LA RESPONSABILITA’ DEI SOGGETTI IN MATERIA DI SICUREZZA E IGIENE DEL LAVORO

di Beniamino Deidda
Procuratore generale presso la Corte di Appello di Trieste

Milano - 8 marzo 2007




Premessa

Il tema della responsabilità dei soggetti che si occupano di salute e prevenzione è un tema trasversale che tocca di tutti gli aspetti della predisposizione delle misure di sicurezza previste dalla legge, dal momento che quasi tutte le norme che si occupano della materia sono sanzionate penalmente.
Ed è anche un tema che si segnala per la sua delicatezza, perché le conseguenze penali che derivano dai comportamenti giudicati illeciti rischiano di irrigidire un sistema di relazioni di interazioni e di adempimenti che invece dovrebbe rimanere flessibile per adattarsi intelligentemente alla variabilità delle situazioni che si incontrano nei luoghi di lavoro.
Gran parte di questa rigidità è dovuta anche alla giurisprudenza, la cui ricaduta non sta semplicemente nell’accertamento delle responsabilità in quel singolo caso, ma anche nell’indicazione esemplare della casistica che dalle varie vicende si può trarre.
In quest’opera certamente meritoria ha acquistato molti punti la giurisprudenza della cassazione, che nella pluridecennale elaborazione riguardante la materia ha fissato alcuni punti che si pongono come difficilmente eludibili. Sennonché gli ultimi lustri sono stati attraversati da un vero e proprio terremoto normativo che ha creato nuovi obblighi ed, inevitabilmente, nuove responsabilità. Non solo, ma la logica del nuovo sistema di prevenzione che scaturisce dall’entrata in vigore delle norme di origine comunitaria, ha fatto in modo che siano mutati anche i criteri di attribuzione delle responsabilità penali. Si può anzi dire, come proverò a dimostrare fra breve, che i tradizionali criteri di attribuzione delle responsabilità sono stati travolti.
Tuttavia occorre anche dire con molto realismo che questo terremoto normativo di cui parlavo non ha avuto grosse ripercussioni in materia di responsabilità, se non nelle pronunzie più acute e più attente alle nuove logiche della prevenzione. Certo questo in gran parte dipende dalla lentezza con cui i giudici prendono atto dei mutamenti e, per quanto riguarda i giudici di merito, dipende anche dalla mancanza diffusa di apprezzabile specializzazione. Ma soprattutto dipende dalla difficoltà psicologica di abbandonare un filone giurisprudenziale che, bene o male, ha sempre rappresentato un punto di appoggio per coloro che si accostano alla difficile materia della prevenzione nei luoghi di lavoro.
Ma veniamo alle profonde differenze normative che corrono tra il corpus delle norme contenute nei decreti degli anni 50 e le norme di origine comunitaria.
Vale la pena di ricordare che l’assetto legislativo anteriore all’entrata in vigore del Decreto 626 prevedeva la responsabilità congiunta dei datori di lavoro e dei dirigenti i quali erano puniti in caso di violazione al medesimo titolo e con la medesima pena edittale. Ciò significa che la disciplina in vigore presupponeva implicitamente la possibilità di delegare ai dirigenti tutti i compiti, anche quelli di natura gestionale, all’interno dell’impresa. Ne discendeva, come naturale conseguenza, che in caso di inadempimento il delegato, che fosse stato regolarmente investito di compiti specifici e determinati, rispondeva penalmente della sua violazione, mentre il delegante era esonerato da ogni responsabilità.
Rispetto a questo criterio di distribuzione delle responsabilità, i decreti legislativi intervenuti negli ultimi tredici anni oppongono un sistema del tutto diverso. Parlo soprattutto della pubblicazione del Decreto 626, che recepisce le prescrizioni minime in materia di sicurezza per tutti i paesi membri della comunità europea, ed è del 1994; del Decreto Legislativo 758, che detta una nuova procedura per le contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza, che è del 1994; e del decreto 494, che attua le direttive europee in materia di sicurezza nei cantieri mobili e temporanei, che ha visto la luce nel 1996.
Si tratta dei tre decreti legislativi che più degli altri hanno cambiato il volto dell’intero sistema di prevenzione nei luoghi di lavoro.
Sono molti i punti rilevanti di questo sistema che meriterebbero di essere trattati. Ma nel breve tempo che mi è assegnato vorrei occuparmi solo degli aspetti che le innovazioni legislative hanno prodotto nei processi penali in materia di prevenzione nei luoghi di lavoro e di infortuni e malattie professionali. E soprattutto delle conseguenze che discendono dalle nuove norme in relazione all’accertamento delle responsabilità penali.

