Cassazione Civile, Sez. Lav., 12 novembre 2013, n. 25392 - Rifiuto di indossare gli occhiali di protezione  e licenziamento


 

 

 

 

Fatto



R.S. ha impugnato il licenziamento intimatogli dalla società C. Prodotti Stradali srl in data 13.11.2006 per non aver indossato gli occhiali di protezione, il cui uso era stato prescritto dall’azienda nello svolgimento della prestazione lavorativa. Ha evidenziato in particolare che l’uso degli occhiali di protezione doveva ritenersi necessario, secondo il parere espresso dalla AUSL, solo durante le lavorazioni che esponevano il lavoratore a rischio, e specificamente nel caso in cui egli fosse stato addetto a mansioni che comportavano l’uso di aria compressa, ovvero nel caso in cui questa fosse utilizzata da altri dipendenti nelle immediate vicinanze.

Il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda con sentenza che è stata confermata dalla Corte d’appello della stessa città, che, respingendo l’appello dei lavoratori, ha ritenuto che la normativa sulla sicurezza in materia di lavoro pone anzitutto a carico del datore di lavoro un dovere di valutazione dei rischi, non delegabile, con l’obbligo di esplicitarne la valutazione in un apposito documento, che deve contenere una relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e l’individuazione delle misure di prevenzione e di protezione e dei dispositivi di protezione individuale, conseguente alla valutazione effettuata. Nella specie, era stato elaborato, previo coinvolgimento del medico competente e del rappresentante per la sicurezza, un documento dal quale emergeva che il rischio non era necessariamente collegato all’esecuzione di particolari operazioni (richiedenti, ad es., l’uso di strumenti ad aria compressa), ma ad una serie di operazioni non circoscritte a determinate lavorazioni o postazioni di lavoro e distribuite lungo l’intero arco di durata della prestazione lavorativa, sicché, a fronte della legittimità della prescrizione datoriale, doveva ritenersi illegittimo il comportamento dei lavoratori che a tale prescrizione non avevano ottemperato.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione R.S. affidandosi a sei motivi di ricorso cui resiste con controricorso la C. Prodotti Stradali srl, che ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità del gravame perché proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.


Diritto





1.- Preliminarmente, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso per decorso del termine di cui all’art. 327 c.p.c., sollevata dalla società resistente sul duplice rilievo che la notifica del ricorso sarebbe stata effettuata, presso il procuratore costituito, più di un anno dopo la data della pubblicazione della sentenza (4.8.2010), e che non varrebbe sostenere, in contrario, che il ricorrente aveva effettuato un primo tentativo di notifica in data 3.8.2011, poiché tale tentativo era stato effettuato presso un indirizzo che non corrispondeva più all’effettivo domicilio del difensore, così come risultava dalla comunicazione tempestivamente effettuata dallo stesso difensore all’Ordine degli avvocati di Bologna.

L’eccezione deve ritenersi infondata, giacché, è sì vero che, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenza delle sezioni unite n. 3818/2009 (seguita, tra le altre, da Cass. n. 10212/2010), nel caso di difensore svolgente le sue funzioni nello stesso circondario del tribunale a cui egli sia professionalmente assegnato, è onere della parte interessata ad eseguire la notifica accertare, anche mediante riscontro delle risultanze dell’albo professionale, quale sia l’effettivo domicilio professionale del difensore, con la conseguenza che non può ritenersi giustificata l’indicazione, nella richiesta di notificazione, di un indirizzo diverso (ancorché eventualmente corrispondente a quello indicato dal medesimo difensore nel giudizio svoltosi davanti al giudice a quo); e tuttavia, nel caso di specie, pur risultando effettuata in data 11.5.2010 all’Ordine degli avvocati la comunicazione della variazione di domicilio del difensore, ma non essendo noto quando detta variazione sia stata effettivamente annotata nell’albo professionale (e non essendo stata la variazione comunicata in altro modo al difensore della controparte), non può ritenersi ingiustificata la richiesta di notificazione effettuata (in data 3.8.2011) ad un indirizzo diverso da quello effettivo, sì che il procedimento notificatorio, tempestivamente riattivato dal ricorrente in data 16.8.2011, e ritualmente perfezionato il successivo 17.8.2011, deve ritenersi positivamente concluso con effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento medesimo (cfr. al riguardo Cass. n. 3818/2009 cit., nonché, fra le altre, Cass. n. 21154/2010).

2. - Con i primi due motivi si denuncia violazione dell’art. 23 del d.lgs. n. 626/94, nonché vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire se nella predisposizione e nell’interpretazione del documento di valutazione dei rischi il datore di lavoro è soggetto o meno alla vigilanza e alle direttive del servizio di protezione prevenzione costituito presso le ASL o altre strutture pubbliche ex art. 34 d.lgs. n. 626/94.

