Cassazione Penale, Sez. 4, 18 dicembre 2012, n. 49214 - Infortunio mortale di un lavoratore non regolare e mancanza di protezione di un vano ascensore


 


Responsabilità del legale rappresentante di una società appaltatrice dei lavori di costruzione di un albergo per infortunio mortale di un lavoratore non regolare precipitato nel vano di uno dei due ascensori presenti nel cantiere.

Condannato in primo e secondo grado, ricorre in Cassazione - Inammissibile.

La Corte distrettuale condivideva il giudizio del primo giudice, secondo il quale la precipitazione era stata determinata dal mancato idoneo sbarramento delle aperture prospicienti il vuoto del vano ascensore.

La suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, afferma che la Corte di merito, con motivazione non manifestamente illogica, ha spiegato perchè ha ritenuto che la vittima stesse rendendo la propria opera per l'impresa in questione: ella aveva lavorato alle dipendenze dell'imputato sino a non molto tempo prima del tragico evento; ancora dopo il pensionamento egli era stato visto in cantiere, intento a svolgere lavori di pulizia e di manutenzione, nonchè utilizzare la pulsantiera della gru. Siffatte attività si erano protratte sino al giorno dell'infortunio atteso che alcuni testi avevano visto proprio quel giorno la vittima operare in cantiere.

Quanto alla sussistenza della trasgressione della regola cautelare, la Corte ha fatto puntuale e ripetuto riferimento all'obbligo di dotare le aperture prospicienti il vuoto di idonee protezioni. Anche il ricorrente conviene sul fatto che i presidi fissi erano stati rimossi per svolgere gli ultimi lavori; ciò però non implica, come vorrebbe l'esponente, che fosse autorizzata dalla legge la mancanza di misure di protezione. Da un canto ben potevano rimanere quelle fisse, da rimuovere ed apporre quotidianamente; oppure - e la Corte di Appello lo afferma esplicitamente - interdire l'accesso a chiunque non dovesse svolgere quei lavori sulle aperture e controllare che il divieto venisse rispettato.


 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARZANO Francesco - Presidente

Dott. CIAMPI Francesco Maria - Consigliere

Dott. ESPOSITO Lucia - Consigliere

Dott. DOVERE Salvatore - rel. Consigliere

Dott. MONTAGNI Andrea - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

1) (Omissis), N. IL (Omissis);

avverso la sentenza n. 6479/2010 della Corte di Appello di Milano, del 3/11/2011;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. SALVATORE DOVERE;

udite le conclusioni del P.G. Dott. Oscar Cedrangolo, che ha chiesto pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso.

Fatto



1.1. Il Tribunale di Como, sezione distaccata di Menaggio, condannava (Omissis) alla pena di anni uno mesi dieci di reclusione, previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, che disponeva liquidarsi separatamente, salva la quantificazione di una provvisionale di euro 30.000, perchè giudicava il medesimo responsabile del decesso di (Omissis), avvenuto per precipitazione nel vano di uno dei due ascensori presenti presso il cantiere per la costruzione di un albergo. Al (Omissis) veniva contestata una serie di violazioni alla normativa prevenzionistica, commesse in qualità di responsabile dei lavori e di responsabile della (Omissis) s.r.l.. Responsabilità del legale rappresentante di una società appaltatrice dei lavori di costruzione di un albergo per infortunio mortale di un lavoratore precipitato nel vano di uno dei due ascensori presenti nel cantiere.