1. Cominciamo col dire che il tema della responsabilità penale è interessato da un primo aspetto di grande rilievo: sono cambiati i soggetti tenuti a garantire la sicurezza e l’igiene nei luoghi di lavoro.
Prima del decreto legislativo 626 gli attori in campo erano solo di due tipi: il datore di lavoro (con i suoi collaboratori, dirigenti e preposti) e i lavoratori. Lo spazio intermedio tra queste due figure era vuoto, mentre oggi è riempito da altre tre figure: due completamente nuove (il servizio di prevenzione e protezione ambientale e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) e una non nuova in assoluto (il medico competente) ma profondamente ridefinita nelle sue funzioni e responsabilità. I nuovi attori della prevenzione hanno obblighi, attribuzioni e doveri che sono caratterizzati da una stretta interrelazione che corre tra l’una e l’altra figura, di modo che la sicurezza nel luogo di lavoro è il risultato dalla collaborazione che deve esistere tra i vari soggetti obbligati.
Per capire dunque la ratio che governa la materia delle responsabilità occorre capire come le figure che sono per legge incaricate di fare prevenzione interagiscono tra loro, capire cioè quale sia il ruolo che la legge attribuisce a ciascuno. Le responsabilità infatti saranno attribuite in maniera strettamente collegata ai compiti e ai ruoli.
Ebbene si può dire che alla luce delle norme contenute nel decreto 626 queste figure interagiscono dando luogo ad un sistema complesso caratterizzato da una forte interdipendenza dei soggetti; questo sistema si regge su poche ma robuste linee portanti che scandiscono i ruoli e i compiti essenziali di ciascuno, la cui comprensione è essenziale per cogliere correttamente le responsabilità dei vari soggetti.

