Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Corte appello di Ancona, Sez. Lav., 16 ottobre 2012, n. 979 - Infortunio di una aiuto cuoca e prassi pericolosissima e assurda di trasporto di recipienti di acqua bollente




LA CORTE DI APPELLO DI ANCONA
SEZIONE LAVORO

Composta dai magistrati:
Dott. JACOVACCI Stefano - Presidente
Dott. CETRO Eugenio - Consigliere -
Dott. MAZZAGRECO Pierfilippo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza

in controversia in materia di lavoro, n. 248 del ruolo generale dell'anno 2009, su appello proposto il dì 15.4.2009 dalla parte appellante:
Azienda Sanitaria Unica Regionale Marche, con l'avv. Domenico Capriotti;
contro la parte appellata M.O., con l'avv. Luisella Lorenzi, e nei confronti di spa Assitaiia, non costituita nel grado;
respinge l'appello, e condanna l'appellante a rimborsare alla appellata le spese legali del grado, che liquida in Euro 3.000,00 complessivamente, con distrazione.

 

FattoDiritto

 

L'appellante ASUR impugna la sentenza che l'ha condannata a risarcire il danno subito dall'appellata dipendente per infortunio sul lavoro.
Resiste l'appellata, mentre rimane contumace l'assicurazione chiamata in causa in garanzia, e assolta, e avverso la quale, d'altronde, nessun motivo di appello è stato proposto.
L'appello è infondato, e deve pertanto essere respinto.
Infatti la controversia si incentra sul punto decisivo dell'addebito del sinistro a responsabilità del datore di lavoro, ovvero a colpa della dipendente, profili complementari e che debbono pertanto essere oggetto di una unica e complessiva valutazione, sia per quanto attiene alla causalità, sia. per quanto concerne la responsabilità.
E si deve innanzitutto avere riguardo alla configurabilità di un concorso di colpa della vittima.
Fatti e circostanze del sinistro sono sostanzialmente appurate, e non controversi.
La dipendente, con mansioni di aiuto cuoca, era intenta al lavoro di lavaggio di stoviglie, ed a tal fine al trasporto di recipienti di acqua bollente; ha perso l'equilibrio ed è caduta in un recipiente, provocandosi gravi ustioni.
E può ritenersi che l'operazione di trasporto di acqua bollente in recipienti inidonei, quali pentoloni aperti, trascinati sul pavimento della cucina, costituiva violazione smaccata di un comportamento operativo razionale e corretto, oltre che di un criterio di "prudenza".
Peraltro occorre osservare che è proprio per ovviare alla eventuale "imprudenza" dei lavoratori che il datore di lavoro è tenuto, a norma dell'art. 2087 cc., a predisporre tutte le opportune e possibili cautele onde evitare rischi e prevenire infortuni, e che, nel caso in questione, l'appellante non ha provato, e neppure dedotto, di avere assolto tale obbligo, e neppure che il comportamento altrui sia stato talmente incongruo, ed imprevedibile, da costituire causa autonoma dell'infortunio, suscettibile di interrompere il nesso di causalità tra la condotta emissiva del datore, in punto prevenzione, e l'infortunio verificatosi.
E quindi dell'inadempimento risponde, appunto come datore di lavoro, per l'intero danno.
Diversamente opinando si vanificherebbe il sistema della prevenzione degli infortuni, che ha lo scopo di tutelare i lavoratori anche ed in particolare nei confronti dei rischi che incombono su attività di per sè obiettivamente ed inevitabilmente pericolose, sistema che non può rimettersi, per la sicurezza delle condizioni di lavoro, alla concorrente prudenza e cautela del lavoratore, ritenendosi invece necessario che siano adottate e rispettate precauzioni che evitino comunque danni, sempre possibili se rimane una autonoma e rilevante pericolosità, inevitabilmente concorrente con il fattore negativo costituito dalla assuefazione, dalla possibile stanchezza o distrazione, ed infine, e significativamente, dalla elevata probabilità in ipotesi di attività ripetitive e durature, per un semplice, e di per sè inevitabile, rapporto matematico afferente a grandi numeri.
La giurisprudenza è consolidata in tal senso; tra le molte vedi Cass. 19494/2009.
Nel caso in questione, inoltre, non è. contestato che il comportamento della dipendente infortunata rientrava in una prassi inveterata.
E che la dipendente, per la sua posizione subordinata (appunto, di aiuto cuoca) non aveva mansioni, e potere di iniziativa e controllo, che le consentissero di derogare a una pratica evidentemente accettata, ed esercitata da altri dipendenti con maggiori poteri, e quindi responsabilità.
Che poi in sede penale un dipendente con mansioni superiori, originariamente rinviato a giudizio come responsabile, sia stato assolto, non essendo stata ritenuta una sua personale, specifica responsabilità, non dimostra certamente che nessuno fosse responsabile della pericolosissima e assurda prassi, bensì che essa fosse talmente inveterata da rendere difficile la individuazione del soggetto responsabile, sussistendo addirittura una responsabilità diffusa tra molteplici soggetti, e comunque risalente, in definitiva, all'ente datore di lavoro, anche, e appunto, per la insufficienza di organizzazione e controllo, tale da rendere difficoltosa persino la individuazione di specifici responsabili.
Inoltre e comunque lo svolgimento di attività lavorativa pericolosa, per l'impiego di acqua bollente, e la naturale propensione per la rapida esecuzione delle incombenze, rendevano pericolosa siffatta condizione del lavoro, ed il pericolo è addebitabile al datore, con responsabilità esclusiva di questi, che non può essere diminuita da un fattore concausale quale la imprudenza o la disattenzione di una dipendente adibita a mansioni prolungate e disagevoli, essendo prevedibile ed evitabile l'eventualità di un calo di prudenza e di attenzione, ed il rischio conseguente, rischio che avrebbe potuto e dovuto essere eliminato da una idonea organizzazione del lavoro da parte del datore.
Il datore di lavoro non ha assolto l'onere, che su di esso incombe, di provare di aver fatto tutto il possibile per ovviare alla pericolosità del lavoro, adempiendo il precetto posto dall'art. 2087 cc..
Per i motivi esposti deve essere ritenuta e sancita la responsabilità del datore, come decisiva ed esclusiva, senza che possa costituire esimente, neppure parziale, un comportamento della dipendente, che il datore avrebbe dovuto prevenire ed impedire mentre invece ha tollerato una pericolosa prassi, per anni ed anni.
E quindi l'appello deve essere respinto, quanto alla responsabilità.
E respinto del pari, per quanto concerne la determinazione e liquidazione del risarcimento, essendosi limitato l'appello ad una obiezione formalistica e speciosa, in ordine alla non configurabilità di una voce autonoma di danno, denominata "danno esistenziale".
Del danno deve infatti essere considerata l'entità complessiva, concludendosi, la decisione giudiziale, con una liquidazione globale, la cui congruità costituisce punto decisivo della sentenza.
Congruità che non è minimamente contestata, sicchè rimane un mero esercizio accademico la critica che inerisca soltanto al percorso delle operazioni di calcolo, e alla relativa motivazione, senza attingere il risultato.
Che d'altronde appare assolutamente congrue, in considerazione della rilevante entità delle lesioni patite, e del loro carattere, e delle conseguenze, in particolare sul piano psicologico, per il dolore patito, e lo sfregio estetico.

P.Q.M.


Le spese legali seguono la soccombenza, ai sensi dell'art. 91 c.p.c, con distrazione, a norma dell'art. 93 c.p.c.
Così deciso in Ancona, il 4 ottobre 2012.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2012