Cassazione Penale, Sez. 5, 09 maggio 2013, n. 20060 - Mancata individuazione del soggetto responsabile dell'illecito amministrativo e autonomia della responsabilità dell'ente


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIULIANA FERRUA - Presidente
SILVANA DE BERARDINIS - Consigliere
ANTONIO SETTEMBRE - Consigliere
GIUSEPPE DE MARZO - Consigliere
PAOLO GIOVANNI DEMARCHI ALBENGO - Rel Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA


sul ricorso proposta da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO
nei confronti di:

C.  N.A.
avverso la sentenza n. 10881/2007 TRIBUNALE di MILANO del 18/04/2011;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/04/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PAOLO GIOVANNI DEMARCHI ALBENGO;
Udito il Procuratore Gen. in persona del Dott. ... che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio;
Per la C. è presente l'Avvocato Diodà, il quale chiede rigettarsi il ricorso.


Fatto

 

1. Il pubblico ministero presso il tribunale di Milano propone ricorso immediato per cassazione contro la sentenza di assoluzione della N.A. dall'illecito amministrativo di cui all'articolo 5 del d.lgs. 231/01.
2. A sostegno del ricorso lamenta erronea applicazione dell'art. 8 del predetto d.lgs. con riferimento all'illecito sub capo M (rectius: capo L), in relazione al reato presupposto di cui al capo D.2 contestato a BP. (dal quale quest'ultimo è stato assolto per non aver commesso il fatto).
3. Sostiene il pubblico ministero che avendo il Tribunale ritenuto sussistente il reato presupposto, come si evincerebbe da quanto esposto alla pagina 60 della sentenza, non avrebbe dovuto assolvere la C. in quanto quello dell'ente è un titolo autonomo di responsabilità rispetto al reato presupposto, tanto che l'articolo 8 del d.lgs. afferma che la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato.
4. La C. ha depositato memoria a mezzo del difensore mediante la quale contesta, primo luogo, che il tribunale abbia ritenuto la sussistenza dei reato pur non commesso dal B. rilevando che alla pagina 61 la sentenza esclude in modo assoluto qualsiasi concorso nell'illecito da parte di soggetti riferibili alla società.
5. In secondo luogo afferma che non può procedersi per l'illecito amministrativo quando il reato si è estinto per prescrizione, che nel caso di specie è maturata prima del 18/04/2011 e quindi prima della sentenza di primo grado.
6. In terzo luogo sostiene che la responsabilità dell'ente è vincolata alla indispensabile individuazione di un soggetto che abbia commesso un reato completo di ogni elemento, sia oggettivo che soggettivo; in particolar modo, poiché il reato presupposto è doloso, non sarebbe possibile ritenere sussistente tale reato in mancanza di individuazione dell'autore materiale, con riferimento al quale si deve valutare la sussistenza dell'elemento psicologico.

