Tribunale di Milano, Sez. Lav., 14 marzo 2012 - Malattia professionale da demansionamento e mobbing


 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MILANO

SEZIONE LAVORO

 

In composizione monocratica e in funzione di Giudice del Lavoro, in persona della dott.ssa Chiara Colosimo, ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nella controversia di primo grado promossa

da

PA.Gi.

con l'avv. Po., elettivamente domiciliato presso lo Studio del difensore in Milano, via (...)

ricorrente

contro

ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI

con l'avv. Bi., elettivamente domiciliato presso gli Uffici dell'Ente in Milano, corso (...)

resistente

 

Oggetto: malattia professionale da demansionamento e mobbing.

 

 

Fatto

 

 

con ricorso depositato il 22 novembre 2011, Gi.PA. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Milano - Sezione Lavoro - l'ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, rappresentando di aver denunciato a INAIL, in data 23/7/2009, l'accertato stress lavorativo per demansionamento e variazione dell'attività svolta alle dipendenze della ditta, e precisando che l'anamnesi patologica prossima era stata descritta come sindrome ansioso-depressiva reattiva inquadrabile come sindrome da disadattamento cronico postumo a mobbing lavorativo.

 

Riferiva che l'Ente Assicurativo, con provvedimento del 15/4/2010, aveva respinto la domanda di indennizzo precisando che dagli accertamenti svolti era risultato che il rischio lavorativo cui l'istante era stato sottoposto non era idoneo a provocare la malattia denunciata.

 

Dolendosi dell'erroneità delle conclusioni cui era pervenuto il convenuto, Gi.Pa. chiedeva al Tribunale di:

accertare e dichiarare l'origine lavorativa della malattia denunciata a INAIL; accertare e dichiarare il danno biologico conseguito alla malattia nella misura di almeno il 12%;

per l'effetto, condannare il convenuto a corrispondergli l'indennizzo di cui all'art. 13 D.Lgs. 38/2000.

 

Il tutto con rivalutazione e interessi e, in ogni caso, con vittoria di spese, diritti e onorari da distrarsi in favore del procuratore che si dichiarava antistatario.

 

Si costituiva ritualmente in giudizio l'ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, eccependo l'infondatezza in fatto e in diritto delle domande di cui al ricorso e chiedendo il rigetto delle avversarie pretese.

 

Con vittoria di spese, diritti e onorari.

 

Esperito inutilmente il tentativo di conciliazione e ritenuta la causa matura per la decisione senza necessità di istruzione probatoria, all'udienza del 13 marzo 2012, il Giudice invitava le parti alla discussione all'esito della quale decideva come da dispositivo pubblicamente letto, riservando il deposito della motivazione a 5 giorni, ai sensi dell'art. 429 c.p.c. così come modificato dalla legge 133/2008.

 

 

Diritto

 

Il ricorso non può essere accolto.

 

Preliminarmente, si osserva che priva di pregio risulta essere l'eccezione di inammissibilità del ricorso per indeterminatezza delle ragioni poste a fondamento delle domande proposte in quanto, dal corpo dell'atto, risultano desumibili tutti gli elementi di fatto e diritto necessari alla delimitazione del petitum e della relativa causa petendi.

 

Ciò posto, l'odierno ricorrente agisce al fine di ottenere l'accertamento del diritto a percepire l'indennizzo previsto dall'art. 13 D.Lgs. 38/2000, per la malattia professionale che afferma essergli derivata in conseguenza dello stress scaturito dall'esser stato destinatario del comportamento demansionante e lobbizzante del datore di lavoro.

 

Sotto un profilo di ordine prettamente generale, giova rammentare il contenuto e la portata inderogabile dell'art. 2103 c.c., nella parte in cui prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, o comunque a mansioni equivalenti alle ultime che egli abbia effettivamente svolto, senza alcuna diminuzione della retribuzione.

 

Trattasi di una speciale norma di protezione del lavoratore, destinata a preservarlo dai "danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramento all'interno o all'esterno dell'azienda" (Corte Costituzionale, 6 aprile 2004, n. 113).

