Tribunale di Bologna, 16 luglio 2012 - Grave  infortunio ad un occhio e mancanza di adeguata protezione dell'attrezzatura di lavoro


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI BOLOGNA
IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA

Il Giudice dott. Michele Leoni
all' udienza dibattimentale del 2-7-2012
Con l'intervento del P.M. Dott. ssa. S. B(...)
e
con l'assistenza del cancelliere N(...) R(...)
ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo
la seguente
SENTENZA

 


Nei confronti dì:
1) G.M. - n. a C. (T.) il (...), res. a C. via B.I.; elett. dom. c/o avv. Davide De Vido di Treviso; Lib. Contumace
2) F.A. - n. a S.G.P. (B.) il (...); elett. dom. c/o avv. Giuseppe Coliva di Bologna; Lib. Contumace
3) B.F. - n. a C. (K.) il (...), res. in S.G.P. (B.) via 2 A. 1980 n. 34 ed ivi elett. dom.; Libero Contumace
4) D.C.A. - n. a C.P. (S.) il (...), res. in S.G.P. (B.) via P. 4; elett. dom. c/o il proprio studio via Astengo n.11;
Libero Contumace
IMPUTATI
Del delitto p. e p. dall' art. 590 co. 2 e 3 c.p., per avere cagionato per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro di seguito indicate, lesioni personali gravi, consistite in 'trauma con penetrazione di corpo estraneo nell'occhio sinistro con successiva cecità dell' occhio sinistro, incapacità ad attendere alle proprie ordinarie occupazioni per 129 giorni e indebolimento permanente dell' organo della vista', a M.A..

In cooperazione colposa tra loro, ciascuno con violazione dei doveri inerenti alla propria qualità, non impedivano che la leva di comando della valvola del silo contenente malta premiscelata per intonacatura al quale M. lavorava, fosse priva di pomello o maniglia, cosicchè a causa della forma acuminata che veniva ad avere, a causa di un urto occasionale con il viso dell' infortunato, penetrava nel suo occhio.
Ciascuno violando le norme che impongono di evitare il rischio derivante dagli impatti contro le parti salienti delle attrezzature.
In particolare, G. in violazione dell' art. 35 co 2 D.Lgs. n. 626 del 1994 non attuava le misure necessarie per ridurre al minimo i rischi relativi all'uso delle attrezzature; F., in violazione dell' art. 35 co 4 D.Lgs. n. 626 del 1994 non effettuava la corretta manutenzione di una attrezzatura generale di cantiere, D.C., in violazione dell' art. 5 co 1, lett. A) del D.Lgs. n. 494 del 1996 non verificava le disposizioni riguardanti i datori di lavoro e i lavoratori contenute nel piano di sicurezza in riferimento alla regolarità delle macchine; B. in violazione dell' art. 35 co 4, lett C) del D.Lgs. n. 626 del 1994 non effettuava la corretta manutenzione di una attrezzatura di cantiere nella propria disponibilità.
Fatto commesso in San Giovanni in Persicelo presso cantiere F. comparto C 3.2 'Cavamento' di via Aldo Moro il 5-7-2005 alle ore 10,15 circa.

In esito all'odierna udienza, sentiti:

 

FattoDiritto


Tratti a giudizio per i reati di di in epigrafe, gli odierni imputati sono rimasti contumaci in dibattimento, ove sono state assunte prove testimoniali e sono stati acquisiti documenti. La persona offesa M.A. si è costituita parte civile, ma, non essendosi presentata all'udienza di discussione, ai sensi degli artt. 82 c. e 523 c.p.p., ha così revocato la costituzione. Le parti hanno concluso come da verbale d'udienza.


Gli imputati sono colpevoli del reato di lesioni, mentre le contravvenzioni sono prescritte.
Centrali, nella valutazione delle prove assunte in questo processo, sono anzitutto le testimonianze di Fr.A., che all'epoca operava al servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro dell'AUSL di Bologna, sede territoriale di San Giorgio di Piano, e che effettuò il sopralluogo nel cantiere ove avvenne l'incidente per cui qui si procede, e della persona offesa M.A..
Fr.A., ha riferito che effettuò il sopralluogo a seguito di querela presentata nel novembre 2005, quando l'assetto dei luoghi era mutato e le costruzioni erano ormai finite, per cui l'indagine volta a ricostruire la dinamica del sinistro fu condotta principalmente sulle foto allegate alla querela. Attraverso visure camerali e informazioni assunte, furono identificati nel G. il datore di lavoro del M. e in F.A. il responsabile del cantiere in quanto proprietario dell'immobile ove si svolgevano i lavori, nonché committente e titolare dell'impresa capofila, quella che appaltava tutti i lavori nel cantiere. In particolare, risultò che la G. Sistemi aveva avuto in appalto dalla F. Costruzioni srl di F.A. il getto del massetto. D.C. era invece il coordinatore della sicurezza in fase di progettazione del cantiere e di esecuzione dei lavori. Il silos in cui avvenne l'infortunio era stato ceduto in comodato dalla ditta Weber-Saint Gobain alla ditta F. Atos 2, la quale lo dette in carico alla ditta B. di B.R., la quale di fatto era quella che costruiva la palazzina su cui M. il giorno dell'incidente doveva immettere il materiale per il massetto. Peraltro, il materiale che usava il M. non era quello contenuto nel silos.