Diritto


1. Prima di procedere alla disamina dei motivi di ricorso, occorre valutare quali siano gli effetti della prescrizione del reato presupposto sulla perseguibilità dell'illecito amministrativo.
2. Dice l'art. 60 del d. lgs. 231/2001 che "Non può procedersi alla contestazione di cui all'articolo 59 quando il reato da cui dipende l'illecito amministrativo dell'ente è estinto per prescrizione".
3. La relazione governativa afferma che l'articolo 60 prevede un termine finale (di decadenza, secondo la rubrica dell'articolo) per l'esercizio da parte del pubblico ministero del potere di contestare all'ente l'illecito amministrativo dipendente dal reato, decorso il quale non può più procedersi alla contestazione stessa (sul punto si veda, in motivazione, Sez. 5, n. 4335 del 16/11/2012, Franza, Rv. 254326).
4. L'articolo 60 è piuttosto chiaro nel suo contenuto normativo e comporta che l'estinzione per prescrizione del reato impedisce unicamente all'accusa di procedere alla contestazione dell'illecito amministrativo e non impedisce, invece, di portare avanti il procedimento già incardinato.
5. D'altronde, se è vero che l'illecito amministrativo si prescrive in cinque anni dalla commissione del reato, è anche vero che si devono applicare le cause interruttive dei codice civile e pertanto la prescrizione non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento (articolo 2945 cod. civ.. Per un caso analogo si veda Sez, 4, n. 9090 del 05/04/2000, Lefemine, Rv. 217126: A norma degli artt, 2943 e 2945 cod. civ. la prescrizione è interrotta dall'atto col quale si inizia un giudizio ed essa pertanto non decorre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il processo; ne consegue che, in applicazione analogica di tale principio allorché la connessione con reati attribuisce al giudice penale la cognizione di un'infrazione amministrativa, il processo che venga iniziato a seguito di un rapporto regolarmente notificato all'interessato, ai sensi degli artt. 14 e 24, secondo comma legge n. 689/1981, interrompe la prescrizione dell'illecito punito con sanzione amministrativa fino al passaggio in giudicato della sentenza penale).
6. Ciò premesso sotto il profilo processuale, si deve ritenere fondato il ricorso del pubblico ministero. Vanno richiamate, innanzitutto, le considerazioni espresse dalla pubblica accusa con riferimento alla relazione governativa al decreto legislativo, ove -premessa l'autonomia della due ipotesi di responsabilità (penale del singolo ed amministrativa della società) - si afferma che in caso di mancata individuazione del soggetto responsabile non vi è ragione di escludere la responsabilità dell'ente.
7. E' vero che sui criteri di interpretazione della legge, cristallizzati dalla norma contenuta nell'articolo 12 delle preleggi, non vi è uniformità, ma non può essere messo in dubbio il criterio teleologico di natura soggettiva, e cioè il ruolo non indifferente che nell'attività ermeneutica deve svolgere l'indagine sull'intenzione concretamente perseguita dal legislatore storico con la emanazione della legge.
8. Occorre ricordare, infatti, che un orientamento di legittimità, pur risalente, equipara i due criteri contenuti nel comma primo dell'art. 12 preleggi, intendendo la "voluntas legis" come volontà soggettivamente espressa dal legislatore ("Quando la lettera della legge è esplicita e quando la intenzione del legislatore è fatta palese e inequivocabile attraverso i lavori parlamentari durante i quali il testo della legge sia stato ampiamente discusso, ogni diversa interpretazione, se può servire a rilevare inconvenienti o lacune, non vale certamente ad immutare il senso della legge stessa in guisa da farle dire cosa profondamente diversa da quanto ha voluto dettare, sovrapponendosi alla volontà del costituente e del legislatore ordinario, con grave pregiudìzio della certezza dei diritto e delle prerogative parlamentari"; cfr. Sez. 6, n. 126 del 26/01/1967, Tinelli, Rv, 103410. Fa riferimento al pensiero e alla volontà del legislatore, anche al di là della dizione letterale, anche Sez. 3, n. 894 del 25/03/1963, Rosmino, Rv. 98978). Vi sono anche pronunce più recenti, pure delle sezioni unite, che arrivano a dare prevalenza al profilo interpretativo soggettivo, ritenendo che quello letterale non sia nemmeno un criterio interpretativo, ma solo il limite d'ogni altro metodo ermeneutico (Sez. U, n. 11 del 19/05/1999, Tucci, Rv. 213494).
9. Altre sentenze sembrano suggerire la prevalenza della ratio oggettiva della norma, ricercando lo scopo perseguito soggettivamente dal legislatore storico solo in caso di dubbio: "Quando la lettera della norma sia ambigua e sia altresì infruttuoso il ricorso al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, attraverso l'esame complessivo del testo, della mens legis, l'elemento letterale e l'intenzione del legislatore, rivelatisi insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano, nel procedimento interpretativo della legge, un ruolo paritetico, sicché - mediante la valorizzazione della congiunzione "e" interposta, nel primo comma dell'art. 12 delle preleggi, fra un criterio interpretativo e l'altro - l'intenzione del legislatore funge da criterio comprimario di ermeneutica, atto ad ovviare all'equivocità della formulazione del testo da interpretare" (v, sent. 3359/75, RV. 377497; Sez. L, n. 1482 del 26/02/1983, Rv. 426307; n. 2663 del 1983, Rv. 427036; n. 2183 del 1983, Rv. 426382; n. 1557 del 1983, Rv. 426307; n. 5493 del 26/08/1983, Rv. 430429).
10. Altre sentenze ancora affermano la prevalenza del criterio letterale, superabile solo nel caso in cui questo sia oscuro e foriero di un'interpretazione in contrasto con il sistema normativo ("Il criterio di interpretazione teleologica, previsto dall'art. 12 delle preleggi, può assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione di legge sia incompatibile con il sistema normativo; non è infatti consentito all'interprete correggere la norma, nel significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, nell'ipotesi in cui ritenga che l'effetto giuridico che ne deriva sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa"; cfr. Sez. L, n. 3495 del 13/04/1996, Rv. 497000. Nello stesso senso si esprime in motivazione Sez. 3, n. 9700 del 21/05/2004, Rv. 572999: "..quando l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente a esprimere un significato chiaro e univoco, l'interprete non deve ricorrere all'interpretazione logica, specie se attraverso questa si tenda a modificare la volontà della legge chiaramente espressa (Cass. 17 novembre 1993, n. 11359, nonché, tra le tantissime, Cass. 23 settembre 1985, n. 4711; Cass, 13 novembre 1979, n. 5901; Cass. 21 giugno 1972 n. 2000,- Cass. 3 dicembre 1970 nn. da 2533 a 2537; Cons. St., sez. 4*, 29 febbraio 1996, n. 222). Solo qualora il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse non sia già tanto chiaro e univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve ricorrere al criterio logico: ciò al fine di individuare, attraverso una congrua valutazione del fondamento della norma, la precisa "intenzione dei legislatore", avendo cura, però, di individuarla quale risulta dal singolo testo che è oggetto di esame e non già, o semmai in via subordinata e complementare, quale può genericamente desumersi dalle finalità ispiratrici di un più ampio complesso normativo in cui quel testo, insieme con altri, ma distintamente da essi, è inserito (Cass. 16 ottobre 1975 n. 3359). Il criterio di interpretazione teleologica, previsto dall'ultima parte del primo comma dell'art. 12, preleggi, in particolare, può assumere rilievo prevalente, rispetto alla interpretazione letterale solo nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione di legge sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma, nel significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, nella ipotesi in cui ritenga che l'effetto giuridico che ne deriva sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa").

