche l'adozione di procedure che non possono essere omesse e la cui violazione è penalmente sanzionata.

Ecco allora che le procedure introducono nel nostro ordinamento un modello circolare di prevenzione, in cui ogni obbligo, ogni comportamento si lega con quello degli altri soggetti tenuti alla prevenzione. Nessuno gioca più solo e la sicurezza è la risultante dell'apporto di diversi soggetti.

La prevenzione diventa così nel nostro ordinamento una funzione complessa nella quale ciascuno dei soggetti obbligati interviene a diverso titolo a definire, proporre, attuare e mantenere in efficienza il sistema di sicurezza aziendale.

Il datore di lavoro, i dirigenti, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, medico competente, ecc. devono dare vita ad una serie di relazioni (le procedure, appunto) la cui esistenza e correttezza è essenziale per il sistema di sicurezza.

Se tutto questo è vero, “l'interpretazione” che il giudice deve dare dell'infortunio e cioè la sua valutazione degli elementi probatori sarà fortemente influenzata dall'impronta sistematica che l'ordinamento di prevenzione ha ricevuto.

Nessun obbligo d'ora in poi sarà più solo sé stesso, ma dovrà essere letto nell'ottica interrelazionale che emerge dal Decreto 626.

Sarà necessario allora orientarsi verso un modello di indagine e di valutazione anch'esso, per così dire, circolare che tenga conto che gli adempimenti o inadempimenti del soggetto e dei soggetti, che sono stati sottoposti ad indagine, si inseriscono in un contesto che li rendeva possibili e che quegli inadempimenti, a loro volta, rendevano possibili o vanificavano altri adempimenti.

Per fare solo degli esempi: se si accerta che uno o più lavoratori effettuano una manovra in modo rischioso e ciò ha determinato un infortunio, è necessario chiedersi se i lavoratori hanno ricevuto le istruzioni necessarie per compiere quella manovra e da chi; se hanno ricevuto adeguata e sufficiente formazione ed informazione; se il rischio insito nella manovra era stato correttamente valutato ed erano state varate le misure necessarie per affrontarlo.

Cioè, diversamente da quanto avveniva per stabilire le cause e valutare le condotte dei soggetti alla stregua del D.P.R. 547/55, oggi è necessario inquadrare quelle condotte e quegli obblighi nell'ambito delle procedure obbligatorie di valutazione dei rischi, di formazione e informazione dei lavoratori, di redazione del documento di sicurezza, di adozione delle misure di ordine organizzativo e procedurale, ecc.

In questo contesto la valutazione del materiale probatorio raccolto non solo porterà ad una più avveduta tecnica di contestazione dei fatti (capo di imputazione) ma porterà anche a conclusioni più meditate in ordine alla responsabilità dei vari soggetti.
 

4. Si deve poi aggiungere che gli articoli 3 e 4 del D.Lgs. 626/94 contengono norme di grande importanza nello stabilire a carico del datore di lavoro precisi obblighi organizzativi e procedurali.

Intanto l'art. 3 alla lettera d) contiene un obbligo giuridico per lo più ignorato dai datori di lavoro: “programmazione della prevenzione mirando ad un complesso che integri in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche ed organizzative dell'azienda, nonché l'influenza dei fattori dell'ambiente di lavoro”.

E non meno ignorati (e, se si può dire, raramente contestati dagli ufficiali di polizia giudiziaria delle ASL) sono i precetti contenuti nell'art. 4, comma 5, lett. b e c, tutti penalmente sanzionati:

- “aggiorna le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, ovvero in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione”;

- nell'affidare i compiti ai lavoratori tiene conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza.

Si tratta, come ciascuno può vedere, della fondamentale previsione di un obbligo complessivo del datore di lavoro che, nelle sue funzioni di regista del sistema di sicurezza, è obbligato ad adottare moduli organizzativi che costituiscono la condizione preliminare per l'adozione di ogni singola misura di sicurezza.