Per quanto concerne la dinamica dell'infortunio, il Fr. ha detto che il M. era autista e posatore. Insieme ad un'altra persona, raggiunse il cantiere con il suo camion cisterna, dove vi era il materiale per il massetto, una sorta di malta cementizia che doveva essere riversata dal veicolo sui pavimenti della palazzina in lavorazione attraverso un tubo flessibile piuttosto lungo. Dovendo recuperare il tubo, assai pesante e quindi rimovibile con difficoltà, che a un certo punto era finito sotto i sostegni del silos, il M. si incuneò all'interno del perimetro delimitato da tali sostegni e in tale frangente una leva che era alla base del silos, posta in posizione orizzontale a circa un metro e venti di altezza in prossimità dell'imboccatura, gli si conficcò in un occhio. In particolare, la leva presentava un'estremità scoperta e filettata che non era protetta da un pomello, come invece avrebbe dovuto essere.
Il Fr. ha precisato che la manovra del M., di infilarsi all'interno del perimetro posto a base del silos, era necessitata in quanto egli doveva recuperare il tubo, e non era adibita né vietata, in quanto non vi era alcun rischio incombente nel passare sotto un carico pendente (il silos era una costruzione ben tenuta). Quando egli si girò per riportarsi poi all'esterno, mentre era ancora accovacciato, ruotando il busto in quello spazio assai limitato, il suo volto collise con la leva. Se questa avesse avuto il pomello, ha sottolineato il teste, le conseguenze non sarebbero state così gravi. Peraltro, ha precisato ulteriormente il teste, era assai difficoltoso percepire una situazione di rischio come quella che determinò l'infortunio, nonostante la leva fosse ben visibile. Gli spazi sotto il silos infatti erano assai limitati.
A domanda, il teste ha anche puntualizzato che non esisteva alcun divieto, formalizzato in piani di sicurezza e coordinamento, di passare sotto un silos, né in essi vi era alcun accenno allo stato della leva in questione, trattandosi di un dettaglio troppo particolareggiato. Anche per questo Fr. ha quindi puntualizzato che si è trattato di un infortunio molto anomalo (p. 20 trascr. ud. 7.6.2011). Peraltro, non fu possibile accertare quando il pomello fosse venuto meno, trattandosi di una carenza apparentemente marginale, un elemento di dettaglio (pp. 22, 23 trascr. ud. 7.6.2011). Per questo, a suo avviso, ha anche detto, nessuno avrebbe sollevato contestazioni sulla mancanza di un pomello (p. 23 trascr. ud. 7.6.2011).
Ancora a domanda, Fr. ha pure detto che per il M. sarebbe stato assai problematico spostare il camion al fine di recuperare il tubo, in quanto il mezzo era troppo pesante e vi era il rischio che, se lo si fosse parcheggiato troppo vicino, il silos si ribaltasse.
La persona offesa M.A. ha riferito che all'epoca dei fatti lavorava per la ditta G. Sistemi come autista di camion e che anche prima aveva sempre fatto l'autista. In particolare lavorava nel cantiere della ditta F. Costruzioni, dove la G. doveva preparare una miscela a base di cemento e polistirolo che fungeva da isolante da mettere sotto i pavimenti di una palazzina in costruzione. Il lavoro che egli svolgeva al momento del fatto doveva essere eseguito da due persone, lui e un artigiano. Quest'ultimo posava il materiale che lui preparava sul camion. Entrambi avevano ricevuto via fax dalla ditta G. l'ordine di recarsi nel cantiere della ditta F. per effettuare quel lavoro.
Nel cantiere non v'era il capocantiere che doveva fungere da referente, e che doveva essere F.A., né c'era il responsabile della sicurezza nel cantiere, il quale avrebbe dovuto dare il proprio assenso al loro ingresso nel cantiere essere presente al loro arrivo, dare indicazioni e controllare i dispositivi di sicurezza.
M. ha detto che, poiché il camion pesava cinquanta quintali, egli doveva innanzitutto stabilire un percorso di sicurezza in entrata, per evitare che il camion si ribaltasse (a causa, ad esempio, di una bolla d'aria sotto la superficie del cantiere). Per cui si posizionò fra il silos e la costruzione (dalla quale il silos distava quattro metri) con il camion, a circa dieci metri dal silos, dovendo tenersi a una distanza di sicurezza. Cominciò a preparare il materiale sul camion, che era una grossa betoniera ove si mescolavano il cemento e il polistirolo, che poi doveva immettere nei vari appartamenti in costruzione attraverso un tubo. L'artigiano che era con lui, con un telecomando, regolava l'apertura e la chiusura del tubo a seconda della necessità. A un centro punto il tubo, che era allungabile fino a trenta metri, in misura adeguata alle esigenze, a causa dello svuotamento e quindi dell'assenza di pressione, si arricciò sotto il silos. Egli quindi si trovò a doverlo tirar fuori, per cui si chinò, si introdusse sotto il perimetro della struttura base del silos e tirò il tubo. Purtroppo una leva di sicurezza, che era priva di un prescritto pomo, gli si conficcò nell'occhio. Se vi fosse stato il pomo, ha detto il M., egli avrebbe ricevuto solo una botta in viso, ma non vi sarebbe stata la lacerazione dell'occhio. Se non avesse recuperato il tubo, non avrebbe potuto continuare a lavorare. Si trattava di una leva di protezione del silos, la quale aveva una filettatura su cui andava inserito il pomo, che serviva anche per un miglior presa della leva. Inoltre il silos era privo di qualsiasi protezione esterna, la quale, se vi fosse stata, avrebbe impedito al tubo di andare a finire là sotto.
Il M. ha detto anche che tale L., quale responsabile della sicurezza nel cantiere, avrebbe dovuto effettuare un sopralluogo in loco prima di autorizzare all'ingresso del camion nel cantiere e presenziare al loro arrivo, così avrebbe potuto rilevare il difetto che vi era nel silos. Normalmente, tutte le volte che era con l'artigiano in altri cantieri, il sopralluogo sul posto dove dovevano lavorare era sempre stato fatto. Il silos, inoltre, era stato costruito dalla ditta Weber Saint Gobain a soli quattro metri dalla palazzina dove lavoravano e non, come di norma, a venti metri di distanza (questo anche per evitare che, in caso di pendenze o cedimenti del terreno, il silos, ribaltandosi, causi danni ove si lavora e su chi lavora). Se fosse stato a tale distanza, il tubo non sarebbe andato a finire sotto il silos.
Egli fu soccorso immediatamente dall'artigiano che era con lui, il quale lo portò subito all'Ospedale Maggiore. Ora egli, dall'occhio colpito, vede solo un chiarore bianco e nient'altro. L'11 settembre 2009 fu licenziato dal G. in quanto non più abile al lavoro poiché gli era stata revocata la patente C per i camion. Attualmente è disoccupato e non riesce più a trovare lavoro, anche a causa della sua età, cinquantadue anni. Ha quattro figli e sua moglie è pure disoccupata. Gli è stato versato un acconto sul risarcimento. Percepisce una pensione di 412,00 Euro al mese dall'INAIL.
B.R., fratello di B.F., ha dichiarato che la ditta B., di cui era socio doveva fare gli intonaci in dieci appartamenti e per questo acquistò il premiscelato dalla ditta F. Atos 2 ditta diversa dalla F. Costruzioni. Egli in particolare dette ordine di piazzare il silos da lui preso in carico a seguito di comodato fra la ditta Weber Saint Gobain e la ditta F. Atos 2 nel punto dove si trovava, dopo aver ricevuto indicazioni in tal senso dal capocantiere (che non ha ricordato chi fosse). Non ha ricordato se verificò lo stato di efficienza e manutenzione del silos né se sulla leva vi fosse il pomello. In ogni caso, "non fece controllo per vedere se c'erano dei guasti" (p 34 trascr.). Nessuno gli dette istruzioni in tal senso, egli si limitò a prendere in carico il silos. Non era presente al momento dell'infortunio occorso al M.. Non ha riconosciuto come propria la firma in calce al documento di presa in carico del silos da parte di B.R., intervenuto fra la Weber Saint Gobain e la F. Atos 2.
N.M., teste irreperibile del quale sono state acquisite le dichiarazioni rilasciate durante le indagini, operaio che lavorava nello stesso cantiere, a suo tempo dichiarò che il M. spostò il tubo e anziché girare attorno al silos, lo attraversò passandovi sotto. Egli lo vide quando già il fatto era successo, inginocchiato mentre si teneva la testa fra le mani, e lo portò immediatamente al pronto soccorso dell'ospedale di San Giovanni in Persiceto. Il silos veniva utilizzato solo dalla ditta F. Costruzioni. La leva del silos, lunga circa 40, 50 centimetri, era posta a un altezza di circa un metro da terra ed era priva del pomello di protezione che invece avrebbe dovuto troavrsi alla sua estremità.