11.Un'interpretazione più recente sembra condividere i risultati della dottrina più "progressista", secondo cui lo scopo della norma non è quello propostosi dai compilatori della legge (interpretazione soggettiva), ma quello oggettivamente inteso (interpretazione oggettiva), come tale suscettibile di mutamenti con il variare della realtà sociale, onde della norma è possibile una interpretazione evolutiva. Si veda in motivazione Sez. U, n. 5385 del 26/11/2009, D'Agostino, Rv. 245584: "... i criteri propri della interpretazione logica cui, al sensi dell'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, il giudice deve fare ricorso, con il solo limite rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima capacità di espansione, per stabilire quale sia la reale intenzione de! legislatore. Intenzione che, secondo un canone ermeneutico ormai generalmente recepito e costantemente adottato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, Sez. III 13/5/08 n. 36845 con riferimento ai reato di cui all'art 674 c.p.) va considerata non in senso soggettivo ma in senso oggettivo, come voluntas legis, sicché non è importante tanto stabilire (soprattutto se, come nel caso di specie, l'origine della norma è lontana nel tempo) quale fosse lo scopo perseguito da chi l'ha redatta, quanto piuttosto individuare quale è la funzione cui essa risponde nel contesto del sistema in cui è attualmente inserita; e ciò al di là delle parole usate che, nella loro accezione più comune, possono non essere, per le più svariate ragioni, le più idonee a compiutamente rivelare la ratio della disposizione".

12.Ma l'approdo cui sono giunte le sezioni unite sembra tutt'altro che univoco; la sentenza riportata si pone in (sembra) inconsapevole contrasto con una pronuncia di poco precedente, che invece assegnava carattere predominante al criterio teleologico di natura soggettiva, ritenendo che la volontà legislativa fosse quella desumibile dai lavori parlamentari (v. in motivazione Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236537).
13.Orbene, pur nell'impossibilità di trovare un punto fermo nella valutazione di prevalenza dei vari criteri interpretativi, si deve osservare che nessuna questione si pone allorché tutti e tre i predetti criteri (letterale, teleologico soggettivo e teleologico oggettivo) conducano al medesimo risultato.
14.Dice l'art. 8 del d.lgs. 231/2001 che "La responsabilità dell'ente sussiste anche quando: a) l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile (...)" Il senso letterale della norma è chiarissimo nell'evidenziare non tanto l'autonomia delle due fattispecie (che anzi l'illecito amministrativo presuppone - e quindi dipende da - quello penale), quanto piuttosto l'autonomia delle due condanne sotto il profilo processuale. Per la responsabilità amministrativa, cioè, è necessario che venga compiuto un reato da parte del soggetto riconducibile all'ente, ma non è anche necessario che tale reato venga accertato con individuazione e condanna del responsabile. La responsabilità penale presupposta può essere ritenuta incidenter tantum (ad esempio perché non si è potuto individuare il soggetto responsabile o perché questi è non imputabile) e ciò nonostante può essere sanzionata in via amministrativa la società.