Di fronte all'infortunio dunque non è sufficiente accertare se sia stata omessa l'adozione della singola misura che ha costituito la causa cronologicamente finale dell'evento dannoso, ma è necessario accertare se fin dall'inizio fosse stata predisposta strategicamente l'adeguata organizzazione della sicurezza.

Questa violazione, ove accertata apparirà come la causa primaria dell'infortunio, tanto più se, come spesso avviene, l'infortunio è effetto di violazioni talvolta assai distanti nel tempo e nello spazio.

Questa impostazione ci consente di chiarire, e forse anche di superare, una formula suggestiva che pure viene spesso ripetuta e cioè che per evitare gli infortuni e gli eventi dannosi non è sufficiente rispettare le norme. L'affermazione ha un suo fondo di verità, perché ha il pregio di sottolineare la necessità di istituire un coerente sistema di prevenzione che non può essere sintetizzato nella mera applicazione delle singole norme.

Ma, appunto ci sono norme e norme: ci sono quelle frammentarie dei D.P.R. degli anni '50, tutte volte a descrivere i singoli rischi e i rimedi per fronteggiarli; ci sono poi le norme dallo spiccato carattere procedurale ed organizzativo che hanno avuto l'effetto di introdurre nel nostro sistema obblighi penalmente sanzionati di istituzione e mantenimento di un'organizzazione efficiente. E qui si tocca con mano la necessità di svolgere da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria e dei pubblici ministeri indagini che siano improntate all'esigenza di verificare prima di tutto l'adempimento degli obblighi del datore di lavoro sul piano organizzativo.
 

5. Se dunque si condivide questo punto di osservazione, i rapporti tra inchiesta tecnica e inchiesta giudiziaria si fanno assai stretti.

Non voglio dire che i contenuti delle due inchieste finiscano per coincidere, perché questo non sarebbe, nell'attuale stato di cose, del tutto vero. E' infatti verissimo che l'inchiesta tecnica si propone di appurare come e perché un dato evento si sia determinato a prescindere dalle negligenze od omissioni di questo o di quello, mentre per l'inchiesta giudiziaria si tratta di stabilire chi porta la responsabilità dell'evento.

E, come conseguenza del diverso obiettivo di ciascuna delle due inchieste, noi avremo un interesse preminente dal punto di vista tecnico per quelle caratteristiche organizzative e di previsione dei comportamenti degli operatori che hanno reso possibile l'evento dannoso, anche se non si sono concretate in comportamenti colposi. Ad es. non sarà facile ignorare, dal punto di vista tecnico, il verificarsi di incidenti senza evento, i quasi-infortuni che costituiscono altrettante spie di carenze organizzative, formative etc., magari irrilevanti sul piano giudiziario, ma fondamentali per chiarire le cause lontane (e vicine) di quel che è accaduto.

Da questa evidente differenza che corre tra gli schemi e i metodi dell'inchiesta tecnica rispetto a quelli utilizzati per l'inchiesta giudiziaria, taluno trae la conclusione che gli accertamenti giudiziari propongono risultati distorti rispetto alle “vere cause” degli infortuni e, ciò che è più grave, impediscono lo sviluppo di un'autentica cultura della prevenzione e l'apprendimento dei sistemi di sicurezza. Di qui il suggerimento, forse semplicistico, ma efficace: basta con le inchieste giudiziarie; passiamo, come suggerisce il suggestivo slogan del convegno, “dalla cultura della colpa a quella della prevenzione”.

Le cose, per la verità, non sono così semplici, anche se la provocazione che parte da questo convegno è salutare. Non sono semplici in un Paese in cui se una norma non è penalmente sanzionata conta meno di niente, al più è un indicatore del costume, uno sfoggio moralistico o roba per gonzi.