3. - Con il terzo e il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 17, 19 e 20 del d.lgs. n. 626/94, nonché vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire se l’indicazione di misure di protezione possa avvenire da parte del datore di lavoro in difformità dal documento di valutazione dei rischi, senza il preventivo assenso del medico competente e seguendo unicamente l’indicazione di altri professionisti, sempre in difformità di quanto previsto dal documento di valutazione dei rischi, tenendo conto che l’interpretazione data dalla Corte d'appello al documento di valutazione dei rischi, coincidente con quella del datore di lavoro, è solo una delle possibili interpretazioni di tale documento (diversa e opposta sarebbe, infatti, l’interpretazione datane dal servizio di prevenzione AUSL).

A - Con il quinto e il sesto motivo si denuncia violazione dell’art. 1460 c.c., nonché vizio di motivazione, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale, affermando che l’eccezione di inadempimento sarebbe possibile solo per la tutela di "immediate esigenze vitali", non avrebbe considerato che l’insubordinazione è configurabile solo in relazione ad un comportamento che può essere legittimamente preteso e, nel caso all’esame, doveva invece essere esclusa per il solo fatto che il ricorrente si era adeguato alle prescrizioni del servizio di medicina preventiva della competente AUSL.

5. - Le censure formulate da parte ricorrente - articolate in diversi motivi che, per la loro stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente - sono infondate.

Il ricorrente è stato licenziato per avere reiteratamente rifiutato di indossare gli occhiali di protezione durante lo svolgimento della prestazione lavorativa all’interno del reparto produttivo, così come previsto dal documento di valutazione dei rischi e da specifica disposizione aziendale.

La Corte territoriale, ricordato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui una parte può rendersi inadempiente ed invocare l’art. 1460 c.c., soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte e non, invece, se l’asserito inadempimento sia fatto dipendere da una non condivisa scelta organizzativa aziendale - che, come tale, non può essere sindacata dal lavoratore ove non incida sulle sue immediate esigenze vitali -, ha richiamato le disposizioni di cui all’art. 4 del d.lgs n. 626 del 1994, applicabile alla fattispecie, secondo cui il datore di lavoro è tenuto a valutare tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro.

A norma delle suddette disposizioni, il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre un documento contenente una relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, nel quale debbono essere individuati i criteri adottati per la valutazione stessa e le misure di sicurezza e di protezione individuale conseguenti alla valutazione di cui sopra. Ha inoltre l’obbligo di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, e di richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme e delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro, nonché l’uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione.

Alla valutazione dei rischi il datore di lavoro deve provvedere "in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente nei casi in cui sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria, previa consultazione del rappresentante per la sicurezza".

6. - La Corte territoriale ha inoltre osservato che, nel caso di specie, non era contestato che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il rappresentante per la sicurezza e il medico competente fossero stati coinvolti nel processo di valutazione e gestione dei rischi, avessero partecipato alle riunioni periodiche sulla prevenzione protezione e fossero stati informati delle decisioni adottate in materia di sicurezza e salute, ed ha rimarcato che, oltre ad essere stato oggetto di "presa d’atto" nel verbale del 15.7.2004, l’obbligo di indossare gli occhiali di protezione in tutte le aree di produzione era stato specificamente previsto nel documento di valutazione dei rischi in ragione della costante presenza di un "rischio di proiezione di corpi estranei negli occhi", rischio correlato all’impiego di aria compressa nell’esecuzione di una serie di operazioni (di pulizia della zona di lavoro delle macchine) non circoscritte a determinate lavorazioni o postazioni di lavoro e distribuite lungo l’intero arco di durata della prestazione lavorativa, oltre che all’impiego di altri utensili o ad altre cause di dispersione dei residui di lavorazione nell’ambiente di lavoro.

7. - Sulla scorta di tali considerazioni, i giudici di merito - tenuto conto che il datore di lavoro è chiamato a rispondere non solo per l’omissione di misure di sicurezza espressamente e specificamente definite dalla legge, ma anche per l’omissione di quelle che siano suggerite da conoscenze sperimentali e tecniche e che in concreto si rendano necessarie per la tutela della sicurezza del lavoro (art. 2087 c.c.), e che il datore di lavoro è altresì responsabile non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di vigilare che di tali misura sia fatto effettivamente uso - hanno ritenuto che fosse legittima la prescrizione datoriale relativa all’obbligo di adoperare gli occhiali di protezione in tutte le aree di produzione e che, correlativamente, fossero inadempienti i lavoratori che, come il ricorrente, si erano rifiutati reiteratamente di osservare quell’obbligo.