Dall'istruttoria svolta, risulta quindi, in sintesi, che l'infortunio si verificò per ragioni concorrenti: a causa di un difetto del silos, la mancanza del pomello all'estremità della leva posta sotto di esso, ed anche per disattenzione del M., che, quando si introdusse sotto il silos, non fece caso a tale carenza. Il M., peraltro, pose in essere tale condotta nell'ambito delle mansioni che gli erano state affidate cercando di recuperare un tubo che accidentalmente era finito sotto il silos, e che gli era necessario per continuare il suo lavoro. Il suo comportamento, quindi, non fu imprevedibile né abnorme, ma ben connesso e finalizzato all'espletamento dell'incarico ricevuto.


Occorre quindi richiamare la superiore giurisprudenza sul punto, in primis Cass. 26.1.2011, n. 2565 la quale in motivazione recita: "Il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme (Sez. 4, Sentenza n. 40164 del 03/06/2004 Ud. - dep. 13/10/2004 - Rv. 229564, imp. Giustiniani)" ed altresì: "deve definirsi imprudente il comportamento del lavoratore che sia stato posto in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - oppure rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (in tal senso, 'ex plurimi', Sez. 4, Sentenza n. 25532 del 23/05/2007 Ud. - dep. 04/07/2007 -Rv 236991).