Credo invece che la provocazione ci costringa (parlo di quelli che hanno a cuore le sorti della prevenzione) a ripensare costruttivamente i ruoli di ciascuno: ma soprattutto quello degli organismi pubblici, degli organi di vigilanza, dei pubblici ministeri e dei giudici. Che fine ha fatto, quale posto ha effettivamente la prevenzione nel lavoro di questi organismi?

6. Ebbene, non si può ignorare che ci sono zone del nostro Paese, nelle quali la prevenzione non ha alcun posto. Ci sono territori in cui l'intero servizio di prevenzione nei luoghi di lavoro passa il suo tempo a condurre inchieste infortuni e di malattia professionale su incarico dei pubblici ministeri, anche quando si tratta di malattie di pochi giorni per le quali il codice non prevede la procedibilità d'ufficio, ma solo su querela che non viene quasi mai presentata. L'organo di vigilanza, ironia dei nomi, non fa mai vigilanza, non esce in attività ispettiva, non fa sopralluoghi, se non dopo l'infortunio e neppure d'iniziativa, ma su delega del p.m.

E' chiaro che, dove questa è la situazione, non c'è posto non dico per l'esame dei quasi infortuni, ma neppure per le attività amministrative di prevenzione che la legge assegna ai servizi pubblici. Siamo di fronte ad una vera e propria indebita soppressione del servizio ad opera dell'apparato giudiziario.

Ma, si dirà, non dappertutto è così: ci sono ASL dove i servizi funzionano e dove il comportamento dei pubblici ministeri non è così stupidamente vessatorio. E' vero, ci sono territori (ma quasi tutti solo nelle regioni virtuose, in cui i servizi sono a regime) nei quali resta qualche tempo per la vigilanza, una volta adempiute le richieste dei p.m. Ma neppure questi rappresentano la traduzione più felice di quanto le leggi prevedono.

Innanzitutto ci sono altri compiti di prevenzione, oltre la vigilanza, previsti dall'art. 20 l . 833/78 che non vengono quasi mai svolti efficacemente. Eppoi i meccanismi della prevenzione affidati dalla legge agli organi delle ASL prevedono che sia svolta soprattutto attività d'iniziativa e raramente attività delegata: solo così si può attivare efficacemente il meccanismo della prescrizione; solo così si può intervenire tempestivamente attraverso la predisposizione del servizio di urgenza nei casi di infortuni gravi o mortali, solo così si può efficacemente agire sul terreno delle malattie professionali.

Questi meccanismi non possono evidentemente funzionare se si attende la delega del pubblico ministero; occorre invece avere il tempo di mettere in piedi un'attività programmata di ispezione e vigilanza che si integri efficacemente con un rigoroso piano di informazione anche a livello di singolo luogo di lavoro, di assistenza per tutti i soggetti impegnati nella prevenzione, di catalogazione e previsione dei rischi e, infine, di elaborazione degli standards più adeguati in materia di sicurezza e igiene.

Questo ideale funzionamento dei servizi non esiste praticamente più (seppure mai è esistito) in nessuna parte del Paese. Questa conclusione rimanda inevitabilmente all'esame di cosa debba essere il servizio pubblico di prevenzione nei luoghi di lavoro e di quali rapporti debbano intercorrere fra il servizio delle ASL ed i pubblici ministeri.

7. Intorno al ruolo dei servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro delle ASL, sono tuttora presenti alcuni equivoci che hanno fatto la loro comparsa addirittura fin dal momento dell'approvazione della riforma sanitaria del 1978. Ed è proprio in quegli anni che si è manifestata una contrapposizione, spesso aspra, tra le attività di prevenzione e le attività ispettive di vigilanza.

Questi equivoci trovavano il loro alimento soprattutto nel fatto che la legge (a differenza di quanto avviene per i servizi di prevenzione in materia di alimenti, di veterinaria e di igiene pubblica) limitava l'attribuzione dei poteri di P.G. solo ad alcuni soggetti appartenenti al servizio, individuati con nomina prefettizia, quasi a voler sottolineare la separazione delle loro funzioni rispetto a quelle degli altri appartenenti al servizio.