1.2. La Corte di Appello di Milano confermava la sentenza di primo grado, modificando in parte la ricostruzione operata dal primo giudice. Precisava, infatti, che il (Omissis) era legale rappresentante della (Omissis) s.r.l., la quale non era proprietaria dell'albergo in costruzione bensì una delle società appaltatrici dei lavori. All'appellante che contestava la natura meramente congetturale della ricostruzione del Tribunale, secondo la quale il (Omissis) sarebbe precipitato da un piano alto stante l'assenza di protezione del vano ascensore, la Corte territoriale replicava che risultava accertata la caduta dall'alto della vittima, in ragione delle caratteristiche dell'evento, della posizione del cadavere, rinvenuto all'interno del vano ascensore al piano interrato, e ai risultati dell'autopsia, dell'esame del medico patologo, che aveva escluso la ricorrenza di patologie o alterazioni psico-fisiche della vittima idonee a costituire causa della morte e prima ancora della caduta. Ribadita quindi la causa ultima del decesso della vittima, la Corte distrettuale condivideva il giudizio del primo giudice, secondo il quale la precipitazione era stata determinata dal mancato idoneo sbarramento delle aperture prospicienti il vuoto del vano ascensore. Tanto emergeva sia dalle testimonianze già indicate dal primo giudice che da quelle del maresciallo dei carabinieri (Omissis) e del tecnico della Asl (Omissis), intervenuti in occasione dell'infortunio. Il fatto, esposto dall'imputato, che i lavori fossero in fase di ultimazione per la predisposizione ed il montaggio degli ascensori - e che pertanto fosse necessaria la rimozione dei presidi fissi prima sussistenti - era ritenuto dalla Corte distrettuale non decisivo nel senso auspicato dall'imputato, non essendo comunque consentita la sussistenza di vani non protetti stabilmente, a meno che non fosse stato inibito l'accesso al luogo in via generale ed assicurata, attraverso la presenza di responsabili, che nessuno violasse tale prescrizione facendo ingresso nell'area pericolosa.

1.3. Quanto alla doglianza avanzata dall'appellante circa il ritenuto rapporto di lavoro in nero con la vittima, il giudice di seconde cure evidenziava come la vittima avesse lavorato per il (Omissis) fino al pensionamento avvenuto a fine gennaio 2007, e che successivamente a tale data era stato visto spesso in cantiere. Secondo le emergenze processuali, continuava la Corte territoriale, tale presenza era dovuta allo svolgimento di attività saltuaria di pulizia e di manutenzione del cantiere, nonchè all'utilizzo della pulsantiera della gru. Lo stesso giorno dell'infortunio molti testi avevano visto il (Omissis) operare in cantiere ed anche la convivente della vittima aveva dichiarato di essere a conoscenza dell'esistenza di rapporti di lavoro non regolare con il (Omissis). La natura meramente di fatto del rapporto di lavoro non aveva riflessi sull'obbligo di adottare tutte le misure necessarie ai fini antinfortunistici; nè poteva essere sufficiente invocare il divieto di accesso in cantiere agli estranei, visto che l'ingresso della persona offesa nello stesso non era preclusa.

2. Con ricorso sottoscritto personalmente dall'imputato si chiede l'annullamento della sentenza della Corte di appello di Milano.

2.1. Con il primo motivo di ricorso si censura la omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata in ordine al fatto che la vittima stesse eseguendo lavori per conto della (Omissis) s.r.l., una delle imprese appaltatrici presenti in cantiere, della quale l'imputato era legale rappresentante, avendo avuto mandato dall' (Omissis) S.r.l., proprietaria dell'immobile, della quale era amministratore lo stesso (Omissis).

La compresenza in cantiere di una pluralità di imprese avrebbe dovuto indurre la Corte distrettuale a motivare le ragioni per le quali si è ritenuto che la vittima stesse rendendo la propria opera proprio per la impresa della quale l'imputato è il legale rappresentante. Ad avviso dell'esponente l'accertamento in ordine all'esistenza di una rapporto di lavoro con l'imputato è essenziale anche ai fini dell'individuazione della specifica mansione affidata alla vittima poichè, si esemplifica, se questa fosse stata addetta alla realizzazione di impianti elettrici l'attività di trasporto di materiale di pulizia l'altro sarebbe completamente esulante dal rapporto lavorativo, con conseguente interruzione del nesso causale.

