Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 11 settembre 2012, n. 34759 - Scoppio della camera d'aria di una ruota e lesioni gravissime: divieto di ingresso agli estranei e tutela dei terzi



Responsabilità del legale rappresentante di una srl e di un dipendente addetto al montaggio di pneumatici per infortunio occorso ad un lavoratore. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, l'infortunato, espressamente autorizzato ad accedere nei locali dell'officina della srl, nonostante l'espresso divieto di accesso agli estranei, durante le operazioni di trasporto dei pneumatici smontati dalla sua autobetoniera, era rimasto coinvolto nello scoppio della camera di una delle ruote riportando gravissime lesioni al viso. A seguito dello scoppio fuoriuscivano infatti repentinamente degli anelli metallici che lo colpivano alla parte sinistra del volto provocando gravissime lesioni. Dagli accertamenti svolti emergeva che l'esplosione era stata determinata dalla mancata tenuta di uno degli anelli metallici notevolmente usurato e montato in modo difettoso.

Gli addebiti erano stati formalizzati valorizzando le rispettive posizioni di garanzia degli imputati: al legale rappresentante della srl, si contestava di avere omesso la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza e di non avere adottato misure di protezione collettiva ed individuale, al lavoratore dipendente addetto al montaggio dei pneumatici, veniva addebitato di avere montato in maniera scorretta uno dei pneumatici, causandone il relativo scoppio; ad entrambi si contestava di avere consentito l'accesso in officina all'infortunato.

Condannati in primo e secondo grado, ricorrono in Cassazione - Inammissibili.

Individuati i ruoli ricoperti dagli imputati, mai contestati, i giudici di merito hanno correttamente ritenuto che entrambi fossero venuti meno di fatto al dovere di vietare l'ingresso di estranei ai locali dell'officina, pur essendo lo stesso inibito da apposito cartello, e ciascuno, fosse rimasto inadempiente ai propri doveri.


La Corte afferma che al di là delle censure concernenti la ricostruzione fattuale dell'episodio, improponibili, è da rilevare assorbentemente che, in materia di normativa antinfortunistica, l'obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro è di così ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi equiparato (cfr. Decreto del Presidente della Repubblica n. 547 del 1955, articolo 3, comma 2) o, anche, di persona estranea all'ambito imprenditoriale, purchè sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza (v. Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, articolo 4 e segg.; Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626; articolo 2087 c.c.).

E' di decisivo rilievo, in particolare, il disposto dell'articolo 2087 c.c., in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 c.p., comma 2. Infatti, secondo assunto pacifico e condivisibile, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi.


L'addebito a carico del lavoratore è stato invece fondato sull'inadempimento agli obblighi comportamentali in quanto anch'egli destinatario iure proprio della normativa antinfortunistica, (cfr., in particolare, Decreto del Presidente della Repubblica n. 547 del 1955, articolo 6, ora
Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 20). Di rilievo, in particolare, nel caso di interesse è l'obbligo imposto al lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni (articolo 20, comma 1).






REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZECCA Gaetanino - Presidente

Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere

Dott. D'ISA Claudio - Consigliere

Dott. IZZO Fausto - Consigliere

Dott. PICCIALLI Patrizia - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

1) (Omissis) N. IL (Omissis);

2) (Omissis) N. IL (Omissis);

avverso la sentenza n. 1742/2009 CORTE APPELLO di LECCE, del 09/07/2010;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/05/2012 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Mazzotta Gabriele, che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi;

udito, per la parte civile, Avv. (Omissis), del foro di Andria, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

 

Fatto



(Omissis) e (Omissis) ricorrono avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, li ha riconosciuti colpevoli del reato di lesioni personali colpose gravissime aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica (articolo 590 c.p., commi 1, 2 e 3) in danno di (Omissis).

Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, il (Omissis), mentre era intento a trasportare i pneumatici Pirelli, che prelevava all'interno dell'officina della (Omissis) srl - in cui era stato autorizzato ad entrare nonostante il divieto agli estranei, al fine di vedere eseguito il montaggio sulle ruote di un'autobetoniera a cura del personale della stessa ditta di quattro pneumatici completi di camera d'aria e flap nuovi forniti dallo stesso (Omissis) - rimaneva coinvolto nello scoppio della camera d'aria di una delle ruote a seguito del quale fuoriuscivano repentinamente degli anelli metallici che lo colpivano alla parte sinistra del volto provocando le gravissime lesioni descritte nel capo d'imputazione. Dagli accertamenti svolti emergeva che l'esplosione era stata determinata dalla mancata tenuta di uno degli anelli metallici notevolmente usurato e montato in modo difettoso.