Ricorderò un episodio accaduto alla vigilia del 1° luglio 1982, in un'assemblea tenuta nei locali del Centro Oncologico di Firenze. Stavano per essere trasferite le funzioni di prevenzione nei luoghi di lavoro dagli Ispettorati del Lavoro alle USL e alla riunione erano presenti tutti i componenti dei vari servizi delle USL Toscane, ansiosi di conoscere quali compiti sarebbero stati loro assegnati. Ricordo che i più erano medici, reduci in gran parte dall'esperienza nuova, stimolante ed esaltante dei Consorzi socio-sanitari. Quando furono da me esposti i compiti ineludibili legati all'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, ricordo che la reazione fu durissima. Una valente dottoressa, diventata poi uno dei migliori UPG del territorio fiorentino, mi disse: “noi siamo medici, abbiamo altro da fare che andare in giro a far contravvenzioni. Queste cose le faccia fare ai carabinieri.”

Per fortuna mantenni ferme le mie posizioni, nella convinzione che quella non era attività da carabinieri, ma uno dei più delicati strumenti di cui disponeva il servizio nella sua opera di prevenzione. E non è un caso che quasi tutti i medici dei servizi (per molti anni gli unici a cui erano state affidate le funzioni di P.G.) sono stati di gran lunga i migliori ufficiali di polizia giudiziaria che abbiano collaborato con il magistrato. Il fatto è che la contrapposizione tra una malintesa “prevenzione pura” e l'attività di vigilanza era espressione di un equivoco che traduceva l'attività di vigilanza in mera attività repressiva.

Ma la vera novità contenuta nella legge 833/1978 era l'intenzione del legislatore di garantire la complementarietà di tutte le funzioni e di tutti i compiti attribuiti ai servizi di prevenzione. La legge voleva, e vuole tuttora, che le attività conoscitive, dispositive e repressive si fondano nell'azione unica di vigilanza che spesso e a torto viene considerata sinonimo di attività repressiva. In realtà il concetto di vigilanza a cui dovrebbero ispirarsi i servizi della ASL è un concetto assai più ampio e sta ad indicare un'attività complessiva che, pur svolgendosi attraverso fasi successive, ha di mira un unico fine e un unico risultato: la prevenzione nei luoghi di lavoro.

E infatti quando si voglia dar vita ad un intervento di prevenzione sistematico e razionale non si può evidentemente prescindere da una fase conoscitiva, da una fase propositiva, da una fase di controllo e, quando è il momento, da una fase repressiva quando vengano accertate violazioni sanzionate penalmente. Come si vede, un intervento serio di prevenzione mette in gioco la professionalità degli appartenenti al servizio e abbisogna di capacità e formazione che sono lontanissime dalla mentalità che si dice “da carabinieri”.

E infine non va dimenticato che la vigilanza è, come più volte ribadito da una costante giurisprudenza, un momento dell'attività amministrativa e non giudiziaria, giacché essa non è diretta ad accertare elementi e modalità di un reato già acquisito, ma soltanto a verificare la conformità dei vari aspetti di igiene e sicurezza presenti nel luogo di lavoro alle norme vigenti. In questo senso l'attività di vigilanza è uno dei momenti più alti dell'attività di prevenzione e non può essere confusa con l'anticamera del processo penale.

E' in questa sede che vanno esaminati quegli aspetti che denunciano le carenze di organizzazione, di formazione, di informazione e di addestramento che emergano nei luoghi di lavoro; ed è in questa sede che vanno istituiti momenti di assistenza e di dialogo con tutti i soggetti addetti alla prevenzione che rappresentano il momento alto e pedagogicamente più qualificante della diffusione della cultura di sicurezza.
 

