SEZIONE GIURISDIZIONALE DELL’UFFICIO DI PRESIDENZA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI Sentenza del 21 dicembre 2005 Pres. Biondi - Rel. Bianchi - X (Avv. Brandi) c. Amministrazione della Camera dei Deputati (c Avvocatura)

  • Mobbing




Fatto

1. Oggetto della controversia - In data 17 ottobre 2003, l’odierno appellante, Sig, presentava ricorso alla Commissione Giurisdizionale avverso una serie di atti omissivi e non dell’Amministrazione della Camera dei Deputati, che, a suo dire, avrebbero dato logo nei suoi confronti ad un fenomeno di mobbing.

Nell’atto introduttivo del giudizio di prime cure il ricorrente, dipendente dell’appellata Amministrazione con funzioni di operaio specializzato, con qualifica di cuoco, deduceva di essere stato vittima, nonostante la sua condotta professionale fosse stata sin dall’assunzione sempre scrupolosa ed irreprensibile, di una serie di comportamenti discriminatori e vessatori da parte del datore di lavoro. Segnatamente, l’odierno appellante in quella sede aveva a denunciare i seguenti eventi mobizzanti o, comunque, ritenuti dequalificanti della propria professionalità.

• l’aver svolto, sin dal giorno dell’assunzione, avvenuta in data 1° agosto 1981, fino alla proposizione del ricorso di primo grado, la medesima mansione lavorativa, ossia il lavoro ai fornelli per la cottura delle pietanze, attività ritenuta usurante e faticosa e, soprattutto, esercitata da altri lavoratori, della medesima qualifica lavorativa, solo per brevi periodi.

• il fatto di non aver goduto di alcuna promozione, contrariamente ad altri suoi colleghi, di grado inferiore rispetto al ricorrente, vantanti un’anzianità minore di servizio e non aventi per giunta un accertato e specchiato curriculum professionale.

• l’impossibilità di utilizzare il computer in uso presso le cucine, causa il rifiuto di portare alla sua conoscenza la password di accesso, facoltà consentita invece ad altri suoi colleghi, anche di grado inferiore.

• l’attribuzione continua di incarichi, quali lavori di facchinaggio e pulizia, ritenuti mortificanti in considerazioni delle sue capacità professionali e dell’anzianità maturata.

• l’essere stato escluso da corsi di perfezionamento ed aggiornamento normalmente accessibili al personale.

• l’essere stato oggetto di procedimento disciplinare per essersi rifiutato di indossare il copricapo imposto al personale di cucina.

• l’essere stato destinato ad altri compiti, con lettera del 28 marzo 2003 a firma del competente Consigliere Capo Servizio, caratterizzati da una totale assenza di direttiva, mansione, occupazione, orario e perdippiù in ambiente privo dei requisiti minimi per l’esercizio di un’attività lavorativa.

Il ricorrente a seguito della situazione determinatasi accusava, come da certificazioni mediche depositate, segnali di stress da lavoro, segnatamente una sindrome depressivo ansioso reattiva.

Concludendo, eccependo la ricorrenza di mobbing per espressa violazione degli artt. 32 e 97 Cost., artt. 2087, 2103 e 2043 del c.c., chiedeva al Giudicante di prime cure, previo accertamento del comportamento mobizzante tenuto dall’Amministrazione e dell’ingiustizia manifesta ed irragionevolezza in ordine all’eliminazione di tutte le mansioni lavorative, di ordinare la reintegra dell’appellante nelle sue mansioni lavorative e condannare la resistente a rifondere il … del danno biologico patito nella misura di Û 33.096,00.

Con la sentenza n. 23 del 17 settembre 2004, oggetto dell’odierno appello, la Commissione Giurisdizionale rigettava nel merito il ricorso presentato, per non aver rinvenuto in capo all’Amministrazione della Camera condotte mobizzanti a danno del ricorrente. In particolare, la decisione impugnata, premessi cenni sullo stato del recepimento giurisprudenziale del mobbing nel diritto italiano, ed esaminate dettagliatamente le singole circostanze di fatto allegate dal ricorrente, ritiene che le irregolarità lamentate non dimostrino nel loro insieme la sussistenza di uno specifico atteggiamento vessatorio nei suoi confronti, riconducibile ad un intento unico.