2. La prima linea portante è costituita dalla centralità della figura del datore di lavoro. Questo non è un concetto del tutto nuovo. Anche nelle norme precedenti si poteva parlare di centralità del datore di lavoro. Questo concetto si esauriva però nel rilievo secondo cui, nella gerarchia dei soggetti tenuti per legge ad attuare le norme di prevenzione, il datore di lavoro occupava sicuramente il primo posto. Invece la centralità del datore di lavoro che scaturisce dal Decreto 626 è un concetto assai più ricco ed articolato. E deriva soprattutto dal fatto che il datore di lavoro non è più soltanto chiamato ad attuare le singole norme di sicurezza e di igiene di cui la legge gli fa carico, ma è anche obbligato a dotarsi di una rete organizzativa e gestionale sconosciuta per il passato. Il legislatore vuole cioè che il datore di lavoro si organizzi per istituire ed attuare condizioni di sicurezza e sia in grado di mantenere in efficienza il sistema preventivo. Se in passato era possibile al datore di lavoro adottare discrezionalmente il modello organizzativo che più gli piaceva, non dovendo egli rispondere d’altro che del rispetto delle singole norme di prevenzione; oggi egli deve obbligatoriamente dotarsi del servizio di prevenzione e protezione; deve nominarne il responsabile; deve procedere alla nomina del medico competente; deve preventivamente designare i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi, di evacuazione rapida e di salvataggio, di pronto soccorso e di gestione dell’emergenza.
Cioè deve obbligatoriamente costituire un’organizzazione per la sicurezza, la cui mancanza è penalmente sanzionata.
Altrettanto deve dirsi per quanto riguarda le modalità di gestione della sicurezza. Anche qui il datore di lavoro non ha la piena discrezionalità di adottare i moduli gestionali che ritenga più opportuni. L’art. del Decreto 626 gli impone, al contrario, di procedere preventivamente alla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute. E a questo fondamentale obbligo gestionale, sanzionato penalmente, non può sottrarsi nessuna azienda (neppure quelle che hanno un numero di addetti inferiore a dieci, che sono invece esonerate dal redigere il cosiddetto “documento di valutazione” e possono sostituirlo con l’autocertificazione di aver proceduto comunque alla valutazione dei rischi).
Ma ancora, gli artt. 21 e 22 del Decreto 626 pongono a carico del datore di lavoro un’altra importante modalità di gestione. Il datore di lavoro deve assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente in materia di sicurezza e salute e un’adeguata informazione sui rischi e pericoli esistenti all’interno del luogo di lavoro.
Che cosa sono valutazione e formazione se non due fondamentali modalità di gestione della sicurezza?
Ma così, dicono le imprese, si svuota il principio costituzionale della libertà d’impresa e di organizzazione e gestione dell’impresa. Nessun timore. L’art. 41 C. rimane tuttora in vigore, la libertà di impresa è ancora un principio del nostro ordinamento. Ma il D. 626 ci ricorda che esso non si estende fino alla adozione di un modello di organizzazione del lavoro che subordini la tutela della salute ad altri interessi.
Queste numerose ragioni stanno a fondamento della nuova centralità del datore di lavoro; il legislatore vuole che il datore di lavoro sia il regista del sistema di sicurezza, il promotore e il controllore dei processi di attuazione della sicurezza in una concezione dinamica e attenta ai mutamenti delle condizioni aziendali.
Se questo è dunque il ruolo che la legge assegna al datore di lavoro, le conseguenze che ne discendono in materia di responsabilità sono pesanti, nonostante che troppe sentenze di merito trascurino i fondamentali compiti del datore di lavoro.