Giova altresì precisare che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte le norme sulla prevenzione degli infortuni hanno la funzione primaria di evitare che si verifichino eventi lesivi della incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, 'anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuale disaccortezza, imprudenza e disattenzione degli operai subordinati ' (in termini, Sez. 4,14 dicembre 1984, n. 11043)".
Ulteriormente, ha affermato Cass. 19.11.2009, n. 44591: "La costante giurisprudenza di questa Corte ha tenuto ben fermo che per chiunque gestisce imprese, opifici, cantieri, oltre alla obbligazione di garanzia relativa ai lavoratori dipendenti dell'imprenditore o comunque presenti nei luoghi di lavoro per causa di lavoro, si aggiunge una ulteriore obbligazione di garanzia verso chiunque acceda a quegli impianti, obbligazione correlata agli obblighi specifici di sicurezza che cautelano le attività organizzate ma anche agli obblighi generali di non esporre alcuno a rischi generici o ambientali derivati dalla attività del soggetto gravato per legge, per contratto o per assunzione di fatto dalla obbligazione di garanzia".
Ancora, secondo Cass. 8.2.2008, n. 6280, come è dato leggere in motivazione: "Ciò che rileva, comunque, assorbentemente, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro, è che tra i compiti di prevenzione del datore di lavoro vi è anche quello di dotare il lavoratore di strumenti e macchinari del tutto sicuri (v., ex pluribus, Sez. 4, 10 novembre 2005, Minesso).
In altri termini, il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non sarebbe sufficiente, per mandare esente da responsabilità il datore di lavoro che non abbia assolto appieno il suddetto obbligo cautelare, neppure che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico, se il processo tecnologico sia cresciuto in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura (per riferimenti, Sez. 4, 26 aprile 2000, Mantero ed altri).
Trattasi di affermazioni pienamente condivisibili, che poggiano sul disposto dell'art. 2087 c.c. secondo cui l'imprenditore, al di là di ogni formalismo, è comunque tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa quelle misure che, sostanzialmente ed in concreto, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
Si è in presenza, infatti, di una disposizione, utilmente qui richiamabile, che costituisce 'norma di chiusura' rispetto alle disposizioni della legislazione antinfortunistica, comportando a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e di protezione dell'incolumità dei propri lavoratori e della stessa incolumità pubblica: obblighi che rendono esigibile, da parte del datore di lavoro, il dovere di impedire, mediante adeguato controllo e la predisposizione di ogni strumento a ciò necessario, che il bene o l'attività, sorgente di pericoli e rientrante nella sfera della sua signoria, possa provocare danni a chiunque ne venga a contatto, anche occasionalmente (v. Sez. 4, 13 giugno 2000, Forti; Sez. 4, 12 gennaio 2005, Cuccù, secondo cui il datore di lavoro deve attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, appunto, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2).
... Questo, del resto, in linea con la pacifica affermazione secondo cui è configurabile la responsabilità del datore di lavoro il quale introduce nell'azienda e mette a disposizione del lavoratore una macchina - che per vizi di costruzione possa essere fonte di danno per le persone -senza avere appositamente accertato che il costruttore, e l'eventuale diverso venditore, abbia sottoposto la stessa macchina a tutti i controlli rilevanti per accertarne la resistenza e l'idoneità all'uso, non valendo ad escludere la propria responsabilità la mera dichiarazione di avere fatto affidamento sull'osservanza da parte del costruttore delle regole della migliore tecnica (v. sul punto, Sez. 4, 3 luglio 2002, Del Bianco Barbacucchia).
... la costante giurisprudenza di questa Corte (v., tra le altre, Sez. 4, 10 febbraio 2005, Kapelj), secondo la quale in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro (e questo vale anche per chi, delegato formalmente o di fatto, da questi con compiti di direzione e controllo) è articolato, comprendendo, tra l'altro, l'istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinati lavori, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, ed anche il controllo continuo, congruo ed effettivo, nel sorvegliare e quindi accertare che quelle misure vengano, in concreto, osservate, non pretermesse per contraria prassi disapplicativa, e, in tale contesto, che vengano concretamente utilizzati gli strumenti adeguati, in termini di sicurezza, al lavoro da svolgere, controllando anche le modalità concrete del processo di lavorazione.
Il datore di lavoro, quindi, non esaurisce il proprio compito nell'approntare i mezzi occorrenti all'attuazione delle misure di sicurezza e nel disporre che vengano usati, ma su di lui incombe anche l'obbligo di accertarsi che quelle misure vengano osservate e che quegli strumenti vengano utilizzati".
In tale occasione, la Corte ritenne quindi "ineccepibili le argomentazioni del giudicante il quale, pur preso atto dell' imprudenza del lavoratore, ne ha escluso la rilevanza per escludere la responsabilità degli imputati", in virtù "del principio, assolutamente non controverso, in forza del quale, poiché le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Peraltro, in ogni caso, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio dì siffatto comportamento (cfr., di recente, ex pluribus, Sez. 4, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri)".
Il riferimento all'art. 2087 c.c. si ritrova anche in Cass. 3.10.2007, n. 36112, ove la Corte ha richiamato un proprio precedente (n. 9812/94) in cui si è "affermato che 'Nei procedimenti per reati colposi, l'affermazione di responsabilità per un'ipotesi di colpa non menzionata nel capo di imputazione rientra pur sempre nella generica contestazione di colpa e, pertanto lasciando inalterato il fatto storico, non viola la regola dell'immutabilità dell'accusa, in quanto la contestazione generica di colpa, benché ulteriormente specificata, pone il prevenuto nelle condizioni di difendersi da qualunque addebito, con la conseguente possibilità di ravvisare in sentenza elementi di colpa non indicati nella contestazione'".