Non risultano inoltre specificamente impugnati i singoli provvedimenti amministrativi (quali l’irrogazione della sanzione disciplinare o l’allontanamento dalle mansioni) che a dire del ricorrente concorrono ad integrare la situazione di mobbing.

2. Contenuto del ricorso in appello - Con ricorso depositato in data 12 ottobre 2004 presso la segreteria degli organi per la tutela giurisdizionale del personale il ricorrente di prime cure ha impugnato la sovraindicata sentenza.

L’appellante censura la sentenza di primo grado adducendo vari motivi.

Anzitutto il ricorrente si duole di un’evidente contraddittorietà della sentenza impugnata, che, a suo dire, da una parte ammetterebbe una cattiva gestione del personale da parte della resistente attraverso provvedimenti censurabili sotto il profilo dell’imparzialità e correttezza, ma dall’altra negherebbe qualsiasi fenomeno mobizzante, stante la mancanza di sistematicità e continuità nei comportamenti denunciati, mai riconducibili, peraltro, ad un unico soggetto. Ordunque, prosegue il ricorrente, il Giudicante di prime cure, ammessa anche la fondatezza dei superiori rilievi ad escludere qualsiasi fenomeno di mobbing, avrebbe dovuto comunque riconoscere una responsabilità oggettiva in capo all’Amministrazione della Camera dei Deputati per le condotte vessatorie subite dal Sig. ...

In secondo luogo l’istante censura l’impugnata sentenza nella parte in cui, giudicando sull’episodio relativo alla sanzione disciplinare irrogata al … per il mancato uso del copricapo nella sala cucine, omette di pronunciarsi sulle gravi carenze igienico-sanitarie di cui la Camera dei Deputati sarebbe stata responsabile ai sensi della L.

626/1994. Sul punto la difesa del … eccepisce il vizio di ultrapetizione, essendosi la Commissione Giurisdizionale pronunciata su domanda, quale la riforma del provvedimento disciplinare, in realtà mai formulata dal ricorrente.

Relativamente al denunciato vizio di ultrapetizione, l’appellante viene ulteriormente a precisare che nella sentenza impugnata la Commissione Giurisdizionale erra nell’individuazione dell’oggetto del ricorso di primo grado.

Infatti, prosegue il …, nell’atto ricorsuale l’istante non invocava l’illegittimità e dunque la riforma dei singoli provvedimenti dell’Amministrazione, bensì chiedeva al Giudicante una valutazione complessiva di tutti i fatti ed omissioni posti in essere dal datore di lavoro ritenuti integranti violazioni di norme imperative e causa di danni psicofisici subiti dal dipendente.

Concludendo, l’appellante, nel reiterare tutte le richieste di cui al ricorso di primo grado, in riforma della sentenza oggetto di gravame, chiede a questa Sezione Giurisdizionale, oltre la rifusione dei danni cagionati all’istante, l’emissione di un provvedimento decisionale atto a tutelare il lavoro e la professionalità del … ed a porre fine alla cattiva politica gestionale del personale da parte dell’Amministrazione.

3. Contenuto della difesa dell’Amministrazione - L’Amministrazione della Camera dei Deputati, costituitasi nel giudizio d’appello con memoria depositata il 15 luglio 2005, in primis muove al ricorrente sui singoli episodi mobizzanti contestazioni di fatto, negando qualsiasi intento discriminatorio e persecutorio nei suoi confronti.

Per quanto alle contestazioni di diritto sui medesimi episodi, la resistente ritiene quanto segue.