3. La seconda linea portante del sistema è costituita dall’istituzione del servizio di protezione aziendale, interno od esterno all’azienda.
Nel nuovo sistema di sicurezza voluto dal Decreto 626/94 la creazione di un luogo di lavoro sicuro si raggiunge attraverso due linee egualmente importanti:
a) una linea operativa che comprende le tradizionali figure del datore di lavoro, del dirigente e del preposto, chiamate ad attuare gli obblighi di sicurezza attraverso l’adozione di misure, cautele, ecc;
b) una linea consultiva che si realizza appunto attraverso l’istituzione del servizio di protezione aziendale, interno o esterno all’azienda.
Il servizio di prevenzione e protezione, in virtù della sua natura di consulente, non ha obblighi penalmente sanzionati, come può agevolmente trarsi dal fatto che nel titolo IX, dedicato alle sanzioni, nessuna norma prevede la responsabilità degli appartenenti al servizio.
A riprova della particolare collocazione che il legislatore ha riservato a questo servizio vi è il contenuto dell’art. 9, che già dal titolo esclude che in capo ai membri del servizio di protezione si configurino obblighi penalmente sanzionati. Il titolo infatti suona “compiti (e non obblighi) del servizio di prevenzione e protezione”.
Caratteristica comune di questi compiti è che essi sono svolti a beneficio del datore di lavoro, per consentirgli di affrontare al meglio gli obblighi di sicurezza. Sono compiti di studio, di valutazione, di elaborazione, di proposta e simili, ma non sono mai compiti operativi di attuazione degli strumenti o dei sistemi di tutela dei lavoratori.
Dunque, per quanto i compiti del servizio siano fondamentali dal punto di vista tecnico, nondimeno il responsabile e i tecnici che fanno parte del servizio non diventano soggetti attivi della prevenzione. Essi svolgono la loro opera a favore del datore di lavoro che, a norma del 4° comma dell’art. 9 è l’unico a poter “utilizzare” il servizio stesso. E dunque essi sono utilizzati dal datore di lavoro che risponde delle sue scelte e per poterle fare meglio si serve del SPP.
E’ evidente, tuttavia, che la irresponsabilità del servizio in ordine all’applicazione delle norme all’interno dell’azienda, non esonera i componenti dall’obbligo di diligenza professionale. Essi non sono esonerati dalla responsabilità per eventuale colpa professionale in ordine agli eventuali danni prodotti dal mancato rispetto delle regole tecniche tipiche della professione di ciascuno.
Ma quando si tratta di attribuire le responsabilità è molto importante non confondere i soggetti appartenenti alle due linee consultiva e operativa, per quanto attiene al mancato rispetto delle norme di prevenzione.
Tralascio di dire ciò che va accadendo in questa materia, sia per quanto riguarda la pratica aziendale che per quanto riguarda la giurisprudenza in materia di responsabilità del servizio di prevenzione, perché ci vorrebbe un’altra giornata. Quando si consente che venga nominato responsabile del servizio di prevenzione il dirigente tecnico con delega alla produzione e alla sicurezza, vi è una irrimediabile commistione tra la linea consultiva e la linea operativa attraverso la designazione di un soggetto che contestualmente ha compiti di consulenza e di applicazione diretta delle norme.
Ma la scelta fondamentale del legislatore è proprio quella di rendere obbligatoria nel luogo di lavoro l’istituzione di una figura che ha il ruolo di “consulente tecnico” del datore di lavoro, ma non è coinvolta in compiti operativi di attuazione delle norme di sicurezza. La concentrazione in capo ad un medesimo soggetto di compiti così diversi vanifica la previsione legislativa e fa venir meno una delle linee portanti dell’intero decreto che si riassume nella assenza di responsabilità di un organo consultivo del datore di lavoro.

4. Vi è un terzo elemento essenziale nella struttura del Decreto 626/94, che molti anzi giudicano come l’innovazione più importante e densa di conseguenze: l’obbligo della valutazione dei rischi che scolpisce bene le nuove funzioni di “regista” del datore di lavoro, dal momento che non è più sufficiente il rispetto dei numerosi precetti che, a pioggia, gravano sui soggetti tenuti a garantire sicurezza.
E’ necessario che il datore di lavoro eserciti obbligatoriamente una discrezionalità tecnica che si esplica nella valutazione dei rischi connessi all’attività svolta e si esplicita in un documento in cui non solo si deve dar conto dei criteri con cui tale valutazione è stata condotta, ma che contiene anche un programma di interventi con i quali il datore di lavoro ritiene di affrontare i rischi più rilevanti e indica quali siano le misure destinate a migliorare nel tempo le condizioni di sicurezza dell’azienda.
Questo obbligo grava esclusivamente sul datore di lavoro.
Dunque la valutazione si impone come autovalutazione ed autocertificazione, come momento dinamico e flessibile, capace di fotografare le condizioni di sicurezza in azienda, da cui scaturiscono obblighi per il datore di lavoro, il quale non può evidentemente ritenere che non si debbano fronteggiare i rischi che egli stesso aveva individuato.
Inoltre è istituito l’obbligo per il datore di lavoro di procedere alla valutazione in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e con il medico competente, dopo aver consultato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. E qui appare con sufficiente chiarezza che il legislatore considera la prevenzione come una funzione complessa cui concorrono a diverso titolo più soggetti che intervengono a definire, aggiornare e attivare un programma che sia in grado di cogliere concretamente le particolarità delle situazioni presenti in azienda e le condizioni di rischio.
Ecco perché gli organi di vigilanza e gli stessi magistrati che affrontano questa materia non possono essere più solo dei distaccati osservatori delle carenze antinfortunistiche delle macchine, dei luoghi di lavoro, ecc., ma devono essere capaci di valutare le relazioni tra soggetti e l’esistenza di quella rete organizzativa e gestionale che il legislatore ha ritenuto essere necessaria per garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro.