8. - Il ricorrente ha censurato la decisione della Corte territoriale osservando, tra l’altro, che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto che nella predisposizione del documento di valutazione dei rischi il datore di lavoro è soggetto alla vigilanza del servizio di protezione prevenzione della ASL e che l’indicazione delle misure di protezione non può essere fatta dal datore di lavoro in difformità dal documento di valutazione dei rischi, senza il preventivo assenso del medico di fabbrica e seguendo unicamente le indicazioni di altri professionisti.

Tali censure non possono tuttavia trovare ingresso in questa sede di legittimità, atteso che le stesse si risolvono in una critica della valutazione di merito, che presuppone un accertamento del fatto diverso da quello operato dalla Corte territoriale ed una interpretazione, parimenti diversa, dei documenti già esaminati dai giudici di merito.

9. - La Corte d’appello, come già sopra accennato, ha infatti accertato che tutti gli organi competenti erano stati coinvolti nel processo di valutazione di gestione dei rischi e che l’obbligo di servirsi degli occhiali di protezione in tutta l’area di produzione - già oggetto di "presa d’atto" in una riunione alla quale avevano partecipato sia il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, sia il rappresentante per la sicurezza che il medico competente - era stato fatto oggetto di specifica previsione nel documento di valutazione dei rischi. E ne ha correttamente ricavato la legittimità della prescrizione datoriale e l’esistenza dell’inadempimento da parte del lavoratore, che non aveva osservato tale prescrizione.

Alla luce delle considerazioni che precedono, devono ritenersi insussistenti le violazioni di legge denunciate dal ricorrente, per quanto riguarda, in particolare, la legittimità delle disposizioni impartite dal datore di lavoro circa l’impiego degli occhiali di protezione e la partecipazione di tutti gli organi competenti alle valutazioni aziendali in materia di sicurezza e di salute dei lavoratori. Quanto all’interpretazione del documento di valutazione dei rischi, va rilevato che anche questa si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, la cui valutazione è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche, sicché non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale, operata dallo stesso giudice di merito, che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli elementi di fatto già esaminati (cfr. ex plurimis Cass. n. 27168/2006). Per sottrarsi al sindacato di legittimità, infatti, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di un atto o di una clausola di un atto siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (cfr. ex plurimis Cass. n. 10232/2009, Cass. n. 2560/2007, Cass. n. 18377/2006, Cass. n. 10131/2006). E tutto ciò a prescindere dalla pur di per sé assorbente considerazione che, in virtù del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, la parte che denuncia l’erronea interpretazione di un atto di autonomia privata deve riportarlo integralmente, perché non è consentito ai giudici di legittimità di procedere alla ricerca e all’esame del contenuto dei fascicoli di parte, al di fuori dell’ipotesi di denuncia di error in procedendo, e che sulla parte che denuncia la violazione delle regole di ermeneutica contrattuale grava anche l’onere, al di là dell’indicazione degli articoli di legge in materia, di fornire specifica dimostrazione del modo in cui il ragionamento del giudice di merito abbia deviato dalle regole stesse (cfr. ex plurimis Cass. n. 10753/2009, Cass. n. 4178/2007), oneri, questi, tutti disattesi dal ricorrente.

10. - Alla stregua delle considerazioni espresse, e tenendo conto, in particolare, da un lato, della ritenuta legittimità della prescrizione datoriale e, dall’altro, della reiterazione del comportamento inadempiente del lavoratore, devono respingersi anche le censure svolte con il quinto ed il sesto motivo; dovendo rimarcarsi, al riguardo, che la decisione della Corte di merito risulta pienamente conforme ai principi enunciati da questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 19689/2003) secondo cui, all’interno del rapporto di lavoro subordinato, non è legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa nei modi e nei termini precisati dal datore di lavoro in forza del suo potere direttivo (in quel caso, a causa di una ritenuta dequalificazione delle mansioni), quando il datore di lavoro da parte sua adempia a tutti gli obblighi derivantigli dal contratto (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale ed assicurativa etc.), essendo giustificato il rifiuto di adempiere alla propria prestazione, ex art. 1460 c.c., solo se l’altra parte sia totalmente inadempiente, e non se via sia una potenziale controversia su una non condivisa scelta organizzativa aziendale, che non può essere sindacata dal lavoratore, ovvero sull’adempimento di una sola obbligazione, soprattutto ove essa non incida (come avviene per il pagamento della retribuzione) sulle sue immediate esigenze vitali.

11. - In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo, facendo riferimento alle disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 d.m. cit.).



P.Q.M.





Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in € 50,00 oltre € 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.