1. l’infondatezza delle doglianze del ricorrente sull’adottata sanzione disciplinare, costituita dal rimprovero scritto per il mancato uso del copricapo, essendo la stessa atto dovuto, giusta violazione di precisi obblighi di legge da parte del dipendente.

2. la piena legittimità delle varie assegnazioni del … agli incarichi nel reparto cucine assegnatigli nel tempo dall’appellata, costituendo le stesse nient’altro che la conseguenza di scelte dell’Amministrazione, rientranti in un ambito di autonomia gestionale di natura discrezionale perfettamente legittima.

3. l’insindacabilità, con le medesime motivazioni di cui immediatamente sopra, delle determinazioni dell’Amministrazione della Camera in ordine ai corsi di perfezionamento per i dipendenti, all’uso della password di accesso al personal computer, nonché alla gestione dei turni di servizio.

4. la tardività dell’eccezione relativa al provvedimento con cui l’Amministrazione disponeva in favore dei colleghi del ricorrente il passaggio a qualifiche superiori, non essendo stata promossa nei termini consentiti alcuna impugnazione della relativa determinazione.

Sull’assegnazione del … a nuovi compiti presso il palazzo San Macuto, segnatamente quelli di supporto tecnico all’unità operativa servizi di ristorazione, disposta con provvedimento del 28 marzo 2003 del Consigliere Capo Servizio per la gestione amministrativa, l’appellata Amministrazione svolge ancor più approfondite considerazioni.

La difesa dell’Amministrazione della Camera, infatti, citando a conforto delle proprie deduzioni giurisprudenza esterna, rileva come non possa qualificarsi demansionamento l’assegnazione del ricorrente ai nuovi compiti. L’appellata rivendica la legittimità della propria scelta, in quanto esercizio del cosiddetto ius variandi di cui all’art. 2103 c.c., rilevando una perfetta equivalenza tra i compiti in precedenza svolti dal … e quelli successivi.

Inoltre, l’appellata deduce di aver, con il provvedimento de quo, in qualche modo accolto anche le lamentele del ricorrente sulla gravosità del compito fino a quel momento svolto, avendolo di fatto destinato ad attività meno gravose e di natura non direttamente operativa.

Su uno degli elementi costitutivi del mobbing, l’Amministrazione della Camera contesta il fatto che gli episodi denunciati dal ricorrente presentino elementi di connessione tali, da costituire prova di un intento discriminatorio e persecutorio del datore di lavoro nei confronti del dipendente.

In realtà, prosegue l’appellato, gli eventi così come contestati dal ..., non sono riconducibili ad un disegno vessatorio nei confronti dell’odierno istante, il quale invece sarebbe stato coinvolto nelle scelte lui riguardanti; in ogni caso l’Amministrazione avrebbe sempre ponderato ed esaminato attentamente tutte le iniziative da essa stessa intraprese.

Concludendo, l’Amministrazione della Camera ha richiesto il rigetto della domanda di appello e la conferma dell’impugnata sentenza.

4. Udienza per la discussione della causa - All’udienza del 26 luglio 2005 l’appellante, comparso personalmente, dopo aver svolto talune considerazioni a mezzo del suo procuratore costituito, Avv. Brandi, ha chiesto l’accoglimento dell’appello. La difesa dell’Amministrazione appellata, nella persona degli Avv.ti Marrone e Pietroni, riportandosi a quanto dedotto nella memoria di costituzione, ha chiesto il rigetto del ricorso. La causa è stata trattenuta per la decisione.

Diritto

1. Sul merito del ricorso - Il gravame presentato dal Sig. … ha ad oggetto principalmente l’eventuale ricorrenza del fenomeno mobbing nel proprio ambiente di lavoro.

Questa Sezione Giurisdizionale, trovandosi per la prima volta ad esaminare una simile questione giuridica, ed in ragione del fatto che il tema prospettato non trova nell’ordinamento giuridico italiano una sistematica disciplina, né civilistica, né penale (tranne un indiretto riferimento nei decreti legislativi nn. 215 e 216 del 2003 in tema di discriminazioni sull’ambiente di lavoro per razza, origine etnica, religione ecc.) ritiene opportuno premettere una breve trattazione atta a delineare i contorni principali della materia.