Gli addebiti erano stati formalizzati valorizzando le rispettive posizioni di garanzia degli imputati: al (Omissis), nella qualità di legale rappresentante della (Omissis), si contestava di avere omesso la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza e di non avere adottato misure di protezione collettiva ed individuale, al (Omissis), nella qualità di lavoratore dipendente addetto al montaggio dei pneumatici, veniva addebitato di avere montato in maniera scorretta uno dei pneumatici, causandone il relativo scoppio; ad entrambi si contestava di avere consentito l'accesso in officina al (Omissis).

Con il ricorso si articolano tre profili di censura.

Con il primo motivo si lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva costituita dall'espletamento di una perizia tecnica volta a ricostruire l'accaduto con particolare riferimento alla posizione della parte offesa al momento dello scoppio, riproponendo anche in questa sede la tesi che lo stesso aveva avuto un ruolo decisivo nello scoppio del pneumatico, che sarebbe avvenuto mentre egli lo stava gonfiando, accovacciato sulla ruota, come sarebbe dimostrato dal rinvenimento del manometro nelle immediate vicinanze.

Si reitera anche in questa sede l'inutilizzabilità della consulenza tecnica svolta dal PM ex articolo 359 c.p.p., in assenza di contraddittorio, e l'erroneità delle conclusioni cui la stessa era pervenuta laddove aveva affermato che lo scoppio del pneumatico era stato causato dall'anello, senza tener conto che in tal caso lo scoppio si sarebbe verificato durante il gonfiaggio e non a lavorazione ormai conclusa. Si sostiene che lo scoppio era stato determinato dalla mancata tenuta della camera d'aria, fatto non addebitabile agli imputati, atteso che la stessa era stata fornita insieme ai pneumatici e a tutti gli accessori dalla stessa parte offesa.

Con il secondo motivo si lamenta la contraddittorietà ed illogicità della sentenza, sul rilievo che al (Omissis) era stato addebitato di non avere adottato misure di protezione collettiva ed individuale, mentre al (Omissis) era stato contestato di non avere osservato le disposizioni e le istruzioni a tal fine impartite dal datore di lavoro sicchè se tale era stata l'effettiva condotta del (Omissis) conseguentemente non poteva sussistere la condotta ascritta al (Omissis) e viceversa.

Si sostiene che i giudici di merito non avevano considerato gli elementi favorevoli agli imputati, che deponevano per la vigenza del divieto di accesso all'officina per gli estranei e per la sussistenza del difetto nella camera d'aria. Si rappresenta che la sentenza presentava una lacuna motivazionale rappresentata dalla mancata indicazione del comportamento alternativo lecito da parte degli imputati.

Con il terzo motivo si lamenta l'erronea applicazione della normativa antinfortunistica sostenendosi che l'infortunato si era introdotto di soppiatto nell'officina approfittando dell'assenza temporanea del (Omissis) e che lo stesso del tutto imprevedibilmente si era adoperato per aumentare la pressione del pneumatico causando lo scoppio dello stesso, ponendo così un essere un comportamento del tutto imprevedibile ed abnorme.

Diritto



I ricorsi sono manifestamente infondati.

La sentenza impugnata è corretta nell'applicazione dei principi di diritto, non presenta vuoti motivazionali nè è caratterizzata dalle asserite illogicità.

In proposito, giova preliminarmente evidenziare che la Corte di appello ha tenuto conto degli elementi acquisiti e ha affermato che la dinamica dell'infortunio dovesse essere ricostruita nei termini indicati dal giudice di primo grado.

Trattasi di ricostruzione qui incensurabile, in ordine alla quale deve procedersi a verificare la correttezza della decisione.

è rimasto incontrovertibilmente accertato il fatto che il giorno (Omissis) il (Omissis), espressamente autorizzato ad accedere nei locali dell'officina della (Omissis), nonostante l'espresso divieto di accesso agli estranei, durante le operazioni di trasporto dei pneumatici smontati dalla sua autobetoniera, era rimasto coinvolto nello scoppio della camera di una delle ruote riportando gravissime lesioni al viso.