In tale occasione si è specificato che: "La Corte di Cassazione, nell'affermare il principio di cui in massima, ha tra l'altro rilevato che il riferimento alla colpa generica evidenziava come la contestazione avesse riguardato la condotta del prevenuto globalmente considerata, sicché il predetto era stato in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del decesso, di cui era stato chiamato a rispondere, che, secondo l'accusa, era da qualificare colposo, indipendentemente dalla specifica norma antinfortunistica che si assumeva violata); ed ancora, più di recente (n. 38818/05), che 'Nei procedimenti per reati colposi, quando nel capo d'imputazione siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa, la sostituzione o l'aggiunta di un profilo di colpa, sia pure specifico, rispetto ai profili originariamente contestati, non vale a realizzare una diversità o mutazione del fatto, con sostanziale ampliamento o modifica della contestazione. Difatti, il riferimento alla colpa generica evidenzia che la contestazione riguarda la condotta dell'imputato globalmente considerata in riferimento all'evento verificatosi, sicché questi è posto in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione di tale evento, di cui è chiamato a rispondere'", e si è altresì affermata: "la possibilità per il giudice del dibattimento, allorché nel capo d'imputazione siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa, di modificarne i profili, pur specifici, colà delineati, senza che ciò valga a determinare un'immutazione del fatto che renda necessario il ricorso a nuova contestazione."
Sul raggio di applicazione dell'art. 2087 c.c. quale norma idonea a fondare la responsabilità penale si è espressa anche Cass. 4.2.2010, n. 4917, secondo la quale: "Tale articolo da un lato contiene un principio generale, di cui la legislazione in materia di prevenzione e di assicurazione degli infortuni sul lavoro costituisce applicazione specifica, dall'altro ha valore integrativo rispetto a tale legislazione e costituisce norma di chiusura del sistema antinfortunistico. In altre parole, può dirsi che in tema di infortuni sul lavoro non occorre, per configurare la responsabilità del datore, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimento imposti all'imprenditore dall'art. 2087 c.c. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore (in proposito cfr. Sez. 4, n. 13377 del 28/09/1999 Ud. - dep. 24/11/1999-Rv. 215537)".
In tale occasione, anche a proposito della riconducibilità di una fattispecie all'art. 2087 c.c., la Corte ha ribadito che: "Le prescrizioni poste a tutela del lavoratore sono intese a garantire l'incolumità dello stesso anche nell'ipotesi in cui, per stanchezza, imprudenza, inosservanza di istruzioni, malore od altro, egli si sia venuto a trovare in situazione di particolare pericolo (in termini, Sez. 4, n. 114/86, ud. 6/5/1985, RV. 171538; in materia, si veda anche Sez. 4, n. 4784 del 13/02/1991, dep. 27/04/1991, Rv. 187538, secondo cui 'in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, le norme assolvono all'esigenza primaria di evitare eventi lesivi dell'incolumità fisica dei lavoratori anche in caso di rischi derivanti da distrazione o disaccortezza dei subordinati e la colpa dell'infortunato è configurabile solo quando la condotta del lavoratore sia del tutto anomala, esorbitante dal procedimento di lavoro cui egli è addetto oppure si traduca nell'inosservanza, da parte sua, di precise disposizioni antinfortunistiche o di ordini esecutivi'".
I riferimenti della giurisprudenza all'art. 2087 c.c., e tutto quanto sopra riportato, rendono quindi pienamente legittima l'imputazione di reato colposo nei confronti degli odierni imputati a prescindere dalla enunciazione delle specifiche norme antinfortunistiche violate e dalla piena riconducibilità dell'evento lesivo alla loro violazione, in quanto il fatto che dette origine a tale evento, la mancanza del pomello, è stato comunque compiutamente formalizzato nelle imputazioni. La stessa osservazione del teste Fr., secondo il quale si è trattato di un infortunio anomalo, è coerente con tale impostazione: anomalia intesa non come abnormità o assoluta imprevedibilità della condotta del dipendente (come già detto), ma come evento che, nella sterminata gamma delle evenienze possibili, non è riconducibile ad alcuna delle fattispecie tipizzate o tipizzabili attraverso una previsione codificata, ma che comunque va imputato a coloro che sono portatori di doveri in tema di sicurezza su lavoro, in via di principio generale.
Ciò vale a smentire le osservazioni svolte dalla difesa del B. in memoria del 1.12.2010 (in ordine alle quali, poi, andranno di seguito aggiunte altre considerazioni, più strettamente attinenti al ruolo da questi avuto nella vicenda, di subcomodatario del silos).
I principi sopra esposti si ritrovano puntualmente anche in un a pronuncia relativa proprio ad un infortunio avvenuto all'interno di un silos anche per colpa del lavoratore (Cass. 8.6.2010, n. 21817), in cui occorreva evitare che i dipendenti introducessero negli apparati attrezzi o addirittura penetrassero essi stessi al loro interno. In tale occasione la Corte ha osservato che: "Nessun divieto veniva chiaramente imposto e nessuna vigilanza specifica veniva esercitata per evitare che i lavoratori praticassero procedure pericolose. E' ben vero, si aggiunge, che altri lavoratori avevano vanamente cercato di dissuadere la vittima dall'entrare nel silos; ma una specifica direttiva del datore di lavoro avrebbe potuto aver ben altra efficacia. Oltre a ciò, ancor prima, il datore di lavoro avrebbe dovuto comunque inibire che si determinasse il contesto pericoloso nel quale è maturata la decisione del lavoratore di penetrare nel silos". Nella situazione che si era verificata, infatti: "non era per nulla imprevedibile che i dipendenti, per far fronte a tale necessità, in assenza di puntuali istruzioni, si ingegnassero, magari irrazionalmente, per smuovere il materiale in qualunque modo, magari accedendo pericolosamente alla parte interna dei silos".
Qui la Corte ha poi concluso che: "il comportamento del lavoratore, indubbiamente altamente imprudente, non interrompe il nesso causale", trattandosi "di condotta non estranea alla sfera lavorativa, sollecitata dalla necessità di agire per consentire lo svuotamento del silos". .Più in particolare, ad abundantiam: "L'accesso all'interno del silos, pur costituendo un comportamento indubbiamente imprudente, non era estraneo alla lavorazione in corso ed anzi era in qualche modo sollecitato, visto che non vi era in concreto altro modo di smuovere il materiale alimentare. Tale condotta, non essendo totalmente esorbitante ed imprevedibile nelle condizioni date, non dà luogo all'interruzione del nesso causale".