 

Quale norma di protezione, l'art. 2103 c.c. limita l'esercizio dello jus variandi del datore di lavoro nell'alveo di una reciprocità dei rapporti che vede il lavoratore operare in una posizione di tendenziale soggezione, direttamente collegata alla natura subordinata del rapporto in questione.

 

Parimenti opportuno evidenziare come, pur in assenza di una definizione legislativa, il concetto di mobbing sia stato puntualmente circoscritto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, con pronunce cui questo Giudice ritiene senz'altro di aderire.

 

In particolare, la Suprema Corte ha affermato l'esigenza di accertare la sussistenza di una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall'art. 2087 cod. civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto da questa t norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. "La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguente dannose deve essere verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'adone nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche nome di tutela del lavoratore subordinato" (Cass. Civ., Sez. Lav., 6 marzo 2006, n. 4774).

 

Recentemente, la Corte ha anche precisato che "per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (Cass. Civ., Sez. Lav., 17 febbraio 2009, n. 3785).

 

E caratteristica propria del mobbing, dunque, la sussistenza di un disegno persecutorio nei confronti del dipendente, realizzato per mezzo di comportamenti vessatori o, comunque, lesivi dell'integrità fisica e della personalità del prestatore di lavoro, protratti per un periodo di tempo apprezzabile e finalizzati all'emarginazione del lavoratore.

 

Poste queste necessarie premesse di ordine generale, nel merito, deve rammentarsi come fosse esclusivo onere della parte ricorrente fornire elementi atti a provare la sussistenza di quei presupposti che, soli, avrebbero consentito di accogliere la domanda.

 

Rivendicando, infatti, il diritto al trattamento di cui all'art. 13 D.Lgs. 38/2000, A Gi.Pa. avrebbe dovuto provare, non soltanto la sussistenza di una malattia in senso proprio, ma altresì l'origine lavorativa nello specifico denunciata, ossia dimostrare di aver patito un grave stress lavorativo - origine della denunciata patologia - per l'esser stato destinatario di una condotta demansionante e mobbizzante del datore di lavoro (vedi, al riguardo, anche la relazione medico-legale allegata al ricorso).

 

Tale onere non è stato soddisfatto.

 

La relazione medico-legale versata in atti, se costituisce senz'altro principio di prova in ordine all'esistenza di una malattia e rappresenta, conseguentemente, presupposto utile all'eventuale approfondimento istruttorio a mezzo di consulenza tecnica, non può invece in alcun modo assurgere a prova circa l'origine della malattia atteso che - con tutta evidenza - si fonda su quanto dallo stesso lavoratore riferito allo specialista e, più in particolare, sulla percezione che l'interessato ha avuto della propria vicenda lavorativa.

 

Proprio per questa ragione era necessario che la parte ricorrente introducesse in giudizio - e, poi, chiedesse di provare - elementi di fatto, circostanze relative alla condizione lavorativa, atti a dimostrare la fondatezza della propria pretesa.

 

Tuttavia, nel ricorso introduttivo del giudizio, Gi.Pa. si è limitato a una descrizione oltremodo generica dell'esperienza di lavoro, con conseguente inammissibilità dell'approfondimento istruttorio.

 

Dopo aver riferito di aver lavorato dal 1982 alle dipendenze di Ca, (già Eu.) presso il centro commerciale (...) quale addetto al Settore Suono-Audio del Reparto Cancelleria, parte ricorrente ha precisato di essersi occupato di individuare prodotti da inserire a catalogo, di contrattare sconti con i fornitori, di determinare i quantitativi di prodotto da acquistare, di curare l'allestimento delle campagne promozionali, di formare e dirigere i lavoratori stagionali e, conseguentemente, di operare generalmente in ufficio piuttosto che in reparto.

 

In sostanza, fino al 2006, ha dedotto di non aver mai riempito i bancali del reparto e di non aver mai servito i clienti.