è rimasto altresì incontrovertibilmente accertato, anche tramite la consulenza disposta dal PM ex articolo 359 c.p.p., che lo scoppio era stato determinato da un errore evitabile nel montaggio del pneumatico commesso dal (Omissis) utilizzando un componente (l'anello di tenuta) visibilmente non idoneo e comunque non funzionante.

In particolare, i giudici di merito hanno affermato, in punto di responsabilità, che non era condivisibile la tesi difensiva secondo la quale l'evento era stato determinato da un comportamento assolutamente anomalo ed imprevedibile della parte offesa, che si sarebbe introdotta di soppiatto nell'officina approfittando dell'assenza temporanea del (Omissis), adoperandosi del tutto imprevedibilmente per aumentare la pressione del pneumatico e determinando così lo scoppio dello stesso.

La causa dell'evento lesivo è stata attentamente e logicamente ricostruita dai giudici di merito, attraverso un accertamento tecnico mirato affidato ad un professionista, il quale ha poi fornito in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, tutti gli opportuni chiarimenti.

All'esito di tale accertamento è emerso che l'anello di tenuta della ruota esplosa era in pessime condizioni, notevolmente ossidato e con la parte - che si va ad incastrare tra cerchione ed anello di sezione- notevolmente ridotta.

L'ipotesi alternativa prospettata dalla tesi difensiva è rimasta, invece, sfornita di adeguato supporto probatorio ed è stata contrastata da argomentazioni logiche e coerenti con il materiale probatorio.

Ciò vale con particolare riferimento all'uso del manometro da parte del (Omissis), fondato dal difensore sul rinvenimento dell'apparecchiatura nei pressi del posto dove si trovava la vittima al momento dello scoppio. Sul punto i giudici di merito, avvalendosi oltre che della consulenza tecnica, anche delle foto in atti, hanno escluso il fondamento di tale tesi, sottolineando che detto manometro non era collegato al compressore e quindi non poteva essere utilizzato dal (Omissis) per gonfiare il pneumatico esploso. Ed è stato altresì sottolineato, così smentendo ulteriormente la tesi difensiva, che il rilievo fotografico n. 11 consentiva di escludere che detto cavo fosse rimasto tranciato. La decisione è, pertanto, in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo la quale in tema di ricostruzione del rapporto di causalità, a fronte di una spiegazione causale del tutto logica, siccome scaturente e dedotta dalle risultanze di causa correttamente evidenziate e spiegabilmente ritenute, la prospettazione di una spiegazione causale alternativa e diversa, capace di inficiare o caducare quella conclusione, non può essere affidata solo ad una indicazione "meramente possibilista" (cioè, come accadimento possibile dell'universo fenomenico), ma deve connotarsi di elementi di concreta probabilità, di specifica possibilità, essendo necessario, cioè, che quel l'accadimento alternativo, ancorchè pur sempre prospettabile come possibile, divenga anche, nel caso concreto, hic et nunc, concretamente probabile, alla stregua, appunto, delle acquisizioni processuali (v. efficacemente Sezione 4, 19 giugno 2006, n. 30057, Talevi).

Ciò premesso, anche la censura sulla mancata assunzione di una perizia finalizzata alla ricostruzione dell'evento è manifestamente infondata, risolvendosi in una censura di merito afferente la valutazione operata dal giudice di merito delle risultanze della consulenza tecnica svolta dal PM, che sfugge al sindacato di legittimità, in quanto la motivazione in proposito fornita dalla Corte di appello, anche con riferimento al rigetto della richiesta di rinnovazione della perizia, appare logica e congruamente articolata.

Va in proposito ricordato, innanzitutto, che per assunto pacifico, la rinnovazione dell'istruzione nel giudizio di appello ha natura di istituto eccezionale rispetto all'abbandono del principio di oralità nel secondo grado, ove vige la presunzione che l'indagine probatoria abbia raggiunto la sua completezza nel dibattimento già svoltosi in primo grado, onde la rinnovazione ex articolo 603 c.p.p., comma 1, è subordinata alla condizione che il giudice ritenga, secondo la sua valutazione discrezionale, di non essere in grado di decidere allo stato degli atti.

Tale condizione, legittimante (rectius, imponente) la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, si verifica quando i dati probatori già acquisiti siano incerti nonchè quando l'incombente richiesto rivesta carattere di decisività ovvero sia di per sè oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sezione 4, 22 novembre 2007, Proc. gen. App. Genova ed altri in proc. Orlando ed altri).