Generalmente con il termine mobbing ci si intende riferire, secondo anche una definizione contenuta in un disegno di legge all’attenzione del Parlamento, a quell’insieme di atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro, capi, intermedi e colleghi, che si traducono in atteggiamenti persecutori, attuati in forma evidente, con specifica determinazione e carattere di continuità, atti ad arrecare danni rilevanti alla condizione psicofisica del lavoratore, ovvero anche al solo fine di allontanarlo dalla collettività in seno alla quale presta la propria opera. Trattasi, dunque, di una serie di condotte che, pur non giungendo nella loro singolarità ad integrare necessariamente i requisiti di comportamenti antigiuridici, assumono, unitariamente considerate, una valenza tale da vulnerare la personalità del danneggiato, sino a sfociare in patologie psicosomatiche. In ogni caso, l’alterazione psichica determinata dalla condotta mobizzante deve essere tale da superare comunque la barriera del disagio puramente episodico, della perturbazione non patologica della psiche che sfocia nella mera sofferenza, per tradursi in qualcosa di più solido e permanente.

Il mobbing trova una puntuale definizione anche nei contratti collettivi per il personale dello Stato (accordo del 12 giugno 2003) e degli enti pubblici non economici (accordo del 9 ottobre 2003), dove si parla di un fenomeno “caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro e idonei a compromettere la salute e la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o addirittura, tali da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento”.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti la principale base normativa della responsabilità contrattuale datoriale per mobbing è l’art. 2087 del codice civile, in base al quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ne discende, pertanto, che la responsabilità del datore di lavoro ricorre non solo nel caso in cui egli stesso sia il mobber, ma anche quando il soggetto materialmente responsabile delle condotte sia un collega di lavoro, “avendo il dovere di intervenire, per rimuovere la situazione non più tollerabile all’interno dell’ufficio o azienda, onde evitare un’ulteriore lesione della personalità fisica e morale del lavoratore” (Trib. Lecce, 31 agosto 2001).

Alla responsabilità di natura contrattuale ex art. 2087 del codice civile si aggiunge la forma di tutela aquiliana ex art. 2043 del medesimo codice, nella quale, a prescindere da qualsiasi accertamento di inadempimento in capo al datore di lavoro in violazione dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 del codice civile, ciò che rileva è il solo comportamento materiale, di per sé lesivo di beni quali la professionalità, la salute, la dignità e l’integrità morale del prestatore di lavoro.

In ogni caso, a prescindere dalla natura della responsabilità accertata, ciò che deve ricorrere per aversi mobbing è la lesione all’integrità psicofisica dell’individuo, dunque ad un diritto costituzionalmente garantito, causa nel soggetto di un danno esistenziale (c.d. danno evento).

Svolta questa breve premessa, si rammenta che il ricorrente in appello chiede a questo collegio giudicante di accertare il comportamento mobizzante dell’Amministrazione della Camera nei suoi confronti. Nel far ciò la Sezione deve appurare, anche sulla scorta degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti, la ricorrenza nella fattispecie in esame degli elementi costitutivi del mobbing.

Ad una attenta analisi della vicenda oggetto di lite, la Sezione Giurisdizionale non ritiene ravvisarsi alcun fenomeno di mobbing per le ragioni di cui appresso.