2.2. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione, l'omessa e la falsa applicazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza della trasgressione a norme antinfortunistiche, nonchè la illogica valutazione della prova dibattimentale. Ad avviso dell'esponente la violazione delle norme antinfortunistiche si è affermata sulla base del fatto che si è verificato l'infortunio e non perchè tale relazione sia stata in concreto accertata. Le risultanze processuali hanno permesso di appurare che il cantiere aveva visto adottare idonei presidi atti ad impedire l'accesso nel medesimo agli estranei; inoltre i lavori erano in fase di ultimazione.

In particolare, il compendio testimoniale ha evidenziato che sin da principio le aperture sul vano ascensore erano state protette e quindi al più quelle protezioni erano tolte soltanto nei giorni immediatamente antecedenti la caduta della vittima; ed erano state rimosse perchè necessario allo svolgimento degli ultimi lavori (installazione dell'ascensore di destra). Le varie aperture del vano ascensore vennero comunque protette da bancali.

Esistevano quindi in loco dei presidi fissi e la temporanea rimozione degli stessi non può dare luogo a violazione della legge antinfortunistica essendo necessaria all'ultimazione dei lavori.

2.3. Il terzo motivo di ricorso censura la violazione, l'omessa o falsa applicazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza di un rapporto lavorativo di fatto. A fronte delle doglianze dell'appellante, la Corte di appello ha risolto il tema affermando che, ai fini della pronuncia di responsabilità, l'effettiva configurabilità del rapporto di lavoro subordinato non è rilevante in quanto anche una prestazione di fatto impone l'adozione di tutte le tutele antinfortunistiche. Si contesta, con riferimento ai dati testimoniali acquisiti al processo, che la vittima svolgesse un'attività di lavoro per la società che ha nell'imputato il proprio legale rappresentante.

2.4. Il quarto motivo di ricorso censura la violazione, l'omessa o falsa applicazione di legge in relazione agli articoli 538 e 539 cod. proc. pen., con riferimento alla condanna generica al risarcimento del danno patrimoniale e alla liquidazione della provvisionale a favore della costituita parte civile. La Corte di Appello avrebbe omesso ogni motivazione in ordine alla sussistenza anche solo astratta di un danno patrimoniale subito dalla parte civile. Quanto alla provvisionale concessa, l'esponente rileva che siccome la parte civile non ha dimostrato almeno in parte l'ammontare del danno patito, nulla sarebbe stato dovuto; in ogni caso la Corte non ha motivato in ordine al criterio quantitativo utilizzato essendosi limitata a fare riferimento generico al"le regole sulla quantificazione del danno".

Diritto



3. Il ricorso è manifestamente infondato e pertanto non è accoglibile.

3.1. A ben vedere, i motivi articolati dal ricorrente si traducono in censure in fatto alla ricostruzione operata dalle decisioni di merito, contrapponendo ad esse una lettura degli accadimenti alternativa, sulla scorta di testimonianze che, nella stessa enunciazione del ricorrente, sono state correttamente valutate dalla Corte di Appello. Inoltre talune censure costituiscono mera riproposizione dei motivi di appello, omettendo di prendere in esame, sia pure in chiave critica, la motivazione offerta dalla Corte di Appello. Altre, ancora, non sono consentite in sede di legittimità.

3.2. In relazione al fatto che la vittima stesse eseguendo lavori per conto della (Omissis) s.r.l., una delle imprese appaltatrici presenti in cantiere, della quale l'imputato era legale rappresentante, la circostanza della compresenza in cantiere di una pluralità di imprese è stata ritenuta insignificante rispetto ai dati testimoniali puntualmente ricordati in sentenza (cfr. pg. 9 e 10). La Corte, con motivazione non manifestamente illogica, ha spiegato perchè ha ritenuto che la vittima stesse rendendo la propria opera per l'impresa (Omissis); ella aveva lavorato alle dipendenze del (Omissis) sino a non molto tempo prima del tragico evento; ancora dopo il pensionamento egli era stato visto in cantiere, intento a svolgere lavori di pulizia e di manutenzione, nonchè utilizzare la pulsantiera della gru. Siffatte attività si erano protratte sino al giorno dell'infortunio atteso che alcuni testi avevano visto proprio quel giorno il (Omissis) operare in cantiere.