Qui, il giudicante ha fornito adeguata giustificazione del mancato esercizio del potere di rinnovazione, non apprezzandosi quella situazione di incertezza ai fini del decidere che, sola, lo avrebbe consentito (anzi, addirittura imposto).

Non è, pertanto, configurabile nella fattispecie il vizio denunciato dal ricorrente sotto il profilo della mancata assunzione di una prova decisiva ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d).

Il vizio prospettato, va ancora soggiunto, è da escludere anche per un'altra considerazione.

La perizia, infatti, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di "prova decisiva": con la conseguenza che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d), e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), (cfr., ex piuribus, Sezione 4, 4 ottobre 2007, Romele).

Individuati i ruoli ricoperti dagli imputati, mai contestati, i giudici di merito hanno, poi, correttamente ritenuto che entrambi fossero venuti meno di fatto al dovere di vietare l'ingresso di estranei ai locali dell'officina, pur essendo lo stesso inibito da apposito cartello, e ciascuno, fosse rimasto inadempiente ai propri doveri. L'addebito a carico del (Omissis), nella qualità di legale rappresentante della ditta (Omissis), è stato correttamente ancorato alla omessa predisposizione di reale ed idonea cautela per evitare che soggetti diversi dagli addetti ai lavori potessero entrare in quei locali, non potendo certo essere considerato il divieto di accesso apposto sulla parete esterna dell'officina un valido mezzo di dissuasione, nonchè all'omesso esercizio di un reale ed effettivo controllo sul rispetto di quel divieto.

La Corte territoriale ha fatto, in proposito, corretta applicazione delle regole disciplinanti la materia.

Infatti, al di là delle censure concernenti la ricostruzione fattuale dell'episodio, qui, come detto, improponibili è da rilevare assorbentemente che, in materia di normativa antinfortunistica, l'obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro è di così ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi equiparato (cfr. Decreto del Presidente della Repubblica n. 547 del 1955, articolo 3, comma 2) o, anche, di persona estranea all'ambito imprenditoriale, purchè sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza (v. Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, articolo 4 e segg.; Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626; articolo 2087 c.c.).

è di decisivo rilievo, in particolare, il disposto dell'articolo 2087 c.c., in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 c.p., comma 2.

Infatti, secondo assunto pacifico e condivisibile, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi. Le disposizioni prevenzionali, infatti, sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa.

Da ciò conseguendo che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perchè possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli articoli 40 e 41 c.p.: in tale evenienza, quindi, dovrà ravvisarsi l'aggravante di cui all'articolo 589 c.p., comma 2, e articolo 590 c.p., comma 3, nonchè il requisito della perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex articolo 590 c.p., u.c., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purchè la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'Infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purchè, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (Sezione 4, 6 novembre 2009, Morelli).

L'addebito a carico del (Omissis) è stato invece fondato sull'inadempimento agli obblighi comportamentali del lavoratore in quanto anch'egli destinatario iure proprio della normativa antinfortunistica, (cfr., in particolare, Decreto del Presidente della Repubblica n. 547 del 1955, articolo 6, ora Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 20). Di rilievo, in particolare, nel caso di interesse è l'obbligo imposto al lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni (articolo 20, comma 1).

Con riferimento alla procedibilità delle lesioni e alla contestazione della violazione della normativa antinfortunistica, è già stato sopra ricordato il principio secondo il quale le norme antinfortunistiche sono dettate anche a tutela dei terzi.

Tale principio applicato nel caso di specie conforta dell'esattezza della decisione, dovendosi solo precisare che le conclusioni non possono mutare valorizzando la circostanza che l'infortunato aveva posto in essere un comportamento asseritamente anomalo ed imprevedibile.

Nella vicenda esaminata, la ricostruzione operata dal giudice di merito depone per la non riconducibilità dell'evento lesivo alla condotta colpevole della parte offesa, rimasta, come sopra evidenziata solo un'ipotesi alternativa prospettata dalla tesi difensiva, logicamente correttamente esclusa dai giudici di merito.

Alla inammissibilità dei ricorsi, riconducibile a colpa dei ricorrenti (Corte Cost., sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna dei ricorrenti medesimi al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, di una somma, che congruamente si determina in euro mille, in favore della cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili per questo giudizio.

 

P.Q.M.



Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile per questo giudizio di cassazione, liquidate in euro 2.500,00, oltre accessori come per legge.