Tra gli elementi imprescindibili del mobbing si annoverano non solo il carattere continuo e penalizzante delle condotte mobizzanti, ma anche la circostanza che esse, a prescindere dalla loro illegittimità intrinseca (su cui si avrà modo successivamente di soffermarsi in riferimento al caso di specie), devono corrispondere ad un unico disegno vessatorio, dolosamente preordinato dal datore di lavoro, e devono essere tali da intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore. Sul punto la giurisprudenza amministrativa esterna, a conforto dell’assunto di cui sopra, ha stabilito che “La fattispecie del mobbing presuppone, nell’accezione che va consolidandosi (pur con varietà di accentuazioni) in dottrina e giurisprudenza, una durevole serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori, tali da creare una situazione di sofferenza nel dipendente, che si concreta in un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore e, in particolare, sulla sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica. Pertanto, per aversi mobbing ci si deve trovare di fronte ad una serie prolungata di atti volti ad “accerchiare” la vittima, a porla in posizione di debolezza, sulla base di un intento persecutorio sistematicamente perseguito” (T.A.R. Lazio, sez. III, 25 giugno 2004, n. 6254).

Ebbene, non sembra che i singoli episodi denunciati dal ricorrente, unitariamente considerati e non valutati singolarmente nella loro legittimità, possano assurgere a prova di un intento persecutorio e vessatorio dell’appellata Amministrazione nei confronti del ricorrente.

Ad esempio, l’avvenuta irrogazione della sanzione disciplinare nei confronti del Sig. … per il mancato uso del copricapo da cuoco, non può essere considerata dal ricorrente quale esempio di condotta discriminante e persecutoria. Come da documentazione in atti, risulta che il medesimo provvedimento sanzionatorio, il rimprovero scritto, sia stato adottato non solo nei confronti del Sig. … ma anche di altri suoi quattro colleghi.

Per cui sono del tutto inconferenti i rilievi svolti dall’appellante, che si incentrano esclusivamente sulla legittimità della protesta attuata, e trascurano invece di spiegare e provare il motivo per cui la condotta posta in essere dall’Amministrazione avrebbe dovuto essere considerata persecutoria nei confronti del solo …. L’appellante assume in proposito che le condizioni del luogo di lavoro sarebbero state carenti degli elementi di sicurezza prescritti dal decreto legislativo n. 626/1994, ma questa circostanza, quand’anche fosse dimostrata, sarebbe estranea alla valutazione di una possibile condotta mobizzante dell’Amministrazione.

Parimenti, la denunciata esclusione da vari corsi di aggiornamento professionale non può essere considerata condotta discriminatoria nei confronti del ricorrente, atteso, come risulta dall’attestato di frequenza del 3 luglio 1997, agli atti del presente procedimento, che il Sig. … unitamente ad altri suoi colleghi, ha partecipato al corso in tema di igiene delle preparazioni alimentari dal 20 al 23 giugno 1997.

Ed ancora, l’avvenuta attribuzione di diversi compiti presso il palazzo San Macuto, disposta con missiva del 28 marzo 2003 dal Consigliere Capo Servizio, risulta essere stata comunque adottata non solo nei confronti del Sig. … ma anche nei confronti del Sig. …, collega del ricorrente ed avente la sua medesima qualifica professionale di coordinatore di reparto - cucina.

Ordunque, appare evidente come la rilevanza degli episodi sopracitati, che già di per sé costituiscono una parte consistente di quelli denunciati dal ricorrente, non possa essere considerata tale da integrare una fattispecie di mobbing, poiché in essi non è dato rinvenire una comune matrice discriminatoria ed in ogni caso non sembrano essere tra loro collegati da un finalismo orientato a vessare, discriminare ed accerchiare il lavoratore.

Anche a voler attribuire per ipotesi una valenza mobizzante agli altri eventi denunciati dal ricorrente e fin qui non esaminati, sembra mancare in ogni caso un altro fondamentale requisito del mobbing. Le condotte poste in essere dal datore di lavoro, infatti, oltre a dover essere singolarmente penalizzanti e reiterate, devono essere caratterizzate da una sistematicità temporale che nel caso di specie manca. Nella serie degli eventi denunciati dal ricorrente si inseriscono dunque degli episodi, quali quelli sopracitati, che oltre a non possedere carattere mobizzante, escludono tra loro un collegamento funzionale di natura teleologica atto a ledere la sfera psichica del Sig. … All’esame di codesta Sezione Giurisdizionale emerge, a fronte delle doglianze del ricorrente e delle relative conclusioni, anche il problema di un possibile demansionamento, che avrebbe riguardato il …, per lungo tempo svolgente funzioni a suo dire dequalificanti nella sala cucina ed, in ultimo, adibito presso il palazzo San Macuto a compiti che egli assume essere di fatto privi di utilità alcuna.