 

La situazione sarebbe mutata nell'agosto 2006, a seguito della sostituzione del vecchio capo-reparto, poiché a decorrere da tale momento sarebbe stato addetto a esclusivamente al Settore Cancelleria con compiti di rifornimento dei bancali, ripristino delle merci invendute, movimentazione merci, dettatura dei prodotti e pulitura della riserva di prodotti. Nel contempo, gli sarebbe anche stato vietato di contattare i fornitori e di accedere agli uffici.

 

Il mutamento di mansioni, secondo l'assunto attoreo, avrebbe comportato il passaggio da mansioni di concetto a mansioni d'ordine.

 

E' questa una valutazione che in alcun modo, così prospettata, avrebbe potuto essere demandata a testi.

 

Invero, parte ricorrente avrebbe dovuto approfondire la descrizione delle mansioni svolte sino al 2006 con quelle informazioni prettamente qualitative (livello di autonomia, responsabilità, discrezionalità) che, sole, avrebbero consentito di accertare quale fosse l'effettivo contenuto professionale delle stesse.

 

Peraltro, Gi.Pa. ha anche trascurato di svolgere qualsivoglia considerazione in ordine alla riconducibilità delle suddette mansioni alla qualifica lui attribuita e alla relativa declaratoria e, a monte, di delineare gli elementi caratterizzanti la qualifica posseduta e di confrontarli con le mansioni svolte prima e dopo l'agosto 2006.

 

Quanto al dedotto mobbing Gi.Pa. ha del tutto genericamente affermato di essere stato "frequentemente... senza ragione rimproverato in pubblico dal Capo Reparto, sig. Grossi, il quale arrivò persino a scrivere cartelli visibili a tutti, nei quali sottolineava, senza ragione alcuna, che il Pa. non era capace di svolgere adeguatamente ed in tempi accettabili i compiti affidatigli" (cap. 13, ricorso), che "il Pa. era altresì escluso dal lavoro straordinario, che, di contro, spesso veniva assegnato ad altri dipendenti del Settori" (cap. 14, ricorso), e che "quasi continuativamente... veniva tenuto "sotto pressione" felloni e/o dal Grossi che stavano sempre nelle sue vicinante e continuativamente, con ogni inimmaginabile pretesto, gli facevano fretta e denigravano il suo lavoro, anche - come si diceva - in presenta dei colleghi del pubblico" (cap. 16, ricorso).

 

L'inemendabile genericità delle suddette deduzioni emerge, in primo luogo, dall'assoluta carenza di indicazioni spazio-temporali, oltre che dalla totale mancanza dei nominativi dei colleghi che avrebbero assistito agli episodi così descritti.

 

Manca, inoltre, la descrizione delle modalità concrete della denigrazione e delle espressioni di scherno che gli sarebbero state a suo tempo rivolte: trattasi di carenze che, oltre a rendere inammissibile l'accertamento istruttorio sul punto, impediscono altresì un'effettiva valutazione della situazione lavorativa.

 

Da ultimo, assolutamente indeterminata risulta essere la questione dello straordinario atteso che non vi è indicazione alcuna del lavoro straordinario precedentemente svolto e di quello in concreto affidato ai colleghi del medesimo settore.

 

Da quanto sin qui osservato emerge l'impossibilità di procedere all'accertamento di quali fossero in concreto le condizioni lavorative e, conseguentemente, all'accertamento del presupposto utile alla qualificazione in termini di malattia professionale della patologia sofferta dall'odierno ricorrente: sussistenza di una situazione atta a generare quello stress lavorativo causalmente riconducibile all'insorgere della patologia denunciata all'Ente convenuto.

 

Per tutti questi motivi, il ricorso non può essere accolto.

 

La peculiarità della questione e la qualità delle parti giustifica l'integrale compensazione delle spese di lite.

 

Stante la complessità della controversia, visto l'art. 429 c.p.c., si riserva la motivazione a 5 giorni.

 

P.Q.M.

 

 

Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando,

 

rigetta il ricorso.

 

Compensa integralmente le spese di lite tra le parti. Riserva a 5 giorni il deposito della motivazione.