Cassazione Civile, Sez. Lav., 08 maggio 2013, n. 10819 - Risarcimento del danno biologico per infortunio occorso durante l'attività lavorativa




Fatto



Con ricorso al Pretore, giudice del lavoro, di Latina, F.D.V. chiedeva la condanna della società R. s.r.l. al risarcimento del danno biologico in relazione all'infortunio occorsogli in data 31/8/1992 mentre egli si trovava nella città spagnola di S. Andrea de la Barca, per svolgere la propria prestazione lavorativa presso lo stabilimento farmaceutico A., infortunio per il quale l’I.N.A.I.L. aveva riconosciuto una inabilità pari al 35% e costituito in favore del D.V. la relativa rendita. Il Tribunale di Latina, nel contraddittorio con la società convenuta e disposta la chiamata in causa della Fondiaria Assicurazioni S.p.A., rigettava il ricorso. A seguito di impugnazione da parte del D.V., la Corte di appello di Roma, con sentenza non definitiva del 27 marzo 2007, dichiarava la sussistenza della responsabilità del datore di lavoro in ordine alla produzione dell'evento dannoso con concorso di colpa del D.V. nella misura del 60%, disponendo con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio. Quindi, con sentenza definitiva del 4 luglio 2008, la medesima Corte condannava la R. s.r.l. a corrispondere al lavoratore, a titolo di risarcimento del danno biologico, la somma di euro 91.000,00, dichiarando inammissibile la domanda proposta dalla società nei confronti della Fondiaria Assicurazioni S.p.A..

Avverso le sentenze ricorre, con due distinti ricorsi, la R. s.r.l., affidati, il primo, a cinque motivi e, il secondo, a quattro motivi.

Sia al primo che al secondo ricorso resistono, con separati controricorsi, il D.V. e la Fondiaria SAI S.p.A. (già Fondiaria Assicurazioni S.p.A.).

Diritto



1. Preliminarmente ritiene la Corte che i due ricorsi (n. 277/2008 e n. 18318/2009) possano essere riuniti, sebbene siano stati separatamente proposti contro sentenze diverse (n. 8246/2005 del 27 marzo 2007 e n. 4978/2007 del 4 luglio 2008, entrambe della Corte di appello di Roma).

Invero non ricorre, nella specie, alcuna delle ipotesi nelle quali è imposta espressamente - da disposizioni del codice di rito (quali l'art 335 cod. proc. civ. e l'art. 151 disp. att. cod. proc. civ.) - la riunione di procedimenti in fase d'impugnazione. Dalle stesse disposizioni, tuttavia, è agevole ricavare - secondo l'orientamento costante di questa Corte: si vedano, per tutte, Cass. Sez. Un. n. 10933 del 7 novembre 1997; Cass. n. 5850 del 11 giugno 1998; id. n. 2357 del 17/02/2003 - il principio generale secondo cui il giudice può disporre la riunione di impugnazioni proposte separatamente - (anche) al di fuori dalle ipotesi nelle quali la riunione è imposta espressamente dalla legge - tutte le volte che tra le stesse impugnazioni si ravvisino, in concreto, elementi di connessione tali da renderne conveniente, per ragioni di economia processuale, l'esame congiunto.

È proprio il caso che ricorre nella specie, trattandosi di ricorsi proposti dalla R. s.r.l. avverso la sentenza che ha deciso sull’an e quella che ha deciso sul quantum, sentenze che, integrandosi reciprocamente, hanno definito un unico giudizio.

2. Con il primo motivo di cui ricorso iscritto al n. 277/2008 la R. s.r.l. denuncia: "Violazione dell'art. 346 e 112 cod. proc. civ.". Si duole del fatto che la Corte di merito, nel ritenere che l'infortunio in questione non fosse riconducibile né ad un difetto di fabbricazione dell'utensile né ad una culpa in vigilando del datore di lavoro ma ad una cattiva postura del lavoratore nell'imbracciare l'utensile, dovuta al fatto che egli era costretto su una scala e non su una impalcatura, ove avrebbe avuto maggiore libertà di movimento e, dunque, la possibilità di mettersi fuori della traiettoria dei possibili residui di lavorazione, ha accertato ed introdotto nuovi elementi di fatto non dedotti dalla parte, operando d'ufficio un mutamento della causa petendi e della domanda e sostituendo alla prima una differente, basata su fatti diversi da quelli dedotti dallo stesso lavoratore.

3. Con il secondo motivo di cui ricorso iscritto al n. 277/2008 la R. s.r.l. denuncia: "Violazione dell'art. 345 cod. proc. civ.". Deduce che, a fronte del profilo di responsabilità come individuato dal lavoratore in sede di ricorso introduttivo, in sede di atto di appello ne era stato affiancato un altro, cioè quello della culpa in vigilando, che, integrando una domanda nuova, doveva essere considerato inammissibile, laddove, invece, la Corte di appello lo aveva posto a base della decisione.