E' quindi del tutto comprovata, alla luce delle argomentazioni sviluppate dalla giurisprudenza, la responsabilità penale di G. (datore di lavoro), F. (committente e proprietario del cantiere) e D.C. (responsabile della sicurezza), in relazione alle rispettive qualifiche da essi rivestite. Per quanto concerne in particolare G., in relazione alle considerazioni fatte dal suo difensore con memoria prodotta all'udienza del 2.7.2012 (circa l'estraneità della ditta G. alla organizzazione del cantiere e più in generale a quanto concerneva il silos), va richiamata altra giurisprudenza, secondo la quale: "In tema di responsabilità per eventi lesivi correlati alla violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, deve ritenersi che l'art. 4 D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, richiamato dall'art. 2, comma primo, lett. f ter), e dall'art. 9, comma primo lett. c bis), D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494, nel catalogare gli obblighi del datore di lavoro, del dirigente e del preposto in relazione alla natura dell'attività dell'impresa, individui, per il caso di plurimi interventi in un solo cantiere di imprese affidatarie di lavori diversi (complementari o meno che essi siano), una posizione di garanzia che riguarda i rischi di tutti quanti abbiano causa lavorativa di accesso al cantiere, senza riguardo alla esistenza o meno di uno specifico rapporto tra l'infortunato ed il singolo titolare della suddetta posizione" (Cass. 18.4.2008, n. 16346), e, più di recente: "gli obblighi di osservanza delle norme antinfortunistiche, con specifico riferimento all'esecuzione di lavori in subappalto all'interno di un unico cantiere edile predisposto dall'appaltatore, gravano su tutti coloro che esercitano i lavori, 'quindi anche sul subappaltatore interessato all'esecuzione di un'opera parziale e specialistica, che ha l'onere di riscontrare ed accertare la sicurezza dei luoghi di lavoro, pur se la sua attività si svolga contestualmente ad altra, prestata da altri soggetti, e sebbene l'organizzazione del cantiere sia direttamente riconducibile all'appaltatore, che non cessa di essere titolare dei poteri direttivi generali' (Cass. pen. Sez. 4, n. 42477 del 16.7.2009, Rv. 245786)" (Cass. 7.3.2011, n. 8868).
Per quanto concerne D.C., incontestato il fatto che egli era il coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, come risulta per tabulas nel frontespizio del piano di sicurezza e coordinamento (produzioni del PM all'udienza del 2.12.2010, all. 1 a), è sufficiente citare la superiore giurisprudenza, per la quale: "In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per la progettazione, ai sensi dell'art. 4 D.Lgs. n. 494 del 1996, ha essenzialmente il compito di redigere il piano di sicurezza e coordinamento (PSC), che contiene l'individuazione, l'analisi e la valutazione dei rischi, e le conseguenti procedure, apprestamenti ed attrezzature per tutta la durata dei lavori; diversamente, il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, ai sensi dell'art. 5 D.Lgs. n. 494 del 1996, ha i compiti: (a) di verificare, con opportune azioni di coordinamento e di controllo, l'applicazione delle disposizioni del piano di sicurezza; (b) di verificare l'idoneità del piano operativo di sicurezza (POS), piano complementare di dettaglio del PSC, che deve essere redatto da ciascuna impresa presente nel cantiere; (c) di adeguare il piano di sicurezza in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, di vigilare sul rispetto del piano stesso e sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le singole lavorazioni. Trattasi di figure le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell'incolumità dei lavoratori" (Cass. 8.5.2008, n. 18472);
"In tema di prevenzione antinfortunistica al coordinatore per l'esecuzione dei lavori non è assegnato, dall'art. 5 del D.Lgs. n. 494 del 1996, esclusivamente il compito di organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell'incolumità dei lavoratori" (Cass. 4.7.2008, n. 27442);
"In materia di sicurezza sul lavoro, il coordinatore per l'esecuzione dei lavori è titolare di una autonoma posizione di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente individuati dall'art. 5 del D.Lgs. n. 494 del 1996, si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche" (Cass. 3.10.2008, n. 38002);