5. C’è infine un quarto elemento strutturale che il datore di lavoro è tenuto ad affrontare con grande impegno: quello della preventiva formazione ed informazione dei lavoratori. Gli articoli 21 e 22 del decreto prevedono che il datore di lavoro debba fornire a ciascun lavoratore un’adeguata informazione sui rischi per la sicurezza e la salute e sui pericoli connessi all’uso di particolari sostanze o preparati; e inoltre che assicuri a ciascun lavoratore una formazione sufficiente in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni.
Si tratta dunque di garantire sufficienti livelli di formazione e di informazione per tutti coloro che vengano adibiti a lavorazioni più o meno rischiose.
Si è cioè provveduto a rafforzare l’aspetto della protezione soggettiva, nella quale il lavoratore non è più concepito come mero creditore di sicurezza, ma come soggetto responsabile che si prende cura della propria salute e collabora nella preparazione di un ambiente di lavoro sicuro.
Si tratta dunque di un’altra importante fonte di responsabilità per tutti coloro che debbono provvedere alla informazione e alla formazione dei lavoratori.

6. Sulla scorta di questi principi fondamentali si può dunque costruire la teoria delle responsabilità dei soggetti impegnati nell’attività di prevenzione nei luoghi di lavoro. E soprattutto occorre approfondire il rapporto intercorrente tra il datore di lavoro e gli altri suoi collaboratori.
Ora con il recepimento delle norme di origine comunitaria che abbiamo illustrato il vecchio schema di distribuzione delle responsabilità penali è rimesso in discussione.
Si tenga presente che questo rivolgimento avviene anche per effetto di due norme di decisiva portata: quella contenuta nell’art. 2 lett. b) e quella contenuta nell’art. 1, co. 4° ter, del Decreto 626.
L’art. 2 lett. b) fornisce per la prima volta nell’ordinamento di prevenzione la definizione di datore di lavoro.
La definizione fornita dal Decreto 626 innova profondamente la materia. In passato, alla domanda su chi fosse il datore di lavoro la giurisprudenza ha talora risposto che tale doveva considerarsi il legale rappresentante dell’ente.
Risposta insoddisfacente, eppure possibile, nel silenzio della legge. Ora questa risposta è sbagliata.
Dispone infatti l’art. 2 lett. b) che per datore di lavoro deve intendersi il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa o dell’unità produttiva, ha la responsabilità dell’impresa stessa in quanto titolare dei poteri di decisione e di spesa.
Secondo il primo criterio contenuto nella definizione, per datore di lavoro dovrebbe intendersi il soggetto titolare del rapporto di lavoro. Ma tale criterio consente di individuare facilmente i datori di lavoro delle piccole e medie imprese, nelle quali il titolare del rapporto di lavoro è anche colui che conduce e dirige l’attività produttiva e magari lavora insieme ai suoi dipendenti.
Ma si tratta di un criterio sicuramente insufficiente tutte le volte che titolare del rapporto di lavoro è una persona giuridica. In tal caso è necessario individuare l’organo-persona fisica che porta la responsabilità dell’impresa o dell’unità produttiva intesa come titolarità dei poteri di conduzione delle medesime.
A questo proposito la definizione aggiunge un ulteriore criterio definendo il datore di lavoro come colui che ha la responsabilità dell’impresa e dell’unità produttiva in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa.
Questo sembra essere il fulcro della definizione di datore di lavoro: i poteri di decisione e di spesa.
Il Decreto 626 offre dunque una definizione non formale di datore di lavoro.
Essa non fa astrattamente riferimento a cariche di vertice o alle funzioni di rappresentanza, ma è ancorata alle effettive funzioni svolte all’interno dell’azienda. Definizione dunque sostanziale, secondo cui la persona fisica del datore di lavoro può o non coincidere con quella che ha incarichi di vertice nell’azienda.
Ciò che sarà decisivo è che egli sia effettivamente munito del potere di decidere e di spendere. Dunque l’attribuzione della responsabilità al datore di lavoro dovrà essere fondata solo sull’accertamento dell’esistenza del binomio inscindibile dei poteri di decisione e di spesa. In nessun modo potrà essere fondata la responsabilità quando essa non trovi riscontro nella capacità di spendere e di decidere. Quando tale capacità non esiste non siamo di fronte ad un datore di lavoro ma ad una vuota denominazione cui non corrisponde il contenuto minimo che la legge ritiene essenziale per l’attribuzione delle relative responsabilità.
E’ possibile che all’interno di una stessa impresa vi siano più di datori di lavoro; sarà sufficiente che l’impresa sia articolata in più stabilimenti o più unità produttive perché possa dirsi che, secondo la definizione, chi porta la responsabilità dell’unità produttiva, assume il ruolo e gli obblighi del datore di lavoro.
Trovano così conferma nella definizione di datore di lavoro fornita dal Decreto 626 quegli elementi che la giurisprudenza da molti anni aveva individuato come essenziali per assumere la responsabilità del datore di lavoro, definito come “il capo dell’impresa” dal quale gerarchicamente dipendono tutti i collaboratori.

7. Tuttavia a definire l’ambito delle responsabilità di ciascuno concorre, come si è detto, il contenuto dell’art. 1, co. 4 ter, sulla non delegabilità di alcune funzioni proprie del datore di lavoro.
Come è noto, nel nostro sistema giuridico il datore di lavoro deve considerarsi il principale responsabile dell’attuazione delle misure di sicurezza.
Ma si è sempre riconosciuto che, per una più efficace opera di prevenzione, egli possa delegare ai suoi collaboratori alcuni compiti, anche rilevanti, in materia di sicurezza. Unica condizione è che la delega sia validamente conferita nel rispetto dei principi e dei requisiti a lungo elaborati dalla giurisprudenza. Quando questa condizione sia soddisfatta, la responsabilità di eventuali inadempimenti nella materia oggetto della delega comporta la responsabilità del delegato con esonero del delegante.
Ma la giurisprudenza ha in passato elaborato un ulteriore principio secondo cui alcuni compiti particolari sono propri del solo datore di lavoro. Si tratta delle scelte di fondo dell’azienda che possono essere compiute solo dai vertici. In particolare si tratta delle scelte imprescindibili relative ai costi necessari della sicurezza, alla creazione delle strutture necessarie e alla scelta dei collaboratori.
Ebbene, nel comma 4 ter dell’art. 1 del Decreto 626/94 sembrano trovare conferma proprio queste linee giurisprudenziali, laddove si stabilisce che non sono delegabili gli adempimenti di cui all’art. 4, commi 1, 2, 4 lett. a) e 11, primo periodo. Si tratta della valutazione dei rischi, della redazione del documento di valutazione e programmazione, della nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e, nelle aziende fino a dieci addetti, della cosiddetta autocertificazione.
Abbiamo già rilevato come questi siano adempimenti fondamentali e in qualche modo strategici nel sistema di sicurezza di cui l’azienda deve essere dotata e dunque non è senza ragione che il legislatore li attribuisca all’esclusiva competenza del datore di lavoro. Il quale potrà affidarne certo la materiale esecuzione agli altri, ma ne conserva tutta la responsabilità giuridica.

8. In materia di responsabilità si deve sottolineare un’altra importante novità contenuta nel Decreto 626 che incide fortemente anche sulle responsabilità di un altro dei soggetti obbligati: il lavoratore. Il quale, come si è detto, finora è stato visto come soggetto creditore della sicurezza, piuttosto che obbligato a collaborare alla sicurezza.
Questa visione non partecipativa ha finora impedito che si formasse quella cultura della prevenzione tra i lavoratori senza la quale il fenomeno infortunistico è destinato a non ridursi.
L’art. 5 del decreto propone un quadro diverso ed esordisce sancendo un obbligo a carico dei lavoratori che, per quanto privo di sanzione, costituisce un vero e proprio principio generale interpretativo: “Ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute... conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.
La norma indica dunque i binari su cui corre il rapporto tra lavoratori e datori di lavoro in ordine alla sicurezza: da un lato dovere di partecipazione e di collaborazione, dall’altro diritto ad essere formati ed informati.
Se si opera il confronto con gli artt. 4 dei DPR 547 e 303, il mutamento di indirizzo appare ancor più evidente.
Dal testo che prevede gli obblighi del datore di lavoro scompaiono i due verbi “dispone ed esige” l’osservanza delle norme di sicurezza per lasciare il posto all’espressione “richiede l’osservanza”.
Tutto ciò è ampiamente giustificato dalla svolta profonda impressa alla figura del lavoratore. Se finora al datore di lavoro si è chiesto di garantire la sicurezza indipendentemente dalla collaborazione dei lavoratori e perfino contro la loro volontà; se finora gli si è chiesto di farsi carico anche delle prevedibili manovre scorrette, atipiche o negligenti e imprudenti dei lavoratori; ora invece gli si chiede di formare e informare compiutamente i lavoratori, oltre naturalmente ad apprestare le necessarie misure di sicurezza.
Una volta adempiuto a questi obblighi, il datore di lavoro non dovrà più autoritariamente imporre ed esigere il rispetto delle norme di tutela. Gli sarà sufficiente richiederne l’osservanza.
Dunque il Decreto 626 apre un’importante capitolo in materia di responsabilità dei lavoratori di cui finora non si trovano tracce consistenti nella giurisprudenza. Il lavoratore non potrà essere più soltanto il soggetto irresponsabile e meritevole di protezione, cui magari genericamente addossare un imprecisato “concorso di colpa”, ma sarà sempre più il soggetto consapevole di partecipare alla costruzione e al mantenimento di un sistema di sicurezza che in qualche parte è legato anche alla sua diligenza e capacità.

9. Questi sommari accenni al tema della responsabilità emergenti dall’esame dei decreti legislativi che recepiscono le norme comunitarie sono assai lontani dall’essere patrimonio comune dei giudici e dei pubblici ministeri.
Basta scorrere una raccolta di giurisprudenza di merito (sempre che si abbia l’animo di arrivare fino in fondo) per rendersi conto che vigono ancora vecchi canoni interpretativi, alcuni dei quali certo sono preziose guide in ogni processo penale, mentre altri sono legati a una concezione della prevenzione e degli obblighi che gravano sui soggetti interessati che forse trovava la sua giustificazione nella logica dei D.P.R. degli anni 50, ma che non può avere più corso alla luce della filosofia delle norme comunitarie.
La conclusione è che in materia di responsabilità dei soggetti coinvolti nella sicurezza dei luoghi di lavoro c’è un gran lavoro da fare non solo per i giudici. Ci sono gli organi di vigilanza, i medici competenti, il servizio di prevenzione e protezione, i dirigenti, i preposti e gli altri soggetti cui le leggi attribuiscono l’onere dell’attuazione delle norme di sicurezza che dovranno ritagliare per sé gli spazi che le norme attribuiscono alla loro cura, nella consapevolezza che il “sistema” vive della consapevole interazione delle condotte di tutti i soggetti interessati. Basta una falla o una carenza perché l’intero sistema salti.

Beniamino Deidda