8. E' possibile naturalmente che durante l'azione di prevenzione così intesa si manifestino violazioni alle norme vigenti che debbano qualificarsi come notizie di reato. La legge non lascia alternative: occorre denunciare i fatti al P.M., inoltrare obbligatoriamente la prescrizione, stabilire, se del caso, le modalità dell'adempimento, verificare se si sia esattamente adempiuto alla prescrizione e, infine, in caso positivo, ammettere il contravventore al pagamento. Come si vede, anche in questo caso, nessuna attività che somigli lontanamente a compiti carabiniereschi.

Anzi, è così evidente la valenza preventiva di questo percorso che si può dire, senza timore di sbagliarsi, che il legislatore, attraverso il D.Lvo 758/94, ha istituito per UPG, PM e GIP, modalità processuali che sono caratterizzate da una spiccata propensione preventiva piuttosto che dalla volontà punitiva.

Purtroppo, della valenza reale di questo percorso raramente i magistrati hanno preso coscienza e, talvolta, neppure i servizi di prevenzione hanno compiutamente assimilato i nuovi modi di operare che pianamente dovrebbero discendere da un sistema normativo che si affida ormai alla prevenzione, salvi i casi rari di pervicace rifiuto di adempiere alle norme e alle prescrizioni impartite. Solo questa mancanza di conseguenze può giustificare comportamenti di pubblici ministeri che espropriano i servizi delle loro prerogative più importanti e li riducono a meri organi di PG per attività delegate che raramente possono sviluppare gli interventi preventivi di cui abbiamo finora parlato. D'altra parte non abbiamo apprezzabili reazioni da parte delle ASL o delle Regioni. Eppure un servizio pubblico che abbia rispetto di sé e della propria fondamentale funzione nei confronti dei lavoratori, non perderebbe l'occasione per ribadire l'autonomia dell'attività amministrativa che deve caratterizzare appunto l'attività di ogni organo della Pubblica Amministrazione e chiederebbe con decisione alla magistratura protocolli capaci di salvaguardare le competenze di ciascuno e l'effettivo esercizio delle funzioni affidate dalla legge.
 

9. In questo senso dunque è necessaria una visione armonica delle esigenze della prevenzione e di quelle dell'accertamento giudiziario delle responsabilità. Le due esigenze non sono in astratto inconciliabili e possono in concreto davvero convivere solo che si guardi con realismo ai compiti assegnati a ciascun organo. Rinunziare alla punizione dei colpevoli non è possibile per effetto di una precisa previsione costituzionale che impone l'obbligatorietà dell'azione penale. E non può dimenticarsi che le inchieste sugli infortuni si collocano in un sistema normativo che tutela alcuni diritti fondamentali della persona (la vita, l'incolumità, la sicurezza, etc.) attraverso l'irrogazione della sanzione penale nei confronti di coloro che attentano a tali beni. L'importanza di questi diritti è tale che non si può davvero pensare che uno Stato serio possa lasciare impuniti coloro che li violano. E tuttavia la difesa di tali beni può conciliarsi con lo sviluppo di una cultura della prevenzione che privilegi gli interventi sul versante organizzativo della sicurezza, soprattutto perché questa è la via migliore per difendere davvero beni così essenziali.

La sfida che ci attende è dunque facile a denunciarsi e difficile a perseguirsi: ed è la conciliazione delle varie esigenze in un quadro armonico di interventi capace di individuare le responsabilità per le violazioni più gravi nei luoghi di lavoro e di intervenire sistematicamente in prevenzione soprattutto nei settori fondamentali dell'organizzazione e della sistemazione della sicurezza. Vincere la sfida non sarà facile, perché occorrono due cose di non semplice soluzione: inventarsi un nuovo ruolo per la polizia giudiziaria delle ASL alla luce dei principii ispiratori della legge di riforma sanitaria e cambiare la testa e le abitudini di molti magistrati. Ma, com'è noto, dopo i tre anni di età gli uomini non imparano più nulla.