4. Con il terzo motivo di cui ricorso iscritto al n. 277/2008 la R. s.r.l. denuncia: "Violazione dell'art. 2087 cod. civ.". Si duole della ritenuta responsabilità del datore di lavoro pur in presenza di una consulenza tecnica d'ufficio che aveva escluso che l'utensile utilizzato dal D.V. fosse affetto dai vizi di fabbricazione dedotti dall'appellante quali causa esclusiva dell'infortunio.

5. Con il quarto motivo di cui ricorso iscritto al n. 277/2008 la R. s.r.l. denuncia: "Violazione degli artt. 61 e 191 cod. proc. civ., 112 cod. proc. civ., 345 cod. proc. civ., 2697 cod. proc. civ.". Si duole del fatto che la Corte di merito ha posto a base della decisione circostanze menzionate per la prima volta nella consulenza tecnica d'ufficio che non potevano sopperire a carenze di deduzione del ricorrente.

6. Con il quinto motivo di cui ricorso iscritto al n. 277/2008 la R. s.r.l. denuncia: "Nullità della sentenza ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ. per omessa pronuncia; violazione dell'art. 112 cod. proc. civ.". Si duole della mancata considerazione della domanda di manleva proposta dalla società nei confronti dell'impresa di assicurazione che garantiva la responsabilità civile.

7. I motivi dal primo al quarto, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono inammissibili.

Si rileva, innanzitutto, che, a fronte dei denunciati vizi di violazione di legge, in realtà la ricorrente lamenta una erronea valutazione degli atti di causa e delle risultanze istruttorie e, dunque, sostanzialmente di vizi motivazionali.

Inoltre i quesiti che concludono i motivi sono del tutto generici, senza alcuno specifico riferimento agli errori che si addebitano alla gravata pronuncia ed ai temi specifici posti con le censure.

Come questa Corte ha già avuto modo di statuire, il quesito di cui all'art. 366 bis cod. proc. civ. (applicabile ratione temporis nel caso di specie, vista la data di deposito della sentenza impugnata), inerendo ad una censura di diritto e dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio giuridico generale, non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte Suprema in grado di poter comprendere, dalla sua sola lettura, l'errore asseritamene compito dal giudice di merito e la regola applicabile (cfr., ex aliis, Cass. 7 marzo 2012, n. 3530; id. 22 giugno 2007, n. 14682). È stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l'individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica manchi, il quesito si risolve in una astratta petizione di principio inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica.

Ne discende che viene meno alla propria funzione il quesito che ripeta alla lettera (o attraverso una parafrasi del relativo contenuto, ancorché formulato in negativo: "...se non costituisca principio di diritto...") una norma di legge o un principio giurisprudenziale senza esplicito e specifico collegamento con la statuizione contenuta nella sentenza impugnata.

Nella specie, nessuno dei quesiti formulati a conclusione dell'illustrazione dei motivi di ricorso risponde ai requisiti sopra indicati, risolvendosi gli stessi quesiti nella mera richiesta di stabilire se siano state violate o meno determinate norme o principi di diritto, ovvero in una generica istanza di decisione sulla esistenza dei vizi denunciati.

Gli indicati motivi di ricorso sono da disattendere anche sotto altro profilo.

Si consideri, infatti, che una diversa interpretazione degli stessi fatti oggetto di esame in primo grado non determina il vizio di ultrapetizione, essendo pacifico (ex plurimis: Cass., n. 11455 del 19 giugno 2004; id. n. 23079 del 16/11/2005; n. 19475 del 06/10/2005) che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall'art. 112 cod. proc. civ. - che implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda - è violato solo quando il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell'azione attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, nell'ambito del petitum, rilevi d'ufficio un'eccezione in senso stretto che può essere sollevata soltanto dall'interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda, mentre non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione o ad una interpretazione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti.

Se dunque è pur vero che il potere - dovere del giudice di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire il nomen iuris al rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità rispetto alle deduzioni delle parti, trova un limite - la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione - nel divieto di sostituire l'azione proposta con una diversa, perché fondata su fatti diversi o su una diversa causa petendi, con la conseguente introduzione di un diverso titolo accanto a quello posto a fondamento della domanda, e di un nuovo tema di indagine, tale limite non è superato laddove una lettura dei fatti porti a trarre, attraverso una autonoma statuizione del grado e dei contorni della responsabilità gravante sulla società, lo stesso effetto giuridico domandato (così Cass. n. 15383 del 28/06/2010).