Il Sig. … veniva assunto, come da documentazione in atti, in data 1° agosto 1981 con la qualifica di operaio qualificato; successivamente, in base all’art. 50 del Regolamento dei servizi e del personale, acquisiva quella di operaio specializzato ed in ultimo, sempre secondo la cadenza indicata nella norma de qua, diveniva capo officina, denominazione corrispondente a quella attuale di coordinatore di reparto. Peraltro, risulta in effetti, giusto il ruolo di anzianità aggiornato al 1° marzo 2002 e depositato in atti, che soltanto i Sig.ri … e … siano stati promossi, contrariamente al ricorrente, alla funzione di responsabili coordinatori di reparto.

Sul punto, tuttavia, non sembra a questo collegio giudicante di dover accogliere l’eccezione dell’appellante circa una possibile condotta discriminatoria nei suoi confronti da parte dell’Amministrazione della Camera.

V’è da considerare, infatti, che in base all’art. 50 già citato, quarto comma, “l’attribuzione degli incarichi di coordinatore responsabile di reparto è operata, tra i coordinatori di reparto che abbiano superato da almeno tre anni la verifica di professionalità di cui al comma 2 dell’articolo 58, dal Segretario generale su proposta del consigliere Capo del Servizio o ufficio da cui dipende il reparto”; pertanto è di palmare evidenza che il conferimento dell’incarico di responsabile coordinatore di reparto non avviene per sola anzianità di servizio, ma anche sulla base di una valutazione del tutto discrezionale relativa alla mostrata professionalità del lavoratore.

Ne consegue che la scelta effettuata non può essere oggetto di un sindacato di legittimità, attesa la sua natura di atto basato su una valutazione tecnica afferente più al piano del merito amministrativo che a quello della legittimità. Del resto, l’articolo 2, comma 2, del Regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti della Camera, espressamente preclude il sindacato giurisdizionale sulle “nomine a scelta”, al di fuori dei casi di incompetenza e violazione di legge.

Ad ogni modo, diverso problema è quello di stabilire se il ricorrente nel tempo sia stato poi realmente adibito a funzione consona alla qualifica goduta. Al riguardo si deve preventivamente osservare che nell’ordinamento della Camera l’individuazione delle funzioni svolte dalle diverse professionalità è contenuta nel Regolamento dei servizi e del personale. Questa norma descrive un assetto organizzativo nel quale le particolari funzioni richieste all’apparato esigono una particolare elasticità e flessibilità organizzativa, in un ambiente di lavoro che per sua intrinseca natura (coessenziale alle funzioni dell’organo parlamentare cui l’Amministrazione è servente) è caratterizzato da esigenze non prevedibili.

Questa Sezione giurisdizionale, del resto, ha già avuto modo di apprezzare la peculiarità della “situazione amministrativa all’interno dell’Amministrazione della Camera, alla quale, soprattutto per l’elevata flessibilità del lavoro necessaria al miglior perseguimento del servizio reso all’organo parlamentare non si attaglia una puntuale configurazione degli organici (…)” (sentenza n. 20 del 16 maggio 2005).

E parimenti il giudice di primo grado, la Commissione giurisdizionale per il personale, nota che lo svolgimento delle attività tipiche di un determinato profilo professionale “non è (…) elemento indefettibile di tale profilo, potendo darsi prevalenza allo svolgimento di compili ulteriori, pur sempre di tipo esecutivo ed ausiliario” (sentenza n. 136 del 2 luglio-9 settembre 2003). E più in generale - prosegue la medesima sentenza - “il contenuto tipico delle qualifiche e dei profili professionali va interpretato ed inteso con criteri elastici (…). Qualora si seguisse una linea di rigida interpretazione ed applicazione delle declaratorie delle qualifiche si verificherebbe una paralizzante concezione dello svolgimento dei compiti propri dei pubblici dipendenti, in contrasto con l’esigenza di efficienza ed efficacia cui la gestione del personale deve rispondere”.