15.Anche l'intenzione soggettiva del legislatore (che, in questo caso, emerge dalla relazione governativa, trattandosi di decreto legislativo) è chiara in tal senso, affermando che il titolo di responsabilità dell'ente, anche se presuppone la commissione di un reato, è autonomo rispetto a quello penale, di natura personale. Dice la relazione ministeriale che non vi sarebbe ragione di escludere, in queste ipotesi, la responsabilità dell'ente. Quello della mancata identificazione della persona fisica che ha commesso il reato è, infatti, un fenomeno tipico nell'ambito della responsabilità d'impresa: anzi, esso rientra proprio nel novero delle ipotesi in relazione alle quali più forte si avvertiva l'esigenza di sancire la responsabilità degli enti (viene portato l'esempio ai casi di cd. imputazione soggettivamente alternativa, in cui il reato (perfetto in tutti i suoi elementi) risulti senz'altro riconducibile ai vertici dell'ente e, dunque, a due o più amministratori, ma manchi o sia insufficiente la prova della responsabilità individuale di costoro). L'omessa disciplina di tali evenienze - prosegue la relazione - si sarebbe dunque tradotta in una grave lacuna legislativa, suscettibile di infirmare la ratio complessiva del provvedimento. Sicché, in tutte le ipotesi in cui, per la complessità dell'assetto organizzativo interno, non sia possibile ascrivere la responsabilità penale in capo ad uno determinato soggetto, e ciò nondimeno risulti accertata la commissione di un reato, l'ente ne dovrà rispondere - ricorrendone tutte le condizioni di legge - sul piano amministrativo.
16. Infine, anche la ratio oggettiva della norma - quale emerge sistematicamente dal complesso delle disposizioni sulla responsabilità amministrativa degli enti - persegue la finalità di sanzionare l'ente collettivo ogni volta che le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente (o sulle quali queste esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo) commettono dei reati nel suo interesse o a suo vantaggio.
17.Ora, chiarito il principio di diritto, il problema "pratico" che solleva la sentenza è che vi è una apparente contraddittorietà della motivazione (censura non sollevata dal P.M. e dunque non esaminabile in via diretta) che non consente a questo collegio di comprendere con certezza se vi è stato automatismo, come ritenuto dal P.M., nell'escludere la responsabilità dell'ente per il solo fatto che un dipendente non era stato ritenuto personalmente responsabile.
18. L'assoluta mancanza di motivazione sul punto, però, non può che interpretarsi come automatismo, perché in caso contrario il tribunale avrebbe dovuto spiegare perché aveva assolto la C. dall'illecito amministrativo (cosa che non ha fatto).
19. D'altronde, la tesi della difesa, secondo cui il tribunale avrebbe escluso la sussistenza dell'illecito penale, configge apertamente con un passo chiarissimo della motivazione, laddove si dice che è provato che il testo del comunicato "incriminato" fu previamente concordato tra il gruppo P. e la C.
E' vero che nel capoverso successivo si dice che nessuna condotta concorsuale è ravvisabile nell'incontro avvenuto a Collecchio il 21 novembre 2003, ma per dare un senso logico alla motivazione sì deve ritenere che tale ultima affermazione concerna solamente la persona del presunto concorrente B. Ed infatti alla fine dello stesso capoverso sì evidenzia la condotta incensurabile tenuta in quel frangente dai "funzionari", senza alcun riferimento a dirigenti o amministratori.
20.Tale interpretazione pare la più corretta anche se si torna al capoverso precedente, che riconduce la condotta di reato non alla riunione di Collecchio del 21 novembre 2003, ma ad un precedente scambio di maìls fra le due società.
21.Ed allora, il fatto che nella predetta riunione non siano emersi comportamenti penalmente rilevanti, a titolo di concorso, non esclude affatto che la condotta di reato possa essersi realizzata con altre modalità ed in tempi diversi.
22.L'indagine sul dolo è questione di fatto che dovrà essere approfondita in sede di rinvio dal giudice di merito, non potendovi provvedere questa Corte in questa sede di legittimità.
23.Anche le altre questioni di merito sollevate dalla difesa della C. non possono essere risolte in questa sede, essendo invece proprie del giudizio di rinvio. Questa Corte, in sostanza, non deve decidere se la C. è responsabile ai sensi del d. lgs. 231/2001, ma ha l'unico compito di valutare la sussistenza o meno della violazione di legge lamentata e, in caso positivo, rimettere le parti davanti al giudice di merito che dovrà valutare autonomamente ed in piena libertà la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito.
24. Conclusivamente, ritiene questa corte che la violazione di legge sussista e sia configurabile nell'avere il tribunale ritenuto automaticamente esclusa la responsabilità amministrativa dell'ente in conseguenza dell'assoluzione del suo funzionario. Il giudice di rinvio potrà procedere ad una nuova assoluzione, corredata però di adeguata giustificazione ed eliminando le contraddizioni che affliggono il provvedimento impugnato, ovvero - considerato che l'illecito amministrativo dell'ente ha carattere autonomo e può quindi sussistere anche in mancanza di una concreta condanna del sottoposto o della figura apicale societaria (come accade appunto nel caso di mancata individuazione del responsabile) - procedere in concreto all'esame degli elementi costitutivi dell'illecito contestato alla C. e poi concludere di conseguenza, restando libero nelle proprie valutazioni dì merito.
25. Ne consegue che il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento della sentenza impugnata ed il rinvio al giudice di appello (cfr. Sez. 4, n. 38560 del 16/09/2008, Zanelli, Rv. 241061) per il giudizio di secondo grado.

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Milano per il relativo giudizio. Così deciso il 4/04/2013.

Depositato il 09 maggio 2013.