"Il coordinatore per l'esecuzione dei lavori ha non soltanto compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione dell'opera, ma deve anche vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza" (Cass. 7.8.2011, n. 32142).

Ovviamente, valgono anche per D.C. le considerazioni fatte sulla soggezione all'obbligo generico di garanzia che discende dall'art. 2087 c.c., a prescindere dal fatto che l'infortunio sia stato anomalo.


La posizione di B.F., invece, va ulteriormente valutata per lo specifico molo avuto dalla sua impresa nella vicenda.
B.R., fratello e socio dell'imputato, ha detto che, per conto della ditta B., egli portò e sistemò il silos nel cantiere, da lui preso in carico. Si trattava del silos già oggetto di comodato intervenuto fra la ditta Weber Saint Gobain e la ditta F. Atos 2. All'atto "della posa in opera non fece alcun controllo se c'erano dei guasti, né tantomeno verificò alcunché sulla leva.
La ditta B., e per essa dunque l'imputato B., aveva quindi il possesso del silos quale subcomodatario, e come tale lo dette in uso alla ditta F. nel cantiere.
E' noto che al subcontratto (o contratto derivato) "si applica in genere la stessa disciplina del contratto base, non diversamente da quanto avviene in tutti i subcontratti (subappalto, subcomodato, sublocazione), escluse quelle disposizioni che fanno eccezione alla regola e che concedono particolari benefici" (Cass. civ. 18.6.1975, n. 2429, di recente confermata con richiamo de plano da Trib. Potenza, 12.5.2011).
Più precisamente, in questa vicenda B. è stato subcomodatario e F. "utilizzatore finale", per usare la terminologia adottata da Cass. civ. 18.9.2008, n. 23853, in un caso di cessione di un impianto di distribuzione, in cui si è ravvisata ipotesi di collegamento di contratti.
Ne consegue che sul B. gravavano tutti i doveri posti dall'art. 1804 del codice civile, in particolare l'obbligo di custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia Posta questa premessa, occorre considerare se a suo carico sia ravvisabile un profilo di responsabilità penale.
Ebbene, la Suprema Corte (Cass. 3.10.2007, n. 36112) ha riconosciuto la responsabilità penale del concedente in comodato di un macchinario "sul presupposto che la legge (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 6, comma 2) vieta il noleggio e la concessione in uso di macchine non rispondenti alle disposizioni vigenti in materia di sicurezza". In tal caso, infatti, "il profilo di colpa rilevato a carico dell'imputato è stato individuato, a prescindere dalle regole contenute nel protocollo di sicurezza, nell'avere egli concesso in uso una macchina che era priva dei più moderni ritrovati tecnologici, idonei a garantire, anche nella fase di manutenzione, l'incolumità dell'operatore; ciò in violazione della citata disposizione di legge che vieta, tra l'altro, la cessione in uso o il noleggio di macchine che non rispondano alle norme vigenti in materia di sicurezza".
In altro caso, sempre la Suprema Corte (Cass. 25.1.2007, n. 2592) ha riconosciuto la responsabilità penale di un imputato che aveva fornito in comodato una macchina "senza essersi previamente accertato che fosse provvista di dispositivo di protezione volto a prevenire il contatto accidentale dell'operatore con la piastra posta sotto il piano di lavoro".