Essendo sul punto specifico immune da censure la motivazione della sentenza impugnata, si dimostra infondato anche il terzo motivo di ricorso, ancora una volta fondato sull'asserita assenza di un rapporto di lavoro tra la società del (Omissis) ed il (Omissis).

3.3. L'esatta identificazione delle mansioni svolte dalla vittima risulta nel caso di specie irrilevante. Invero, la Corte distrettuale ha fatto riferimento anche alle mansioni espletate dal (Omissis) (pulizia, manutenzione, comando della gru) e sul punto la critica del ricorrente è del tutto generica, non facendo neppure riferimento a elementi di prova che correttamente valutati avrebbero dovuto condurre ad un diverso approdo. In ogni caso, a differenza di quanto esposto nel ricorso, nel caso di specie non si tratta di una circostanza decisiva, perchè neppure il ricorrente ipotizza un comportamento abnorme.

3.4. Quanto alla sussistenza della trasgressione della regola cautelare, la Corte ha fatto puntuale e ripetuto riferimento all'obbligo di dotare le aperture prospicienti il vuoto di idonee protezioni. Anche il ricorrente conviene sul fatto che i presidi fissi erano stati rimossi per svolgere gli ultimi lavori; ciò però non implica, come vorrebbe l'esponente, che fosse autorizzata dalla legge la mancanza di misure di protezione. Da un canto ben potevano rimanere quelle fisse, da rimuovere ed apporre quotidianamente; oppure - e la Corte di Appello lo afferma esplicitamente - interdire l'accesso a chiunque non dovesse svolgere quei lavori sulle aperture e controllare che il divieto venisse rispettato.

3.5. Per ciò che concerne il quarto motivo, è opportuno ricordare che, secondo il costante insegnamento di questa Corte, il giudice penale, nel pronunziare condanna generica al risarcimento dei danni, non è tenuto a distinguere i danni materiali da quelli morali, nè deve espletare alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, potendo limitare il suo accertamento alla potenziale capacità lesiva del fatto dannoso ed alla esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato (Cass. sez. 5, sent. n. 191 del 19/10/2000, Mattioli F. P. ed altri, Rv. 218077). Pertanto, ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della P.C., non è necessario che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia infatti costituisce una mera "declaratoria juris" da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (Cass. Sez. 6, sent. n. 12199 del 11/03/2005 Molisso, Rv. 231044).

3.6. Con riguardo, poi, alla censura relativa alla statuizione avente ad oggetto la concessa provvisionale, essa è inammissibile. Come è stato più volte affermato, "il provvedimento che liquida somme a titolo di provvisionale alla parte civile non è ricorribile per cassazione, perchè non è suscettibile di passaggio in giudicato e destinato a rimanere assorbito nella pronuncia definitiva sul risarcimento che, sola, può essere oggetto di impugnazione con ricorso per cassazione" (Cass. Sez. 2, sent. n. 36536 del 20/06/2003, Lucarelli e altri, Rv. 226454).

Peraltro, la Corte distrettuale ha esplicitato di ritenere conforme alle regole sulla quantificazione del danno patrimoniale e morale la provvisionale liquidata dal primo giudice. Trattandosi di decisione confermativa, essa si integra con quella di primo grado, sicchè l'onere motivazionale risulta complessivamente adempiuto. La censura mossa dal ricorrente si appalesa meramente assertiva ed aspecifica, giacchè non indica gli elementi di fatto e di diritto sui quali si fonda e nemmeno indicare dove la Corte di merito avrebbe errato.

4. Segue, a norma dell'articolo 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma di euro 1000,00 (mille/00) a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.



dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende.