Cassazione Civile,  Sez. Lav., 19 luglio 2012, n. 12507 - Infortunio di un anestesista inciampato nel cavo di un'apparecchiatura






 

Fatto





Con sentenza n. 163/2003 il Giudice del lavoro del Tribunale di Como respingeva il ricorso proposto dal dott. A.L. nei confronti dell’ I. s.p.a. diretto alla condanna della convenuta al risarcimento del danno conseguente ad infortunio sul lavoro.

Con ricorso dell'8-6-2004 il L. proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con l'accoglimento della domanda.

La società appellata si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d'Appello di Milano, con sentenza depositata il 17-3-2006, confermava la pronuncia di primo grado.

In sintesi, premesso che il dott. L. "mentre si trovava nella sala operatoria dell'ospedale e svolgeva le sue funzioni di anestesista, inciampava nel cavo di un'apparecchiatura" ("la cui posizione avviene a cura dell'anestesista ed è obbligata dalla posizione della struttura"), la Corte territoriale rilevava che nessun addebito poteva muoversi all'ospedale, giacché il cavo che aveva causato la caduta del L. "era proprio quello sotto il di lui controllo, da lui, o comunque secondo le sue direttive, posizionato".

Per la cassazione di tale sentenza il dott. L. ha proposto ricorso con tre motivi,

L’ l. s.p.a. ha resistito con controricorso.

Il L. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.



Diritto




Con il primo motivo il ricorrente, denunciando "violazione dell'art. 360 nn. 3-5-c.p.c. in relazione agli arlt. 2697, 1 ° co. C.c. e 244 c.p.c,", lamenta che i giudici del merito "hanno posto a base della loro decisione l'obbligatorietà del cavo e del suo percorso, così come dedotta dal procuratore della convenuta e dai testi indicati dalla stessa", così facendo propri "tesi e giudizi dei testimoni, che tutt'al più potevano essere oggetto di una consulenza tecnica d'ufficio".

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando "violazione dell'art. 360 nn. 3-5 in relazione agli artt. 4-5 del d.p.r. n. 547 del 1955", considerato che egli "non era un preposto e neppure era tecnicamente capace rispetto alla prevenzione degli infortuni", rileva che non incombeva su di lui la decisione circa il posizionamento del cavo.

Con il terzo motivo, denunciando "violazione dell'art. 360 n. 3-5 in relazione all'art. 103 c.p.c.", premesso che la causa dell'infortunio è consistita appunto nell'errato posizionamento del cavo, e non nella "collocazione dell'atropina (in posizione non viciniore rispetto alla paziente)", il ricorrente sostiene che la responsabilità dell'infortunio ricade sul datore di lavoro.

Osserva il Collegio che i detti motivi, connessi tra loro, in realtà si limitano a censurare la valutazione di fatto espressa dalla Corte di merito circa la mancanza di qualsiasi addebito in capo all'ospedale in considerazione della circostanza che il cavo che ha causato la caduta del L. "era proprio quello sotto il di lui controllo, da lui, o comunque sotto le sue direttive, posizionato" nonché di tutti gli elementi emersi nel processo anche in relazione ai "movimenti dell'anestesista nell'esecuzione delle operazioni di sua competenza".

In effetti il ricorrente (senza censurare i presupposti e i termini in diritto del giudizio della Corte di merito e senza, in specie, neppure rapportare in qualche modo lo stesso giudizio ai principi più volte affermati da questa Corte in materia - v. da ultimo Cass. 23-4-2009 n. 9689, Cass. 10-9-2009 n. 19494, Cass. 28-10-2009 n. 22818. Cass. 25-2-2011 n. 4656), in sostanza ripropone semplicemente la propria valutazione in fatto delle risultanze processuali, sollecitando dinanzi a questa Corte un inammissibile riesame del merito.

AI riguardo va qui ribadito l'indirizzo consolidato in base al quale "la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata" (v. Cass. 9-4-2001 n, 5231, Cass, 15-4-2004 n. 7201, Cass. 7-8-2003 n. 11933, Cass. 5-10-2006 n. 21412). Del resto, come è stato anche più volte affermato, "il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 n. 5 c.p.c., non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa"' (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).

In tali sensi va quindi respinto il ricorso e il ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese in favore della controricorrente.



P.Q.M.





Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare alla controricorrente le spese liquidate in euro 40,00 per esborsi e euro 3.000.00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.