Da ultimo, con sentenza recentissima (22 maggio 2012, n. 19416) la Corte di Cassazione ha ribadito la responsabilità del noleggiatore e/o concedente in uso di macchinari non sicuri, chiarendo che essa viene meno solo nell'ipotesi di affitto di un'intera azienda ma non nel caso di noleggio di singoli attrezzi.
La norma di cui all'art. 6 comma 2 D.Lgs. n. 626 del 1994, peraltro, è del tutto attuale in quanto la medesima previsione di reato, in via di continuità normativa, è oggi contemplata negli stessi termini dagli artt. 57 e 23 D.Lgs. n. 81 del 2008.
Sulla omessa indicazione dell'art. 6 comma 2 D.Lgs. n. 626 del 1994 nelle imputazioni, rivivono le argomentazioni sopra svolte sull'attitudine intrinseca e residuale dell'art. 2087 c.c. a fondare la responsabilità penale a titolo di colpa generica.
Sulla corresponsabilità del B. vanno poi svolte ulteriori considerazioni in ordine alla sussistenza o meno del vizio al momento in cui il silos venne collocato nel cantiere. Il teste B.R. ha detto che, quando lo lasciò nel cantiere, non effettuò alcun controllo, né risulta che controlli siano stai effettuati prima e soprattutto in seguito da alcuno (altrimenti è lecito ritenere che la fonte di pericolo sarebbe stata eliminata). Si deve quindi presumere che, quanto meno all'atto dell'alloggiamento in loco, il silos fosse già privo del pomello in questione.
La responsabilità del B. va pertanto ritenuta anche con richiamo a Cass. 20.1.2010, n. 2494, secondo la quale: "a norma del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 7 la tutela antinfortunistica è anticipata al momento della costruzione, vendita, noleggio e concessione in uso delle macchine, parti di macchine o apparecchi in genere; per effetto di tale disposizione nella responsabilità per la mancata rispondenza dei prodotti alle normative sono coinvolti tutti gli operatori cui siano imputabili le indicate attività; ognuno di essi è cioè tenuto ad esercitare il necessario controllo di regolarità prima che esca dalla sfera della sua disponibilità giuridica e di fatto, col passaggio alla fase economica successiva", ed altresì "deve escludersi che la mancanza di controlli da parte dell'utilizzatore possa essere causa interruttiva del nesso di causalità. Vale al riguardo il principio fissato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza del 23.11.1990 n.1003, Tescaro rv. 186372) secondo cui: 'Qualora un infortunio sia dipeso dalla utilizzazione di macchine od impianti non conformi alle norme antinfortunistiche, la responsabilità dell'imprenditore che li ha messi in funzione senza ovviare alla non rispondenza alla normativa suddetta non fa venir meno la (...)responsabilità di chi ha costruito, installato, venduto o ceduto gli impianti o i macchinari stessi "'.
Ha qui aggiunto la Corte che: "La questione in sostanza attiene al rapporto di causalità, posto che occorre stabilire se deve o meno ravvisarsi questo rapporto tra la costruzione della macchina o la realizzazione dell'impianto e l'infortunio che in seguito alla messa in funzione sia derivato dall'inosservanza delle prescrizioni antinfortunistiche. I principi desumibili dagli artt. 40 e 41 c.p. portano agevolmente a dare al quesito una risposta affermativa. Infatti, una volta stabilito che un infortunio è dipeso da una carenza della macchina o dell'impianto addebitabile al costruttore non si vede come possa negarsi che sussista, a norma dell'art. 40 c.p., un rapporto di causalità tra la condotta del costruttore e l'evento. La messa in funzione della macchina o dell'impianto da parte dell'imprenditore senza ovviare alla carenza costituisce una causa sopravvenuta che non può rientrare tra quelle che per l'art. 41 c.p., comma 2, fanno venir meno il rapporto tra la precedente causa e l'evento. Quale che sia infatti la caratteristica d'assegnare alle 'cause sopravvenute ... da sole sufficienti a determinare l'evento', non c'è dubbio che anche seguendo una concezione non restrittiva non potrebbe comunque giungersi ad escludere il nesso di causalità in un caso in cui la prima condotta ha posto in essere una situazione di pericolo che secondo uno svolgimento normale ha poi determinato l'evento. Basta considerare che le macchine e gli impianti realizzati per un'impresa sono naturalmente destinati all'utilizzazione per convincersi che in questa non può ravvisarsi un accadimento interruttivo del nesso di causalità. Né rileva il fatto che anche l'imprenditore è tenuto all'osservanza delle norme antinfortunistiche e quindi dovrebbe astenersi dal far funzionare una macchina o un impianto non regolare perché l'art. 41 c.p., comma 3 stabilisce espressamente che 'le disposizioni precedenti - quelle cioè sull'interruzione del rapporto di causalità - si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui'. In altre parole anche l'eventuale fatto illecito dell'imprenditore non vale a far perdere rilevanza, sotto l'aspetto causale, al fatto illecito del costruttore della macchina o dell'impianto.
Deve quindi convenirsi con la giurisprudenza prevalente di questa corte che l'utilizzazione della macchina o dell'impianto non conforme alla normativa antinfortunistica da parte dell'imprenditore non fa venir meno il rapporto di causalità tra l'infortunio e la condotta di chi ha costruito, venduto o ceduto la macchina o realizzato l'impianto".


I principi e le osservazioni di cui sopra impongono quindi di disattendere anche le considerazioni svolte, sempre dalla difesa del B., con memoria prodotta all'udienza del 2.7.2012.
E' quindi chiara anche la responsabilità del B., subcomodatario concedente in uso il silos che ha originato l'infortunio.
In ordine alla pena, a tutti gli imputati vanno riconosciute le attenuanti generiche in virtù della mancanza e/o estrema modestia dei precedenti penali.
Si ritiene di irrogare comunque la pena detentiva stante l'enorme danno arrecato al M.. Anche se tecnicamente la lesione inferta va qualificata come grave e non gravissima (si veda Cass. 12.4.1994, n. 4130, secondo la quale: "In tema di lesioni personali, la perdita dell'uso (art. 583, secondo comma, n. 2 c.p.) per gli organi a costituenti plurimi o a funzione similare si verifica solo quando tutti gli elementi che li compongono siano perduti, mentre la perdita di una sola parte comporta effetti che variano dall'irrilevanza all'indebolimento permanente (art. 583, primo comma, n. 2 c.p.). Pertanto, la perdita di un occhio, risolvendosi nella perdita di un organo geminato (es. rene, testicolo), configura l'aggravante dell'indebolimento permanente e non quella della perdita dell'uso di organo"), è infatti innegabile che il pregiudizio subito dalla persona offesa sia assai elevato.
La concorrente disattenzione in cui è caduto il M. consente peraltro di individuare una pena detentiva base nel minimo edittale (mesi due di reclusione, secondo la previsione vigente all'epoca), diminuita a mesi uno e giorni dieci di reclusione per le generiche, con condanna al pagamento delle spese processuali.
La valenza deterrente riconducibile alla presente vicenda giudiziaria lascia presumere che gli imputati si asterranno dalla futura commissione di reati, e quindi, apparendo incongrua un'esperienza carceraria, se pure a fini rieducativi, è opportuna la sospensione condizionale della pena per tutti.

 

P.Q.M.

Il Giudice, visto l'art. 531 c.p.p., dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati per le contravvenzioni a loro ascritte in quanto estinte per prescrizione;
visto l'art. 533 c.p.p., dichiara G.M., F.A., B.F., D.C.A. colpevoli del reato di lesioni a loro ascritto e pertanto, riconosciute a tutti le attenuanti generiche, li condanna alla pena di mesi uno e giorni dieci di reclusione ciascuno, oltre al pagamento delle spese di processo;
dispone per tutti la sospensione condizionale della pena;
indica il termine di giorni novanta per il deposito della sentenza.