Nella specie non è in discussione che la richiesta risarcitoria avanzata dal D.V. in relazione all'incidente occorsogli abbia avuto quale causa petendi la violazione dell'art. 2087 cod. civ. , che impone di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità fisica dei prestatori d'opera e che, pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

Che la questione posta dal D.V. fosse quella di una imputazione di responsabilità in capo al datore di lavoro, si evince, del resto, dal contenuto del ricorso di primo grado (trascritto dalla società nel ricorso per cassazione) dal quale si rileva che l'infortunio si era verificato mentre il lavoratore stava lucidando una tubazione, in precedenza montata, con una moietta a spillo elettrica sulla quale era stato installato un tampone nuovo che improvvisamente si era staccata andando a colpire con estrema violenza il suo occhio destro.

A fronte, dunque, della prospettazione di un infortunio occorso durante lo svolgimento di una attività lavorativa particolarmente rischiosa ed in stretto rapporto di causalità con quest'ultima, era onere del datore di lavoro provare che il danno fosse dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare tale danno, tanto sotto il profilo della idoneità degli strumenti di lavoro quanto sotto quello, al primo inevitabilmente collegato, della sorveglianza degli interventi a rischio quanto ancora sotto il profilo, egualmente collegato, dell'assicurazione di una postazione di lavoro idonea a garantire l'utilizzo in sicurezza delle attrezzature.

Che il thema decidendum fosse l'assunzione o meno da parte del datore di lavoro di tutte le cautele necessarie per evitare l'infortunio si evince, in ogni caso, dallo stesso contenuto della decisione di primo grado, come riportato nella sentenza qui impugnata, laddove viene posto in rilevo che al D.V. era stato raccomandato, specialmente perché il medesimo alcuni giorni prima era stato ricoverato per una scheggia negli occhi, di munirsi di tutto l'occorrente, compresa l'attrezzatura antinfortunistica e, precisamente guanti ed occhiali (con ciò ritenendosi esaurientemente adempiuto ogni onere prevenzionale a carico del datore di lavoro).

Ed allora, poiché l'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. impone all'imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio, atteso che tale sicurezza è un bene protetto dall'art. 41, secondo comma, Cost., non sussiste alcuna introduzione nel processo di un petitum diverso e più ampio oppure di una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, quando si individui la violazione dell'indicato standard minimale in circostanze comunque emerse dagli atti di causa.

Da tanto consegue che le censure mosse dalla società ricorrente alla decisione impugnata e relative alla ricostruzione delle circostanze in cui l'infortunio si sarebbe verificato (censure comuni a tutti i suindicati motivi di impugnazione) potevano essere idoneamente veicolate solo sotto il profilo del vizio motivazionale.

Il fatto rilevante a reggere la decisione, a prescindere dalle diverse prospettazioni formulate dalle parti, è quello accertato nella sentenza, in cui la Corte di appello, come del resto già il giudice di primo grado, ha la causa petendi della domanda di risarcimento formulata dall'attore. Né vale introdurre con il ricorso per cassazione una diversa ricostruzione dei fatti, in mancanza di specifiche censure all'iter argomentativo che sorregge la disamina del materiale probatorio compiuta dal giudice. La dinamica dei fatti è, pertanto, quella accertata dal giudice di merito, il quale correttamente da essa ha tratto gli elementi materiali utili all'esame della domanda.

7. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile in quanto inconferente rispetto al decisum della sentenza parziale che si è limitata a sancire la responsabilità della società in ordine all'evento lesivo occorso al D.V. senza definire e quantificare la richiesta risarcitoria ed anzi rimettendo, a detto fine, la causa sul ruolo (sulla domanda di manleva si è, infatti, poi, pronunciata la Corte di appello con la sentenza definitiva).

8. Quanto al ricorso avverso la sentenza n. 4978/2007 depositata in data 4 luglio 2008 è di tutta evidenza la tardività dello stesso.

Risulta dagli atti che il ricorso in cassazione (recante già la data del 10 luglio 2009, successiva al termine annuale decorrente dalla suddetta data di pubblicazione della sentenza del 4 luglio 2009) è stato notificato il 17 luglio 2009 (con richiesta di notifica il precedente giorno 16); - pertanto si è notificato (e si è richiesta la notifica) del ricorso in cassazione dopo la scadenza del termine così come determinato ex art. 155 cod. proc. civ., termine insuscettibile di sospensione feriale nelle controversie in materia di lavoro e previdenza (cfr. ex multis Cass. n. 21614 del 16/10/2007; id. n. 20732 del 26/10/2004).

Da tanto consegue che entrambi i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.

9. Per il criterio legale della soccombenza la società ricorrente va condannata al pagamento, in favore delle controparti, delle spese processuali, come in dispositivo, tenendo conto del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (che, all'art. 41 stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all'entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012) ed avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nell'art. 4 del D.M. e delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A.

P.Q.M.



Riunisce i ricorsi e li dichiara inammissibili; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore delle controparti, delle spese processuali del presente giudizio di legittimità che liquida, per ciascuna di esse, in euro 50,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.