È pertanto frequente, e del tutto legittimo, il modello organizzativo per il quale l’attribuzione effettiva delle mansioni avviene con atti aventi mera rilevanza interna, secondo un principio di totale autonomia gestionale del personale. Nel caso di specie, dagli atti depositati risulta un’organizzazione del lavoro nella sala cucine estremamente variabile, calibrata in base alle diverse esigenze emergenti nel tempo, nella quale le funzioni cui sono stati adibiti gli addetti si contraddistinguevano per possedere un certo carattere di elasticità.

In questa ottica, il ricorrente si è trovato in taluni periodi a svolgere compiti che, pur sempre inerenti all’attività del reparto ristorazione, non si sono sostanziati nell’esercizio di funzioni materiali proprie dell’attività di cucina. Ciò trova giustificazione in un sistema di organizzazione del lavoro non basato su un rigido mansionario.

Ne discende che non può essere accolta l’eccezione del ricorrente su un avvenuto demansionamento, perché tecnicamente non si rinvengono quelle caratteristiche che valgono a fondare il meccanismo di cui all’art. 2103 del codice civile, in base al quale il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ed al datore di lavoro è riconosciuto il c.d. ius variandi, ossia la possibilità di adibire il lavoratore ad incarichi diversi secondo i limiti indicati dalla norma de qua.

Tuttavia, sembra che al ricorrente non sia stato sempre richiesto di svolgere compiti rapportabili alla professionalità acquisita ed alla qualifica acquisita di coordinatore di reparto. Ne è prova, ad esempio, la determinazione del coordinatore, … della U.O. Ristorazione del 18 settembre 1998, con la quale venivano attribuite ai capi officina (coordinatori di reparto secondo l’attuale denominazione) funzioni di direzione e controllo nelle varie attività di cucina. Il superiore provvedimento riguardava, infatti, i soli signori ...., … e …, ma non il Sig. …, che pure al tempo godeva della medesima qualifica professionale.

Anche il contestato ordine di servizio del 28 marzo 2003, con cui il ricorrente veniva adibito a compiti di controllo nell’ambito dei servizi di ristorazione presso il palazzo San Macuto, di fatto risulterebbe non aver dispiegato appieno la sua efficacia quanto ai compiti attribuiti al ricorrente, valutati sotto il profilo della sua attività e capacità lavorativa, i quali sono risultati non pienamente definiti, senza un indirizzo gestionale specifico.

Ordunque, sul punto in ultimo esaminato, sembra a questa Sezione giurisdizionale che i rilievi del ricorrente debbano essere presi in considerazione. Si rende pertanto necessario che l’Amministrazione della Camera dei Deputati provveda accioché il ricorrente Sig. … pur nell’ambito della flessibilità di impiego di cui si è detto, possa essere utilizzato in compiti che lo impegnino in modo corrispondente alla capacità lavorativa acquisita, tenendo conto della qualifica rivestita, in un contesto per quanto possibile tendente all’arricchimento di tale capacità e professionalità.
(Omissis)

P.Q.M.

La Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza.

in parziale riforma della sentenza impugnata accoglie nel merito il presentato appello, limitatamente al punto 2 delle richiamate conclusioni contenute nel ricorso di primo grado, e, per l’effetto, ordina all’appellata Amministrazione di attribuire al ricorrente compiti consoni alla sua professionalità, secondo le ulteriori indicazioni di cui in motivazione. Rigetta la richiesta di risarcimento danni avanzata dal ricorrente, attesa l’insussistenza di forme di mobbing in danno del ricorrente stesso.